A proposito di autonomia funzionale e PNRR, caro Stefanel, ti scrivo… .

di Antonio Valentino

  1. La prima delle tre parti dell’articolo di Stefanel[1], pubblicato qualche giorno fa su questa Rivista, si conclude, dopo aver elencato la maggior parte degli investimenti del PNRR per la scuola (PNRR “Dispersione e divari territoriali, PNRR Classroom e Labs, Docenti Tutor, Piano Nazionale Scuola Digitale – STEAM, Poli Formativi per la transizione digitale  ….), con le seguenti considerazioni: “…. ritengo che le tempistiche [dei vari investimenti] siano mal modulate, le finalità non sempre chiare e l’impianto piuttosto debole nella sua strutturazione didattica e contorto in quella economica e gestionale.” Considerazioni che ho letto come una sostanziale bocciatura dell’operato ministeriale.

La seconda parte vira invece specificamente sulle questioni della natura e della gestione del sistema scolastico nazionale e introduce la problematica dell’autonomia scolastica, definita ‘funzionale’ nel Regolamento dell’Autonomia[2] e ne richiama la differenza rispetto alle autonomie locali. E questo perché l’autore dell’articolo ritiene che la ‘debole comprensione’ di tale differenza porti molti ds, docenti e dsga a pensare “ che lo stato debba negoziare con le autonomie funzionali [tra cui la Scuola] i suoi obiettivi di sistema [essendo queste] deputate a sviluppare, nella realtà locale in cui operano, gli obiettivi del sistema”.

Considerazione che lo spinge a pensare che anche i progetti e gli investimenti del PNRR, che rispondono a obiettivi di sistema (volti a superarne difficoltà e criticità) difficilmente potranno andare a buon fine in quanto sono destinati ad essere neutralizzati – semplifico sperando di interpretare correttamente l’assunto di Stefanel – da quegli insegnanti che non vogliono sottostare ad essi in nome dell’autonomia funzionale. E continuare quindi – tali insegnanti – in una “pratica didattica ancora trasmissiva e cartacea che ormai non ha uguali nel mondo”  e ad una pratica valutativa che li rende “paladini dei voti bassi e delle bocciature in nome della libertà d’insegnamento, considerata come un bene assoluto del docente”.

La cosa che lascia più perplessi – e increduli – quanti conoscono Stefanel anche solo attraverso le cose che scrive, è che i paladini, tra l’altro ‘numericamente consistenti’ sarebbero tutti docenti di sinistra.  (Ohibò!)
Da ciò soprattutto dipenderebbe la situazione particolarmente allarmante di questa fase; e sotto accusa sono quanti si opporrebbero alle misure previste dal Piano nazionale scuola nel PNRR, sempre in nome dell’autonomia funzionale.
Accusa richiamata ancora all’inizio della terza parte, che riporta specificamente alcune  proposte sui nodi dell’organizzazione scolastica (dagli organici all’orario di lavoro dei docenti, …,); qui non riprese (per quanto interessanti), perché esulano dalle ragioni di queste note.

  1. Ritorno a questo punto alle valutazioni complessive che Stefanel dà dei progetti e degli investimenti messi in campo dal Piano Scuola del PNRR e decisi in autonomia dal Ministero, seppur dentro le linee operative convenute a livello europeo; giudizi, come si è già detto, decisamente pesanti  sotto ogni aspetto  (finalità, impianto, tempistiche).

D’altra parte,  i  progetti e gli investimenti del nostro Piano Nazionale sono tutti – di fatto – farina del sacco del Ministero, perchè non c’è stata nessuna negoziazione sugli stessi per quanto è dato sapere con le Associazioni professionali della scuola, né con i sindacati.  Le piattaforme ministeriali per la gestione dei progetti sono infatti rigorosamente costruite secondo i decreti del Ministro e le Note esplicative.
(Resta comunque da capire se questo modo di procedere sia in assoluto il migliore. Personalmente, a conti fatti, ho più di un dubbio).

  1. C’è quindi qualcosa che non torna nei ragionamenti fatti nell’articolo. D’altra parte, sempre più numerose e autorevoli voci evidenziano che, se i progetti targati PNRR non vanno avanti o procedono con enorme difficoltà e lentezza, il vizio di fondo dell’intera operazione è molto probabilmente la troppa carne messa al fuoco: troppa la carne e debole il fuoco.

Ma c’è anche dell’altro, e ben lo fa capire lo stesso Stefanel attraverso il suo giudizio sull’operazione in corso.
Si respira infatti nella formulazione dei progetti, soprattutto in quelli in cui i protagonisti dovrebbero essere le scuole, un’aria di improvvisazione, di mancanza di un’idea credibile di scuola, di leggerezza – in senso non proprio calviniano – in dosi decisamente ragguardevoli.

Vogliamo ricordare, facendo focus sui Decreti e sulle Note operative che li accompagnano, che il Ministro ha cominciato a parlare di PNRR con la continuità e l’impegno che l’operazione richiedeva, solo a partire dal febbraio scorso? E che nei lunghi mesi precedenti – in tutte le interviste (numerosissime), in tutte le apparizioni in tv e ne convegni (idem) e in tutte le sue autopromozioni (come sopra) – le sue parole d’ordine erano solamente merito e talento a cui si è aggiunta, alla fine di gennaio, anche competizione[3]?

Temi e questioni cari al ministro, che, come è noto, sono in tutta evidenza al centro delle attenzioni e dell’interesse di insegnanti e dirigenti!
E se passiamo dalle parole d’ordine ai suoi argomenti preferiti, troviamo, in ordine cronologico, l’uso dei telefonini in classe, la disciplina e l’ordine nelle scuole e ultimamente le grandi rivoluzioni delle sue riforme e se stesso come il grande rivoluzionario.

Ancora una considerazione: l’impegno sul PNRR delle Direzioni scolastiche regionali, quale è stato?  Chiedere ai Ds.  Caso, questo, da manuale di quanto i comportamenti dei superiori facciano testo (definiscano i comportamenti dei dirigenti sottostanti) soprattutto nelle articolazioni funzionali della Pubblica Amministrazione.

  1. Comunque il messaggio implicito di Stefanel, rispetto ai progetti e alle riforme del PNRR, non mi sembra in nessun modo che sia quello di lasciar perdere. Gettare la spugna in questo momento, e lui lo sa bene, sarebbe sbagliato e perdente e creerebbe, in Europa, discredito per il nostro Paese – che pure è risultato favorito, con una qualche ragione, nell’attribuzione delle risorse finanziarie -; ma anche e soprattutto per lo stesso mondo della scuola.

Con riferimento ai contenuti immediatamente procedenti – e cambiando registro espressivo per una comunicazione più diretta – penso potrebbe essere utile a questo punto, caro Stefanel, individuare e condividere le leve su cui potrebbe essere utile puntare per un recovery volto a contrastare le più forti criticità della nostra scuola. Assumendo ovviamente a riferimento, soggetti come l’Associazionismo professionale – o almeno alcune sue parti – e le organizzazioni sindacali disponibili.
Per esempio, caro Stefanel, io penso – e credo che ne convieni – che costruire un protagonismo ad ampio raggio di docenti e Ds – un po’ come è avvenuto in molte realtà del Paese durante la pandemia – è in questa fase (e non solo) la prospettiva da privilegiare e coltivare: per quando riguarda sia la realizzazione dei progetti in atto, sia l’attenzione, nell’intera operazione PNRR, all’idea di miglioramenti sensati e possibili delle attività in corso.

Protagonismo necessario e particolarmente importante anche nei percorsi di formazione previsti,  che tu richiami opportunamente nella prima parte del tuo articolo: una grande opportunità che può diventare tale a certe condizioni (che anche tu implicitamente richiami), quali:
– una loro distribuzione sensata nei prossimi tre anni (affollamenti e indigestione sarebbero letali);
– una organizzazione dei percorsi formativi centrata su metodologie attive come la ricerca azione e/o le pratiche laboratoriali;
– far rivivere le esperienze di formazione e condividerle (e questo è un aspetto per alcuni versi decisivo) all’interno dei consigli di classe, dei dipartimenti e delle commissioni di lavoro; da vivere – queste aggregazioni – come ‘comunità professionali di pratica’.

Sono sicuro anche che sarebbe facile condividere, in questa operazione, un ruolo attivo di  tutte le Associazioni Professionali della scuola che più sono interessate alla dimensione cooperativa del lavoro scolastico e alla sua liberazione da culture e pratiche formative ormai insensate; pratiche che oggi sono spesso causa non irrilevante del mal di scuola[4], a cui vanno ricondotte  le criticità più pesanti di cui soffrono le nostre scuole e i nostri studenti. E anche i nostri insegnanti e ds.

[1] S. Stefanel, Autonoma differenziata, autonomia delle scuole, PNRR

[2]DPR 275/1999, Art.1 (Natura e scopi dell’autonomia delle istituzioni scolastiche) 1.Le istituzioni scolastiche sono espressioni di autonomia funzionale e provvedono alla definizione e alla realizzazione dell’offerta formativa, …. A tal fine interagiscono tra loro e con gli enti locali promuovendo il raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali e gli obiettivi nazionali del sistema di istruzione. 2. L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione….

[3] Lanciata all’interno  del Programma annuale per la valorizzazione delle eccellenze (Avviso M.I.M. del 25.01.’23, n. 2437).

[4] Mal di scuola è il titolo di una pubblicazione di Piero Romei – La Nuova Italia editrice – negli ultimi anni del secolo scorso.




L’orientamento scolastico e professionale, in salsa ‘Valditara’. E oltre

di Antonio Valentino

  1. “La grande rivoluzione del merito”, annunciata dal Ministro a tambur battente a fine marzo, si è materializzata nelle sue linee portanti il 5 aprile col Decreto n. 63 e con la Circolare ministeriale, stessa data, con oggetto: Avvio delle iniziative propedeutiche all’attuazione delle Linee guida sull’orientamento[1] – A.S.2023-2024 (sottotitolo: Il tutor scolastico: prime indicazioni).

Dal Decreto si derivano essenzialmente queste indicazioni:

  • si destinano 150 milioni di euro alle istituzioni scolastiche statali del II ciclo di istruzione e più precisamente alle ultime tre classi -, per ‘valorizzare’ l’impegno dei docenti chiamati a svolgere la funzione di tutor e di orientatore”.
  • si precisano i requisiti dei docenti interessati per l’accesso alla formazione – a carico dell’Indire e per la durata di 20 ore -: condizione per svolgere le funzioni delle due figure;
  • si prevede che le iniziative da mettere in campo siano destinate alle classi del secondo biennio e dell’ultimo anno del Secondo Ciclo e che le figure saranno attive a partire dal prossimo anno scolastico.

