Figure di sistema e questione organizzativa. Farci i conti

di Antonio Valentino

Perché parlare delle “figure di sistema” [1]

C’è un problema oggi – tra i tanti del nostro sistema scolastico – di cui spesso si parla, ma che si fa difficoltà ad aggredire: la demotivazione di larga parte dei docenti, che spesso non li fa sentire dentro il ‘progetto culturale ed ‘educativo’ delle proprie scuole; e li spinge verso una visione vicina a quella impiegatizia del proprio lavoro.

Sono considerati sostanzialmente come optional attività come: coltivare competenze e ed esercitare responsabilità (nel senso di aggiornare e sviluppare capacità professionali e di dar conto dei processi che si mettono in atto e dei risultati in rapporto a quello che si progetta); o vivere positivamente la dimensione collegiale del proprio lavoro.

Per capire meglio il problema dall’interno, è opportuno allargarne il quadro di riferimento alla più larga e impegnativa questione organizzativa delle nostre scuole che, su questo aspetto specifico, si lega al tema – anch’esso ancora problematico – dell’Autonomia scolastica.

Da richiamare per quest’ultima che la legge istitutiva (L. 59/1997, art 21), non a caso, in vista dei processi impegnativi da essa richiesti, ha previsto l’introduzione di ‘nuove figure” (comma 16).
Sarà il CCNL scuola di due anni dopo a introdurre in ordinamento e a regolare contrattualmente le figure dei collaboratori del DS e quelle per le ‘funzioni obiettivo’ , trasformate in funzioni strumentali con il CCNL del quadriennio 2002-2005. Ma – va sottolineato – questo passaggio, se ha apportato semplificazioni positive nelle procedure di adozione, ha indebolito queste figure sul terreno delle responsabilità e della formazione: requisiti previsti per esse nel precedente contratto[2].

Da allora, come è noto, la questione delle ‘nuove figure’ non è stata più ripresa nelle contrattazioni governi / sindacati, nonostante i livelli di complessità del sistema scuola continuassero a crescere, e il tema della responsabilizzazione dei docenti e della loro valorizzazione sul fronte didattico-organizzativo diventasse più stringente.
Tuttavia il dibattitto sulle tematiche connesse a tale questione ha continuato comunque ad attraversare, anche se   a intermittenza, il mondo della scuola e della ricerca universitaria, e soprattutto delle associazioni professionali dei DS.

  1. La questione organizzativa tra Figure Intermedie e valorizzazione delle risorse professionali

Il dibattito sulle figure intermedie (Middle Management).  

Ha insistito su di essa, così da farne un suo cavallo di battaglia, l’Associazione Nazionale Presidi (ANP), ma con motivazioni e proposte considerate sbagliate soprattutto dal sindacalismo confederale.
Recentemente (inizi gennaio 2021), come è noto, è intervenuta sul tema, nel suo ultimo atto di indirizzo, l’allora ministra Azzolina, con una proposta che trae spunti evidenti dall’elaborazione dell’ANP.

Di essa è utile richiamare (v. box 1) i tratti essenziali anche per cogliere le distanze rispetto a posizioni di tutt’altro segno che, sotto la stessa denominazione, si sono sviluppate sull’argomento in questi anni (v box 2). Posizioni che qui si si assumono e si sviluppano in ragione dell’idea di scuola e del tipo di relazioni tra docenti e DS, che si ritengono più promettenti per un buon funzionamento delle istituzioni scolastiche.

Box 1. Il Middle Management: la proposta dell’ex Ministra Azzolina

L’ex Ministra colloca il Middle Management dentro il discorso più generale della “valorizzazione del personale”, da prevedere – nelle sue aspettative – nel prossimo Contratto collettivo nazionale di Lavoro. Ipotizza allo scopo due percorsi di carriera per gli insegnanti:

  • Il primo rivolto alla funzione docente in senso stretto, per la quale prevedere “un vero e proprio percorso di carriera professionale che connoti il ruolo, (…), su base meritocratica”.
  • Un secondo – prefigurato dentro la proposta sul Middle Management – basato sul conferimento di incarichi fiduciari da parte del dirigente scolastico.

Su questo specifico aspetto – che è quello che qui più interessa – tre sono i punti che mi sembra caratterizzano la proposta dell’ex ministra:

  • la previsione di una apposita area da inserire tra gli insegnanti e il DS: quella dei ‘collaboratori’, per i quali soltanto si prefigura un ruolo a parte;
  • l’accesso a tale area è riservata ai docenti capaci, per esperienza, professionalità e vocazione;
  • il compito previsto è gestire attività complesse di competenza del DS, sulla base di una delega formale da parte dello stesso, che rinvia a una posizione organizzativa di dipendenza dal DS dei docenti collaboratori

Finalità dell’operazione proposta è anche quella di permettere a questi docenti di sviluppare “nuove e più compiute professionalità che possano successivamente concorrere al ruolo della dirigenza scolastica con un bagaglio di esperienza organizzativa e di sensibilità amministrativa maturato in tale nuova area professionale”.

Box 2. L’ ipotesi alternativa in campo[3].

Questi gli aspetti caratterizzanti e le differenze rispetto alla proposta dell’ex ministra:

  • Le funzioni intermedie vanno ben oltre quella di ‘collaboratore’ del DS. I livelli di complessità crescente delle nostre scuole richiedono una pluralità di figure, oltre a quelle di collaboratore o per le funzioni strumentali già previste dal nostro ordinamento. Per tutte va prevista una chiara e solida configurazione giuridica e contrattuale – e riconoscimenti conseguenti -;
  • Funzioni specifiche da riconoscere giuridicamente e contrattualmente sono quelle che contribuiscono al funzionamento didattico e organizzativo delle scuole e al miglioramento della loro qualità. Sono quindi, in primo luogo, quelle di coordinamento (dei vari organismi in cui si articola il Collegio), di progettazione e sostegno all’autonomia e di presidio dei diversi luoghi e spazi dell’Istituto scolastico…;
  • Per il loro esercizio vanno richieste competenze organizzative e relazionali, ma anche professionali (progettuali, valutative, tecniche-tecnologiche …). Sono chiamate a coprirle i docenti che acquisiscono le diverse competenze, sia con la formazione tradizionale, sia soprattutto sul campo, con la pratica quotidiana di insegnamento;
  • Tali figure non operano sulla base di deleghe da parte del DS, ma esercitano funzioni per conto del Collegio Docente;
  • Gli incarichi sono a tempo determinato, ma rinnovabili. Si tratta comunque di incarichi duraturi, per i quali è orientamento diffuso è che la durata minima sia triennale (allineata con i tempi dei documenti strategici delle scuole, a partire dal POFT).

Le perplessità dei Sindacati. Le ragioni e le voci contrarie

Va richiamato a questo punto che le Organizzazioni sindacali, soprattutto confederali, non hanno mai visto di buon occhio il riconoscimento giuridico delle figure ‘intermedie’. Unica eccezione, come si è visto, la sottoscrizione del Contratto del ’99, in cui si definiscono, come si è visto, le nuove figure per le Funzioni obiettivo e per i Collaboratori del DS.
Dichiarazioni anche recenti – e comuni ai dirigenti sindacali più accreditati – mettono soprattutto l’accento sul fatto che le articolazioni della funzione docente previste per queste figure configurerebbero una scuola tipo verticistico e autoritario.
La motivazione di fondo è comunque che il riconoscimento di articolazioni del ruolo docente (con quello che può comportare sotto il profilo della differenziazione retributiva e degli sviluppi di carriera) risulterebbero divisive dentro la categoria e non farebbero certamente bene al clima interno delle scuole.
Voci critiche al riguardo sono però emerse anche dentro aree culturali che pure si riconoscono nei valori delle OOSS confederali. Annota ad esempio Franco De Anna, per citare una figura autorevole di quest’area, che l’unificazione della funzione docente, che pure “ha prodotto risultati contrattuali apprezzabili (…)”, ha mostrato nel corso dei suoi 50 anni “tanti difetti realizzativi e (…) scarsissime ricadute sui meccanismi di selezione e reclutamento ….”. E non ha permesso – aggiunge – di “promuovere e consolidare le articolazioni funzionali [del ruolo docente] in rapporto all’organizzazione”; articolazioni funzionali (cioè le figure soprattutto di coordinamento e di presidio) che “oggi hanno una definizione transitoria e contrattualmente non significativa” che intralcia “una possibile traccia di sviluppo professionale per il personale della scuola” [4].

Comunque le preoccupazioni delle OOSS – che riflettono quelle di molti insegnanti (ricordiamo il dibattito acceso – e talora anche i conflitti interni alle scuole sulla questione della premialità introdotta dalla L. 107 (che ha punti evidenti di intreccio con quello delle funzioni aggiuntive) – non possono essere sottovalutate o addirittura ignorate, come dà l’impressione di fare l’ANP.

Sono in ballo questioni importanti, legate a. al modello organizzativo e alla governance interna alle scuole e al ruolo (e quindi ai livelli ci responsabilità e di competenza) che è opportuno prevedere per i docenti); b. alla necessaria rimodulazione   del profilo del DS, oggi schiacciato su una agenda che ben evidenzia il suo progressivo allontanamento dalle funzioni prioritarie che gli sono proprie (v. art. 25 del D.Lvo 165/2001).
Su di esse è pertanto utile qualche approfondimento per mettere meglio a fuoco il tema centrale.

  1. Valorizzazione delle figure di sistema e rimodulazione del ruolo ds. Ragioni e condizioni

Su modello organizzativo e forma di Leadership.  

A proposito del modello organizzativo, non da oggi si conviene da più parti che quello reticolare è certamente il più promettente. E questo perchè più di altri facilita la comunicazione interna, e con essa la cooperazione e il confronto tra i soggetti coinvolti.
Il nostro sistema solo sporadicamente ha sperimentato tale modello – che implica coordinamento tra le sue articolazioni (consigli, dipartimenti, gruppi di progetto…) e relazioni professionali strutturali e coese; oltre che una organizzazione interna a sostegno. Però, a ben vedere, il nostro sistema prevede organismi collegiali che potrebbero ben diventare nuclei portanti di una rete interna, se funzionasse effettivamente come rete. Il riferimento è ai Consigli di classe e ai dipartimenti disciplinari, ma anche ad altri organi che, per quanto non previsti formalmente dal nostro ordinamento, sono di fatto operativi, come ognuno sa, nella maggior parte delle nostre scuole (gruppi di progetto, commissioni di lavoro…).

