Orientamento. Percezioni e considerazioni

bimbo_leggedi Antonio Valentino

I dati delle ultime rilevazioni sulla nostra scuola [1] hanno suscitato – e non solo fra gli addetti ai lavori – grande preoccupazione (anche se l’interesse sembra già svanito);.

I dati che qui si intendono segnalare riguardano in modo particolare

a. le diseguaglianze nei risultati, soprattutto tra Nord e Sud, a partire dalle competenze linguistiche e scientifiche e dalla situazione degli Istituti Tecnici e soprattutto dei Professionali;

b. la dispersione scolastica, che continua a concentrarsi nel passaggio più critico e anche meno presidiato del percorso scolastico del sistema: quello dal primo al secondo ciclo;

c. il disagio scolastico.

I pochi commenti, soprattutto fra addetti ai lavori, citano tra le cause di questi fenomeni – e qui ci si limita a questioni che interrogano chi fa scuola in prima persona –, soprattutto la demotivazione diffusa tra gli insegnanti (legata spesso ad una scarsa considerazione sociale del proprio lavoro, che azzera ogni orgoglio professionale) e la mancanza di una visione condivisa del fare scuola; ma anche un’idea spesso opaca della didattica e della valutazione formativa e la tendenza – sempre fra i docenti – a chiudersi dentro una visione dell’insegnare che trascura di mettere in primo piano la qualità della relazione e l’organizzazione degli ambienti di lavoro.

E l’orientamento?
Quale la sua rilevanza dentro il più ampio tema della dispersione scolastica, a cui pure si collega direttamente?
Riguardo a questo tema, che negli anni passati è stato oggetto di studi, dibattiti, formazione, nella percezione più diffusa sembra consista nell’aiutare i soggetti in formazione a scegliere, con maggiore cognizione di causa, il tipo di scuola più adatta a conclusione del primo ciclo, e i percorsi di vita lavorativa o l’indirizzo di studi universitari dopo la ‘maturità’.
Ma che possa essere una variabile importante della didattica e una attività capace di orientare il fare scuola su una più attenta centralità dello studente, non sembra esserci ancora consapevolezza diffusa tra gli stessi insegnanti.

Eppure, di orientamento, si parla almeno dagli inizi degli anni ‘70.
Si ricorderà che, tra gli Organi Collegiali esterni della scuola del 1974, era previsto il Consiglio scolastico Distrettuale (la cui area geografica di riferimento era, in prima battuta, più o meno uguale a quella degli attuali ambiti), che raccoglieva rappresentanti delle diverse componenti del mondo della scuola – scelti attraverso elezioni – e del territorio. Fra le sue competenze, piuttosto general generiche, solo una attribuzione era chiara: promuovere cultura e attività orientative dentro le scuole, anche col contributo delle rappresentanze politiche territoriali e del mondo del lavoro. E per questa voce – e solo per essa – il CSD disponeva addirittura di risorse finanziarie.
Sulla fine del CSD, e degli Organi collegiali esterni – e le diverse ragioni -, non è il caso qui di addentrarsi.

Comunque la legislazione scolastica successiva, soprattutto dagli anni ’90 ai nostri giorni, se ne è sempre interessata. Anche e soprattutto sotto gli impulsi provenienti dall’Europa che non solo hanno tenuta viva l’attenzione sul tema, ma hanno anche contribuito ad allargarne l’orizzonte. Se ne parla in modo specifico, nel Libro Bianco di Delors (‘93) e in quello di Cresson (‘95); in quest’ultimo, l’accento è posto, come è noto, sul Life Long Learning (LLL).

Conseguenti a queste Raccomandazioni europee, si registrano in Italia direttive e norme che – a partire dalle disposizioni del Ministero Berlinguer e subito dopo da quelle della legge Moratti (L. 53/2003), fino alle disposizioni della L. 107/2015 e oltre – arricchiscono il quadro di riferimento per le scuole. Senza sviluppare però una adeguata cultura dell’orientamento in grado di produrre effetti positivi e duraturi sul sistema scuola.

In altri termini: si è scritto, si è pensato, si è normato, ma la tematica – almeno è questa la percezione più diffusa – è ancora un po’ avvolta in una certa nebulosità che difficilmente permette di produrre iniziative e proposte organiche e incisive per la formazione e l’aggiornamento dei docenti. Non rivolte solo ad aiutare / supportare gli studenti a scegliere percorsi di studio o professionalmente formativi.
E questo anche perché il tema si intreccia, come è noto, con un insieme di altre problematiche socio-culturali, strutturali – difficili da affrontare e risolvere – che finiscono spesso col vanificare sforzi e aspirazioni.

Non è sempre facile anche oggi cogliere in modo diffuso la presenza di pratiche orientative viste come funzioni avanzate di una didattica motivante ed efficace, in grado di aiutare i ragazzi sia a conoscere se stessi e il mondo sempre più complesso che li circonda, sia a sviluppare una mentalità critica, sia a fare scelte consapevoli per il proprio futuro. E una didattica motivante ed efficace dentro pratiche orientative non può non essere volta a liberare le materie scolastiche dalla patina accademica che, soprattutto in passato, ha molto pesato, quasi sempre in negativo; ma anche a riconsiderarle nel loro valore d’uso nella vita quotidiana; anche fuori quindi dalle aule scolastiche.

Un po’ meno difficile, a seguito della obbligatorietà dell’Alternanza Scuola Lavoro (ASL), prevista dalla L. 107, è trovare scuole dove compiti orientativi si concretizzino in esperienze, non specificamente curricolari, dentro ambiti lavorativi disponibili e in iniziative utili, con la presenza di esperti e formatori.
Sappiamo però delle difficoltà e dei problemi di varia natura incontrati dalle scuole al riguardo e della trasformazione dell’ASL in Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO).
E ciò a ulteriore dimostrazione delle difficoltà che ancora incontrano le problematiche orientative a diventare, per le più diverse ragioni, una funzione promettente della didattica, o anche risorsa significativa di una scuola centrata sugli studenti, eccetera, eccetera.
Il livello di rilevanza – di certo non esaltante – attribuita all’orientamento nelle nostre scuole è esemplificato da un dato MIUR relativo allo scorso anno scolastico sul livello di credito del consiglio orientativo delle scuole sulle scelte delle famiglie dei ragazzi che concludono la secondaria di primo grado: oltre un quarto delle famiglie (25,3%) non opta per un indirizzo del secondo ciclo consigliato dalla scuola. A dimostrazione anche del livello – modesto, interpreto – di fiducia delle famiglie nella scuola.
A questo dato se ne affianca un altro: relativo allo scarto tra chi segue il consiglio orientativo e viene promosso e chi non lo segue ed è ugualmente promosso; uno scarto di soli 14,4 punti (94,7% contro 80,2%) [2].
Dato, anche questo, che qualche interrogativo – sul suo effettivo valore – certamente lo pone [3].

