Fiorenzo Alfieri (il secondo da sinistra, nella fotografia scattata a Drizzona il 4 marzo scorso), storica figura del Movimento di Cooperazione Educativa ci ha inviato questo bellissimo “racconto” della sua ultima “passeggiata” con Mario Lodi che proponiamo ai nostri lettori.
Una grandezza gentile
Accompagnando Mario Lodi dalla sua casa-laboratorio alla chiesa di Drizzona e poi al cimitero di Piadena ho pensato a tante cose. La prima è che quell’amico/maestro è uno dei pochissimi personaggi che non hanno avuto bisogno di morire per suscitare ammirazione ed elogi; di Mario si è sempre parlato bene durante tutto il corso della sua lunga vita, che è stata considerata da tanti una vera e propria missione. Non ricordo di avere ascoltato o letto giudizi non dico negativi ma neppure polemici o anche soltanto scettici su di lui; neppure i revisionisti di oggi (quelli che scrivono che i problemi della scuola italiana derivano nel fatto che negli anni ’70 vinsero Don Milani e Gianni Rodari) osano addossare responsabilità o colpe (sic!) a un personaggio come Mario Lodi.
Poi sono tornato con la memoria a quando lo conobbi, al congresso MCE di Castiglioncello, nei giorni a scavalco tra la fine del ’63 e l’inizio del ’64 (avevo appena compiuto vent’anni). C’erano tutti a quel congresso: Giuseppe Tamagnini, Giovanna Legatti, Aldo Pettini, Bruno Ciari, Raffaele Laporta, Aldo Visalberghi e tanti altri meno noti ma che svolgevano un lavoro altrettanto grande e duro, assolutamente straordinario agli occhi di noi giovani reclute. Mario Lodi ci apparve subito inserito a pieno titolo di quel gruppo, ma nello stesso tempo bisognoso di un respiro e di un ritmo tutto suo. Il gruppo glielo concedeva, riconoscendo nella sua speciale figura un punto di forza del Movimento, non un’anomalia.
Accompagnando Mario nella sua ultima passeggiata nei luoghi ai quali ha dato una notorietà che difficilmente avrebbero avuto senza di lui, riflettevo sul fatto che il Movimento, mai tenero con chi ama (ogni tanto) andare a goal in cavalcata solitaria, non ha spinto il suo rigore collettivistico fino a lambire la personalità di Mario. Mario era come quei grandi attori che tanto più riescono a offrire stupore e piacere al pubblico che li segue, quanto più sono lasciati liberi di esprimere il loro talento e soprattutto il loro personalissimo stile. E’ come se ci dicessero: “Fidatevi di noi, lasciateci fare; vedrete che vi sapremo dare ciò che desiderate”.
Ho ricordato poi che Mario fu molto generoso con noi di Torino negli anni in cui cercavamo di mettere insieme un gruppo di giovani insegnanti impegnati a portare per la prima volta le tecniche Freinet nelle affollate classi delle metropoli industriali del nord. Venne tante volte, all’inizio con Bruno Ciari e poi da solo, a raccontarci il lavoro che svolgeva in classe, con il suo impareggiabile modo di parlare, utilizzando tutti i media che allora erano disponibili: pitture, diapositive, super 8, registrazioni al magnetofono. I suoi interventi erano spettacoli gentili, commoventi, ricchi di effetti, di colpi di scena; il tutto con l’aria di chi aveva agito come è naturale che si agisca, di chi ti dice implicitamente che anche tu puoi operare allo stesso modo, se vuoi. E’ come quando ascolti Mozart e pensi: “Ma certo, non poteva essere diversa da così questa musica, non poteva svilupparsi in altro modo questa scena! Come mai nessuno prima di lui aveva fatto altrettanto, come mai nessuno dopo di lui ha seguito una strada così semplice, bella, giusta come quella da lui indicata?”.
Già, come mai? Il miracolo della creatività non si ritrova soltanto nella musica, nella letteratura, nella pittura, nella stessa scienza; c’è anche nella pedagogia. Non si nasce soltanto musicisti, matematici, poeti, scienziati, si nasce anche maestri. Mario era un maestro nato e, per sua fortuna, era anche portato alla scrittura, al disegno, alla pittura, alla musica, alla fotografia, al teatro. Ma soprattutto era capace di centrare i problemi, di non essere mai banale, di sorprenderti per la naturalezza con cui esprimeva concetti ai quali l’ascoltatore non aveva mai pensato, malgrado la loro apparente linearità.
Dopo ogni suo passaggio a Torino, il numero degli aderenti al nostro gruppo territoriale aumentava; nei momenti in cui non era con noi sentivamo ovviamente la mancanza del suo esempio incoraggiante, però sapevamo che sarebbe tornato e tenevamo duro. Ci aiutavano moltissimo i suoi libri, quelli scritti per i bambini e quelli scritti per noi, primo fra tutti “Il paese sbagliato” che vendette, non dimentichiamolo, più di un milione di copie.
Poi mi è tornato alla memoria che nell’anno scolastico 65-66, in prima classe, dopo aver letto Cipì lo mettemmo in scena. Con qualche genitore falegname costruimmo un fondale rotante: su una faccia era dipinto un grande tetto, sull’altra un prato con il sole e il ruscello. Quando si passava da una scena all’altra si faceva ruotare il fondale. Alcune mamme tagliarono e cucirono i costumi per Cipì, Passerì, Margherì, il gatto, il cacciatore. Gianni Giardiello, che insegnava in una scuola vicina e sapeva suonare la chitarra e cantare molto bene, venne a mettere in musica un testo che iniziava così: “Cipì è un uccellino, ognuno ormai lo sa. Canta e balla, lotta e spera per avere libertà”. Ne venne fuori uno spettacolo che a noi parve bellissimo, e che replicammo tante volte, per le altre classi e per le famiglie. Alla fine dell’anno, quando ci trovammo a Frontale, proiettai le diapositive dello spettacolo, accompagnate dal sonoro che avevo registrato. Mario sorrise con la consueta dolcezza e certamente pensò che c’era ancora tanta strada da fare ma che forse ci eravamo incamminati su quella giusta.
Tutte queste cose mi sono tornate alla mente durante quell’ultima passeggiata con Mario e al ritorno in macchina ne ho parlato con Marcella (la moglie di Ciari), Nicoletta (la figlia, che fu mia alunna dal ’70 al ’75) e Gianni Giardiello. E abbiamo anche cantato la canzone di Cipì che ancora ricordiamo dopo quasi cinquant’anni.