Occorre tuttavia mettere nel conto che trasformare le diverse articolazioni del nostro sistema in unità operative che si vivano come comunità di pratica, per usare la formula di Wenger [5] – come luogo cioè di riflessione sul proprio lavoro, di confronto, di proposte e di ricerca, partendo dalle difficoltà e dai problemi concreti del fare scuola – richiede figure preparate e motivate, che abbiano cultura organizzativa e si sentano dentro al progetto della loro scuola.

È In questa prospettiva che diventa condizione importante il riconoscimento giuridico e contrattuale delle diverse figure intermedie: dargli infatti valore e appeal porta a favorire – tra gli insegnanti con attitudini e preparazione riconosciute tra i pari – disponibilità a impegnarsi anche su compiti e funzioni qualificanti e necessarie per la scuola come organizzazione. Senza queste disponibilità – che per altro sono sempre più rare proprio per la mancanza delle condizioni di cui sopra – è difficile prevedere il rinnovamento auspicato. (Anche se rimane ancora aperto il problema il problema di conciliare il lavoro di insegnante con le funzioni di ‘figura’).

Ma parlare di un modello organizzativo per la didattica coerente con i ragionamenti precedenti significa anche misurarsi – e qui lo si fa prendendo a riferimento le elaborazioni di Angelo Paletta – con una idea di Leadership: a. “condivisa con gli insegnanti e distribuita nei punti nevralgici del fare scuola (…)[6]”, b.  che guardi alle figure intermedie come alle risorse su cui strutturarsi; c. la cui “fonte” – punto fondamentale – “non promana unilateralmente dal dirigente scolastico”[7].

Ovviamente, Leadership per (in funzione del) l’apprendimento.  Essendo l’apprendimento, nei suoi molteplici ‘oggetti’ e nei suoi diversi livelli, la ragione sociale del fare scuola.

Anche alla luce di questa idea di Leadership, non può essere considerata un optional  la costituzione di un’èquipe di direzione (avvicinabile allo staff del DS allargato ai collaboratori, ai coordinatori delle diverse Unità operative – i diversi nuclei della rete –, alle ‘funzioni strumentali’ ), che si viva anch’essa però come comunità di pratica, con un ruolo prevalente di osservatorio e cabina di regia.

Sul DS: compiti e funzioni di cui riappropriarsi.

Ma una partita come questa, che vuole sollecitare e mettere al centro il protagonismo degli insegnanti, richiede anche, se non soprattutto, una rimodulazione del ruolo DS, in grado di dare chance più elevate alla  prospettiva di una Leadership distribuita che sia anche stabile e coesa.
Rimodulazione che richiede una condizione preliminare: liberare il lavoro del DS dalle varie e pesanti distorsioni che su di esso gravano, sottraendogli tempo e energie, per permettergli di concentrarsi su funzioni e compiti coerenti con ciò che dovrebbe più contare nella sua ‘missione’.
E tra questi, sono particolarmente importanti quelli che poggiano sulla consapevolezza – che è anche convinzione diffusa – secondo la quale “la scuola la fanno essenzialmente gli insegnanti, nel bene e nel male”, e che quindi sono gli insegnanti la risorsa da sviluppare e valorizzare, ‘curare’.

Diventa allora fondamentale, alla luce di questa consapevolezza, tendere a costruire un modello di scuola in cui le prerogative del ruolo DS siano quelle di dirigente di una organizzazione di docenti professionisti, responsabili e competenti per le funzioni del loro profilo (Giuseppe Bagni)[8]. E che pertanto, rispetto a tale funzione, il principio che vale è quello di reciprocità e in nessun caso di subalternità o sottomissione.
Principio che comporta relazioni in cui le ragioni del verificare e del controllare (che sono dentro al ruolo DS di responsabile del servizio scuola) si bilancino con quelle dell’attenzione continua e fondamentale allo sviluppo professionale dei suoi insegnanti. 

Sulla scorta di queste argomentazioni, rimodulerei così, anche sulla base delle suggestioni presenti nell’articolo di Bagni, citato in nota, compiti e funzioni riguardanti la valorizzazione della risorsa insegnanti e il loro coordinamento:

Uno, sostenere come impegno prioritario la dimensione collegiale del lavoro scolastico (il funzionamento delle articolazioni funzionali del CD) e il collegamento di tale dimensione con le attività individuali dei docenti. Che significa, tra l’altro: preoccuparsi di organizzare ambienti funzionali, curati, ospitali; e farsi carico dei bisogni professionali che esprimono gli insegnanti come singoli e come gruppi; ma anche garantire condizioni volte a dare forza e tono alla terza gamba dell’autonomia scolastica: quella della “ricerca, sperimentazione e sviluppo”, generalmente trascurata.

Due, favorire l’interazione continua delle figure con i colleghi del gruppo e ‘l’adattamento reciproco sul campo’, che sono modalità specifiche della funzione di coordinamento; che esclude, per sua stessa natura, qualsivoglia gerarchizzazione dei ruoli.

Tre, “valorizzare le competenze degli insegnanti nel costruire e governare il progetto / processo di insegnamento /apprendimento”. Che concretamente significa: essere attenti a scoprire/far emergere e sviluppare – anche attraverso percorsi formativi – attitudini e competenze del personale, e valorizzarle in modo mirato.

[1] Si è utilizzata questa denominazione (anche se non del tutto appropriata) perché la più comune nel mondo della scuola. Si utilizza anche, e sempre più frequentemente, “Figure di sostegno all’autonomia”. Un’altra denominazione che si incontrerà nel testo è quella di ‘articolazioni funzionali’. Particolarmente diffusa è anche Middle Management.

[2] Sull’ esperienza delle figure per le ‘funzioni obiettivo, richiamo un saggio del 2002 del compianto Giancarlo Cerini, Funzioni obiettivo: una storia “dentro” l’autonomia, https://www.edscuola.it/archivio/riformeonline/fo2002.htmln, che si legge ancora con interesse per l’efficacia delle linee di ragionamento interessanti anche per le considerazioni che qui si svolgono.

[3] Qui si farà riferimento soprattutto agli studi e alle elaborazioni di Angelo Paletta (Dirigenza scolastica e middle management. Distribuire la leadership per migliorare l’efficacia della scuola, Bononia University Press, 2020). Cfr anche Ivana Summa, Middle Management e Comunità Professionale in Rivista dell’istruzione 1/20211, Maggioni editore.

[4] Franco De Anna, Visto da fuori. Note e pensieri sul contratto della scuola, febbraio 2018, in https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F%2Fwww.aspera-adastra.com.

[5] Sulle Comunità di pratica, si rinvia a E. Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, Raffaello Cortina 2006 e a T. Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, LAS 2000

[6] Punti nevralgici sono ovviamente le articolazioni del Collegio Docenti.

[7] V. Angelo Paletta, Dirigenza scolastica e middle management. Distribuire la leadership per migliorare l’efficacia della scuola, cit.

[8] V. Giuseppe Bagni, Professionalità docente e organizzazione del lavoro in “Idee per la formazione degli insegnanti”, a cura di Massimo Baldacci, Elisabetta Nigris, Maria Grazia Riva) – Franco Angeli Editore. In questo saggio Bagni richiama con accenti preoccupati il fenomeno della deresponsabilizzazione (che è cosa altra rispetto a ‘non responsabilità) della classe insegnanti), che ha offerto spunti per questo contributo.




Giancarlo Cerini: un grande, appassionato dirigente della nostra scuola e soprattutto una ‘bella persona’

di Antonio Valentino

La notizia l’ho letta solo stamattina. Stavo infatti scrivendo per lui un articolo che mi aveva chiesto per il numero di luglio-agosto di Rivista della Istruzione.
È stato un colpo di quelli che fanno male. Come ho potuto avvertire anche nei messaggi delle amiche e amici con cui si è voluto condividere un pensiero per lui.

Mi piace ricordarlo attraverso una sua lettera del mese scorso – scritta nel pieno delle urgenze della sua malattia che lo affliggeva da tempo – nella quale si coglie immediatamente la concretezza dei suoi interessi professionali (che per lui erano anche esistenziali, ma mai ossessivi); l’attenzione ‘militante’ al mestiere dell’insegnante e alla necessità di valorizzarne il merito come valore che genera la qualità del fare scuola, ma anche l’occhio vigile al ‘contesto’ e alle condizioni che ne favoriscono l’impegno; un modo di guardare ai problemi cercando di vedere sempre l’oltre, come luogo dell’approdo alla soluzione che possa funzionare; la condivisione come cifra della scuola democratica.

(…) Io sono a casa e mi muovo tra alti e bassi e con effetti collaterali non desiderabili. Tant’è, andiamo avanti.
Ti scrivo per chiederti una collaborazione di scrittura per il numero monografico 4/2021 (luglio agosto 2021, ma viene preparato ad inizio maggio p.v.) dove vorrei smuovere le acque sulla questione controversa della “carriera docente” con contributi di diverso taglio culturale e orientamento, su varie dimensioni (professionali, contrattuali, giuridiche, organizzative).
Vedo che il dibattito oscilla tra i tentativi qualitativi di riconoscere e apprezzare il merito (ma con una storia di fallimenti: dal concorsone alla 107) e la strategia, però non ben strutturata del middle management o funzioni intermedie.
Forse ci vorrà un mix delle due linee di lavoro, viste anche le resistenze sindacali.
A te chiederei di entrare nel tema delle figure intermedie, che sono viste anche come possibile sviluppo di carriera se meglio profilate e strutturate. Il tema si lega bene anche allo sviluppo organizzativo e didattico dell’autonomia. Però ti chiederei: è sufficiente “premiare” chi dedica più tempo e impegno (anche nuove competenze) a presidiare fuori dalla classe alcuni snodi organizzativi della scuola. E il docente che si spende per una buona didattica, certo in una dimensione condivisa, ma con il focus sull’insegnamento-apprendimento dei propri allievi.
Per questo ho messo provvisoriamente nel menabò un titolo ironico: La via “breve” delle figure intermedie.
Che ne dici?
Si tratta delle classiche 12-14.000 battute. La scadenza è fine aprile, con possibilità di sfondare ai primi giorni di maggio.
Spero che tu accolga la proposta. (…)
Grazie Giancarlo




Didattica digitale integrata: visione cercasi disperatamente

di Antonio Valentino

Parto dal Decreto sulla Didattica Digitale Integrata (DDI) del 26 giugno scorso (in GU dal 20.8), per cercare di capire qualcosa in più sullo stato dell’arte della nostra scuola a tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico: con l’Infanzia, la Primaria e le prime classi della secondaria di I grado aperte da settembre, ma con alterna fortuna e non ovunque (dal 30 novembre, anche le seconde e le terze di quest’ultima); e le ‘Superiori’ che continuano con la Didattica da remoto, con le varianti previste dal Decreto.