La segnalazione.

Riguarda un testo recentissimo: Il futuro oggi. Storie per orientarsi tra studi e lavori (FrancoAngeli 2019) (v. mia scheda allegata) di Ornella Scandella [4].

Il libro, che ha un approccio prettamente divulgativo, si compone di due parti. Nella prima, “Storie di orientamento”, il racconto delle esperienze di gruppi di persone di periodi diversi – dagli anni 50-60 ai nostri giorni – parte dalle narrazioni degli eventi, degli episodi e situazioni in cui sono maturate le scelte e si completa con riflessioni sulle scelte fatte e sull’orientamento in generale. Storie di successo, ma anche storie ambientate in contesti difficili.
Si tratta quindi di un repertorio di esperienze pensato come “strumento sia per far riflettere ciascun lettore sulle scelte fatte, sia da usare nell’ambito dell’attività di orientamento, in particolare secondo l’approccio dell’orientamento narrativo”.

La seconda parte, “Dalle storie alle pratiche di orientamento”, si compone di tre saggi [5].
Il primo offre una lettura interpretativa dell’orientamento che si focalizza sul ruolo dei genitori nel processo di orientamento dei figli; il secondo approfondisce il ruolo della scuola e le pratiche utili a supportare scelte di studio e di lavoro; mentre il terzo – particolarmente stimolante – si interroga sulle visioni dell’orientamento espresse nelle storie e “considera le risorse personali, evidenziate come utili nei percorsi di individuazione delle scelte: la passione, la curiosità, il coraggio, la perseveranza, la capacità di cogliere opportunità, il senso di autoefficienza”.
“Il senso di tali indagini è poterne trarre, come scuola, ispirazione circa decisioni da prendere in campo formativo e professionale e utilizzare le storie nella attività di accompagnamento dei processi di scelta, in contesti scolatici, università e strutture di orientamento. Aiutando così i giovani a capire le forze motrici delle scelte e cosa ne può derivare / cosa può accadere”.


Le ragioni

Una prima importante ragione è il tipo di approccio metodologico (orientamento narrativo [6]) utilizzato. Che avrebbe molto da offrire alle nostre scuole perché spinge sia a guardare – nelle storie specifiche di persone concrete – ai meccanismi intellettivi ed emotivi che si attivano di fronte alle scelte di vita e di studio e al peso delle circostanze esterne e dei condizionamenti socio-culturali; sia a considerare il peso – nelle scelte – delle caratteristiche personali ritenute strategiche[7].
Un approccio di tipo clinico quindi che potrebbe risultare di grande aiuto soprattutto nelle situazioni di disagio sociale e di disorientamento adolescenziale.

Una seconda ragione è rappresentata dai messaggi importanti – che sono anche linee operative sensate – che il libro trasmette attraverso le riflessioni a più voci sulle storie (dei protagonisti, persone in gran parte ‘arrivate’; dell’autrice; degli altri studiosi ed esperti).

Il primo
dei quali è senz’altro che il tema delle scelte a cui sono chiamati i soggetti in formazione richiede, per essere opportunamente affrontato, professionalità e competenze di buon livello da parte delle scuole. Per cui, se le pratiche orientative appaiono oggi scolorite (e la loro irrilevanza spesso marcata), le ragioni potrebbero essere che la formazione specifica delle figure chiamate a farsene carico avrebbe bisogno di essere rafforzata; o che le scuole tendono a non valorizzarle adeguatamente (in termini di spazi orari, di attenzione più mirata e continuativa, ma anche di integrazione delle competenze).

Il secondo messaggio – esplicito soprattutto nei tre saggi della seconda parte – è così traducibile: l’orientamento che può far bene alla nostra scuola, ridarle smalto, renderla attrattiva – e quindi avere un ruolo nella lotta alla dispersione – è di sentirlo per quello che è (dovrebbe essere): funzione avanzata di un’idea di scuola centrata sullo studente e la sua riuscita; e quindi di una didattica in cui le varie pratiche di istruzione e formazione si rafforzano vicendevolmente.

In altri termini, l’efficacia di pratiche orientative – anche nella lotta alla diseguaglianza delle opportunità e al disagio studentesco – è, in buona misura, il risultato di professionalità – coltivate e consapevoli del loro ruolo – che sappiano

  • guardare oltre il disciplinarismo (la chiusura dentro la ‘propria’ disciplina),
  • lavorare insieme ai loro colleghi e far lavorare insieme i ragazzi
  • valorizzare pratiche cooperative in grado di superare la separatezza, rispetto agli insegnanti di ‘materia’, delle figure con funzioni specifiche (counselor, tutor, ma anche genitori).

 NOTE

[1] Soprattutto: Le Rilevazione INVALSI sui livelli di apprendimento rilevati nelle ultime classi delle scuole superiori poche settimane prima dell’esame di stato 2019; L’indagine triennale Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment) sulle competenze dei quindicenni; Rapporto Nazionale curato dall’INVALSI sui livelli di competenza raggiunti dai nostri studenti nelle prove standardizzate nazionali.

[2] Dati non diversi sono riportati in “Repertorio 2018”, voce Orientamento, di Susanna Granello

[3] Un analogo discorso che permetta riscontri sul giudizio orientativo a conclusione degli Esami di Stato del secondo ciclo, rispetto alle scelte degli studenti presenta, oggettive difficoltà ad essere qui riproposto per mancanza di dati complessivi e specifici al riguardo.

[4] Ricercatrice e docente anche in ambito universitario, è autrice di testi importanti sull’argomento. Si segnalano soprattutto, Tutorship e apprendimento, La nuova Italia 1995 e Interpretare la tutorship. Nuovi significati e pratiche della scuola dell’autonomia, FrancoAngeli, 2007

[5] Ne sono autori: del primo, Laura Nota, prof di psicologia dello sviluppo e dell’educazione uniPA); del secondo, Ornella Scandella; del terzo: Salvatore Soresi: studioso dello Studium Patavinum, esperto in psicologia dell’inclusione, orientamento, counseling

[6] “L’orientamento narrativo ha la peculiarità di dare ‘sviluppare la capacità di dare un ordine, un rilievo e un senso ai fatti della vita, diventare capaci di le situazioni nuove e inaspettate, di immaginare il futuro e di progettare soluzioni per costruirlo attivamente’ (Batini, Giusti, 2008)” (p. 149)

[7] Nel testo si citano, tra le altre: 1. saper approfondire e avere curiosità, ma anche conoscersi nelle attitudini e nelle aspirazioni possibili e imparare a valorizzarle; 2. capire i propri bisogni prioritari e sapere dare loro risposte realistiche, sfidando i propri limiti e gareggiando con se stesso; 3. accogliere consapevolmente l’influenza dei contesti di vita (le opportunità che talvolta si aprono inaspettatamente) quando permettono di affrontare al meglio i momenti di transizione.




