Quando dove cosa valutare (di Giancarlo Cavinato, MCE nazionale)
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Alle origini del mio percorso professionale come maestro aveva colpito me e miei colleghi durante un incontro organizzato dalla Cgil scuola di San Donà di Piave un intervento del prof. Giorgio Cherubini, docente di psicopedagogia presso l’Università di Padova. Erano gli anni successivi alla legge 517 e alla messa in evidenza dello stretto intreccio fra programmazione didattica ed educativa e valutazione formativa, gli anni dei lavori di Visalberghi, De Bartolomeis, Maragliano e Vertecchi, Pellerey, Dominici,…
Lo schema di valutazione presentato era organizzato attorno alla classica costellazione di domande del linguaggio giornalistico: chi valuta ( e chi viene valutato)
COSA COME DOVE QUANDO PERCHE’.
Per ciascuna domanda erano previste azioni e operazioni diverse: gli spazi per l’apprendimento e gli spazi per la socialità, gli ambiti di ricerca, le forme di osservazione e registrazione, l’autointerrogazione sugli esiti,…
Ci avevamo a lungo lavorato nella scuola elementare a tempo pieno di Torre di Fine ( Venezia) perché ci piaceva l’ipotesi che aveva alla base un’idea di intersoggettività, l’intreccio di una pluralità di sguardi contesti situazioni di apprendimento da ‘leggere’ ( un’esperienza circolante in quegli anni era condotta da Francesco Tonucci nella scuola a tempo pieno Nino Costa a Torino in cui la valutazione era considerata ‘lettura dell’esperienza’ e in cui tutti i soggetti, insegnanti alunni genitori erano compartecipi).
Non quindi una pretesa ‘oggettività’ o la soggettività ma un percorso di condivisione pur nella varietà dei punti di vista (di contro era rimasto famoso l’invito di un direttore didattico al collegio docenti a compilare la scheda di valutazione ‘con scienza e coscienza nel chiuso del proprio studiolo’).
Nella scuola dove insegnavo avevamo definito tre fasi, tutte altrettanto importanti, l’ingresso ( la cosiddetta ‘valutazione diagnostica’), la permanenza (longitudinalità dell’osservazione e delle raccolte di osservazioni nel corso delle diverse esperienze) , l’uscita ( rielaborazione attraverso un profilo) , ciascuna ‘leggibile’ e valutabile con strumenti adeguati e diversi.
Non una serie numerica sequenziale, ma una diversità di peso e di spessore per un percorso coerente e unitario.
Imboccata la strada della valutazione quantitativa, è come se ricerche e acquisizioni della pedagogia attiva, della sociologia dell’educazione, della psicologia dello sviluppo di oltre un secolo fossero state cancellate o sconfessate.
Riferimenti per una professionalità
La nostra formazione allora si ispirava alle pubblicazioni di Piaget e di Vygotskj. Era chiaro a chi non scambiava Piaget per un orologiaio svizzero ( la domanda ricorreva spesso nei collegi) che i ragazzi si comportano e attraversano diversi livelli di maturazione nelle diverse fasi dell’infanzia e dell’adolescenza. Superando progressivamente forme di ragionamento preesistenti, partendo da un (almeno supposto, perché non tutte le indagini concordavano su questo punto, e oggi le ricerche sui neuroni specchio sembrano propendere per l’intersoggettività e la reciprocità ) egocentrismo verso il decentramento del punto di vista e il raggiungimento di una prosocialità, da un pensiero senso-motorio concreto a un pensiero ipotetico-deduttivo che consente le operazioni di reversibilità dei procedimenti, da una morale eteronoma a un giudizio autonomo.
Dai lavori di Bruner ricavavamo preziose indicazioni sull’evolversi delle forme di categorizzazione e concettualizzazione da sostenere con stimoli adeguati evitando l’irrigidirsi dei nuclei concettuali in stereotipi.
Pensavamo – ci illudevamo forse- che l’attività di classificazione sulla base di criteri via via più ampi e comprensivi poteva, doveva proseguire in forme più elaborate nella scuola media come sviluppo di processi mentali in atto. Eravamo quindi focalizzati sull’osservazione delle conquiste di un pensiero causale e connettivo, di una ‘ecologia della mente’: ‘non teste piene ma teste ben fatte’.
Eravamo perciò convinti dell’inefficacia di sanzioni e delle misurazioni numeriche di processi di problem solving che erano, pensavamo, ben più necessari e significativi delle esecuzioni meccaniche funzionanti per stimolo-risposta.
Ritrovammo quindi piena consonanza nella citazione, nei programmi della scuola elementare del 1985, dell’ interazione e dell’interdipendenza vygotskiana fra pensiero e linguaggio, del passaggio da parole ‘trasparenti’ (dietro a cui si intravede il singolo oggetto referente) a parole ‘opache’ (raggruppamenti di oggetti simili per caratteristiche e comportamenti), della conquista di significati attraverso la negoziazione e la convenzione nel gruppo. Il problema della lingua, anche alla luce delle 10 tesi per un’educazione linguistica democratica di De Mauro e del GISCEL diveniva una sfida impellente.
La lingua come strumento di democrazia, di partecipazione, di cittadinanza. Valutare la lingua: cosa e come
‘Valutare’ la lingua, la lingua richiesta dalla scuola, sembrava, alla luce delle ricerche di Bernstein e altri ricercatori sul ruolo dei condizionamenti socio-culturali, l’”impresa impossibile” (come lo è, secondo Freud, l’educazione). .