Decreto la cui ’sostanza’, come è noto ai più, può essere così sintetizzata:
l’obiettivo: fornire indicazioni (Linee Guida) sulla DDI – intesa come metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento” (?!) –;
il compito: “integrare la didattica in presenza” (con attività laboratoriali e interventi sugli studenti con BES, ove possibile, entro però spazi orari delimitati), garantendo comunque un “bilanciamento tra attività sincrone e asincrone”;
i destinatari: “tutti gli studenti della scuola secondaria di II grado, nelle situazioni in cui c’è Didattica a Distanza” (DaD).

La DDI – si stabilisce – può però essere estesa anche agli altri ordini e gradi scuola, ma solo in caso di un nuovo lockdown generalizzato.
Questo, in buona approssimazione, il quadro generale delle disposizioni entro cui la nuova metodologia della DDI dovrebbe poter esprimere la sua carica innovativa. Se, ovviamente cercandola, la si trovi.
Il passaggio principe previsto, perché l’operazione si concretizzi: “Elaborare un Piano Scolastico di Didattica Digitale Integrata”. Di questo in effetti, in tanti tra ds e docenti, avvertivano acuta mancanza.

Il quale Piano però, per essere elaborato come si deve, deve qualificarsi con ‘ingredienti’ di peso puntualmente indicati nel Decreto. Tra questi, si segnalano, a ben leggere, soprattutto i seguenti tra i fondamentali:

– “integrare il Regolamento d’Istituto con specifiche disposizioni in merito alle norme di comportamento da tenere durante i collegamenti ….” (guai – si sottintende – a evitare questo imperdibile passaggio);

– “disciplinare le modalità di svolgimento dei colloqui con i genitori, degli Organi Collegiali … e di ogni altra ulteriore riunione” (la cui urgenza e significatività, chi la può negare?);

– “Individuare gli strumenti per la verifica degli apprendimenti inerenti alle metodologie utilizzate” –  e qui siamo nell’ordinario – e  specificare (è la nota qualificante) che “… qualsiasi modalità di verifica di una attività svolta in DDI non [può] portare alla produzione di materiali cartacei …” (non sia mai …)

Una perla a sé è la seguente:
preoccuparsi (soggetto, gli insegnanti) “di salvare gli elaborati (sic!) degli alunni medesimi e di avviarli alla conservazione (sic! Sic!) all’interno degli strumenti di repository a ciò dedicati” (No comment)

C’è da chiedersi, anche solo con questi richiami, e senza voler tirare in ballo l’autonomia e altro: ma, un Ministro come fa a pensarle così e tutte insieme o a consentirle? Ce ne vuole!

Se oggi siamo messi così. I terreni scoperti

Ironia a parte, quello che si intende qui mettere in evidenza è che alla base del disorientamento e delle difficoltà che si percepisce tra docenti, dirigenti e personale scolastico in generale, c’è certamente la confusione sull’apertura delle scuole a livello nazionale, ma ha il suo peso anche la poca chiarezza  di idee chiare sulla Didattica digitale – a cui tra l’altro il Decreto di agosto è intestato – e la sua collocazione in un discorso di prospettiva. Per tacere d’altro.

Si sconta evidentemente su tali questioni non solo la sottovalutazione di una riflessione, condivisa tra i vari livelli istituzionali, sui mesi della prima ondata della pandemia, ma anche la disattenzione – chiamiamola così – alle condizioni primarie per la ripartenza di settembre. Quando le cose sono andate come sono andate, e in parte continuano ad andare, proprio perchè a tali condizioni non si è lavorato con la necessaria determinazione e chiarezza di prospettiva.

Il riferimento è soprattutto alle tre questioni su cui ancora oggi la partita non appare conclusa[1]:
quella degli organici, a partire dall’organico di scuola, ancora oggi, in alcune realtà ancora ballerino, e dalla previsione e garanzia di un organico aggiuntivo di supplenti, per fronteggiare le prevedibili assenze dei docenti delle scuole perchè contagiati o in quarantena per l’emergenza: senza queste disponibilità è chiaro che è difficoltosa anche la gestione delle scuole ‘aperte’ e  la previsione/garanzia di un orario scolastico ridotto il meno possibile.

Ma anche la questione dei trasporti per i ragazzi delle scuole superiori; terreno sul quale andavano studiate per tempo e rese effettive le intese con le amministrazioni territoriali, ma che ancora adesso appare confuso e diversificato; e quella dei tracciamenti del contagio, per fronteggiare al meglio il prevedibile lento sfaldamento delle classi e il silenzioso processo di abbandono da parte degli studenti più ‘deboli’, di cui scrivono un po’ tutti i giornali.

Appiattire invece, come di fatto fa il Decreto,  la D.D. sulla DaD (questa sì, misura emergenziale), non fa cogliere le direzioni di marcia da individuare in questo momento.

Prima fra tutte, quella che si pone come traguardo: far crescere in modo diffuso, contestualmente alle necessarie competenze, una cultura digitale capace di andare oltre la pur fondamentale padronanza delle tecnologie informatiche, per farla diventare soprattutto motore di integrazioni metodologiche e tecnologiche delle attività di insegnamento[2].

Occorre però, per questa problematica, essere consapevoli che in buona parte del personale della scuola c’è ancora la convinzione diffusa che le trasformazioni indotte dalla rivoluzione digitale interessino solo marginalmente il sistema di istruzione. E che pertanto la D.D. va trattata essenzialmente come un optional, se non proprio come il dono dei Danai ai Troiani del quale temere (il famoso ‘cavallo di Troia’ dell’epopea omerica, ripresa da Virgilio). Convinzione ancora maggioritaria, anche se sappiamo essere, per fortuna, in decrescita, come si dice adesso.

Se è  cosi, allora, il progetto sulla cui base costruire il Piano per la D.D. di cui parla il Decreto andrebbe sostanzialmente riscritto con attenzioni e finalità più chiare e congruenti;  puntando in primo luogo a sviluppare  preliminare consapevolezza

  1. che la rivoluzione digitale (rete, internet, connessioni) si sta dimostrando sempre di più come una grande risorsa anche sui terreni dell’istruzione, della formazione e della comunicazione;
  2. che con essa ci tocca comunque fare i conti; ma anche
  3. che le tecnologie informatiche, come tutte le tecnologie, hanno sempre e comunque una natura strumentale; che, se si perde, fino a diventare causa e fine a se stante, fa correre il rischio, molto prevedibilmente sul fronte scuola, di oscurare il patrimonio di ricerche, esperienze, acquisizioni che in non pochissime nostre scuole continuano a dimostrare senso e vitalità.

E sempre a proposito di consapevolezze da promuovere, andrebbe anche richiamato

che comunque la D.D., perchè abbia valore nella scuola, o è integrata – e quindi si collega e coniuga con le esperienze e le acquisizioni più significative, innovative e qualificanti a cui si faceva sopra riferimento – o non è. E lo è, non nel senso che integra la didattica da remoto con attività in presenza – come fa il Decreto che qui si considera – ma nel senso che si integra con le funzioni e le pratiche più innovative della nostra cultura scolastica[3];

che, pertanto, la formazione digitale per il mondo della scuola, se non sa alimentarsi di una cultura pedagogica dei processi di istruzione ed educazione, corre il rischio di non essere alleata preziosa dell’auspicabile rinnovamento, ma piuttosto fattore di snaturamento dei suoi aspetti identitari più preziosi.

Cultura pedagogica, va sottolineato, che sia in grado di riportare in primo piano la dimensione educativa del fare scuola – assieme alla centralità del soggetto che apprende nella sua interezza – e la curvatura dell’insegnamento sulla linea dell’apprendimento (per sviluppare potenzialità e competenze inespresse).

Un’ultima non secondaria consapevolezza da promuovere: che i miglioramenti più significativi dei processi cognitivi e del funzionamento della mente si verificano – come chiariscono studi e ricerche [4] – quasi esclusivamente se – tra allievi e tecnologie e reti – c’è intermediazione da parte del docente. E questo è un punto che va enfatizzato. Anche perché dovrebbe essere motivo di riflessione, ma anche di orgoglio per una categoria che, per le più diverse ragioni, sembra averlo perso.

La D.D. nel piano formativo di istituto. Le offerte sul web, numerose e di qualità, una miniera preziosa per le scuole.

Una considerazione finale a proposito del Piano formativo di Istituto (PFI) rilanciato dal Decreto.

Si moltiplicano, in queste settimane, iniziative di formazione e approfondimento da più parti sulle tematiche del digitale, con l’intento di fornire strumenti da utilizzare in aula per una didattica ibrida e funzionale. A leggere i titoli di iniziative e pubblicazioni si coglie l’intento di assumere le tecnologie informatiche come possibili e importanti alleate per un fare scuola in modo più vario e accattivante; senza comunque nessuna sottovalutazione dei rischi di cui si è prima detto.