La Formazione nel Contratto Integrativo: l’obbligatorietà da costruire

di Antonio Valentino

Un convegno promosso da Gessetti Colorati

La formazione è obbligatoria. Parola di Sindacato

Il Contratto integrativo del novembre scorso sembra considerare la formazione in servizio ancora solo come diritto, contrariamente a quando afferma la L. 107/2015; parecchi interventi, soprattutto in rete, del periodo prenatalizio, esprimevano disappunto e preoccupazione, trattandosi di attività diventata essenziale e fondamentale nella professione docente nella scuola dell’Autonomia e della nuova complessità.
Destinatari del messaggio implicito, soprattutto le Organizzazioni Sindacali confederali.

Anche se un po’ in ritardo (23 dicembre) è arrivata la risposta della CISL scuola che con un suo comunicato afferma tra l’altro: “È fuori discussione, … che dal Piano di formazione d’istituto, che obbligatoriamente deve essere inserito nel PTOF, discendano obblighi precisi e ineludibili per tutto il personale: tante è vero che il terzo comma dell’art. 2 …. assegna al Piano stesso anche il compito di precisare le caratteristiche delle attività e le modalità di attestazione”.
E nella conclusione si precisa: “…la formazione in servizio,anche dopo la sottoscrizione del Contratto integrativo, continua ad essere obbligatoria, permanente e strutturale come previsto dalla legge 107/2015”. Dalle altre organizzazioni sindacali non arrivano comunicati ufficiali di chiarimento.

 Però …

Preso atto positivamente del chiarimento della CISL, è comunque piuttosto difficile non convenire che il testo del contratto, per come scritto, può sollevare dubbi e perplessità ne solleva.
Si ricorderà che
a. in nessun passaggio del Contratto   si fa riferimento all’obbligo di formazione (neanche nelle Premesse);
b. l’articolo 2, comma 2, afferma anzi che “Nelle scuole il personale esercita il diritto alla formazione in servizio anche nella forma dell’aggiornamento individuale”.

Ma la partita non è chiusa. L’obbligatorietà da costruire

Comunque, dando per acquisito che gli obblighi di formazione valgono per tutto il personale, sui termini dell’obbligatorietà, la partita non appare del tutto chiusa. Per cui può valere la pena riprenderli con qualche approfondimento.
Come è noto, un posto centrale sulla questione va attribuito al Piano annuale di formazione (PdF) per i docenti, del quale si afferma che,in ogni scuola:

  1. è realizzato in coerenza con gli obiettivi del PTOF, con le priorità nazionali e con i processi di ricerca didattica, educativa e di sviluppo, considerate anche le esigenze ed opzioni individuali (CCNI 2019) e contiene precisazioni circa le caratteristiche delle attività (?) e le modalità di attestazione (della partecipazione alle iniziative di formazione?) (CCNI 2019),
  2. è deliberato dal Collegio (art. 66 CCNL 2007) e si articola in iniziative promosse prioritariamente dall’amministrazione e progettate dalla scuola autonomamente o consorziata in rete …. (art. 66 CCNL 2007).

In questi passaggi non sembrano però cogliersi indicazioni utili su come e, soprattutto, in quali spazi orari il diritto-dovere si esercita. Si può invece dedurre dall’art. 29 (comma 1), del CCNL 2007 che, trattandosi di attività funzionale all’insegnamento, essa vada esercitata durante l’orario di servizio. Ma lo stesso articolo (comma 3), quando va a declinare le attività – individuali e collegiali – per le quali si prevede il monte ore (fino a 40 h per ciascuna tipologia), non cita la formazione, perché ‘la formazione obbligatoria’ diventa tale solo nel 2015 con la L. 107.
Penso che il problema di fronte al quale ci troviamo nasca proprio da qui. Si sconta, se il ragionamento è corretto, la mancanza, nel recente Contratto integrativo, del necessario aggiornamento della norma sulla base del comma 142 della Legge citata. E cioè l’inserimento della formazione tra le attività funzionali e il conseguente potenziamento del monte ore (e il relativo riconoscimento per il nuovo impegno).

Tale aggiornamento l’avrebbe sottratta definitivamente alla situazione di incertezza in cui ha sempre navigato.
Il problema che abbiamo oggi davanti è dunque che mancano ancora – se non sfugge qualcosa – le condizioni dell’obbligatorietà.

D’altra parte, allo stato attuale, è ben difficile ipotizzare una sottrazione di ore ad attività funzionali previste (il riferimento qui è a quelle collegiali), del cit. art. 29, per riversarle sulla formazione: la qualità complessiva dell’offerta formativa delle scuole certamente ne risentirebbe e la proposta sarebbe vista come scandalosa, considerando la situazione preoccupante che la nostra a scuola si trova a vivere.
La via d’uscita? prevedere nel prossimo contratto, che si prospetta imminente, l’aggiornamento mancato nell’Integrativo di novembre, e il necessario potenziamento del monte ore.
È poi anche auspicabile che, accanto al potenziamento del monte ore, possa essere anche inserito un qualche criterio, ovviamente flessibile, volto a orientare le scelte delle scuole a livello nazionale[1]: visto che l’attività di cui si parla è elemento importante per il funzionamento di una Istituzione pubblica Nazionale come la Scuola; e considerato anche che l’Autonomia Scolastica, che si invoca anche in questo caso, non può scadere in un ‘fai da te’ che escluda indicazioni comuni.

La diffusa sofferenza sulla obbligatorietà nella formazione

Riprendo, in chiusura di questo punto, una considerazione, che ho annotato in un dibattito recente sulladiffusa sofferenza fra il personale circa l’obbligatorietà“, come spia di un questione più grande che ha a che fare con il problema della motivazione dei docenti nell’esercizio della loro funzione in questa fase. È una considerazione che condivido e che rafforzo richiamando, al riguardo, anche la diffusa perdita di senso della professione. Che si accompagna, a sua volta, alla perdita di ruolo nella società; e quindi alla difficoltà a viversi – gli insegnanti – come leva di una democrazia più consapevole e matura, perché più colta, più ‘eguale’ e più attrezzata per le sfide a cui è chiamata.

Questione, questa, più generale quindi, che rinvia, se ancora ci fosse bisogno di richiamarlo

  1. alla necessità di politiche del personale volte a incentivare la cura e lo sviluppo professionale attraverso una offerta formativa (percorsi di formazione) sensata, efficace e attrattiva (non basta cioè dire ‘obbligatorietà’ della formazione);
  2. alla previsione, anche attraverso la formazione, di più stimolanti progressioni economiche e prospettive di carriera; visti, questi ultimi, come riconoscimenti della funzione sociale della professione.