La Circolare Ministeriale definisce invece in modo particolare le cose fondamentali che c’è da sapere: gli obiettivi dell’orientamento, le attività che devono svolgere le due figure e la consistenza dei raggruppamenti di studenti destinatari delle attività proposte; la consistenza come criterio per il compenso alle due figure.

  1. Quanto agli obiettivi dell’operazione, si precisa che sono: (a) rafforzare il raccordo tra il primo e il secondo ciclo di istruzione e formazione, per permettere una scelta consapevole che valorizzi le potenzialità e i talenti degli studenti e, inoltre, (b) contribuire alla riduzione della dispersione scolastica e dell’insuccesso scolastico e (c) favorire l’accesso alle opportunità formative dell’istruzione terziaria”.

    Obiettivi sostanzialmente condivisibili se solo non evidenziassero una vistosa incongruenza.
    Praticamente si dice: obiettivo urgente e prioritario è il raccordo tra la secondaria di primo grado e il biennio successivo – per le ragioni a tutti note -, ma il decreto prevede  di intervenire prioritariamente sulle ultime tre classi della secondaria. Così. Un arcano

  1. Rispetto poi alle attività del docente tutor, le stesse che di fatto assorbono quelle più significative nei percorsi di orientamento, sono ricondotte alle seguenti due:
  • aiutare ogni studente a rivedere su una apposita piattaforma[2]digitale unica”…., le parti fondamentali che contraddistinguono ogni E-port-folio personale (cioè percorso di studi; sviluppo delle competenze; a sviluppare riflessioni “in chiave valutativa, auto-valutativa e orientativa sul percorso svolto e, soprattutto, sulle sue prospettive”; a provvedere alla “scelta di almeno un prodotto, riconosciuto criticamente dallo studente come il proprio ‘capolavoro’ (sic!)”. E questo, per ciascun anno scolastico e formativo,
  • “costituirsi consigliere delle famiglie” nei momenti di scelta dei percorsi formativi o delle prospettive professionali dello studente.

Il docente orientatore si farà invece carico di “gestire i dati forniti dal Ministero   preoccupandosi “di raffinarli [ohibò] e di integrarli con quelli specifici raccolti nelle differenti realtà economiche territoriali e metterli a disposizione di docenti, famiglie e studenti”. Una figura praticamente “a sostegno dell’orientamento”, come si legge nella Circolare più volte citata.

La cosa, anche qui, un po’ strana e misteriosa, è la denominazione delle due figure: il docente che svolge tutte le funzioni tipiche dell’orientatore/di orientamento viene chiamato tutor e chi raccoglie dati dalla piattaforma dedicata e li ‘raffina’ (!) e li integra e li diffonde tra docenti e genitori, lo si chiama orientatore. Mah!

  1. Però ai fini di una funzionalità sensata dell’intera operazione, l’aspetto che pone più interrogativi è il numero delle risorse professionali da mettere in campo. Il Ministro nell’ultima intervista al Corriere, dove preannunciava “la grade rivoluzione del merito”, declamava trionfalmente che “sono in arrivo 100.000 tutor”. Una cifra impressionante e sorprendente, con un sottotesto facilmente intuibile.

I dati per venirne a capo e capirne il valore ce li offre la già citata Circolare ministeriale del 5 aprile.

Questi i parametri numerici della Circolare ministeriale: 1 tutor ogni 30 studenti; studenti che  possono diventare anche 50, se 30 vi sembran pochi. (Nella circolare si parla addirittura di raggruppamenti, lasciando così pensare di raccogliere ragazzi di classi diverse per arrivare ai numeri previsti: tutti con un unico tutor!).

Stiamo parlando di una funzione, come si può dedurre da quanto riportato al precedente punto 3, molto delicata   e pesante per compiti, responsabilità, oltre che per numero dei soggetti con cui rapportarsi; funzione che si affianca, nella stessa persona, a quella di docente ( 3 e più classi da gestire) in nessun modo alleggerita.
Pensate solo al “dialogo costante con lo studente, la sua famiglia e i colleghi coinvolti nell’attività didattica rivolta al singolo studente, ecc. ecc.”, moltiplicato per 30, 40, 50 ragazzi, famiglie ecc..

Spiderman o lo stesso Batman, ne uscirebbero vivi?

Il tutto con un compenso accessorio annuo compreso tra i 2800 euro a 4.700 lordo stato. Da scialarci, se ci pensate. (Per il docente ‘orientatore’ – uno per ogni istituzione scolastica – il compenso va da 1.500 euro lordo Stato a 2.000 euro, sempre lordo Stato: si sciala di meno, ma si sopravvive di più).

Quelli qui sopra indicati sono gli impegni sull’orientamento delle scuole del secondo ciclo per le quali sono stati stanziati dal ministero i 150 milioni di euro di cui al Decreto del 5 aprile.

  1. Dal prossimo anno sono previste inoltre iniziative di formazione per gli studenti, a carico dei fondi PNRR, che interesseranno classi della Secondaria.

Consideriamole nel riquadro che segue:

  • Percorsi formativi di 15 ore per ciascun studente nel corso degli ultimi 3 anni delle scuole del secondo ciclo della secondaria (5 h x anno) “da erogare con modalità curricolare ed extracurricolare”. Saranno organizzati dalle Università sulla base di accordi con le scuole. Praticamente, se ho capito bene: 5 ore per anno scolastico! Su tematiche, di tutto rispetto: dal conoscere il contesto della formazione superiore / i settori di lavoro / gli sbocchi occupazionali / i lavori del futuro; al fare esperienza di didattica disciplinare attiva, partecipativa laboratoriale; dall’autovalutare, verificare consolidare le proprie conoscenze, al consolidare competenze riflessine e trasversali, al ….. Tutto sempre in 5 ore annue per tre anni. Manca solo – se è possibile – una lezione con conseguenti esercitazioni (che sarebbe sicuramente molto apprezzata dai ragazzi, su Le fughe dalle lezioni ovvero Saltare scuola come esperienze di vita).
  • Percorsi formativi previsti dalle Linee guida per l’Orientamento (Decreto n. 328 del 22 dicembre 2022), 1. per le le scuole della Secondaria di primo grado e per il primo biennio della secondaria di secondo grado, di almeno 30 ore di orientamento anche extracurricolari, per ogni anno di corso; 2. per l’ultimo triennio della Secondaria di secondo grado, altrettante ore, queste però curricolari, per ogni anno. Per questi ultimi si concede che si possono integrare, qualunque cosa ciò significhi, con le 15 ore gestite dei percorsi universitari e con i percorsi PICTO.
  1. Un altro punto di attenzione riguarda la natura giuridica delle ‘figure’ introdotte. Quello che si capisce è che non si tratta delle figure di sistema prefigurate dall’articolo 21 della Legge 59/1997, col quale si istituisce l’autonomia scolastica. Presumibilmente si tratterà ancora di docenti che coprono funzioni specifiche ma in modo volatile, occasionale, e spesso senza che se ne abbia adeguata preparazione e competenza.
    Va anche considerato che i famosi 150 milioni previsti per ‘la valorizzazione degli insegnanti’ impegnati nelle funzioni di tutor e orientatore valgono solo per il corrente anno finanziario.  Quindi, sotto questo aspetto, la prospettiva è ancora una navigazione a vista?

  2. L’impressione che un po’ si deriva dai dati e dalle iniziative sopra riportati è che questa ‘riforma’, è quella di una debolezza complessiva di visione e di strategie appropriate.

Alla base di una valutazione di questo tipo c’è la convinzione, molto diffusa tra docenti e dirigenti del secondo ciclo e delle ultime classi del primo, che l’orientamento – come anche l’insuccesso scolastico e la dispersione – non è un problema per la cui soluzione ci si può lavare le mani pensando di uscirne  introducendo nelle scuole figure di cirenei, da formare con 20 ore di corsi, e condendo il tutto con percorsi formativi per gli studenti, che sono anch’essi un punto di domanda.
Assenti gli insegnanti come comunità professionale. Scompare il CdC a cui comunque dovrebbe essere il compito principale della formazione dei ragazzi. C’è invece il cireneo solitario che si fa carico di tutto e anche delle famiglie.
Sbarazziamo il campo da un possibile equivoco. Nessuno può ovviamente pensare che non siano necessarie, per questa come per altre operazioni dello stesso tipo, figure di coordinamento delle diverse azioni e iniziative dei percorsi formativi da prevedere nelle sedi proprie.

In una organizzazione complessa come la scuola, le figure di coordinamento sono fondamentali.
Ma che siano però figure di sistema: docenti cioè con un profilo potenziato, definito giuridicamente e contrattualmente. Non volatili e casuali.
E ancora: non è in discussione la presenza nella scuola secondaria di un counselor o un mentor, come figure professionali anche esterne (con competenze da attingere anche dalla psicologia dinamica), per le situazioni problematiche più complesse della classe.
Ma i soggetti da valorizzare in questa importante partita non sono forse i docenti tutti della classe, come gruppo professionale, sulla base di un progetto condiviso per orientamento? Non è ciò che sa qualsiasi persona che si intende un po’ di scuola?

  1. Interrogativi questi che riportano in primo piano due questioni – anch’esse complesse e difficili e non più rinviabili – che rappresentano altrettante risposte a due criticità della nostra scuola, che proprio una riforma dell’orientamento avrebbe dovuto prevedere nelle modalità possibili:

– la visione dell’insegnamento disciplinare capace di produrre una idea aperta della conoscenza e di sviluppare competenze di prim’ordine; come l’integrazione dei saperi, la correlazione e l’osservazione, con occhi e sguardi diversi, dei diversi oggetti di studio e apprendimento (competenze di base in ogni discorso sull’orientamento);

– la pratica di didattiche individualizzate/personalizzate[3], che, quando ‘agite’ con professionalità, possono creare ponti preziosi tra caratteristiche delle materie scolastiche e caratteristiche degli studenti (quest’ultime in termini di bisogni, attese, aspirazioni, ma anche di specifici ritmi e modalità di apprendimento, di tipo di intelligenza e capacità linguistiche, di prerequisiti cognitivi). Pratiche che, come sanno in tanti nelle scuole, diventano didattiche orientative quando guardano all’insegnamento disciplinare anche come ‘strumento’ per sviluppare capacità trasversali (soft skills); con particolare riferimento alla riflessività, alla comunicazione efficace, all’ascolto attivo, al problem setting & solving, alla flessibilità …,).