Perché queste iniziative non si disperdano in rivoli poco efficaci, sarebbe importante che i PFI in questa fase nascessero – è la proposta sensata di una dirigente dell’area milanese – dalla selezione mirata (e contenuta) tra le diverse iniziative – e ovviamente tra le altre di Istituti come l’INVALSI e l’INDIRE –  senza pesare sul budget delle scuole e senza appesantimenti particolari, per le stesse, sul piano organizzativo (dove l’impegno sarebbe riservato soprattutto alla ricerca di webinar e piattaforme  più in uso da parte delle scuole e alla messa a punto del loro utilizzo).

Scontato criterio base per la ricerca: cogliere le rispondenze migliori ai diversi bisogni formativi del personale della scuola in generale e degli insegnanti in particolare.  Per meglio interpretare le esigenze dei propri studenti e assicurare loro le risposte più promettenti. Così ci mettiamo in regola anche con …. una Linea Guida indicata dal Decreto.

[1] Anche se adesso c’è qualche elemento positivo in più: la Nota ministeriale del 9 novembre in cui si raccolgono le proposte sindacali di maggiore attenzione alle condizioni del lavoro docente in questa fase; ma anche una maggiore concretezza per le previsioni di apertura anche delle scuole superiori dopo le festività natalizie. Ma comunque, la sensazione di disagio e anche di confusione per molti versi permane.

[2] Interessanti le annotazioni sul punto di Cesare Rivoltella, Superare facili contrapposizioni. In presenza o a distanza la didattica merita di più, in Avvenire.it (27 novembre 2020). “La scuola ha sicuramente bisogno di formazione e sviluppo professionale in tema di innovazione. Che non vuol dire, però, training all’uso dello strumento. Occorre non confondere le competenze informatiche di base con l’expertise nelle tecnologie educative: è un problema di pedagogie e di didattiche, non di icone da cliccare”.  In questo stesso articolo, l’Autore, a proposito del valore dello ‘sguardo pedagogico’, dopo aver richiamato l’importanza della relazione e il suo stretto rapporto con l’intenzionalità educativa , annota opportunamente che  “Posso essere in aula e totalmente non relazionale. Posso lavorare in rete ed essere vicinissimo ai miei studenti.”

[3] Da ciò la percezione che le Linee Guida per la DDI si collochino al di sotto della prospettiva attesa; percezione avvalorata già dal senso attribuito al termine integrata che nel decreto appare riferito alle attività che le scuole possono organizzare in presenza (attività di laboratorio, interventi per BES …) nei periodi di sospensione delle lezioni e non invece alla integrazione tra la DD e Didattica agita da molte nostre scuole che fanno bene il loro mestiere.

[4] R. Baldascino, Google, in “Voci della scuola”, Tecnodid X- 2011, p. 284 riporta studi e ricerche al riguardo.




Sopravvivere e non solo. Suggerimenti dubbiosi per la nostra scuola

di Antonio Valentino

Sopravvivere, e non solo.
I suggerimenti dubbiosi per la nostra scuola
nell’ultimo libro di Mario Maviglia

L’ultimo libro di Mario Maviglia, ‘Sopravvivere a scuola’ – Edizioni Conoscenza -, mantiene in toto quel che promette nel titolo.
Ma alla fine la percezione che ti rimane dentro è qualcosa di più profondo e importante di un semplice discorso sulla ‘sopravvivenza’ a scuola. Non ci si lasci pertanto ingannare dal titolo e neanche dal tono umoristico e ironico – e a tratti scoppiettante – che ne favorisce la lettura.

I sei quadri, di cui si compone il ‘mosaico’ raccontato, vedono come protagonisti, assieme all’Autore, le ‘figure interne’ che la scuola la fanno o che ne sono co-protagoniste: lo Studente, l’Insegnante, il Dirigente, il Personale ATA, il Genitore e la Scuola stessa.

Nel primo, quello dello Studente, come era prevedibile, prevalgono le immagini della scuola che animano l’immaginario più diffuso tra gli studenti, soprattutto della Secondaria (ma parecchio sapidi sono anche i ‘consigli per sopravvivere’ per i ragazzi della primaria). Quelle che rinviano soprattutto alla fatica di ‘carburare’ al mattino, alle difficoltà a starsene ingessati nel banco per ore o a fare a meno del telefonino, ma soprattutto alla pesantezza delle ‘ritualità’ fastidiose che ancora caratterizzano il fare scuola. Il riferimento esplicito è qui alla triade: lezione / interrogazione – prova – esercitazione / voto.
Rispetto a tali immagini, la ricerca di stratagemmi per venirne fuori con il minor danno possibile, si colora di una vèrv a tratti irresistibile.

Lo stesso meccanismo narrativo, che associa l’Autore alle figure previste dallo scenario generale, lo si ritrova a proposito dell’Insegnante.
E così anche il tono empatico e brillante che si apprezza in quasi tutto il capitolo dedicato a questa figura. Soprattutto quando parla della gestione della classe. A proposito della quale non si fa difficoltà a cambiare il punto di vista sugli studenti del capitolo precedente, qui rappresentati, tra l’ironico e l’affettuoso, come ‘massa di bipedi che – per quel che si dice – costituiscono la versione più recente dell’homo sapiens sapiens’.

L’Autore qui si rimette nei panni dell’uomo di scuola e avanza suggerimenti che sanno poco di semplice sopravvivenza e molto di suggerimenti di valenza pedagogica, pur nella loro semplicità: “Al mattino quando entri in classe, ci saranno tante cose a cui badare; ma non dovrai mai dimenticare di compire un’azione fondamentale (…). Un’azione molto semplice che non richiede un grande tirocinio …. Parliamo del sorridere ai ragazzi …. Perché è un preludio di buon lavoro (…). Ovviamente da solo il sorriso non basta, -aggiunge – ma è un buon viatico per iniziare ogni giorno l’impresa educativa”. E aggiunge: per generare interesse, mobilitazione di energie, vale di più la disponibilità a “spendersi con passione con gli studenti”. Se mancano – insiste – disponibilità e passione (che escludono comunque improvvisazione o utilizzo – nella relazione – del solo registro affettivo), “la classe diventerà per il docente una sorta di 41 bis molto sgradevole”. E non invece il luogo della relazione paziente, senza la quale – è chiaro il messaggio – ogni apprendimento farà difficoltà a svilupparsi e strutturarsi in modo efficace.

Tra i suggerimenti volti a legare lo spirito di sopravvivenza ad atteggiamenti più attivi e produttivi, quelli che l’Autore riporta qui in primo piano – ed è scelta che, chi sa di scuola, apprezza particolarmente – riguardano alcuni comportamenti professionali che tendono a vivere la relazione coi propri colleghi come una importante opportunità di crescita; non, come di frequente accade, come ‘una fastidiosa incombenza da sbrigare in modo riluttante e superficiale’. Non c’è niente di peggio nell’insegnamento a scuola – richiama – che indulgere in atteggiamenti individualistici e autoreferenziali – rispetto ai propri colleghi -.
Le conseguenze di tali comportamenti sulle classi – sottolinea – sono spesso evidenti: disorientamento e difficoltà degli studenti a sintonizzarsi su traguardi presentati dai diversi insegnanti della classe in termini, se non contrapposti, almeno fuorvianti.

E Insegnante chiama Dirigente Scolastico. Nel capitolo dedicato a questa figura vengono opportunamente tirate in ballo – e fortemente sottolineate – le responsabilità di una Amministrazione che anziché sostenerla – questa figura – nei suoi compiti istituzionali, spesso e volentieri si mette di traverso, diventando essa stessa un elemento di inciampo.  E qui l’Autore, che pure è stato, fino a ieri, autorevole dirigente dell’Amministrazione scolastica, non esita a denunciarne limiti e carenze. Come non ci sono sconti anche per quei dirigenti scolastici che credendosi eredi della monarchia assoluta – e negandosi anche solo il dubbio che la scuola in fin dei conti la fanno in buona sostanza gli insegnanti – si rendono spesso impossibile, di conseguenza, la loro stessa vita professionale.

Si segnala infine per questo stesso capitolo – ‘e nella speranza che nel frattempo non si sia pensato [da parte di qualche ds] ad avviare la procedura per un suicidio assistito’, come brillantemente ironizza – una pagina intera di suggerimenti interessanti tratti dal ‘Decalogo per i nuovo dirigenti scolastici’[1], ma che possono valere per tutti.

Di non minore interesse le pagine dedicate alle ‘figure’ del Personale ATA e del Genitore

L’ultimo ‘quadro’ è un capitolo a sé stante. La figura a cui è dedicato è proprio la Scuola, come soggetto complessivo.  Vi si focalizzano – in un registro comunicativo che evita i toni brillanti dei primi capitoli – i mali vecchi e meno vecchi che pesano sul suo stato di salute – e che ne danno spesso, un’immagine sconfortante e su alcuni aspetti addirittura inquietante -; ma si suggeriscono, come già si anticipava, anche alcune possibili soluzioni, rispetto alle quali rimane comunque piuttosto dubbioso. E non certo per il valore in sé delle stesse, ma perché sa che “la bontà della sua azione [sua di sé scuola] dipende da tanti altri soggetti” che ne dovrebbero garantirle “un’esistenza dignitosa, se non ottimale: politici, amministratori, dirigenti, insegnanti, personale della scuola, famiglie, studenti, comunità territoriali’. Sui quali l’Autore – e con lui chissà quanti altri – non si sente di mettere la mano sul fuoco come Gaio Muzio Scevola.

Da segnalare infine la preziosa Prefazione al libro di Dario Missaglia, Presidente Nazionale di Proteo Fare Sapere.

[1] In La vita scolastica – Web magazine – Edizione Giunti, 2019.




Ripartire: decisamente sì, ma bene


di Antonio Valentino

1. Se la ricostruzione comincia dalla scuola…

Sono confortanti tutti questi pronunciamenti per la riapertura della scuola e la parola d’ordine che ‘non una sola ora di lezione si perda più’.

Mai la scuola aveva avuto tanti fan di ogni colore politico e tanti riconoscimenti della sua importanza. Strano che non sia stato ancora coniato lo slogan Scool First. Ma forse solo perché va forte ancora la disputa accesa sulle misure di sicurezza, con tutti i suoi sviluppi quotidiani da prima pagina.