Se non si fanno i conti con tali problemi di fondo, si corre il rischio – vale la pena ribadirlo – che la formazione obbligatoria difficilmente dia luogo ad uno sviluppo professione all’altezza e sviluppi responsabilità convinta rispetto alla gestione e ai risultati del fare scuola oggi.

Su ‘esigenze ed opzioni individuali’ e forme di auto-aggiornamento

Qualche considerazione infine sulleesigenze ed opzioni i personali e forme di aggiornamento individualesempre dell’art. 2 del Contratto integrativo -, poco richiamate nei commenti letti. Trattandosi di un punto che, a mio avviso, investe aspetti di sostanza che riguardano il tipo di scuola che si ha in mente.
Il richiamo insistito nel Contratto all’aggiornamento personale e alle opzioni individuali – se visti come eventualmente sostitutivi delle forme collegiali -sembramirare infatti a rassicurare soprattutto quella fetta di insegnanti che fadella visione individualistica e autoreferenziale del fare scuola il proprio credo professionale. Visione dietro la quale si può cogliere
a. disattenzione rispetto allo scambio di esperienze, che è meccanismo prezioso per la crescita professionale,
b. sottovalutazione della cooperazione tra persone anche se impegnate sullo stesso progetto curricolare ed educativo,
c. negazione dell’idea di scuola come insieme di comunità professionali e di pratiche, leve potenti per una scuola di qualità.

Per evitare fraintendimenti: l’autoaggiornamento personale e l’autoformazione individuale sono ovviamente cose buone e giuste ed è certamente importante che ciascuno le possa coltivare attraverso le cento occasioni che si offrono a livello di territorio o nazionale, sia da parte dell’amministrazione che dell’associazionismo professionale o di altre agenzie, e utilizzando il bonusdei 500 euro.
Ogni formazione – e su questo nessun dubbio – passa necessariamente attraverso momenti importanti e decisivi di rielaborazione e metabolizzazione individuale dei processi formativi, quali che siano i luoghi e i modi dei vari percorsi.
Quello che si vuol dire è che la formazione del personale in servizio, se non mette in primo piano la dimensione collegiale del lavoro docente e strategie comunicative e didattiche basate sulla cooperazione, difficilmente potrà far fronte ai problemi della scolarità di massa e della fase particolarmente complessa che viviamo.

Si deve però avere anche consapevolezza che quella della dimensione collegiale è partita lunga e impegnativa. Venendo la nostra scuola da una tradizione culturale e professionale in cui sentirsi comunità di intenti e pratiche formative non è mai stato ambizione diffusa.

NOTE

[1] Antonio Giacobbi in un intervento, di prossima pubblicazione, che ricostruisce tra l’altro i vari passaggi sulle attività funzionali, avanza in prima battuta l’ipotesi di “un unico monte ore (almeno 90/100 ore), col vincolo per il collegio docenti – al quale spetta il compito di distribuire le ore tra le varie attività – a definire anche un minimo di ore di formazione, non inferiore a 15/20….”.




Il nodo della formazione: obbligo o diritto? A proposito del recente Contratto Integrativo.

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A proposito del recente Contratto Integrativo.

di Antonio Valentino

 

 

Alcuni elementi del quadro generale

Gli aspetti che in prima battuta evidenzierei per introdurre l’argomento sono i seguenti:

[] La prima importante novità è che, con il Contratto Integrativo sottoscritto il 23 novembre u.s., la formazione ridiventa terreno di contrattazione tra le Parti che ne hanno titolo.
Si tratta di una intesa che riapre il dialogo tra il MIUR e rappresentanti dei lavoratori del settore su un tema vitale per il sistema scuola, che il governo Renzi, con la L. 107, ha inteso definire per via legislativa. Perciò va salutato positivamente.

[] Nel merito invece va richiamata la scelta centrale del contratto: la formazione del personale ritorna nelle scuole. Così il testo contrattuale: “La programmazione e la concreta gestione dell’attività di formazione in servizio avvengono a livello di singola istituzione scolastica e di reti di scuole” (art. 2, capoverso 1).
Si supera praticamente il modello organizzativo delle reti di ambito e delle scuole polo per la formazione, previsto con la L. 107/2015 e definito con il Piano Nazionale 2016-2019 (PNF); e scompare l’obbligo che ne era un punto centrale.

[] La motivazione di questa scelta può essere ricercata nella gestione del PNF[1] che ha fatto registrare diffusi malumori, confusione e sostanziale insoddisfazione negli esiti. Nella percezione dei più, quello che non ha funzionato è riassumibile nei seguenti punti:
1. il coordinamento e il sostegno – da parte della maggior parte delle Direzioni Scolastiche regionali –, risultato di scarso peso e poca rilevanza;
2. La difficoltà a individuare, reperire e retribuire adeguatamente formatori all’altezza. Anche il ruolo residuale riservato alle scuole – nell’organizzazione in proprio delle iniziative interne di formazione – è stato oggetto di critiche da parte di settori del mondo della scuola.
Va aggiunto a queste possibili spiegazioni la posizione di molti docenti che non hanno digerito l’obbligatorietà della partecipazione ai corsi. E non è quest’ultimo un rilievo secondario

[] Nel Contratto non si avvertono segni che rimandino ad una analisi dell’esperienza del triennio 2016-2019 2018, volta a capire soprattutto le ragioni per cui la motivazione degli insegnanti è rimasta, in molte realtà (non in tutte però), a livelli vicino allo zero; e così anche il coinvolgimento degli insegnanti. E forse questa è stata una omissione che ha pesato negativamente nella individuazione delle strategie negoziali.

Sul diritto alla formazione

Il punto su cui vorrei ora richiamare l’attenzione, perché tra i più problematici, è il nodo facoltatività / obbligatorietà della formazione, per come è possibile definirlo sulla base dell’art. 2 del Contratto.
Evidenzierei dell’articolo citato i seguenti aspetti:
a. che il diritto alla formazione non prevede obblighi per chi dovrebbe esercitarlo;
b. che tale diritto può essere esercitato anche nella forma dell’aggiornamento individuale, in coerenza col Piano di formazione (PdF) delle scuole (capoverso 2) e che, nella definizione dei PdF, vanno considerate anche esigenze ed opzioni individuali (capoverso 1);
c. che il PdF “può comprendere iniziative di autoformazione, di formazione tra pari, di ricerca ed innovazione didattica, di ricerca-azione, di attività laboratoriali, di gruppi di approfondimento e miglioramento, precisando le caratteristiche delle attività e le modalità di attestazione” (capoverso 3).
A parte la difficoltà che si avrebbe, primo, a costruire un PdF che preveda anche iniziative di formazione che corrispondano ad esigenze ed opzioni individuali e forme di aggiornamento individuale; secondo, a cogliere il senso e l’opportunità di queste indicazioni operative (ma comunque ci si può ragionare su), la questione che mi sembra principale è costituita dal recupero in toto della formazione solo e soltanto come diritto.