9. Ancora un’ultima considerazione. Legata alla percezione che questa ‘riforma’ dell’orientamento sembra abbia scelto di ignorare le esperienze positive e innovative di tante nostre scuole.
Il riferimento è alle pratiche, didattiche – diffuse tra l’altro  nei nostri Istituti  più di quanto non si creda – come il debate o lavori di gruppo opportunamente strutturati o attività di autovalutazione dello studente, esperienze di peer education: utili certamente per apprendimenti disciplinari più solidi e duraturi, ma utili anche per sviluppare competenze necessarie per orientarsi con consapevolezza e sensatezza anche nella scelta tra i diversi   percorsi scolastici o professionali; o più in generale, nelle scelte di vita.

Ma il riferimento è anche

ai Centri di Informazione e Consulenza gestiti da docenti di riferimento (tutor per l’orientamento nominati dal ds), diffusamente attivi nella secondaria di secondo grado e previste dal PTOF di istituto e

ai percorsi formativi gestiti da insegnanti in genere di materie scientifiche o tecnologiche del secondo ciclo, per classi terminali del primo ciclo (l’ex terza media).

Che dire conclusivamente, a seguito delle analisi e riflessioni critiche di questo contributo?

Solo che all’autore è del tutto estraneo l’idea di alimentare – nei cinque o sei che in esso incappassero – tentazioni di disimpegno rispetto alle iniziative che le scuole sono chiamate a mettere in campo in base alle indicazioni del Decreto e materiali connessi.
L’intento è stato piuttosto quello di riportare in primo piano le opportunità che offre la tematica dell’orientamento per il rinnovamento della nostra scuola (la centralità del ruolo della comunità professionale e dei C.d.C come gruppo di lavoro: in primo luogo attraverso didattiche individualizzate e orientative e un coordinamento responsabile delle attività; ma anche attraverso il coinvolgimento del gruppo classe). Opportunità che non sono in alternativa o in contrapposizione a quelle previste dall’impianto ministeriale e da recuperare opportunamente, e nei tempi giusti, attraverso un eventuale, apposito Piano di Istituto.
Comunque se all’intento non corrispondono gli esiti attesi, preme qui chiarire manzonianamente che “non si è fatta apposta”.

[1]Nota ministeriale del 22 dicembre 2022

[2] Con tutte queste piattaforme si ha a volte l’impressione che l’autonomia opportunamente regolata [Piero Romei] sia sempre più declinata come autonomia uniformata.

[3]Istruzione individualizzata non significa ovviamente istruzione individuale, generalmente realizzata in un rapporto 1 ad 1. Essa, come è noto, consiste piuttosto nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. Altro è l’istruzione personalizzata che tende invece a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti.

 

 

 

 

 

 




ll progetto su “dispersione e dislivelli territoriali”: una sfida per le scuole  

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Antonio Valentino

La percezione

In questi ultimi mesi l’attenzione di dirigenti scolastici, insegnanti, personale tutto è apparsa rivolta essenzialmente alla gestione dei fondi previsti per il Piano, agli adempimenti a cui si è chiamati, all’uso della piattaforma messa a disposizione per facilitarne le operazioni.

 

Sono tuttora abbastanza rari gli incontri in presenza in cui socializzare dubbi, perplessità, limiti.

Poco e male finora sono entrate nel dibattito – anche in quello pubblico in generale – le ragioni per cui l’Unione Europea[1] ha previsto investimenti – in misura come mai prima era successo – su settori strategici della vita pubblica e, tra questi, quelli di Scuola e Università.
La stessa Amministrazione centrale – a partire dal Ministro – e quella periferica hanno finora dimostrato scarsa consapevolezza della dimensione strategica e della centralità e rilevanza della problematica dei divari  territoriali anche in fatto di istruzione; e quindi dell’importanza di  strategie di contrasto agli insuccessi e agli abbandoni precoci da mal di scuola che, nel nostro Paese, risultano tra i più alti d’Europa.

Anche altri due progetti del Piano Scuola del PNRR – ‘Zero-Sei’ e ‘Ambienti di apprendimento (‘Aule’ e ‘Laboratori’) – possono ben essere visti come occasioni importanti per contrastare alla base i fenomeni di inadeguatezza del nostro sistema di istruzione, cause non secondaria della dispersione.
A questi è ancora da aggiungere il progetto sull’orientamento (le Linee Guida nel Decreto Ministeriale sono del 22 dicembre 2022), perché anche Orientamento è parola chiave nelle misure previste dal DM 170 sul contrasto alla dispersione[2].

All’interno di questo quadro complessivo, il progetto sulla dispersione andrebbe considerato – a ragione – come l’anima dell’intera operazione del Piano Scuola, in quanto le azioni di contrasto in esso previste investono aspetti ‘vitali’ del fare scuola: – cultura professionale e didattica,  organizzazione e leadership, ambienti apprendimento, … – che attraversano anche gli altri progetti.
Investire su di essi significa investire sul ‘motore’ dell’intera macchina del sistema di istruzione.

Novità (parziali) e interrogativi

È in questa ottica che andrebbero pertanto considerate azioni e percorsi previsti nei documenti di accompagnamento ai Decreti ministeriali citati e soprattutto in  “Istruzioni operative” del 30 dicembre 2022 – a cui va aggiunto la Piattaforma “Futura PNRR – Gestione Progetti”: che, in realtà,  è parecchio più di uno ‘strumento’ operativo.

Di questi documenti vanno certamente segnalati in positivo – perché prefigurano differenze promettenti rispetto a iniziative analoghe già sperimentate nelle nostre scuole – quelle parti che

  1. indicano come strategie importanti un insieme di azioni: dal mentoring[3] all’orientamento[4]; dai percorsi di potenziamento delle competenze di base[5] (visti anche come occasione di motivazione e di accompagnamento) ai percorsi di orientamento per le famiglie;
  2. prevedono percorsi formativi e laboratoriali co-curriculari che includono progetti speciali di scuola (dalle attività teatrali a quelle sportive, dai laboratori di musica ai percorsi di educazione emotiva-affettiva ….), visti come momenti di aggregazione volti non solo a sviluppare socialità e favorire inclusione, ma anche integrazione (che include normalmente anche ricadute sul rendimento scolastico in termini di apprendimenti).

Anche la previsione di aprire le scuole alla collaborazione – comprensiva di co-progettazione, ma anche di gestione di attività con agenzie formative accreditate e affidabili – è un punto importante dell’intero progetto, in quanto aiuta a fare uscire le scuole dall’auto-isolamento, in cui qualche volta si confinano, e a trarne arricchimenti salutari di vario tipo.

(Ma al riguardo va annotato che sono emersi, da più parti, interrogativi e dubbi che nascono – e non solo con riferimento a questo progetto – dall’enfasi con cui le collaborazioni con enti del terzo settore vengono prospettate alle scuole dal Ministero. Non si vorrebbe che tale enfasi preludesse a scivolamenti rischiosi per l’autonomia scolastica e a derive gestionali di tipo privatistico.)

Un nodo centrale: fruizione individuale dei percorsi o individualizzazione dell’offerta formativa?

In tale quadro complessivamente positivo, pone però seri interrogativi la scelta di intervenire su fragilità e insuccessi attraverso i percorsi di cui al precedente punto b., per le quali si prevede una modalità che sembra ignorare strategie che la ricerca pedagogica e didattica raccomanda da tempo.
Per i percorsi di mentoring e di orientamento, destinati soprattutto agli studenti a rischio dispersione, si prevedono infatti:

  1. una fruizione ‘individuale’ degli stessi (rapporto studente-docente / esperto esterno: 1 a 1);
  2. una loro collocazione di norma al di fuori dell’orario scolastico e degli spazi delle lezioni[6].

Manca in questa scelta operativa delle Istruzioni ministeriali ogni riferimento alle metodologie didattiche di individualizzazione o di personalizzazione, che, come è noto, sono cosa altra rispetto ad azioni a ‘fruizione individuale’. Metodologie che, per diverse e buone ragioni, meritavano attenzione – e non solo  –.

Le recupero da Massimo Baldacci[7] che, già in un suo libro del 2005, le richiama esplicitamente: “L’istruzione individualizzata non è una istruzione individuale, realizzata semplicemente in un rapporto 1 ad 1. Essa consiste nell’adeguare l’insegnamento alle caratteristiche individuali di ciascuno (ritmi di apprendimento, capacità linguistiche, prerequisiti cognitivi) cercando di permettere al singolo di conseguire individualmente obiettivi comuni al resto della classe. (…)”[8].

E, a proposito di spazi e collocazione oraria possono ben valere, come aspetti importanti della dimensione collettiva dell’apprendere, le seguenti considerazioni di Simonetta Fasoli, particolarmente importanti ed esplicite perché ancorate a richiami normativi: “La strategia di contrasto va individuata nello stesso registro dell’ordinarietà, più che nella predisposizione di percorsi gestiti in ambito extracurricolare. Si vedano in proposito pietre miliari quali il documento della Commissione Falcucci (1975) e la legge 517/77 (…). Se è il gruppo di apprendimento la risorsa essenziale, non è la separatezza la risposta adeguata per chi si senta o sia stato escluso…”[9]. [i corsivi sono miei]

La didattica individualizzata – che è espressione operativa della teoria dell’individualizzazione degli apprendimenti, si configura pertanto come modalità del fare scuola particolarmente importante per l’integrazione nel gruppo classe degli allievi che se ne sentono esclusi; integrazione quindi come processo importante nel contrasto agli abbandoni precoci, soprattutto in quanto facilita l’apprendere migliorando livello e qualità delle relazioni nel gruppo [10].

Delle due pratiche didattiche sopra considerate sono indubbiamente diverse le idee di scuola ad esse sottese e diverso il tasso di carica innovativa. Penso però che, nella situazione attuale, entrambe potrebbero,  se ben condotte, sortire gli esiti previsti dal progetto.  Ne guadagnerebbe da questa scelta anche l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Due questioni non sottovalutabili.