Per carità, la individuazione di misure appropriate, di problemi ne pone; e certamente i problemi legati alla sicurezza sanitaria – causa pandemia – sono assolutamente inediti. Ma una gestione così sconfortante – e per giunta arretrata – di questa emergenza era forse prevedibile, ma non a questi livelli.
Non a caso ho parlato prima di gestione arretrata. In quanto fatta di parole d’ordine che, se giustamente richiamano l’importanza e la necessità di riaprire le scuole, non riescono ad andare oltre. Il Presidente Conte ha parlato, da par suo, di ‘imperativo assoluto’ e la Ministra, ormai convertita, dopo aver chiuso la scuola per più di sei mesi, ha ripetuto il refrain, senza porsi le domande giuste sui mali cronici della nostra scuola che l’emergenza da Covid ci ha gettato sotto gli occhi – e in qualche caso ha accresciuto in modo netto e drammatico.

Certamente aprire è una  priorità assoluta; ma non meno importante è sapere come e con quali prospettive dare un senso all’apertura.

Certamente, considerata l’importanza, sotto il profilo sociale e culturale, di riprendere una normalità di rapporti tra insegnanti e studenti, tra scuola e famiglie – bene si è fatto a fissare la data della ripresa delle lezioni senza tentennamenti. Ma quale attenzione si è riservata al partire bene? Favorendo, ad esempio, la consapevolezza non generica dei problemi che l’emergenza ha messo sotto gli occhi di tutti? Problemi che nascono, in buona parte, da un prima fatto di ritardi cronici, diffuse arretratezze culturali e professionali, di diseguaglianze tra i nord del Paese e i suoi tanti sud che si collocano anche nel nord geografico, e che evidenziano ritardi e incongruenze su aspetti importanti del fare scuola.

A partire – vale la pena ripeterseli –

  • da curricoli e competenze in uscita ormai disancorati dalle grandi rivoluzioni della nostra epoca,
  • da didattiche e metodologie ancora centrate in prevalenza sull’insegnamento frontale e in molti casi non adeguatamente ‘attrezzate’ di cultura digitale,
  • da relazioni e clima in cui la centralità di chi apprende è in molti casi un obiettivo difficile da centrare,
  • da spazi di apprendimento e da un patrimonio edilizio ormai fuori dal tempo e da tecnologie digitali spesso obsolete o mancanti,
  • da un profilo docente ancora caratterizzato da autoreferenzialità e separatezza.

Evidenze e problemi che non diventano ancora però consapevolezze diffuse.

Tra questi, se ne vuole richiamare soprattutto una che è emersa con particolare urgenza dall’inizio della pandemia: quella delle molte situazioni di studenti e famiglie che non hanno potuto/saputo collegarsi con i loro insegnanti per partecipare alle lezioni a distanza.
Si parla del 15-20% – della popolazione scolastica, ma è da presumere che il dato della rilevazione è per difetto. In ogni caso si tratta di un numero enorme di studenti (dal milione e mezzo ai 2 milioni) che ha vissuto la scuola come istituzione lontana, difficile da raggiungere, anche dove non è mancato l’impegno dei docenti.
Ne conosciamo le cause – anche perché si tratta di casi vissuti come problematici già prima del Covid-19 – di fronte ai quali le strategie messe in campo dalle scuole si sono dimostrate inadeguate.
Povertà educativa – associata spesso a povertà economica, sfiducia, disagi familiari, emigrazione – hanno vanificato anche l’impegno di quei dirigenti e docenti che pure hanno teso a creare contatti personali e fornito strumenti opportuni per favorire una ‘offerta’ accettabile.

Quella vista in questi mesi, raccontata in altri termini, è l’immagine di un servizio scolastico che ancora mal si posiziona dentro una idea convinta di uguaglianza e quindi di equità ed inclusione [1].

  1. A proposito delle nuove consapevolezze da sviluppare.

Con riferimento alle emergenze riportate in evidenza dalla pandemia, la questione più immediata, che soprattutto gli istituti superiori si trovano ad affrontare prima dell’apertura generalizzata delle scuole, riguarda, come è noto, le attività previste da una specifica Ordinanza ministeriale del 16 maggio scorso (prevista dal DL n.22/2020); con la quale si fa obbligo alle scuole di pianificare tali attività, per offrire agli studenti , con la riapertura delle scuole (1 settembre), sia percorsi  ‘individualizzati’ di ‘recupero’ nelle materie in cui erano state rilevate insufficienze negli scrutini di giugno (PAI), sia attività di ‘integrazione degli apprendimenti’, che la pandemia non aveva permesso di affrontare nel secondo quadrimestre. Nell’Ordinanza, come è noto, si parla distintamente di Piani individualizzati di apprendimento (PIA), sia di Piano di integrazione degli apprendimenti (PIA).

Ma, a rileggerla – l’Ordinanza -, è difficile trovare riferimenti ad una chiara consapevolezza sulle questioni emerse, da cui far derivare impegni precisi. Consapevolezza che avrebbero richiesto, in primo luogo,  attenzione prioritaria alle risorse professionali e finanziarie  necessarie  per pianificare e organizzare gli interventi previsti.

Si ha l’impressione invece di trovarsi di fronte più a un documento volto a giustificare la scelta della promozione generalizzata degli studenti alla classe successiva – criticata da settori influenti della scuola e da fette di opinione – che di un atto di indirizzo finalizzato a evidenziare il senso dell’operazione proposta e renderne possibile la realizzazione migliore.

A riprova può essere portato il comportamento della Ministra, che dopo alcune iniziali dichiarazioni difensive su tale Ordinanza – volte soprattutto a magnificare e a nobilitare la ragione della sua scelta ‘di rigore’ – ha preferito, nelle numerose interviste e apparizioni televisive di questi mesi, puntare tutto e solo sulle questioni  della sicurezza, regalandoci descrizioni appassionate sulle diverse tipologie di metri per il distanziamento nelle scuole, piuttosto che sul tipo di banchi (si è capito che lei ama quelli a rotelle) o sul miracoloso plexiglass; o ancora – e soprattutto  – sull’algoritmo da applicare alla misurazione degli spazi, che avrebbe risolto d’emblèe, dentro le aule, e anche fuori e altrove, tutti i problemi della ripartenza.

Ovviamente – e su questo non ci piove – la sicurezza sanitaria è una condizione primaria. Ma se essa continua a essere l’unica preoccupazione, tra l’altro ingigantita in misura tale da oscurarne il senso e le finalità, allora vuol dire che qualcosa non gira per il verso giusto. Con il rischio che già i corsi di recupero e integrazione curricolare delle due prime settimane di settembre, previste dall’Ordinanza, diventino pannicelli caldi per qualche ulteriore illusione.

Tra l’altro, su tali corsi c’è in ballo una controversia Amministrazione-Sindacati che rischia di rendere ancora più incerto il clima. È di alcuni giorni fa, 26 agosto, l’Ordinanza a firma del dott. Bruschi che, a proposito dei Piani di recupero e integrazione, chiarisce che le attività in essi previste, “debbano intendersi quale attività didattica e quindi non retribuibili “con emolumenti di carattere accessorio”. ‘Alveo degli adempimenti contrattuali ordinari’ a parte, quello che non si capisce è perché, su un caso come questo, certamente destinato a introdurre in una situazione delicata e particolarmente pesante – ulteriori motivi di dissapori e conflitti, non si sia voluto puntare a chiarimenti e ricomposizione nei mesi precedenti. Tanto che uno si chiede: Ma per  casi come questi, non c’è l’ARAN – e il buon senso e l’opportunità -?

  1. Il Piano scuola 2020-2021: occasione per ridisegnare il POFT e programmare il nuovo a.s. sulle priorità evidenziate nel periodo della DaD.

Allargando poi  lo sguardo dai Piani previsti dell’Ordinanza del maggio scorso alla ripresa generale dell’attività didattica, appare evidente che l’attenzione andrebbe posta sulla ricerca di un clima di riflessione e condivisione, in primis dentro le scuole, delle consapevolezze che l’emergenza sanitaria ha sollecitato, per mettere a punto un nuovo patto formativo tra tutti gli attori in campo.

Ma la sensazione è che sembrano mancare, per una operazione di questo tipo, segnali attendibili dallo stesso Ministero. Ne è segnale, a suo modo preoccupante, il Decreto ministeriale del 26 giugno sul Piano Scuola 2020-2021.

Tale Decreto viene presentato come documento per la pianificazione delle attività per il 2020-2021, che certamente sarà ancora segnato dal COVID–19. Ma nel documento poco si colgono le aspettative – e quindi le misure e gli investimenti – che già da alcuni mesi hanno cominciato a delinearsi da più parti nel dibattitto sulla scuola.

Vi prevale invece lo stile esortativo delle migliori occasioni (“valorizzare le forme di flessibilità derivanti dall’Autonomia scolastica”, “aggiornare il POFT con i PIA e PAI”, “studiare gli accomodamenti ragionevoli” per una gestione all’altezza della situazione degli alunni con disabilità, riorganizzare, migliorare e valorizzare eventuali spazi presenti nelle scuole”); e si richiamano  e si mettono ben in fila, alla fine del documento, azioni e strumenti per la ripartenza; ma solo quelli a carico delle scuole.

Il ruolo dell’Amministrazione – la sua parte in termini di condizioni da costruire direttamente e di risorse e supporti da garantire – è visibilmente riservato invece a impegni e attenzioni sostanzialmente ordinarie. Solo nei capitoli dedicati alla Formazione e al Piano scolastico per la didattica digitale (e, in quest’ottica, al Piano scolastico per la didattica integrata) si coglie più attenzione alle condizioni richieste sui due fronti; anche se la ‘visualità’ complessiva appare ancora piuttosto miope.

Mi riferisco all’assenza di richiami alle forme stimolanti del fare formazione, previste dal Contratto Integrativo del novembre scorso, quali: la formazione tra parie dentro gruppi di approfondimento e miglioramento e attraverso attività laboratoriali, la formazione di ricerca ed innovazione didattica e la ricerca-azione.