È qui il vero cambiamento di passo rispetto al triennio precedente[2]. La vera novità rispetto alla L. 107

La storia della formazione tra “obbligo e diritto” è, come è noto, lunga e complessa. È comunque prevalsa quasi sempre negli anni scorsi la facoltatività dell’impegno formativo.
Punto di svolta, come già richiamato, la L. 107/2015 (comma 124) che, per via legislativa ne introduce la obbligatorietà.

Da questi richiami, una prima domanda centrale: Che senso ha il diritto alla formazione senza il dovere professionale di esercitarlo effettivamente?
D’altra parte, parlare di dovere professionale non dovrebbe essere considerato con sospetto, visto che lo sviluppo e la manutenzione continua della propria professionalità non è proprio un optional per chi fa il mestiere dell’insegnante oggi.
Senza considerare anche il fatto che così diventa facoltativo l’esercizio effettivo di un diritto, per garantire il quale la comunità nazionale investe risorse finanziare – non elevatissime, ma comunque non irrilevanti -. È un po’ come, per un atleta, richiedere e ottenere gli attrezzi di cui ha bisogno e voler conservare la facoltà di non sentirsi obbligato a utilizzarli.
Non è proprio un bel pensare. O no?

Non basta comunque dire “obbligatorietà”. Le carte da giocare

Tre considerazioni finali e qualche idea.

1. È da ritenere che questo contratto piaccia alla maggioranza degli insegnanti e del personale tutto. Ma credo però che piacerebbe ancora di più al mondo della scuola, in vista del prossimo CCNL, un eventuale impegno – del ministero (e soggetti competenti, a partire dalle università e dalle Associazioni professionali e culturali) e dei sindacati – volto a ripensare globalmente la formazione, partendo in primo luogo dalle criticità dei modelli che finora hanno tenuto banco nelle pratiche delle nostre scuole. E poi anche dalle esperienze più interessanti e incisive maturate un po’ dovunque sul territorio nazionale e fuori di esso.

2. Se qualificare la formazione e ridarle appeal e senso sono le carte vincenti, si tratta in rimo luogo di liberarla dagli schemi organizzativi che l’hanno resa inappetibile, ma anche inutile e demotivante, sia collegarla contestualmente
– allo sviluppo, in primo luogo, di competenze che valgano a gestire le concrete difficoltà di fare scuola ogni giorno, in questa fase di grandi trasformazioni e difficili capovolgimenti; ma anche
– a misure concrete che sviluppino motivazione e interesse e valorizzino la cura delle professionalità.
Tra queste ultime, andrebbero previste – da quando se ne parla? – soprattutto quelle che favoriscano la connessione tra formazione e luoghi di lavoro (i CdC, I dipartimenti, i gruppi di progetto eccetera, opportunamente sostenuti e orientati, ove il caso, da personale esperto e qualificato) dove i problemi e le difficoltà si toccano con mano e interrogano le esperienze e la cultura del gruppo, e anche le competenze di ciascuno. In altri termini: i luoghi di lavoro collegiale pensati, strutturati e gestiti come ambienti anche di formazione-autoformazione.
Una diversa articolazione dei collegi[3] in Comunità di pratiche educative (rileggere Shon, e Sergiovanni[4] ) potrebbe essere una tappa importante in un progetto di costruzione di comunità professionali e quindi di comunità scolastiche all’altezza del loro compito.

3. Prima ancora però bisognerebbe motivare alla formazione in quanto strumento preliminare di qualificazione del fare scuola. Per esempio
a. scongelando l’impegno orario degli insegnanti e riorganizzandolo secondo nuovi parametri coerenti;
b. promuovendo politiche sindacali innovative che riconoscano e favoriscano questo impegno con opportuni riconoscimenti economici e valorizzandolo, attraverso opportuni crediti, ai fini della progressione di carriera[5].

 Si potrebbe forse dire conclusivamente che la battaglia per una formazione partecipata e di qualità si vince non rivendicando diritti senza offrire contropartite, e forse neanche con una obbligatorietà che potrebbe avvilirsi in partecipazioni passive, senza crescita e allargamento di orizzonti;; ma con un progetto, non certo a costo zero (non si fanno nozze coi fichi secchi, come si dice), di cui si avverta il senso e la fattibilità.

NOTE

[1] A significare la diversità dei punti di vista sull’operazione in sé che si è voluta tentare con il PNF, v. Mariella Spinosi Formazione insegnanti, in “Repertorio – Dizionario normativo della scuola 2018”. Tecnodid che considera il PNF, “in sé e al di fuori di ogni giudizio”, “una svolta” nella storia della nostra scuola.

[2] Cfr. R. Rovetta, ‘Una prima “lettura” del nuovo Contratto sulla formazione in servizio – Scuola7del 25 novembre u.s..

[3] V. anche al riguardo, GC Cerini, Le nuove responsabilità del Collegio dei docenti nel piano di formazione di istituto – Scuola7 del 2 dicembre 2019.

[4] D. Shon, Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993; T. Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, LAS 2000. V. anche E. Wenger, Comunità di pratiche. Apprendimento, significato, identità, Cortina 2006-

[5] Non andrebbero comunque escluse anche misure penalizzanti, per esempio volte a bloccare La progressione stipendiale a chi si sottrae nel corso degli anni, a qualsiasi forma di cura della propria professionalità.




I dati preoccupanti delle rilevazioni sulla scuola: chi interessano?

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di Antonio Valentino

0. Un’Italia sempre in fondo
Poche settimane fa (intorno al 15 ottobre) sono stati pubblicati i dati INVALSI sulla dispersione scolastica. La media nazionale: 22%. Che significa che più di un giovane su cinque lascia la scuola prima di concluderne i cicli previsti con un bagaglio culturale assolutamente insufficiente per affrontare la complessità del mondo in cui dovrà inserirsi. Con conseguenze probabili in termini di disagi e marginalità sociale.