Ci sono infine questioni, non propriamente secondarie, che non si possono trascurare, se si vuole partire col piede giusto. Si tratta di ‘mancanze’ o sottovalutazioni di variabili con cui fare i conti. Quali soprattutto

  • la non previsione di incentivi significativi per il surplus di lavoro delle scuole che la nuova progettualità del piano di contrasto inevitabilmente porterà (per i docenti, le segreterie, le figure di sistema, per i ruoli intermedi di raccordo e accompagnamento).
    Si è dimenticato infatti nelle Istruzioni operative che il cambiamento passa dal lavoro quotidiano, sempre più complesso e gravoso sulle spalle dei docenti e delle scuole;
  • la scarsa attenzione ad un principio guida per l’operazione in corso: è difficile aspettarsi cambiamenti duraturi e significativi se la scuola nel suo insieme non si sentirà parte essenziale dei processi attivati e non se ne farà carico. La lotta contro la dispersione non è affare di singoli insegnanti o esperti esterni che operano dentro protocolli indicati dai pochi docenti del team di scuola e dal gruppo di co-progettazione: o è impegno dell’insieme dei docenti della scuola che, nelle loro articolazioni, lavorano collegialmente per individuare problemi e possibili soluzioni o sarà molto difficile che si producano esiti positivi e duraturi.

La vera sfida del progetto dispersione e i principali terreni su cui giocarla

Quello che in conclusione si vuole soprattutto sottolineare è che la scuola, per essere la risorsa giusta contro insuccessi e rischi di abbandono – e saper fare al meglio la propria parte -, dovrebbe prioritariamente sviluppare consapevolezza autocritica che, in molti casi, è essa stessa parte del problema dispersione[12].

Che si crea sempre quando – al netto delle responsabilità del sistema, che sono comunque enormi e condizionanti – si sottovaluta (anche se per fortuna sempre di meno) l’incidenza, fra gli studenti,  di fattori non secondari del mal di scuola;  che se bene riconosciuti e analizzati possono suggerire una mappa di comportamenti professionali competenti e mirati di cui soprattutto c’è necessità se si vuole, come sarebbe opportuno e prioritario, trasformare l’esperienza scolastica degli studenti in una avventura che li veda partecipi e interessati; e prevenire così le diverse manifestazioni di abbandono, sapendone capire i sintomi. La lista di tali comportamenti è la stessa che gira da sempre e che vede in primo piano soprattutto:

  • la padronanza riflessiva di pratiche didattiche partecipative e coinvolgenti,
  • una cultura professionale, e relative pratiche, che sappia alimentarsi di esperienze condivise che si fanno occasioni di formazione ‘situata’,
  • la pratica attiva del lavoro di squadra, vincendo individualismi e autoreferenzialità,
  • la cura degli ambienti di apprendimento; che significa impegno a trasformarli da non-luoghi a spazi accoglienti, stimolanti, polifunzionali,
  • una leadership che coltivi l’idea di scuola come comunità professionale e dimostri attenzione costante al funzionamento delle diverse articolazioni funzionali del Collegio e al loro coordinamento interno.

[1]. Va richiamato che il  Piano di Ripresa (formula abbreviata che traduce la sigla PNRR) fa parte del Programma dell’Unione europea, noto come Next Generation EU.

[2] L’insieme di questi tre progetti è parte del Piano Scuola (capitolo importante del Programma PNRR per l’Italia), che si articola in ben sei Riforme, per altrettante aree problematiche del nostro sistema di Istruzione: questo per richiamare la complessità dell’operazione entro cui ci si muove.

[3] Attività che mira a vincere il disagio che generalmente si manifesta con modalità che vanno dal basso rendimento fino all’abbandono scolastico precoce. Si tratta di percorsi ad apprendimento guidato.  

[4] Che andrà configurato secondo le Linee Guida del Decreto ministeriale del 22 dicembre del 2022, che prospettano azioni articolate e promettenti che richiedono non solo progettazione attenta, ma anche competenze professionali adeguate.

[5]. Particolarmente importanti dopo i due anni di pandemia che non ha garantito continuità e regolarità delle attività didattiche e ha sacrificato pesantemente la socialità.

[6] V. però la nota 10.

[7] M. Baldacci, Personalizzazione o individualizzazione? Edizioni Erickson, 2005

[8] In questo differenziandosi dall’”istruzione personalizzata che tende a traguardi diversi e personali per ciascuno, ponendo per ognuno obiettivi differenti”. Sempre Baldacci, ibidem.

[9] Simonetta Fasoli in Didattica del recupero o recupero della didattica? pubblicato recentemente su Nuovopavonerisorse.it

[10] La didattica individualizzata, nelle esperienze più comuni, assume generalmente la classe come l’ambiente di apprendimento nel quale si alternano momenti di attività a dimensione collettiva (lezioni parzialmente frontali, debate, brainstorming …), con lavori di gruppo a dimensioni variabili, a seconda dei luoghi, del tipo di attività ecc. Durante i quali l’insegnante copre funzioni, tutte comunque sostanzialmente riconducibili al proprio profilo.

[11] In essa si apre alla possibilità, che andrebbe però chiarita su più versanti, di svolgere anche in orario antimeridiano i percorsi di mentoring e orientamento e di potenziamento delle competenze. Alcune altre aperture interessanti:  l’individuazione di docenti/tutor/esperti interni attraverso deliberazione del Collegio Docenti;  riconoscimento economico per attività gestionali di progettazione e tecnico-operative del personale interno, il supporto educativo e/o psico-pedagogico di  docenti o altre figure specialistiche interne e/o esterne, le attività operative strumentali alla gestione dei percorsi formativi (da parte segreteria didattica), ….

[12] V. al riguardo, in Associazione professionale Proteo Fare Sapere, le considerazioni approfondite nel documento “La dispersione. La scuola da parte del problema a parte della soluzione”, elaborato da un gruppo di lavoro dell’Associazione; documento dal quale sono state riprese le riflessioni del paragrafo.

 




La nuova emergenza Covid: riparare le ferite dell’infanzia e dell’adolescenza volgendo lo sguardo al futuro

di Antonio Valentino

Tra dati di fatto e percezioni fondate

Sulla questione ‘nuova emergenza Covid’, considererei soprattutto i seguenti aspetti:

  1. Il dato di fatto con cui anche la scuola è costretta a confrontarsi in queste settimane – con la variante ‘Omicron’ che impazza – è che l’uscita dal Covid non ci è ancora dato di vederla all’orizzonte, come si pensava fino ad alcune settimane fa grazie alla vaccinazione di massa in atto da mesi.
  2. Comunque la crescita percentuale del contagio nelle ultime due settimane (10-16 e 17-22 gennaio) ha continuato a scendere: vi sono ormai “evidenze certe di una decelerazione della curva epidemica, in linea con quanto osservato in altri Paesi” (Franco Locatelli, Coordinatore del CTS)
  3. È percezione fondata che il contagio con l’ultima variante non sembra comportare i rischi gravissimi (persone in terapia intensiva e esiti letali) delle prime ondate, a seguito delle misure adottate.
  4. Le consapevolezze dell’attuale situazione – a. la convivenza obbligata col virus però depotenziato nei suoi esiti più dolorosi (il riferimento è alla variante ultima, la più contagiosa); b. gli strumenti di difesa dal Covid sempre più disponibili e mirati – è condizione di un diverso sguardo anche sul futuro prossimo del mondo scolastico.

Proviamo, con i ragionamenti che seguono, a riavvolgere il nastro di questa storia degli ultimi due anni con riferimento alla scuola, per individuare qualche direzione di marcia sensata e possibile, per gestire al meglio la fase sulla base dei dati e delle consapevolezze di cui ai punti precedenti.

A tal proposito, è opportuno richiamare in prima battuta che il blocco delle attività didattica in presenza nel 2020 – e l’avvio della Didattica a Distanza (DaD), è stato certamente l’evento tra i più drammatici che il mondo della scuola abbia vissuto dal secondo dopo guerra.

Va però anche detto che la Dad ha limitato in parte i danni di tale blocco sulla vita delle scuole ed ha, tra l’altro, reso evidente, riportandole in primo piano, non solo le inadeguatezze pesanti della scuola sul fronte delle tecnologie informatiche (strumenti e formazione); ma anche e soprattutto ha ridato evidenza, ulteriormente acutizzandole, alle vecchie ferite del sistema, attraverso le molte ricerche, inchieste, articoli e saggi e commenti che, a partire già dalle settimane in cui si concludeva il primo anno scolastico segnato dalla pandemia, hanno alimentato il dibattito sul presente e il futuro della scuola.

Ricerche e dibattiti che in modo generalizzato  esprimevano preoccupazioni estese e profonde ma anche nuove e generalizzate attenzioni e propositi di una ripartenza che non fosse un ritorno al passato pre-pandemia; che non riproducesse cioè le stesse disfunzioni, arretratezze, traumi, ingiustizie del sistema vigente.

Sul fronte studenti si evidenziavano soprattutto – come è noto -, con sottolineature più o meno preoccupate, oltre al peggioramento pressocché generalizzato degli apprendimenti, anche a. l’aumento delle diseguaglianze nel rendimento scolastico e degli abbandoni, come conseguenza delle disparità sociali e  b. la drammaticità degli effetti del lockdown su bambini e adolescenti, in termini di disturbi comportamentali e psicofisici e di difficoltà di concentrazione; sui quali ci ha richiamati recentemente il Presidente di Proteo Fare sapere nazionale, Dario Missaglia[1].

Sul fronte insegnanti, i dati e le testimonianze raccolte riportavano invece in primo piano – assieme all’ impegno complessivamente generoso e generalizzato del mondo della scuola – le carenze di una cultura professionale non attrezzata a fronteggiare situazioni così nuove e impegnative; e non solo per carenze nella gestione mirata degli strumenti informatici.

In quei mesi – si ricorderà – ‘ripartenza’ e ‘riprogettazione’ entravano con nuova forza nel dibattito sulla scuola tanto, da diventarne parole d’ordine particolarmente diffuse.

Dal bisogno diffuso di “ripartenza” alle tendenze al recupero di una ‘normalità’ pre-pandemia

‘Niente sarà più come prima’ – ricordate? – è stato lo slogan più diffuso di quella stagione che ha caratterizzato soprattutto gli ultimi mesi del 2020 e i primi del ’21. Uno slogan che se da una parte sottolineava che non si poteva più far finta di niente rispetto ai mali vecchi e nuovi che venivano riportati in primo piano, dall’altra includeva anche il richiamo alle opportunità, da saper cogliere, che si aprivano con le tecnologie digitali.