Forme importanti perché configurano modalità formative tese 1. a sviluppare – con opportuni supporti esterni – competenze professionali soprattutto sul campo (all’interno cioè del proprio ambiente di lavoro e in coerenza coi bisogni formativi dei propri studenti); 2.  a privilegiare non solo la dimensione collegiale della formazione, ma anche il protagonismo dei soggetti coinvolti (degli insegnanti in primo luogo). Prospettiva in gran parte da costruire dentro le scuole e tra le scuole, che ripropone essa stessa l’interrogativo: “E il ruolo di indirizzo e garanzie di condizioni, da parte dell’Amministrazione Centrale?”.

Quello che comunque appare fondamentale per questi primi mesi è che il Piano scuola del 2020-2021 e il Piano di formazione di Istituto (PFI) diventino occasione speciale per dare coerenza – valorizzando al meglio gli spazi dell’autonomia – al discorso delle priorità dell’essere e fare scuola in questa fase e attrezzarsi per dargli gambe.

[1] L’ONU nell’Agenda 2030, nel suo Obiettivo n° 4, dedicato alla Formazione, scrive: “Fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.

 




Pensando alla fase tre. E la formazione in servizio?

di Antonio Valentino

1. Recuperare al più presto la normalità di prima per progettare il dopo

La priorità in questi mesi è – ovviamente – prevedere per settembre un rientro a scuola in piena sicurezza. Recuperare la normalità di prima (riportare gli studenti nelle loro classi) – seconda fase – è l’obiettivo primo da realizzare, ma anche la condizione essenziale per pensare di dar gambe a tutti quei ragionamenti di questi mesi volti a superare proprio quel tipo di normalità – quella di prima – che proprio la didattica a distanza (DaD) ha dimostrato non più sostenibile, se si vuole ridare senso e valore alla scuola.

La Didattica a distanza, adottata nell’emergenza sanitaria di questi mesi, ha dimostrato certamente – come ci siamo detto in coro – la sua utilità in questa fase, ma ha anche reso più evidenti, e pesanti per il Paese, alcuni problemi vecchi e nuovi che impongono la ricerca di risposte sensate e stringenti.

Ne richiamo schematicamente – a mo’ di promemoria – i più urgenti:

  • l’inadeguatezza del nostro sistema di istruzione a farsi carico degli studenti più fragili e svantaggiati, ben sintetizzata nelle parole di Stefano Stefanel[1], che rimanda al problema della dispersione scolastica, ma anche della povertà educativa;
  • La persistenza delle tante scuole della nostra scuola e delle diseguaglianze spesso pesanti e insostenibili tra le diverse aree del paese, che mettono in discussione il principio della scuola pubblica come bene comune e come sistema unitario;
  • La visione prevalente, almeno nella secondaria, delle materie di insegnamento come ‘compartimenti stagni’ anche dentro le attività previste per una stessa classe; con la conseguente difficoltà dello studente a cogliere, in molti casi, le linee portanti di un progetto formativo comune;
  • La riproposizione di fatto, anche nell’esperienza della DaD, di quello che Tullio De Mauro definiva Il “triangolo perdente” della nostra scuola: la lezione, l’interrogazione e il voto (ancora prevalente, anche se certamente in crisi), nel quale si annidano le ragioni dei  nostri tanti insuccessi scolastici, segnalati dalle rilevazioni nazionali e internazionali;
  • L’inadeguatezza in molte scuole (presumibilmente la maggioranza) di una cultura e una pratica digitale – e di condizioni operative (ambienti e strumenti) con esse congruenti – che non ha permesso – di tale cultura e pratica – la valorizzazione delle potenzialità straordinarie e multiformi. Il superamento di questo gap, con la riapertura delle scuole a settembre e la ripresa della didattica in presenza, diventa anch’esso condizione dei cambiamenti innovativi a cui puntare.

2.   La formazione del personale: promettente leva del cambiamento

I problemi di cui sopra rinviano in larga misura alla questione formazione in servizio del personale scolastico (detta meglio: allo sviluppo permanente e strutturale delle professionalità della scuola) su cui in tanti ci stavamo interrogando – a seguito della sottoscrizione del Contratto integrativo del novembre scorso – anche a ridosso dell’esplosione della pandemia. Che ovviamente a riproposto altre urgenze alla scuola e al vasto mondo interessato che le gira intorno.

Diventa perciò importante, nella prospettiva di una fase tre anche per la scuola (dopo la fase della chiusura di questi ultimi mesi e della riapertura a settembre), riprendere la discussione sulle diverse questioni poste dal contratto integrativo di novembre scorso, recuperando, con le novità positive con esso introdotte, i dubbi e le domande, in parte nuove, che ci sta consegnando l’esperienza drammatica di questi mesi.

Ciò significa, in primo luogo e operativamente, riconcentrarsi

  1. su idee e proposte volte a creare condizioni tali da rendere effettiva e praticabile l’obbligatorietà della formazione in servizio, su cui si era cominciato a riflettere immediatamente prima che esplodesse l’emergenza sanitaria. Fugando dubbi e perplessità;
  2. Sulle potenzialità che il Piano Formativo di Istituto (PFI) – che, come è noto, è il dispositivo, già previsto dal CCNL 2006-2009 (art. 66), che, con il nuovo contratto integrativo, recupera centralità e diventa – può diventare – documento strategico delle scuole, accanto al POFT, al RAV, al PdM e alla RS.

    3. L’obbligatorietà da costruire

Sul primo punto, la ripresa di ragionamenti precedenti l’epidemia, riporta in primo piano,  la previsione – in molte riflessioni – di una risorsa oraria dedicata e vincolante per le scuole e per il personale come l’ipotesi forse più interessante e promettente. Ovviamente, a determinate condizioni.
Una tale previsione infatti – la risorsa oraria specifica definita contrattualmente – si configurerebbe come il segnale più chiaro ed evidente di discontinuità rispetto ad un passato in cui hanno pesato ambiguità e corporativismi; ma soprattutto significherebbe esplicito riconoscimento dell’importanza di questa attività per la vita delle scuole e del sistema in generale. È da considerare anche che le scuole e il suo personale vedrebbero accresciuti così apprezzamento e considerazione sociale, importanti per rimettere istruzione e formazione al centro delle attenzioni del Paese e ridare prestigio al lavoro nelle scuole.
Il problema grosso, già vissuto con il contratto del ’99 (quello dei gradoni) e che va assolutamente evitato, è ovviamente quello di non finire invischiati in un obbligo assolutamente formale che ne opacizzerebbe il senso e il valore.

L’interrogativo è come.
È da ritenere al riguardo che una ipotesi in linea con l’autonomia scolastica è quella di rimettere al CD la scelta – e la responsabilità (ovviamente da chiarire e precisare) – di quantificare tale risorsa oraria in coerenza con un PFI costruito in sintonia con gli altri documenti strategici della scuola (PTOF, PdM, RS). Quindi, una risorsa oraria congruente con la realizzazione del POFT di scuola e con gli output in essi previsti (gli specifici comportamenti professionali attesi in uscita) per il superamento delle difficoltà concretamente prevedibili[2].

4. Per un PFI di valore strategico

Sul secondo punto, ovviamente legato a quello precedente, la riflessione che qui si propone più distesamente riguarda alcuni nodi da sciogliere per articolare, con l’inizio del prossimo anno scolastico e con una prospettiva a medio termine, un PFI che, deve in prima battuta, farsi carico delle questioni più impellenti che la l’emergenza sanitaria ha determinato e la DAD ha fatto emergere
L’interrogativo di partenza, per un approfondimento dei nodi e dei problemi sul PFI, potrebbe essere così formulato: Come saldare il problema della formazione in servizio – che le scuole e l’Amministrazione sono chiamate ad assicurare – con una prospettiva di rinnovamento che tenda a rimuovere le criticità radicate del nostro sistema, sopra parzialmente richiamate.

Per economia di discorso, le considerazioni seguenti intendono limitarsi alle responsabilità / opportunità che hanno le scuole sulla questione formazione; e quindi alla messa a punto di una cornice di riferimento e di qualche idea aggiuntiva, per un PFI che si collochi nella prospettiva indicata.

Prospettiva che obbliga le scuole a interrogarsi preliminarmente soprattutto su tre nodi problematici, che mi sembrano particolarmente importanti per le loro implicazioni su visioni e strategie auspicabili per migliorare la qualità del fare scuola.

5. Nodi e ipotesi di lavoro.

La dimensione temporale.
Il primo – solo in apparenza di poco peso – si riferisce al respiro temporale del PFI e pone le scuole davanti alla scelta tra un PFI annuale o triennale. Scelta non da poco, perché chiede di decidere – avendone chiare le implicazioni – soprattutto se: 1. scandire/distribuire l’offerta complessiva di formazione in servizio sul singolo anno scolastico (come sembra suggerire il CCNI di novembre, contraddicendosi); o se 2. privilegiare, in coerenza col PTOF, un PFI triennale – tra l’altro previsto dal comma 125 della L. 107/2015 -, specificando, per la singola annualità, obiettivi formativi e attività.

Quello che andrebbe a mio avviso considerato, per una scelta che guardi oltre, è che il Piano di formazione di scuola scandito sul triennio, consente di avere una vista più lunga sull’intero processo, e quindi: 1. di suggerire la collocazione più opportuna e mirata sia delle varie iniziative di scuola e ministeriali, sia di altre agenzie accreditate; ma anche la loro armonizzazione; 2. di ritagliare e ridefinire annualmente obiettivi formativi e attività, ipotizzandone però sviluppi ed espansioni, in coerenza coi processi attivati e favorendo progressività e unitarietà sostanziale dell’offerta formativa.

Va aggiunto che un PFI scandito sul triennio consente anche 3. di sviluppare una cultura progettuale dallo sguardo lungo, che assuma a riferimento i traguardi formativi dei diversi cicli e ne ridefinisca / ne rimoduli gli obiettivi formativi in itinere.