Quest’estate, al termine degli Esami di stato – più o meno a metà luglio – giornali, televisione e social network, per un paio di giorni, hanno dato un discreto rilievo ad una notizia che non raccontava niente di nuovo, ma che metteva il dito su una piaga antica e non proprio indolore. Si trattava della rilevazione dell’INVALSI sui risultati delle prove degli Esami , nella quale si evidenziava che il 34% dei nostri studenti non capisce quello che legge (’’analfabetismo funzionale’) e che la maggior parte di questo 34% si concentra al Sud.
Mettendo così sotto i riflettori, se ce ne fosse ancora bisogno, la persistenza di una questione meridionale anche per la scuola (evidenziata ancora dai dati INVALSI sulla dispersione, che in provincia di Trento si attesta sul 9.6%; mentre in Calabria, Sicilia e Sardegna oscilla tra il 34 e il 37%!).
I commentatori più attenti di tali risultati hanno ripreso dati di altre fonti e periodi, comunque recenti, che raccontavano cose analoghe. Tra questi, i numeri dell’ultima ricerca TREELLLE (marzo scorso) che, evidenziavano come nell’UE gli “analfabeti funzionali” non superano il 15% della popolazione scolastica. 15% contro il nostro 34!

E, sempre in tale occasione, abbiamo ‘ripassato’, grazie a giornalisti informati e attenti e ai commenti di esperti, i risultati dell’indagine OCSE – P.i.s.a. dell’anno scorso, a proposito di competenze linguistiche, e anche di quelle logico-matematiche dei nostri quindicenni. Anche qui il dato, ugualmente impressionante, anche se meno fresco, è che i nostri quindicenni, nella classifica dei Paesi OCSE, si collocano sotto la media dei coetanei di ben 80 Paesi. Praticamente tra gli ultimi o quasi.
Dopo il fuoco dei media per un paio di giorni, silenzio
Nelle analisi e nelle riflessioni di quei giorni emergeva, e si sottolineava spesso, che questi dati – e altri simili riguardanti l’insieme della popolazione nazionale – erano un segnale preoccupante per la tenuta democratica del nostro Paese. In quanto evidenziavano fragilità, se non proprio mancanza diffusa, nei nostri studenti, di competenze di base per pensare e riflettere con spirito critico.
E mettevano in risalto che incultura e sottoculture sono veleni per la democrazia di un paese, perché producono manipolazione e sudditanza e indeboliscono la sua capacità di esprimere una classe dirigente all’altezza dei problemi.[1]

  1. Tra disattenzione e sottovalutazione. Chi è senza peccato …

Come spiegare questa sottovalutazione della questione? A cosa è riconducibile?

1.1 Certamente ci sono la mancanza di visione e l’opacità del nostro ceto politico e di una classe dirigente incapaci di farsi carico della pesantezza dei dati che fotografano lo stato di salute civica della nostra scuola (e della nostra società) e della domanda che esprimono.
Qualcuno chiama in causa al riguardo anche la nostra arretratezza culturale rispetto agli altri paesi europei, dovuta a fattori storici (i ‘ritardi’ dell’unificazione), ma anche a storie e culture territoriali della nostra penisola, molto diverse tra loro e fortemente disomogenee: sia tra nord e sud, sia all’interno delle due macroaree.

1.2 Comunque è difficile capire le ragioni di tale sottovalutazione da parte di gran parte del mondo della scuola e dell’università. Ma anche di fette consistenti del Sindacato.
Non si vuole qui focalizzare l’attenzione sulle responsabilità di questi mondi che certamente non mancano; e interrogarci, ad esempio, su quanto dell’analfabetismo culturale va addebitato ad un insegnamento disattento e/o incompetente, e quanto anche ad una cultura professionale non sempre all’altezza dei compiti istituzionali. Che ha responsabili a diversi livelli.

  1. E la cultura professionale più diffusa?

2.1 Qui preme piuttosto partire – per cercare di capire i possibili terreni di intervento – dalla percezione, già avvertita e studiata, tra i primi, da Piero Romei[2], che a caratterizzare in negativo i comportamenti prevalenti degli insegnanti sia, tra l’altro, una cultura professionale che, nelle pratiche didattiche ed educative, si nutre soprattutto di autoreferenzialità e individualismo: della tendenza cioè a considerare il proprio lavoro, almeno nella secondaria, separato da quello degli altri colleghi che pure insistono sullo stesso gruppo classe e a cui si dovrebbero comunque sentirsi legati da uno stesso progetto educativo.
È questo tipo di cultura che porta – credo – 1. a guardare ancora con fastidio e supponenza al lavoro cooperativo e alla costruzione di scelte condivise; 2. a ‘saltare’ ogni responsabilità ‘professionale’ rispetto agli esiti formativi attesi e ai processi che si attivano; ma anche 3. a snobbare le varie forme di rendicontazione non formale e 4. a vivere con fastidio il rapporto col mondo esterno (persino coi genitori).

E che è favorito (il tipo di cultura) da politiche scolastiche strette tra logiche riassumibili nel classico: “ti do poco, in termini retributivi, ma ti chiedo anche poco” (oggi, tra l’altro, non più vero) e un’idea di scuola come valvola di sfogo della questione occupazionale del paese.

2.2 Ci sono anche altri aspetti della cultura professionale, anch’essi ancora prevalenti almeno nella secondaria, che certamente vanno chiamati in causa.
Andrebbe citato tra i primi il primato assoluto dei contenuti disciplinari che impedisce il loro ancoraggio ad un progetto formativo complessivo; e raramente sviluppa una cultura, “che permetta di capire la nostra condizione e di aiutarci a vivere … (e) a pensare in modo aperto e libero” [3].
Condizionando così ancora in misura diffusa il lavoro d’aula e contribuendo spesso a creare nei giovani la sensazione che la scuola che frequentano non serve. E non serve, anche perché non sa renderli protagonisti del loro processo di crescita. Che rischia così di svolgersi ‘fuori’, con tutti i rischi connessi.

2.3 C’è anche un terzo fattore con cui non si riesce a fare i conti se non in modo approssimativo: l’idea diffusamente ‘distratta’ di Formazione e Fare Formazione, che è un po’ il centro del lavoro a scuola. E che si dà per scontata. Ma che, a considerarla da vicino, rivela crepe e debolezze con cui la cultura prevalente di docenti e ds non riesce ancora a fare completamente i conti[4].

3. Il ruolo opaco dell’opinione pubblica

C’è da chiedersi infine perché l’opinione pubblica non si senta allertata rispetto alla pesantezza dei dati su cui stiamo riflettendo, che toccano tutti.
Ci sarebbe però da chiedersi prima cosa arriva sulla scuola ai genitori e al cittadino in genere. E cosa fa breccia e crea interesse. Certamente i dati delle rilevazioni come quelli prima riportati sono roba da “mordi e fuggi”. Si ‘consumano’ normalmente nel giro di un giorno o due. Migliore fortuna hanno le notizie che interessano nell’immediato l’opinione pubblica (l’avvio delle lezioni perennemente incasinato, una edilizia scolastica con molti e gravi problemi, la scelta delle scuole nel periodo delle iscrizioni; o anche fenomeni come il bullismo che lo scorso anno ha occupato spesso le prima pagine di giornali, telegiornali e media in genere.
Può essere però sufficiente dire che tale sottovalutazione è il frutto di una sensibilità diffusa che tende a non considerare la scuola una istituzione vitale per il paese e la cultura uno strumento fondamentale di emancipazione sociale? E non interrogarci anche: a. sugli aspetti che più hanno mortificato in negativo la vita della scuola con gli ultimi governi (le reggenze, l’accanimento burocratico e un neocentralismo senza prospettive condivise con chi è chiamato a darle gambe …) e b. sulle difficoltà delle scuole a farsi vivere non come un corpo a sé, ma come una realtà viva del territorio e con esso dialogante?