In realtà le parole d’ordine prima richiamate, per quanto ripetute con accenti appassionati, non riuscivano però a tradursi in iniziative evidenti di rinnovamento, per ragioni immediatamente comprensibili.

Le incertezze e una certa confusione nella gestione della pandemia soprattutto nella prima parte dell’anno scolastico, assieme alla mancanza di misure di difesa certa dal virus, hanno di fatto determinato situazioni di stop and go, soprattutto nella secondaria, che hanno di fatto impedito di pensare ad altro che non fosse quello di salvare il salvabile. Certamente le scuole si erano attrezzate al meglio, rispetto all’anno precedente, con le tecnologie necessarie; e gli insegnanti avevano imparato a organizzarsi e a utilizzare le nuove dotazioni messe a disposizione.

Per le parole d’ordine dei mesi precedenti non c’era però spazio. Erano state confinate – e lo sono ancora – in uno spazio tutto loro, in attesa di tempi migliori.

Lo stesso Il PNRR, nel quale il nuovo Governo Draghi è stato impegnato negli ultimi mesi dello scorso anno scolastico e che pure prevedeva misure importanti e urgenti per la scuola, ben poco l’ha coinvolto anche sul tema della ‘ripresa’, che pure è parola chiave di quel Piano.

In questi ultimi mesi è sembrata prevalere su più fronti la preoccupazione pressocchè unica di recuperare una normalità che sembra avvicinarsi alle forme di quella pre-pandemia.

Di ripartenza si è parlato sempre di meno in quest’anno scolastico e lo slogan prima ricordato non è più sembrato essere molto ‘popolare’.

E questo, nonostante le scadenze per il rinnovo del POFT e la riscrittura del RAV, previste dal calendario scolastico ’21.’22, che sarebbero potuto / dovuto essere una occasione per interrogarsi sul passato recente e derivarne indicazioni per la riprogettazione dell’offerta formativo del nuovo triennio.

L’interrogativo che verrebbe da porsi, alla luce delle considerazioni con cui si è aperta queta nota (le nuove incertezze portate dalla preoccupante contagiosità della nuova variante, ma anche le consapevolezze nuove sopra richiamate), è se l’attuale situazione generale socio-sanitaria, per quanto ancora problematica, possa giustificare del tutto l’accantonamento – o il rinvio – delle questioni della ‘ripartenza’.

“Niente sarà come prima”. Uno slogan ‘perso’?

Recupero qui, in ordine sparso, dalle cose lette e sentite e scritte di quel periodo, alcuni elementi (questioni, attese, priorità) tra quelli che ancora oggi mi sembrano particolarmente significativi.

Si ricorderà certamente che all’inizio dell’anno scolastico 2020-’21, al centro delle preoccupazioni, soprattutto dell’Amministrazione centrale, c’erano questioni più legate agli effetti della situazione che si stava vivendo: il previsto recupero e sostegno per i percorsi formativi ‘saltati’ – più prosaicamente: le parti di programma non svolte (nel secondo quadrimestre dell’a.s. ’19-‘20).

Ma nel dibattito tra gli addetti ai lavori, frequenti e insistiti erano i richiami ai problemi più legati al funzionamento incerto e preoccupato delle scuole e al carico di ansie, difficoltà relazionali e psicologiche che emergevano nei bambini e nei ragazzi e che chiedevano risposte che non arrivavano.

Mi riferisco

  1. alla necessità di superare, nella professione docente, comportamenti autoreferenziali e individualistici, sempre molto diffusi, e di rendere abituali pratiche cooperative e interazioni e, insieme, cura del contesto (i suoi spazi e loro dotazioni), come condizioni per migliorare la partecipazione degli studenti alla vita della scuola e qualificarne la formazione culturale e sociale;
  2. ad una idea di scuola in grado di coltivare – attraverso misure e riconoscimenti opportuni – la sua autonomia non solo didattica e organizzativa, ma anche ‘di ricerca sperimentazione e sviluppo’ (recupero pieno di quanto prevede l’art 6 del Regolamento del DPR 297/99); e di liberarsi dalla vocazione impiegatizia ancora persistente tra i suoi operatori;
  3. ad una filosofia progettuale, per quanto riguarda il ricorso al digitale, che evidenziasse la necessità di un approccio metodologico volto sia a sviluppare la “capacità di imparare a valutare le potenzialità d’uso, le implicazioni etiche, economiche e sociali delle nuove tecnologie”, sia a favorire “la contaminazione fra strumenti nuovi e vecchi, tra digitale e analogico, senza contrapposizioni ideologiche e con un approccio pragmatico” [3].

Questi soprattutto i termini del dibattito già meno di un anno fa. L’impressione che si ha oggi è che la maggior parte di quelle preoccupazioni e di quei ragionamenti si siano un po’ persi per strada, e che il futuro che si tende a prefigurare in questi ultimi mesi – già prima dello scatenarsi della nuova ondata di contagio – non sembra diverso dal quadro complessivo pre-pandemia, che pure si era giurato di voler cambiare in profondità.

Ci sarebbe da interrogarsi sulle ragioni dell’offuscamento (rimozione?) dei propositi prima richiamati; e se non possono essere liquidate semplicemente con la giustificazione – pure immediatamente  comprensibile – delle difficoltà a gestire le scuole in una situazione in cui la pandemia, che di preoccupazioni, ansia e lavoro aggiuntivo – e quindi stanchezza – ne continua a produrre a iosa.

Ragionando sulle ragioni altre della ‘rimozione’.

A volerci pensare su, si potrebbe dire che a facilitare questo ritorno alla scuola pre-pandemia ci siano alcuni elementi endemici della cultura metodologico-didattica e organizzativa della nostra scuola, che riprenderei sinteticamente così:

  • la prevalenza della lezione fatta di spiegazione-compiti-interrogazione-voti (oggi un po’ in crisi, ma mica poi tanto) e quindi
  • la poca diffusione della diversificazione delle strategie di insegnamento e apprendimento e la scarsa attenzione alla relazione di reciprocità (per quanto necessariamente asimmetrica) nella gestione degli studenti;
  • la non generalizzata attenzione al principio di cura, almeno nei termini in cui andrebbe più efficacemente coltivato;
  • la insufficiente attitudine a diffondere e valorizzare le esperienze più significative che pure nelle scuole si realizzano, senza però (quasi) mai farle diventare patrimonio comune e pratiche diffuse.

A proposito di quest’ultima problematica va evidenziato come essa faccia il paio con la cultura individualistica e autoreferenziale di cui si è detto, che continua ad essere ancora prevalente, e che ha generalmente ignorato:

  1. la dimensione collettiva e sociale del lavoro – e dell’apprendere attraverso il lavoro e le esperienze sul lavoro – ai diversi livelli (si pensi soprattutto alle articolazioni funzionali del collegio: dai consigli di classe/interclasse ai dipartimenti e ai gruppi di progetti o di coordinamento -; ma anche al lavoro d’aula),
  2. l’attitudine al diffondersi, anche solo a titolo sperimentale, delle pratiche più efficaci.

Ma si dovrebbe anche richiamare, per chiarire i fattori che stanno probabilmente contribuendo al ritorno quasi automatico alla situazione scolastica pre-covid, che la cultura professionale del nostro sistema scolastico si è generalmente sviluppata dentro orizzonti culturali e professionali che hanno poco valorizzato e coltivato la ricerca pedagogica e didattico-organizzativa di casa nostra (e questo meriterebbe un discorso a parte soprattutto per quanto riguarda i rapporti difficili e sostanzialmente infruttuosi tra università e mondo scolastico – con poche ma importanti eccezioni). Non solo, ma  ha anche sostanzialmente ignorato la ricerca internazionale; privilegiando, anche nella formazione all’insegnamento, pratiche che hanno preso in ben poca considerazione le varie dimensioni dell’apprendere.

Soprattutto, l’importanza di fare squadra e la modalità situata, collettiva della crescita professionale, come anche l’apprendimento fondato sull’esperienza e la riflessione partecipata, non hanno mai toccato più di tanto la maggior parte delle nostre scuole[4].

Concludendo

A questo punto – se non si vuol dare per scontato che le parole d’ordine della ‘ripartenza’ qui spesso richiamate abbiano definitivamente perso valore e senso,  e non debbano quindi trovar posto neanche in seguito, nell’agenda delle scuole, iniziative  volte a  tenerne viva l’attenzione – c’è da chiedersi in qual modo e con quali prospettive recuperare, sulle tematiche che le considerazioni svolte ripropongono, almeno dentro l’orizzonte dei ‘memoranda’ (dalla relazione all’apprendimento organizzativo, dalle strategie plurali dell’insegnamento alla ricerca-azione …), filoni di ricerca e teorie, più o meno recenti, in grado di offrire stimoli e strumenti per fronteggiarle – tali tematiche – con maggiori cognizioni di causa.

Riguardo specificamente ad esse, si vogliono qui richiamare, in aggiunta alle segnalazioni precedenti e in prima battuta, gli studi e le sperimentazioni, nell’ambito delle teorie sociologiche della conoscenza, sviluppati soprattutto negli Stati Uniti[5]  – a partire indicativamente dagli anni 70 del secolo scorso e proseguiti anche nel nuovo millennio.  Studi e ricerche che hanno coinvolto accademici e ricercatori/studiosi di altri paesi e anche di alcune nostre università[6].

Da sottolineare qui in modo particolare, oltre alle loro innovative elaborazioni sulle problematiche sopra richiamate, i loro contributi sul fronte della formazione nella dimensione ‘situata’, sul campo, in quanto condizione particolarmente stimolante per una cultura professionale degli insegnanti attenta ai bisogni formativi e alle attese di studenti e territorio.

Annotazioni, queste ultime, volte a sottolineare – concludendo – che nessuna eventuale ‘ripartenza’ può’ avere sviluppi importanti e innovativi con la semplice logica del fai da te; senza cioè recuperi e ri-appropriazioni di studi, ricerche, esperienze, che siano promettenti quanto a stimoli, allargamento d’orizzonti e proposte operative.