Dimensione collegiale e dimensione individuale
Il secondo nodo riguarda la strategia che si intende privilegiare tra la dimensione individuale e quella collegiale della formazione.
Si tratta di chiarire al riguardo se: 1. l’obbligo possa essere assolto anche solo attraverso modalità di autoaggiornamento individuale sulla base di esigenze ed opzioni personali (Il Contratto non mi sembra dica parole chiare in proposito).
Oppure se: 2. la dimensione collegiale (condividere l’esperienza formativa – soprattutto nelle modalità innovative previste nel Contratto integrativo[3]) sia una priorità fondamentale per un PFI funzionale al POF di scuola.
Ovviamente privilegiare quest’ultima modalità non significa impedire, anche se in misura da definire, forme di autoaggiornamento e autoformazione, tra l’altro previste anche nel Contratto di novembre[4].

Forme e soggetti della formazione
Un terzo nodo o, se si preferisce in questo caso, una terza area di approfondimento e chiarimenti, riguarda le forme e i soggetti della formazione.

Rispetto ai soggetti, il Contratto chiarisce, come è noto, che sono:

le scuole che singolarmente o in reti di scopo progettano e realizzano le iniziative favorendo anche la collaborazione con le Università, gli Istituti di ricerca, e con le Associazioni professionali qualificate e CON gli Enti accreditati ai sensi della Direttiva n.170/2016;
l’amministrazione centrale e regionale, con il coinvolgimento delle scuole polo, per le iniziative di formazione in servizio a carattere nazionale e pe le azioni di sistema;
singoli docenti o gruppi di essi, a cui si riconosce, come si è già visto, diritto di autoformazione e aggiornamento su esigenze e opzioni individuali, ma che sono comunque tenuti a precisare le caratteristiche delle attività e le modalità di attestazione.

Ma precisa anche – il Contratto – che Il piano di formazione d’istituto è realizzato in coerenza a. con gli obiettivi del PTOF, b. con le priorità nazionali, c. con i processi di ricerca didattica, educativa e di sviluppo.
Quanto alle forme – per le quali si registra la parte più nuova, per la prima volta, in un contratto sulla formazione, si fa riferimento a: formazione tra pari, di ricerca ed innovazione didattica, di ricerca-azione, di attività laboratoriali, di gruppi di approfondimento e miglioramento.
Forme che – mi pare di poter sottolineare – tendono chiaramente a privilegiare non solo la dimensione collegiale della formazione, ma anche il protagonismo dei soggetti interessati.

6. Formazione sul campo e comunità di pratica

A quest’ultimo proposito, va riportato in primo piano una modalità che, per quanto non esplicitamente menzionata, è comunque coerente con le indicazioni del contratto e ne potenzia il valore.
Il riferimento è alla formazione situata (o sul campo)[5]. Che si caratterizza rispetto alle altre forme perché guarda specificamente alla scuola come ‘il luogo’ prioritario – anche se non unico – in cui  le problematiche della formazione – ovviamente anche quelle sollecitate dalle priorità del Piano Nazionale per la formazione del personale – possono immediatamente misurarsi con la concretezza delle situazioni con cui si ha a che fare; e di farlo con colleghi con i quali ci si trova a viverli in prima persona[6].

Se infatti qualificare la formazione e ridarle appeal e senso sono in questa fase le carte vincenti, si tratta in primo luogo di liberarla dagli schemi organizzativi che l’hanno resa inappetibile – ma anche inutile e demotivante – per collegarla contestualmente:

– allo sviluppo, in primo luogo, di competenze (interazione e cooperazione in primo luogo vs individualismi e autoreferenzialità) che valgano a gestire le concrete difficoltà di fare scuola ogni giorno, in questa fase di grandi trasformazioni e capovolgimenti; favorendo la connessione tra formazione e luoghi di lavoro (i CdC, I dipartimenti, i gruppi di progetto eccetera, opportunamente sostenuti e orientati, ove il caso, da personale esperto e qualificato); è in questi ultimi, infatti, che i problemi e le difficoltà si toccano con mano e interrogano le esperienze e la cultura del gruppo, e anche le competenze di ciascuno.

In altri termini: i luoghi di lavoro collegiale pensati, strutturati e gestiti come ambienti anche di formazione -autoformazione.

Una articolazione dei Collegi[7] in Comunità di pratiche educative (rileggere con Wenger, Shon, e Sergiovanni[8] ) potrebbe essere una tappa importante in un progetto di costruzione di comunità professionali e quindi di comunità scolastiche all’altezza del loro compito.

NOTE

[1] V. tra gli altri, Stefano Stefanel in ”Alcune note sulla Didattica a distanza, in “Nuovo Pavone Risorse”, 28 marzo 2020: “… una cosa è certa: sono gli studenti più deboli, svogliati, assenteisti che hanno maggior bisogno della Didattica in presenza, cioè della “vecchia scuola… Già deboli dentro un sistema cooperativo e comunitario [quello della vecchia scuola], questi studenti sono dispersi nel web e nelle loro lacune, dentro uno sfondo che non li ha dotati di competenze sufficienti per reggere l’urto della scuola in presenza, immaginarsi cosa gli sta succedendo nella scuola a distanza. Il corsivo è mio.

[2] (V. sulla proposta del monte ore potenziato: Antonio Giacobbi, Formazione in servizio: nodi non risolti, in “Scuola7”, 3 febbraio 2020, n. 170).

[3] La dimensione collegiale è evidente nelle modalità indicate di formazione tra pari, di ricerca ed innovazione didattica, di ricerca-azione, di attività laboratoriali, di gruppi di approfondimento e miglioramento, che rinviano ad attività di segno cooperativo all’interno della singola scuola o tra scuole in rete.

[4] Per evitare fraintendimenti, un necessario chiarimento: l’autoformazione individuale e l’autoaggiornamento personale e sono ovviamente cose buone e giuste e ciascuno le potrà coltivare attraverso le cento occasioni che si offrono a livello di territorio o nazionale, sia da parte dell’amministrazione che dell’associazionismo professionale o di altre agenzie e utilizzando il bonus prima richiamato.
Ogni formazione passa necessariamente attraverso momenti importanti e decisivi di rielaborazione e metabolizzazione individuale dei processi formativi, quali che siano i luoghi e i modi dei vari percorsi.
Quello che si vuol dire è che la formazione del personale in servizio dovrebbe soprattutto favorire e valorizzare la dimensione collegiale del lavoro docente e strategie comunicative e didattiche che si fondano sulla cooperazione e interazione di gruppi che hanno obiettivi formativi comuni e interagiscono con gli stessi gruppi di adolescenti.

[5] Da considerare, almeno qui, sinonimi.

[6] La teoria di riferimento – Community of Practice – è di Etienne Wenger, elaborata negli anni ’90 assieme ad altri studiosi e ricercatori. Ne sono fondamento l’apprendimento ‘situato’ (Situated Learning) e l’apprendimento attraverso ‘il fare’ (Learning by doing).  Dell’ampia bibliografia sull’argomento, si leggono con particolare interesse: “Ricostruzioni di indagini e studi” in Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, Raffaello Cortina 2006. Sua è l’espressione Reflective Learning. Utili anche: V. anche L. Mortari, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci Editore, 2011 e C. Mion, Comunità professionale dei docenti. Riferimenti teorici e pratici in “Atti Convegno Dirigenti scolastici Flc Cgil”: “La dirigenza scolastica tra questioni aperte e nuove complessità organizzative”, Napoli 3-4 maggio 2012, Edizioni Conoscenza.

[7] V. anche al riguardo, GC Cerini, Le nuove responsabilità del Collegio dei docenti nel piano di formazione di istituto – Scuola7 del 2 dicembre 2019.

[8] D. Shon, Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993; T. Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, LAS 2000.




Ma la DaD è Scuola? Riflessioni pensando a settembre

rete_numeridi Antonio Valentino

Il dibattito in questa fase

Mentre continuano discussioni e polemiche tra gli addetti ai lavori su questioni nodali (concorsi, la sicurezza sanitaria da garantire a settembre con l’inizio del nuovo anno scolastico, il problema delle aperture per materne ed elementari …), il dibattito – sia su come prepararsi a superare le criticità che la situazione di emergenza ha messo sotto lente di ingrandimento e ulteriormente inasprito, sia su quali priorità contare per rinnovare la scuola – non fa emergere ancora un’agenda capace di dare senso e direzione di marcia alle misure da mettere in cantiere per iniziare al meglio il prossimo anno scolastico.

Il motivo di fondo è che certamente l’epidemia continua ancora a seminare ansie, paure e dubbi e quindi incertezze che non aiutano a costruire ipotesi e proposte su cui lavorare. Eppure è questo il momento da cogliere, se si vuole superare definitivamente la fase 1 che continua ancora a condizionarci, puntando in primo luogo a verificare tutte le possibilità per riaprire le scuole quanto prima – ovviamente in piena sicurezza – e riprendere così, su basi possibilmente diverse e con nuove consapevolezze, il cammino sostanzialmente interrotto agli inizi di marzo.

C’è stato un gran parlare in queste settime soprattutto di didattica a distanza e di formazione digitale del personale scolastico: articoli un po’dovunque, webinar, interventi in rete di esperti, promossi da associazioni professionali e riviste telematiche.

I ragionamenti che abbiamo letto al riguardo possono essere ricondotti, volendo tagliare le diverse posizioni con l’accetta, sostanzialmente a due:
– quella che guarda alla Didattica a Distanza (DaD) – che non aveva certamente alternative credibili almeno nei primi mesi di questa emergenza – come la modalità di fare scuola di fatto intercambiabile con le attività di insegnamento /apprendimento in presenza. E questo per le potenzialità che le tecnologie digitali indubbiamente le offrono;
– quella che mette in evidenza le derive tecnicistiche che la didattica da remoto comporta e i rischi che si avvertono dietro l’angolo per l’insegnamento in presenza, che fa invece della socialità e della relazione tra i soggetti coinvolti due degli aspetti meglio connotanti della formazione scolastica.

Preoccupazioni e timori, questi ultimi, che si sono colti anche recentemente nella Lettera – appello di 16 intellettuali (promotore il prof Cacciari), pubblicata sulla Stampa del 18 maggio.
Il Ministero invece è sembrato sostanzialmente concentrato a cercare soluzioni per i problemi legati alle scadenze di questa particolarissima fine di anno scolastico, senza avere una bussola affidabile volta a recuperare un minimo di normalità del fare scuola, riaprendo le scuole con la dovuta gradualità e con le attenzioni e le sicurezze del caso. Come è invece avvenuto, almeno dall’ultima decade di aprile, in quasi tutti i paesi europei con condizioni sanitarie analoghe alle nostre. Da noi questa opzione non è stata mai presa in considerazione seriamente dalla Ministra, essendo stati sottovalutati problemi e danni, da più punti di vista, soprattutto per gli studenti delle scuole dell’infanzia e del primo ciclo.