L’apprendimento linguistico è progressivo e circolare, non è lineare e cumulativo. dipende dal contesto e dal clima di classe, è frutto di maturazione e di costruzione progressiva (ogni nuovo termine non è un’etichetta che si aggiunge, ma comporta una ristrutturazione complessiva del sistema). Il linguaggio è cioè legato alla maturazione del pensiero e alle capacità logiche oltre che agli stimoli (non ai modelli) offerti dalla scuola, non è quindi una variabile indipendente che si possa misurare e giudicare come pura esecuzione.
Nella costruzione linguistica non è indifferente la concezione della lingua dell’insegnante: la sua idea del rapporto fra lingua parlata e lingua scritta, delle varianti, delle funzioni e dei registri, di come attivare comprensione profonda.
Ritenevamo pertanto necessario lavorare non su apprendimenti normativi (quindi sulla riflessione linguistica, molto più ampia della ‘grammatica’) ma sulla COSTRUZIONE DI COMPETENZE non confrontabili perché qualitativamente diverse; COMPETENZE IMPLICITE che gli utenti della lingua possiedono in nuce e da far emergere ( l’‘enciclopedia’).
Il tramonto della collegialità
Noi credevamo… Nel frattempo si sono create le condizioni per evitare che la COLLEGIALITA’ DOCENTE possa espletarsi in forme di interdipendenza e di condivisione di procedure, di interrogazione sui processi come sottolinea Cinzia Mion: manca spesso una progettazione condivisa, è congelata l’elaborazione sulle indicazioni curricolari, assistiamo allo spezzettamento e alla scomparsa di forme di interazione e compresenza/ contemporaneità. In tali condizioni quali idee di apprendimento, di livelli di maturazione, di saperi essenziali, di lingua possono scambiarsi e convenzionare gli insegnanti?
La valutazione che viene riproposta anche dal testo della delega alla legge 107 non richiede di assumere e tener conto dei processi che costituiscono la parte più importante dell’apprendimento perché riguardano le elaborazioni e le strategie personali; soltanto i risultati contano. Tuttavia i processi individuali e collettivi sono la realtà quotidiana del nostro impegno nelle classi. Quale responsabilità docente se vige la solitudine come raccomandava allora il buon direttore didattico?
Una boccata d’ossigeno: le Indicazioni nazionali
LE INDICAZIONI NAZIONALI recitano che ‘è necessario promuovere “una cultura della valutazione” che scoraggi qualunque forma di addestramento finalizzata all’esclusivo superamento delle prove”. La realtà è ben diversa. Nonostante siano INDICAZIONI PER IL CURRICOLO vengono assunte come programmi prescrittivi. La principale operazione compiuta e richiesta nelle scuole sembra essere la preparazione di prove di verifica uguali per tutti e per gruppi di classi parallele, a cui si sommano gli allenamenti alle prove Invalsi con tanto di acquisto da parte delle famiglie dei relativi eserciziari. La stessa editoria scolastica non brilla per innovazione e adeguamento di contenuti, campi di indagine (ma la ‘scuola della ricerca’ dove mai sarà finita?), batterie di esercizi (mai previste forme di gestione autonoma, di autocorrezione, di correzione collettiva, di messa a punto dei testi e dei materiali).
Su questa realtà pesano anche le aspettative del grado di istruzione successivo. Che l’appello dei 600 sembra voler rendere ancora più normato e condizionante con forme di controllo dall’alto verso il basso (ah, le gerarchie…).
Un’idea di società
Dietro i documenti ufficiali ( le raccomandazioni sulle competenze senza che le scuole siano messe in grado di lavorare sulle competenze per la vita, la legge 107, le deleghe, gli appelli,…) si leggono giochi più grandi e estranei a quella cultura dell’educazione che da Bruner a Gardner a Morin a Meirieu a Goussot a molti altri viene indicata come la strada maestra per l’effettivo diritto allo studio e alla promozione personale : a scuola si intendono affermare- giustapporre- modelli e valori di una società esclusiva ed escludente. Contro questa idea di istruzione funzionalistica volta alla formazione di ‘capitale umano’ va richiamata costantemente l’attenzione e la vigilanza della comunità.
Il movimento di cooperazione educativa
C’è bisogno di un pensiero pedagogico forte, per una coerenza fra le pratiche didattiche, le forme di valutazione, l’organizzazione di contesti di apprendimento.
Siamo sempre convinti del valore di una valutazione intersoggettiva e problematizzante che metta a confronto immagini rappresentazioni osservazioni plurali. Della necessità di considerare la valutazione un esercizio quotidiano di responsabilità, per una rendicontazione sociale, con funzione di autoregolazione dei percorsi e dei processi nella scuola dell’autonomia. Della necessità dell’autoanalisi e dell’autovalutazione per alunni, insegnanti, istituzione nel suo complesso. Condotta su situazioni ed esperienze concrete da sperimentare e rivedere frequentemente.
Con l’uso di strumenti di osservazione e di ascolto partecipante e umoristico (auto) dei soggetti come consiglia Marianella Sclavi per affinare capacità di lettura delle situazioni, mettersi in gioco, intervenire con una ragionevole possibile adeguatezza prevenendo, non ratificando insuccessi e abbandoni, saturazione e demotivazione.
‘Lanciamo’ perciò la seguente proposta rivolta a quanti, insegnanti, ricercatori, scuole, associazioni, enti, vorranno collaborare ad un percorso virtuoso che restituisca alle scuole spazi tempi risorse riflessività.