  1. Una prospettiva da considerare, con l’associazionismo come leva

I problemi che evidenziano i dati proposti sono indubbiamente enormi e richiedono – ovvio – un progetto politico all’altezza e di non breve durata; e un ceto politico che ci creda e abbia la cultura e la forza e il coraggio di dargli gambe.
L’idea però di un progetto che a. riprenda le questioni della cultura professionale e delle sue forme, b. ne evidenzi il loro rapporto con il tipo di scuola che sottendono e c. faccia emergere i modelli, da discutere approfondire e sperimentare, più in linea con obiettivi che rappresentino / siano risposta ai problemi che i dati proposti pongono, può ben diventare la strategia che fette del mondo della scuola si danno in questa fase
Un progetto con queste finalità potrebbe contare tra l’altro su esperienze di tante scuole che producono qualità ed eccellenza al pari delle migliori performance di molti paesi europei.
Ritengo – e in questo si è in tanti – che un ruolo importante su questi terreni, prioritari per dare credibilità al sistema, possa essere giocato soprattutto in questa fase dal tessuto associativo (le tante associazioni culturali e professionali, le molte reti di scopo e territoriali ….) che ha a riferimento il mondo della scuola e che è fortemente ramificato. E questo perché l’associazionismo diffuso, pur con le sue carenze e problematicità, ha saputo esprimere, ed esprime ancora, una grande riserva di esperienze e risorse e buone speranze di futuro. Se solo però se ne recuperasse con più convinzione la consapevolezza delle sue potenzialità e se ne riattivassero, con maggiore consapevolezza, energie per progetti motivanti e spendibili.
E tra le varie forme di associazionismo, ritengo debba essere il primo a battere un colpo, in questa fase, soprattutto quello professionale, che aggrega le diverse figure che gravitano attorno al pianeta scuola. Superando separatezze tradizionali e aprendosi alle collaborazioni possibili.
Tentativi in questo senso, tra l’altro, sono già in atto. Veneto e Toscana docent. E forse non sono i soli.
L’ottimismo …. della ragione (perché no!) dovrebbe suggerire all’articolato mondo dell’associazionismo di guardare con interesse – per una prospettiva come quella suggerita – anche a quelle parti del ceto politico e intellettuale e del mondo sindacale che possono essere risorse probabilmente utili per fare riguadagnare terreno a tale prospettiva.
In prima battuta, riprendere il discorso sull’associazionismo professionale e approfondirlo anche in termini operativi in questa prospettiva dovrebbe diventare un obiettivo mobilitante della fase. Anche perché, questo dell’associazionismo è un terreno di impegno che si inscrive, nella maggior parte dei casi, dentro un’idea di scuola che tende a privilegiare – come si è già detto prima, parlando di autoreferenzialità e individualismo – a. un ascolto attivo e proficuo tra i diversi attori della relazione educativa (nella quale il memento primo rimane sempre la centralità degli studenti), b. pratiche cooperative a più livelli.
O no?

[1] V. al riguardo il saggio di Tullio De Mauro, in La cultura degli Italiani (a cura di F. Erbani), Editori Laterza
[2] Soprattutto in Guarire dal mal di scuola, La Nuova Italia, 1999.
[3] E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, p. 3, Cortina editore, 2000.
[4] Pier Luigi Quaglino, Fare formazione, Cortina editore, 2005




Come scegliere i futuri dirigenti scolastici

matitadi Antonio Valentino

A fine luglio scorso è stata messa a punto dall’Ispettore Giancarlo Cerini una proposta sul “reclutamento dei DS”, sulla base delle risposte a 15 quesiti, dello stesso Cerini, di un Gruppo di una quindicina di persone, individuate tra candidati all’ultimo concorso, capi di istituto (ex e in servizio), dirigenti tecnici, studiosi che si sono misurati con il problema della formazione dei futuri dirigenti.
Le ragioni dell’iniziativa: le situazioni venutesi a creare soprattutto negli ultimi due concorsi, che hanno richiesto interventi della Magistratura e dello stesso Consiglio di Stato per dirimere questioni che hanno, tra l’altro, allungato in misura abnorme i tempi dei concorsi (anche sull’ultimo ci sono ancora pendenze che generano incertezze e difficoltà agli interessati e alle scuole su cui i neo assunti sono stati nominati).

La lunghezza dei tempi è certamente una delle ragioni non secondarie dell’aumento rovinoso di reggenze nell’ultimo decennio, che ha coinvolto un numero impressionante di scuole. Con le conseguenze che tutti conosciamo.
I 15 quesiti proposti erano essenzialmente finalizzati a raccogliere idee e indicazioni volte ad assicurare la tempestività e regolarità temporale dei concorsi, così da ridurre il numero dei partecipanti (ultimamente oltre ogni ragionevole misura), ma anche regole e modalità che possano durare nel tempo e diventare punto di riferimento per quanti, negli anni, vi fossero interessati. Regole, oltre che sui tempi (durata e cadenze), sul tipo di prove e loro coerenze con il profilo DS in questa fase, sulla configurazione delle commissioni, sui requisiti per parteciparvi, eccetera.

Partendo dalle risposte, Cerini ha elaborato un Documento in cui sono riportati, sui singoli capitoli, il grado di condivisione sulle proposte in campo, le ragioni che le sostengono e quelle che le sconsigliano.
Un documento ricco di spunti di riflessioni e di elaborazioni su cui misurarsi, che alcune settimane fa è stato inviato soprattutto al variegato mondo interessato alla questione (l’associazionismo professionale del personale scolastico, le OO.SS della scuola, la dirigenza tecnica del Ministero, ….).
Si rinvia pertanto a questo Documento per una più puntuale ricostruzione dei risultati del “Forum dei Quindici”.

Qui si intendono riprendere tre questioni, che ritengo soggettivamente centrali, proponendo su di esse qualche riflessione aggiuntiva o la focalizzazione di alcuni passaggi.