NOTE

[1] “Ricerche condotte in tutto il mondo e con dovizia di dati e numeri anche in Europa (…), ci dicono che il prolungarsi di questa fase di pandemia, con il suo carico di ansie, paure, limitazioni, riaperture e nuove chiusure, ulteriori richiami di vaccino, incertezza sul futuro, sta producendo ferite gravi e profonde nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza” (D. Missaglia, Allarme rosso, in www.proteofaresarere.itnewsnotizie  13.1.2022). In questo contributo il Presidente nazionale di Proteo Fare Sapere esplicita il concetto di pandemia secondaria che “indica la vasta gamma di conseguenze psicologiche, relazionali, emotive, cognitive che risultano compromesse dal prolungarsi della pandemia. Secondaria (…) non per importanza minore rispetto alla pandemia che produce ricoveri in terapia intensiva e decessi quotidiani…”.

[3] Sulle proposte al riguardo ho condiviso soprattutto l’elaborazione del cap. 3 (Il Digitale “Senza se e senza ma, pp. 50-55) del Rapporto finale del 13 luglio 2020: “Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro rapporto finale”, del  Comitato di esperti D.M. 21 aprile 2020. Coordinamento:  Prof.  Patrizio Bianchi. Le parti virgolettate sono state stralciate integralmente dal Rapporto.

[4] Non sono ovviamente le nostre scuole le prime indiziate, perché soprattutto altrove vanno individuate le maggiori responsabilità al riguardo.

[5] I nomi d’obbligo per quanto riguarda questo filone di ricerca sono – come si ricorderà – quelli di Donald Schön e di Chris Argyris, da noi noti non solo in ambito universitario. Ai quali vanno affiancati Jean Lave e Etienne Wenger, i cui contributi di ricerche e studi, nei decenni soprattutto a cavallo del 2000, sono confluiti nella elaborazione del concetto di Comunità di pratica. Nel quale è fondamentale il fattore solidarietà organizzativa tra soggetti che operano nello stesso ambito e si aggregano perché motivati/sollecitati a migliorare la propria pratica professionale. Le pubblicazioni più citate: C. Argyris, D. SchonApprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998; A.D. Schön, (1999) Il professionista riflessivo: per una nuova epistemologia della pratica, Bari, Dedalo; Lave, J & WengerL’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006 (prima pubblicazione: Cambridge University Press, 1991); E. Wenger, R. McDermott, & W. M. Snyder, Cultivating Communities of Practice, Coltivare Comunità di Pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza, guerinNext editore, 2007 (prima pubblicazione: HBS Press 2002).

[6] In campo universitario mi piace ricordare – ma sarebbero ben più numerosi i nomi da citare – soprattutto Francesco De Bartolomeis e Piero Romei; il primo in modo particolare per ‘La Didattica come antipedagogia’ e per la sue pubblicazioni sul lavorare in gruppo; il secondo, per ‘La scuola come Organizzazione’ in cui si sviluppa la nozione di Unità operativa, avvicinabile, con qualche approssimazione, al concetto di ‘Comunità di Pratica’ di Wenger e Lave. Su autonomia e organizzazione della scuola nella prospettiva di comunità di pratica, pubblicazione ancora stimolante: L. Benadusi, R Serpieri, (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci 2000, con contributi, oltre che dei curatori, di M. Tomassini, A.M. Ajello, V. Ghione, ….. Di quegli anni anche, P.G. Ellerani, La costruzione della comunità di apprendimento sostenuta dal Cooperative Learning. Progetto avviato dalla Provincia di Torino – A.s 97-98, proseguito nel 2003-2005.




La dimensione teatrale nell’insegnamento: tra resistenze e sottovalutazione

di Antonio Valentino

Un contributo stimolante di Maviglia e Bertocchi per rilanciare la dimensione teatrale del mestiere dell’insegnante

Nei percorsi formativi per il personale della scuola – e probabilmente non solo – il noto studioso austriaco di leadership e apprendimento, Michael Schratz, discostandosi dalle pratiche più comuni nel suo paese (e anche dal nostro), prospetta, già dagli inizi del secolo,  un modello che prevede di partire non già dalla consapevolezza di non avere competenze adeguate, ma piuttosto dalla incompetenza non-consapevoleunconscious incompetence – (essere inconsapevoli di non avere le competenze richieste) per giungere alla prima tappa: la incompetenza consapevole  – conscious incompetence – (sapere di non sapere).
Pertanto la prima preoccupazione del formatore dovrebbe essere quella di aiutare le persone a diventare consapevoli dei propri bisogni. Solo questa consapevolezza (della mancanza e dei suoi risvolti negativi) permette di procedere verso la competenza consapevole[1].

La tesi sostenuta è che “il lavoro dell’insegnante sia fortemente intriso di teatralitàspesso agita in modo del tutto inconsapevole da parte dei docenti – anche se dentro un quadro contraddistinto da una serie di condizionamenti e aspettative. Quadro nel quale, come ben sappiamo, e nel libro si richiama esplicitamente, ogni insegnante, “recita la sua propria parte – un po’ come fa un attore – in base ad un personale copione[2], più o meno elaborato e più o meno efficace, rispetto agli obiettivi perseguiti”.
Dove il termine copione traduce il cosa e il come viene rappresentato nella classe, ben assimilabile ad una scena definita ‘educativa’ per le sue specifiche caratteristiche.
Il convincimento, esplicitato già dalle pagine iniziali della prima delle due parti, redatta da Maviglia, è che l’acquisizione di un copione più evoluto raffinato e flessibile passa necessariamente attraverso una specifica formazione; a partire dalle competenze proprie della comunicazione verbale e non verbale (tratto fondamentale del profilo docente). E ciò, nonostante gli studi e le ricerche che, almeno dagli anni ’70 del secolo scorso si sono susseguite meritoriamente nel panorama internazionale e anche nazionale[3].

Opportunamente Maviglia richiama i contributi di prestigiosi studiosi e ricercatori delle teorie dell’apprendimento (soprattutto dell’apprendimento situato e basato sulla pratica) e ne riporta, con scelte efficaci, i passaggi più significativi e illuminanti.
Quanto al senso delle riflessioni e delle proposte riportate, esso viene fatto consistere essenzialmente nel rendere consapevole l’attore-insegnante del ruolo che il comportamento verbale e quello non verbale assolvono nella scena educativa.
E questo perché, come afferma Simeone[4], in un passaggio riportato nel libro, “La comunicazione dei sentimenti e delle emozioni si avvale più frequentemente di segnali non verbali e analogici che palesano in modo più preciso gli aspetti affettivi e sociali dell’interazione”.

Interazione che resta – aggiungerei – la competenza tra le più alte per sviluppare apprendimenti che sappiano caratterizzarsi anche sul versante della reciprocità.
Purtroppo però, a differenza di quanto avviene nei contesti espressivi altri – del teatro soprattutto – si evidenzia che “gli insegnanti sono stati e rimangono spesso ben lontani da una utilizzazione riflessa delle intonazioni dei gesti e della mimica”.

Un tema generale che attraversa tutto il libro – e per questo mi è parso ovvio partire per queste considerazioni dai ragionamenti di Micael Schartz – è certamente la formazione dell’attore-insegnante, opportunamente considerata necessaria, urgente e mirata.

Al riguardo vale la pena riportare, dalle ultime pagine del libro, una frase suggestiva di Rivoltella[8] evidentemente assunta, sul tema, come direzione di lavoro e, insieme, traguardo: “Occorre passare sempre più da un insegnante seduto, solo testa, che comunica verbalmente a un insegnante attore-testa corpo-cuore che comunica con il gesto, con la mimica, con la voce, con il modo di disporsi nello spazio e di muoversi in esso. Occorre recuperare cioè la dimensione attoriale dell’insegnamento, di appropriarsi di tecniche che non sono più insegnate proprio perché l’idea della professione prevalente è un’altra, quella di un impiegato e non di un ‘capo comico’ con la sua ‘compagnia’”.

La considerazione della Bertocchi nelle pagine finali rende ancora più interessante il discorso della formazione di tipo attoriale per gli insegnanti: “Conoscere e padroneggiare i vari strumenti espressivi e comunicativi non costituisce solo un potenziamento della propria professionalità ma è un atto di rispetto nei confronti dei propri studenti che ogni giorno hanno diritto di fruire di una rappresentazione ragionevole e sensata e coinvolgente”. (corsivo mio).

Considerazione quest’ultima che si accompagna alla segnalazione del Centro Teatrale Bresciano (CTB) che offre percorsi di formazione finalizzati a “rendere consapevole il docente del suo agire contestualizzato”, sviluppando capacità di autoanalisi e autoregolazione e di riflessione sulla propria esperienza.

………………………………………………………………………………..

[2] Nella psicologia dell’apprendimento degli anni 70, copione indica – come ci ricorda Maviglia – l’insieme delle azioni che si compiono in un determinato contesto per raggiungere determinati scopi.

[3] Tra gli altri, Argyle, Schon, De landsheer e Delchambre, Wenger e Lave, Perrenoud, Goffman, Watzlawick. Tra gli italiani, soprattutto Bonfiglio, Gallino, De Bartlomeis, Rivoltella, Margiotta, Pizzorno, Riva, Simeone.

[4] Da D. Simeone, La consulenza educativa, Vita e pensiero, 2011. Cit. a p. 85.

[5] Pag. 90

[6] Trattata dal sociologo americano Erving Goffman nell’opera La vita quotidiana come rappresentazione, citata a p.15.

[7] Vengono soprattutto citati Argyle  e Corsi, i cui testi di riferimento sono riportati, rispettivamente nelle note alle pp. 17 e 13

[8] A p. 122.




Comunità di pratica nella scuola. Appunti e spunti per la ripartenza

Stefaneldi Antonio Valentino

Alcune ragioni per parlarne.

La percezione diffusa, mi sembra, è che la nostra scuola sia stata poco coinvolta dal dibattito e da esperienze legati alla Comunità di Pratica (d’ora in avanti: CdP). Prima della pandemia è stato oggetto di interesse soprattutto nei convegni e nelle sedi universitarie dove si coltivano questioni riguardanti le teorie dell’apprendimento. Non sono mancate tesi di laurea e pubblicazioni [1] – molto più numerose di quanto si possa credere – che hanno approfondito l’argomento proponendo anche esperienze maturate in Italia[2]. Però la loro risonanza era e continua ad essere ancora modesta.

Nello stesso sito dell’Indire, alla voce ‘Comunità di pratica’ , vengono riportate poco più di un centinaio di iniziative e studi, che però si riferiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, a progetti italiani ed europei di School Improvement (progetti di miglioramento delle scuole), che solo tangenzialmente toccano questioni riconducibili specificamente alle CdP e alle ricerche ed elaborazioni al centro di queste riflessioni.