Le tante ordinanze, che continuavano a cambiare settimanalmente, hanno finito con l’assorbire tutte le energie della Ministra e del suo staff, costringendo gran parte del mondo della scuola a corrervi dietro affannosamente.

Così, sono rimasti ‘appesi’, come i caciocavalli di Benedetto Croce

  • su quale ripartenza in grado di assumere e approfondire domande e problemi che l’esperienza della Didattica a distanza – DaD – ha fatto emergere,
  • sulle condizioni a cui lavorare, a partire dagli ambienti scolastici da adeguare e attrezzare,
  • su quali priorità puntare, pensando soprattutto al personale che si renderà necessario a settembre, possibilmente non in condizione di perenne precarietà, come è successo finora.

Didattica a distanza e insegnamento in presenza: un po’ di chiarezza

A proposito di didattica a distanza, su cui si è concentrato soprattutto il dibattito dentro e fuori il mondo della scuola, si vogliono qui riprendere alcuni suoi aspetti connotanti, al netto delle difficoltà e dei problemi iniziali e delle approssimazioni e carenze delle prime settimane.

La prima cosa che viene da dire – l’hanno detta in tanti, ma va ri-sottolineata – è che la DaD in questa emergenza ha permesso di assicurare un minimo di continuità didattica e anche di tenere vivo un rapporto di vicinanza, di attenzione, di cura nei confronti degli studenti e delle famiglie. E ciò grazie alla dedizione e generosità della stragrande maggioranza dei nostri insegnanti e dirigentiche hanno lavorato in mezzo a mille difficoltà e problemi. E, sotto questo profilo, la DaD è una esperienza indubbiamente apprezzabile.

Va però aggiunto – e non sia letta questa annotazione come una sottovalutazione del lavoro svolto dalle scuole – che le tecnologiedigitali, che sono certamente oggi la risorsa tra le più innovative anche per i sistemi di istruzione, sono state di fatto utilizzate, in molti casi, all’interno di schemi di significato [1] (ridotti all’osso: lezioni soprattutto frontali, compiti da svolgere individualmente, verifiche e votazione) che ci parlano di una scuola che guarda per molti versi ancora all’indietro, perché ancora non permeata adeguatamente dagli studi, dalle ricerche ed esperienze che negli ultimi decenni hanno interessato il mondo della scuola (si pensi agli apporti delle neuroscienze, agli studi della scuola come comunità e come organizzazione, alle tecnologie nella didattica eccetera). E che ci spiegano i risultati molto deludenti delle rilevazioni nazionali e internazionali sugli apprendimenti dei nostri adolescenti.

Così la percezione diffusa è che sia ancora prevalsa, nell’esperienza della DaD – né d’altra parte ci si poteva aspettare altro – la scuola del programma – meglio dei programmi strettamente disciplinari, che non si parlano, non si raccordano -; e, con essa, l’insegnamento sostanzialmente trasmissivo, frontale, e una pratica didattica in cui l’idea di comunità professionale dei docenti è ancora merce rara. Soprattutto in molte realtà della Secondaria.

La consapevolezza di tali aspetti prevalenti avrebbe dovuto almeno impedire alla nostra Ministra di parlare – come pure ha fatto – di successo della DaD, quasi a significarne la esemplarità anche per situazioni non emergenziali: la qual cosa induce ad essere vigili rispetto ad orientamenti futuri di politica scolastica che possano offuscare, e di molto, l’idea condivisa che sta dietro alla didattica in presenza e che da sempre caratterizza la scuola ‘democratica’ fin dalle sue origini.

E cioè che la scuola

  • è relazione non virtuale di studenti tra di loro e con insegnanti e personale adulto che li hanno in cura, all’interno delle classi e in gruppi e spazi specifici,
  • è reciprocità, cioè insieme di rapporti che si concretizzano in gesti, linguaggi, comportamenti concreti, ispirati al principio del rispetto (reciproco, appunto) di prerogative e ruoli e responsabilità che la abitano (la scuola, intendo),
  • è, detta in altri termini, il luogo degli insegnamenti e insieme degli apprendimenti in cui si impara / ci si forma, ascoltando, partecipando fisicamente, collaborando, aiutandosi; anche attraverso errori, incertezze, sbagli – e i gesti e gli sguardi che li esprimono – di tutti i soggetti coinvolti, insegnanti compresi.

Il riferimento a questi che non so se chiamare principi o valori, non significa affatto che alcuni aspetti valorizzati nella DaD non possano / debbano valere nella didattica in presenza: come, ad esempio, il colloquio a distanza o la condivisione di materiale di didattico – come ci insegnano le pratiche della Flipped Classroom – o l’utilizzo di piattaforme che possano accelerare la trasmissione e la comprensione di messaggi o contenuti formativi …..
Quello che si vuol dire è che questa modalità non può in alcun modo surrogare la ragione sociale della scuola come luogo dell’incontro, della socialità, della relazione ‘materiale’ degli adolescenti tra di loro e con i loro insegnanti, per sviluppare – sia detto fuori di ogni retorica – i saperi e le competenze di cittadinanza che sono alla base del vivere civile.

Ancora due sottolineature per chiudere sul punto.

La prima: che la DaD non si è sviluppata allo stesso modo in tutte le scuole della Repubblica, come risulta dalle molte esperienze di cui abbiamo letto e sentito. E che quindi, il giudizio complessivo sul valore di questa esperienza non può essere appiattito in modo generalizzato su un unico livello.
La seconda: che, per un giudizio complessivo da cui derivare indicazione utili, il discorso andrebbe portato anche sugli interrogativi che passano attraverso gli studenti e le loro risposte a questa nuovo tipo di ‘offerta formativa’: interrogativi e risposte – di cui sappiamo ancora poco e quel poco, attraverso il web soprattutto, ci racconta cose che fanno molto pensare – che richiedono comunque analisi e riflessioni a parte.

 Su alcune priorità della ripartenza

Volendo allargare il quadro, per un discorso di prospettiva, proprio su alcune delle criticità sopra evidenziate, varrebbe la pena richiamarci in primo luogo, quali che siano gli scenari entro cui le scuole saranno chiamate ad operare:

1.   che – ripetita iuvant – nessun progetto di innovazione sensata della nostra scuola può prescindere a. da una formazione del personale strutturale e permanentee non solo sulle tecnologie informatiche – e b. da un’idea di scuola come organizzazione che apprende / cresce / si sviluppa mentre fa quello che è chiamata a fare. Idea che rinvia sia ad una formazione del personale che sappia svilupparsi anche sul campo, sia a luoghi della formazione pensati come comunità di pratiche;

2. che va impostato su basi diverse il discorso dell’autonomia scolastica, per farla uscire definitivamente dal suo stato di minorità e farla diventare finalmente adulta; e che l’impegno perché la progettazione – che dell’autonomia è pietra angolare – diventi strategia diffusa a tutti i livelli, non può essere legato a interventi ordinari;

3. che in questa fase è particolarmente importante sviluppare nella conduzione delle organizzazioni scolastiche una leadership “plurale” attorno alla figura del DS; figura che, opportunamente liberata da adempimenti e responsabilità ad essa estranei, è chiamata, nella situazione attuale – oltre ad assicurare le condizioni sine qua non di una ripartenza in sicurezza – ad esercitare, assieme ai suoi collaboratori e alle altre figure di organizzazione dell’Istituto, soprattutto funzioni di promozione di iniziative e attività, e insieme di cura della formazione del personale, leva principale del cambiamento [2].

—————————————————————- 

[1] Vale la pena richiamare, anche se in nota, la lezione di Jack Mezirow (in “Apprendimento e trasformazione”, Cortina 2016: “…. gli insegnanti generalmente rifuggono dall’auto-interrogazione autentica sulla propria professionalità, faticando moltissimo ad allontanarsi dai modelli comportamentali dei propri docenti, acriticamente assunti quando ricoprivano il ruolo di allievi….
Sono questi schemi di significato che reggono le nostre convinzioni e i sentimenti soggiacenti. (…) Questi schemi antichi di significato resistono nel tempo e rendono difficile poi negli adulti, soprattutto già professionalizzati, l’apprendimento trasformativo. Tale consapevolezza dovrebbe spingere a prefigurare percorsi formativi in cui il superamento critico dello schema antico, assorbito nel proprio vissuto di studente, è un punto di partenza obbligato.”

[2] Rispetto a quest’ultima funzione, può essere importante per esempio, anche collegandoci al primo punto: a. che il Piano Formativo di Istituto (PFI), possibilmente di respiro triennale – e quindi con uno sguardo lungo -, sappia cogliere in primo luogo i nuovi bisogni formativi dei docenti che l’esperienza di questi mesi di emergenza sanitaria ha riproposto in tutta la loro urgenza, e b. che a livello di scuola si sperimentino iniziative e attività formative più motivanti – ad esempio, per articolazioni più consistenti del Collegio (dipartimenti di materie considerate affini, dipartimenti di indirizzo nelle scuole superiori, consigli di classi orizzontali ….) – così da favorire lo sviluppo di comunità di pratiche, oltre che una diversa e più promettente idea di collegialità.entre continuano discussioni e polemiche tra gli addetti ai lavori  su questioni nodali (concorsi, la sicurezza sanitaria da garantire a settembre con l’inizio del nuovo anno scolastico, il problema delle aperture per materne ed elementari …), il dibattito – sia su come prepararsi a superare le criticità che la situazione di emergenza ha messo sotto lente di ingrandimento e ulteriormente inasprito, sia su quali priorità contare per rinnovare la scuola – non fa emergere ancora un’agenda capace di dare senso e direzione di marcia alle misure da mettere in cantiere per iniziare al meglio il prossimo anno scolastico.