Valorizzazone delle esperienze di collaborazione

La prima riguarda la valorizzazione delle esperienze di collaborazione volte al buon funzionamento della scuola; a partire dalle esperienze dei collaboratori più stretti del DS a quelle di insegnanti impegnati nelle attività di coordinamento didattico-organizzativo o di presidio di aree significative del fare scuola.
Sono emerse nel Gruppo perplessità circa l’idea di valorizzare tali esperienze svolte a scuola, “anche perché – si legge nel Documento – non sempre oggetto di verifica e di valutazione”. Invece molta più condivisione c’è stata sulla proposta di inserire, nella procedura concorsuale, la valutazione delle qualità psico-attitudinali nello svolgimento di una funzione. Di tale proposta si evidenziano comunque “la fragilità delle strumentazioni psico-diagnostiche” e “la difficoltà ad inserirle in procedure pubbliche di reclutamento (perché dovrebbero essere affidate ad agenzie specializzate)”.
Nei due casi, il termine valorizzazione ha evidentemente significati diversi. Nel primo caso, il senso inequivocabile è “dare peso”, “riconoscere” le esperienze di collaborazione – diciamo così per semplificare – attraverso la previsione di un punteggio ad hoc che pesi; nel secondo caso, la valorizzazione è legata alla previsione, nelle prove concorsuali, di procedure volte ad apprezzare le qualità psico-attitudinali del candidato per lo svolgimento della funzione che sarà chiamato a svolgere.
Si tratta di proposte di diversa natura, entrambe comunque degne di considerazione.
Qui si vuole però soprattutto sottolineare la rilevanza della valorizzazione delle esperienze di collaborazione e partecipazione. ecc..

Il ragionamento che ne è alla base non è nuovo, ma vale la pena di riprenderlo. Consiste

1. nel collegare l’operazione concorso per DS alla questione dello sviluppo di carriera dei docenti: la Dirigenza Scolastica quindi come uno dei suoi sbocchi possibili. Nel senso che i meriti acquisiti sul campo, con le diverse forme di collaborazione alla vita dell’istituto, avrebbero – al netto del compenso economico per le attività fuori dall’orario di servizio – un riconoscimento ‘pesante’ in termini di punteggio aggiuntivo a quello delle prove concorsuali superate. Che si traduca in posizioni più avanzate nella graduatoria finale dei vincitori di concorso;

2. nell’ assumere:
a. che l’essere stati insegnanti-non- solo -insegnanti (per meglio capirci) e aver maturato esperienze in funzioni e ruoli aggiuntivi all’insegnamento, possa segnare in misura consistente la cultura professionale del docente e il modo di essere dentro la scuola e di sentirsene parte attiva,
b. che questa più ricca dimensione professionalepossa rappresentare una risorsa più importante della migliore preparazione che si consumi solo sui libri da studiare o nelle conferenze a cui partecipare;

3. nel dare peso e valore alla formazione che matura nella collaborazione per più anni, ai diversi livelli dell’organizzazione scolastica e della gestione complessiva. Considerandola una risorsa potenzialmente più efficace – per chi abbia superato le prove concorsuali – per partire da subito col piede più giusto.

(Senza nulla togliere comunque alla formazione specifica prevista per i neo dirigenti e al sostegno di tutor e mentor che restano misure certamente importanti e necessarie.)

Si pongono ovviamente, a questo punto, alcuni pesanti interrogativi già in parte richiamati (andrebbero aggiunti, alle difficoltà della valutazione dell’efficacia delle collaborazioni e della qualità della partecipazione, e a chi metterla in carico: il numero minimo di anni spesi in funzioni altre dall’insegnamento, il peso da attribuire eventualmente a ciascuna di esse, ecc.) che solo una ripresa di attenzione allo sviluppo di carriera dei docenti potrebbe permettere di affrontare positivamente. Recuperando eventualmente ipotesi di lavoro su cui ci si è appassionati nella fase iniziale delle vicende della c.d. “buona scuola” (autunno 2014 – primavera 2015), poi misteriosamente scomparse.

C’è infine una scommessa di carattere più generale che andrebbe recuperata nella proposta di collegare sviluppo di carriera e concorso DS: che si possa, attraverso di essa, favorire tra i docenti un più diffuso coinvolgimento – che gli accresciuti livelli di complessità rendono indispensabile – alla vita complessiva delle scuole e il recupero della motivazione a partecipare; e, volendo essere ottimisti (!), di un protagonismo cooperativo degli insegnanti, che, come è evidente, ha qualche difficoltà a materializzarsi.

La terza ed ultima questione del Documento, che qui si vuole considerare, riguarda le Commissioni.

Molti dei ‘peccati’ attribuibili ai concorsi vanno ricercati proprio nella qualità delle Commissioni, costituite quasi sempre finora senza una attività formativa preventiva ed efficaci forme di coordinamento a livello nazionale, rispetto alle singole procedure. (Nell’ultimo concorso DS ha fatto particolare scalpore, ad esempio, la notevole difformità nei comportamenti valutativi delle commissioni, sia nelle prove scritte, sia nelle prove orali. In queste ultime, tra l’altro, gli argomenti proposti obbedivano spesso a logiche di accertamento sostanzialmente arbitrarie).
(A discolpa parziale delle Commissioni in genere, va anche detto però, almeno tra parentesi, che esse sono state costrette a lavorare spesso in modo frettoloso e approssimativo nel poco tempo a disposizione, senza esoneri e con riconoscimenti economici da terzo mondo.)
Ma una criticità a monte va ricercata anche nella composizione delle Commissioni. Nelle quali era facile ravvisare, da parte delle persone più accorte, criticità spesso pesanti e di vario tipo: dagli squilibri evidenti alle figure inadatte, alle competenze pedagogiche, amministrative e professionali spesso mancanti…

Su questo punto, si dà conto nel Documento di una proposta particolarmente interessante da rilanciare: una ‘doppia opzione’, emersa nel Gruppo coinvolto, che potrebbe essere risolutiva dei problemi più grossi:
1. affidare ad una struttura permanente le diverse procedure concorsuali (una sorta di Gruppo di Regia Nazionale, “che svolga funzioni di preparazione di quadri di riferimento, griglie, tracce dei quesiti e delle prove”);
2. istituire un Albo da cui attingere le diverse professionalità necessarie per l’espletamento delle operazioni concorsuali.

È una proposta che penso abbia un forte valore strategico. Ovviamente costa. Ma quanti risparmi assicurerebbe ai diversi livelli e quali ricadute sul clima interno tra gli interessati e nell’intero pianeta scuola!

Se ne farà qualcosa? Lo sapremo vivendo, come si dice.

 

 

 

[1] I contributi scritti sono di: Beatrice Aimi, Lisetta Bidoni, Franco De Anna, Vanna D’Onghia, Paolo Fasce, Antonio Giacobbi, Rosalba Marchisciana, Emanuela Marguccio, Elisabetta Nanni, Mauro Piras, Mariella Spinosi, Maria Teresa Stancarone, Stefano Stefanel, Antonio Valentino, Maria Rosaria Villani, Lorella Zauli.