Però, a ben vedere, non poche, nè di poco conto sono le ragioni che spingono anche e soprattutto le persone di scuola ad avvicinarsi a tali questioni, in quanto volte a capire più e meglio la natura dell’apprendimento come fenomeno sociale collettivo e a coltivare quindi luoghi e strategie che ne permettono lo sviluppo.

Recuperare la dimensione collettiva dell’apprendere e la sua centralità nella pratica scolastica.  

In primo luogo non è ancora adeguatamente diffusa – mi sembra – la consapevolezza

  1. che i singoli apprendimenti acquisiti sul lavoro, se non sono partecipati e condivisi, raramente diventano patrimonio culturale e didattico dell’intera comunità scolastica in cui si sono sviluppati; e difficilmente quindi ne possono favorire sviluppi e miglioramenti;
  2. che l’efficacia dell’azione educativa è garantita soprattutto dalla dimensione collettiva dell’insegnare che si concretizza negli spazi istituzionali e non (Consigli, Dipartimenti, aggregazioni diverse), vissuti come comunità di intenti e di pratiche condivise); e che raramente – tale efficacia – è invece assicurata dal singolo docente.

A queste consapevolezze si lega l’idea che appropriarsi opportunamente del costrutto di Comunità di pratica rappresenti / possa rappresentare per le nostre scuole non solo uno stimolo ad approfondire e aggiornarne la conoscenza sui processi di apprendimento – questione comunque centrale – ma anche un’occasione per attrezzarsi a superare la cultura dell’isolamento professionale e dell’autoreferenzialità ancora diffusa nell’insegnamento, e a promuovere e mettere al centro pratiche di cooperazione e coordinamento.

L’apprendimento organizzativo in primo piano.

L’apprendimento organizzativo è concetto centrale nelle ricerche e negli studi sulla Comunità di pratica. Denominazione coniata da Etienne Wenger e Jean Lave,  due studiosi dell’apprendimento (filone di ricerca di matrice sociologica) che  agli inizi degli anni ’90 cominciano a pensarlo  non più come una semplice acquisizione mnemonica di nozioni astratte e formali proposte dall’esterno (l’idea tradizionale), ma come un processo di natura attiva, caratterizzato dalla partecipazione e dal coinvolgimento dell’individuo all’interno di un determinato contesto d’azione.

E lo ripensano sulla base di ricerche sulle organizzazioni e di studi sulle teorie dell’apprendimento nei vari ambiti disciplinari e su una varietà di altre teorie (della pratica, del significato, dell’esperienza situata, della soggettività …) – che hanno loro permesso di elaborare sulla base di una interpretazione multidimensionale dei processi di apprendimento, anche apprezzate elaborazioni per una efficace riprogettazione delle organizzazioni orientate alla conoscenza[3].

La comunità di pratica è il campo tematico a cui i due ricercatori dedicano più energie all’interno di questi loro interessi e studi. Il loro senso e  fondamento rinvia ai seguenti due aspetti dei processi di apprendimento in parte accennati che vale la pena di puntualizzare:

  1. L’apprendimento, non più come esperienza esclusivamente individuale e mentale, ma come fenomeno sociale e collettivo, e quindi come inscindibilmente collegato a fattori come il clima, le relazioni e  le interazioni dei contesti in cui si sviluppano. L’approdo delle ricerche su tale fenomeno sono le teorie dell’“apprendimento situato” e del “practice-based theorizing”, che enfatizzano appunto la dimensione situata ed esperienziale dell’apprendere, visto come  processo costruttivo (nel senso che costruisce conoscenza attraverso la  sperimentazione di pratiche e comportamenti condivisi), ma anche sociale e contestualizzato.
  2. L’apprendimento soprattutto come risultato delle pratiche, in risposta a bisogni e attese dei singoli e dei gruppi e delle organizzazioni in cui questi bisogni emergono (apprendimento situato[4]); e quindi elemento motore nella formazione di una conoscenza collettiva, oltre che risorsa in grado di arricchire il patrimonio di know-how dei contesti in cui in cui esso si costruisce[5].

Di questa riscoperta che recupera prime elaborazioni di Vygotskij e Schön, soprattutto Wenger ha cercato applicazioni e conferme inizialmente nelle organizzazioni di tipo aziendale e successivamente, nelle amministrazioni pubbliche e in ambiti altri (come, ad esempio, l’associazionismo e la formazione).

Da richiamare qui soprattutto il concetto di apprendimento organizzativo che Wenger e Lave mutuano da Argyris e Schön e che sviluppano attraverso un approccio che guarda a chi opera nelle organizzazioni non soltanto come soggetto di azione, ma anche come soggetto di apprendimento ‘organizzativo’; di un apprendimento, cioè, in grado di trasformare il modo di vedere la realtà del contesto organizzativo e di individuare e intervenire sulle sue criticità con un coinvolgimento collettivo.

Il modello[6] wengeriano della CdP come promettente ipotesi di lavoro

Entrando nello specifico del modello di CdP – come proposto in termini definitivi da Wenger, soprattutto nelle pubblicazioni del 1998 e del 2002[7] –  vanno qui richiamati in primo luogo i suoi cardini: la comunità e la pratica. A cui va aggiunto l’elemento motore – e quindi prioritario e fondamentale – che spinge un insieme di persone a aggregarsi: il campo tematico (termine originario: domain) – traducibile anche come l’interesse in comune tra soggetti – che spinge a sentirsi e costituirsi come comunità.

Le parole chiave

Comunità, il primo elemento che connota le CdP, è qui nozione che va oltre l’idea di “un insieme di persone che fanno lo stesso lavoro e che operano in condizioni simili” (stesso contesto e identiche attività professionali). Per caratterizzarsi come “luogo di relazione (cooperazione,  scambio, confronto), acquisendo una sua identità specifica legata alla capacità di sviluppare best practise” (I. Summa[8] ). È con questa connotazione che la comunità diventa comunità di pratica e di apprendimento.

Il peso specifico dell’dea di comunità nel concetto di CdP non risulta  però particolarmente enfatizzato da Wenger e colleghi ; anche se è innegabile la sua forza evocativa (al pari della sua ambiguità)[9].

Il secondo elemento cardine: Pratica viene rappresentato essenzialmente come risultato di un processo potenzialmente arricchente, perché  basato  soprattutto su quattro fondamentali modalità operative: interazione, cooperazione,  negoziazione e riflessività[10]. Comunque “non è  solo il fare in sé e per sé”, ma  è un ‘fare’ situato, negoziato e condiviso, diverso del tutto o in parte dal ’fare’ precedente. E comprende intese operative e cornici di significato, che sono esse stesse occasioni di apprendimento e nuova conoscenza.

Pratica quindi come espressione di cultura professionale e cultura tout court. E anche come risultato – in termini di know how – della sedimentazione del lavoro di riflessione e negoziazione del gruppo sulle esperienze maturate nello stesso ambiente o in ambienti simili.

Il  terzo elemento alla base del modello delle CdP può essere ulteriormente esplicitato come l’interesse che spinge persone animate dalla passione per lo stesso tema specifico (il Campo Tematico – CT –) ad aggregarsi in una logica di reciprocità e condivisione. Il CT non è comunque un’area astratta di interesse, ma ruota sempre intorno questioni e problemi chiave[11].

Con riferimento a questi tre elementi cardine, le CdP si configurano pertanto come ambienti di apprendimento in cui dei professionisti decidono liberamente di interagire per migliorare la propria pratica professionale attraverso soprattutto la condivisione di esperienze e la individuazione delle pratiche più efficaci per i destinatari delle stesse. Particolarmente eloquente la definizione che ne dà Wenger in Apprendimento situato (2006): “…un’aggregazione informale di attori che, nelle organizzazioni, si costituiscono spontaneamente attorno a pratiche di lavoro comuni sviluppando solidarietà organizzativa sui problemi, condividendo scopi, saperi pratici, significati, linguaggi[12].

 La svolta: si cambia pagina

Il tutto – assicurano gli Autori in più passaggi del testo, nonostante la evidente forzatura – comunque dentro una cornice in cui flessibilità e modificabilità restano sempre principi basici, tesi a garantire l’equilibrio tra la sfera più  libera e ‘autonoma’ delle CdP e quella formale dell’organizzazione (il suo contesto organizzativo di lavoro).

Con questa svolta, l’attenzione di Wenger e colleghi, dal campo della teoria dell’apprendimento si sposta su quella della progettazione ‘evolutiva’ delle CdP, e quindi sul ‘pianificare e lanciare’ CdP prevedendone strumenti, ruoli, risorse, partnership per contrastare i rischi della decadenza della sua vitalità e della sua scomparsa[14].

Le CdP continuano a collocarsi / si collocano ancora al di fuori dell’organigramma delle organizzazioni; queste  però, nella nuova prospettiva, diventano soggetti in qualche modo cruciali per la ‘coltivazione’ e il supporto alle CdP. Questa previsione – che è anche una indicazione di lavoro – di un ruolo di partnership delle organizzazioni nella vita delle CdP, viene descritta come operazione promettente per entrambe. Volta a contrastare i rischi di cui sopra per le CdP, ma promettente anche per le organizzazioni che comincia a guardare in modo più consapevole alle CdP come possibile risorsa nella prospettiva del rinnovamento e dello sviluppo dei loro saperi organizzativi: condizione non ultima per vincere le sfide inedite del nostro tempo.

Anche sotto questo aspetto, la svolta prospetta discorsi di un certo interesse anche per il mondo della scuola.

Le prospettive per le scuole e il ruolo del DS in quattro punti

Si tratta, a questo punto, di capire in termini più compiuti quali potrebbero essere gli stimoli e l’interesse che queste elaborazioni possono offrire al nostro sistema scolastico:

uno, per contrastare le criticità legate alla sua cultura organizzativa e alla cultura professionale ancora egemone (sostanzialmente caratterizzata da individualismi e autoreferenzialità e scarsa responsabilità rispetto agli esiti);

due, per far crescere una cultura della formazione in itinere del personale fondata sulla dimensione ‘situata’ degli apprendimenti (da trasferire anche nel lavoro d’aula) e orientata alla promozione di comportamenti organizzativi (pratiche) decisivi per una didattica efficace (cooperazione, interazione, mutuo aiuto, coordinamento, negoziazione del senso);

tre, per alimentare una cultura associativa (delle associazioni professionali e scolastiche in generale) più mirata sul senso delle specifiche ‘mission’ e su pratiche coerenti e finalizzate;

quattro, per verificare la possibilità di ripensare le articolazioni collegiali della funzione docente (consigli, dipartimenti, gruppi di ricerca, commissioni di lavoro…) così da rendere possibile una contaminazione delle stesse con orientamenti, logiche, strumenti propri delle CdP.

Qui si cercherà di riprendere schematicamente, per economia di discorso, solo i punti 2 e 4.

Cominciamo dall’ultimo che potrebbe riformularsi così: le articolazioni collegiali tendono a strutturarsi e a viversi come CdP, sulla base di una lettura non restrittiva dell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di cui agli articoli 6 e 12 del Regolamento (DPR 275/’99).
Si tratta concretamente di una prima approssimazione ad una ipotesi di lavoro che si pensa compatibile con lo sviluppo di CdP come emerge dagli studi indicati.

Abbiamo già visto che le CdP tendono generalmente ad attivarsi su base volontaria, eccetera; ma le pur diverse modalità di guardare alle CdP nelle fasi pre e post svolta, conservano, in entrambi i casi, un punto cardine così riassumibile: è la specificità delle situazioni di riferimento e dei contesti organizzativi che determina previsione e sviluppo dei processi più adeguati e agibili.

Nell’ipotesi che qui si prospetta, è la promozione e lo sviluppo degli apprendimenti ai diversi livelli (degli allievi, dei docenti e del DS, del personale ATA) che diventa la priorità in comune, il vero ‘campo tematico’ di ciascun organo collegiale. Che può eventualmente ridefinirlo autonomamente sulla base di propri interessi e bisogni.

Comunità di pratica si diventa comunque soprattutto attraverso a. la pratica maturata e messa in opera dentro ciascuna delle articolazioni collegiali (e di esse propria); b. la competenza professionale che si alimenta di conoscenza organizzativa nell’accezione prima precisata.

Garantire l’equilibrio tra sfera formale (la scuola come organizzazione) e quella più libera e ‘autonoma’ (le diverse aggregazioni previste o comunque attive negli Istituti scolastici), può diventare allora una strategia organizzativa possibile e promettente, a condizione – fondamentale – che le Istituzioni scolastiche si vivano come CdP quanto a modalità operative e relazionali e a pratiche condivise; dentro comunque spazi regolati dai riferimenti ordinamentali alla ragione sociale dell’essere Scuola.

In questa ipotesi diventa rilevante la figura del DS in quanto rappresentante della scuola/organizzazione, in base a come gioca il suo ruolo e al profilo che intende privilegiare.
Ma qui il discorso passa anche attraverso le figure di funzionamento organizzativo e didattico dell’istituto; e tra queste, in primo luogo, quelle di coordinamento, di collaborazione e di presidio delle aree più fragili e più strategiche nella vita della scuola. E richiede pertanto strategie adeguate che spostano ancora l’attenzione sul DS (e, prima ancora, su aggiornamenti contrattuali appropriati).

Tra le strategie possibili, quelle più funzionali al “coltivare CdP” mi sembrano quelle emerse recentemente in un gruppo di lavoro interregionale dell’Associazione professionale Proteo Fare Sapere, in preparazione della sua prossima Conferenza Nazionale[15]; se ne richiamano qui i tratti più significativi opportunamente ripensati con riferimento alla CdP:

  1. assicurare una maggiore vicinanza al lavoro dei suoi insegnanti, anche per prevenire eventuali difficoltà e problemi professionali e facilitare il loro coinvolgimento nei lavori delle articolazioni collegiali e nel loro funzionamento anche come CdP;
  2. garantire supporto e vicinanza alle figure professionali impegnate nella conduzione dei gruppi gestiti come comunità, attraverso appositi momenti strutturati e programmati o impegnati in compiti di collaborazione e di presidio delle aree più bisognose di attenzione;
  3. favorire, anche in base a quanto previsto dal ‘modello’ wengeriano, un funzionamento della scuola come memoria collettiva da coltivare e valorizzare per evitare che vada dispersa (le esperienze migliori dei gruppi di insegnanti con una marcia in più, ‘passati’ dalla scuola) e come luogo in cui si raccoglie e si classifica – e si ‘deposita’ -, con criteri che facilitino la ricerca e la fruizione di quanto può risultare didatticamente stimolante per migliorarsi come singolo e come gruppo. Impresa certamente ardua, ma comunque promettente;
  4. favorire attraverso il Piano di formazione di Istituto (PFI) la realizzazione di momenti formativi nella logica e nello spirito dell’apprendimento ‘situato’ che riprendiamo subito dopo.

Per ultima, ma comunque centrale, la formazione.

Concludo sul punto 2. con alcune annotazioni di contorno sulla “formazione” in servizio, che rimane comunque un ‘campo tematico’ per eccellenza anche delle associazioni professionali che organizzano il personale scolastico (e non solo)[16].

Qui mi preme solo richiamare che le questioni relative a quella in servizio trovano nella teoria dell’apprendimento situato sollecitazioni utili perchè riportano in primo piano l’importanza

  • della condivisione delle difficoltà e delle esperienze, delle pratiche e dei loro esiti, a partire dagli scambi di esperienze e conoscenze ‘indagate’ a più livelli e tradotte in schemi operativi ‘sensati’ e negoziati
  • dei luoghi in cui essa matura con maggiore cognizione di causa: lo specifico contesto organizzativo (la scuola di appartenenza ed eventualmente quelle di ambito) e le sue specifiche articolazioni (dipartimenti, classi parallele o aggregazioni informali proprie delle CdP), dove è più facile sviluppare apprendimenti funzionali all’ambiente in cui si opera; luoghi da vivere come spazi  di più libera ricerca, esplorazione di nuove pratiche che, opportunamente socializzate, arricchiscono il patrimonio di esperienze a disposizione della collettività[17].  

NOTE

[1] Apprezzabile quella di Patrizia di Giovanni che riserva nella sua tesi (2006) Istituzioni del cambiamento e cambiamento delle istituzioni, un lungo capitolo “Le “comunità di pratica” come setting di apprendimento collettivo”, in https://www.tesionline.it/tesi/brano/Le-“comunità-di-pratica”-come-setting-di-apprendimento-collettivo

[2] Lipari D, P. Valentini P., Comunità di pratica in pratica, Edizioni Palinsesto 2016; Tommasini M., L’apprendimento organizzativo nella scuola dell’Autonomia, in L. Benadusi, R. Serpieri (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci, dic 2000 pp. 224 – 230; Fabbri L. (2007). Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Carocci: Roma; Alessandrini G. (a cura di) (2007). Comunità di pratica e società della conoscenza. Roma: Carocci; Gherardi, S. (1998). “Apprendimento come partecipazione ad una comunità di pratiche”. In «Scuola democratica», v. 1, 2, pp. 247-264.

[3] Lave, J & Wenger ESituated Learning: Legitimate Peripherical Participation, Cambridge: Cambridge University Press, 1991, tradotto in Italia col titolo L’apprendimento situato. Dall’osservazione alla partecipazione attiva nei contesti di apprendimento. Erickson, 2006.

[4] Non assimilabile comunque all’apprendimento al lavoro e, in particolare, alle forme storiche di apprendistato, come risulta dal testo sopra citato.

[5] Sull’importanza e  il valore dell’imparare osservando e dei contesti in cui questo avviene, le botteghe artigiane del Rinascimento – che normalmente ruotavano intorno ad un artista noto,  rappresentano a tutt’oggi un modello organizzativo sul quale, per alcuni aspetti di fondo,  andrebbe ripresa la discussione (da noi aperta, almeno due decenni fa da Clotilde Pontecorvo). In queste esperienze infatti è possibile vedere in nuce il nucleo concettuale alla base delle teorie moderne dell’Apprendimento e dell’Organizzazione su cui ha lavorato Wenger. Delle quali sappiamo essere capitoli importanti per il mondo della scuola Learning by Doing (John Dewey), Learning Organization (Peter Senge ….), Cooperative  Learning (che è soprattutto una strategia didattica alla cui definizione contribuirono in misura importante David e Roger Johnson), la ‘Pedagogia del fare’ di Maria Montessori.

[6] Modello qui non indica, coerentemente con quanto è proprio delle teorie che fanno riferimenti a esperienze ‘situate’, qualcosa da imitare, fatta di canoni definiti che si fanno norma operativa; ma qualcosa a cui ispirarsi, da assumere a riferimento per ‘fare meglio’ o ‘diverso’.

[7] E. Wenger, Communities of practice – Learning, meaning, and identity, Cambridge University Press. 1998; E. Wenger, R. MCDermott, & W. M. Snyder, Cultivating Communities of Practice, HBS Press 2002. Rispettivamente pubblicati in Italia coi titoli di ‘Comunità di pratica.  Apprendimento, significato e identità’ (Franco Angeli editore, 2006) e ‘Coltivare Comunità di pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza’ (GueriniNEXT editore, 2007).

[8] I. Summa, Se il docente fa “comunità professionale, in Rivista dell’istruzione, n. 6 – 2013. V. anche al riguardo: A. Valentino, Gli insegnanti nella organizzazione della scuola, pp. 63-82 (Cap. 5 “Comunità di pratiche e leadership diffusa”), Edizioni Conoscenza 2015.

[9] Interessanti le annotazioni di Lipari-Valentini, cit. sul punto. Si chiarisce infatti che certamente l’idea di Comunità porta con sé suggestioni che possono funzionare come “potente veicolo di proselitismo per il bisogno di trovare forme elementari di solidarietà in un mondo (organizzativo) sempre più atomizzato, frammentato, anonimo e chiuso” (Cfr  C. Bauman, La grande voglia, 2001)”. Però affermano   che è difficile cogliere nell’elaborazione complessiva di Wenger e colleghi una qualche tentazione di indulgere a forme di  retorica comunitarista (mai esplicitata ma sempre presente come tratto essenziale della maggior parte  delle proposte circolanti),  perché consapevoli che dietro di esse “si nascondono ipotesi di intervento che incidono poco sulle dinamiche reali e sulle concrete relazioni organizzative”, pg. 30.

[10] Sulla riflessività, si recuperano, come è evidente, gli studi di Schön che sin dagli anni 70 del secolo scorso ne aveva fatto oggetto importante della sua elaborazione nell’ambito delle teorie dell’apprendimento. Con Wenger gli apprendimenti e le pratiche diventano significativi quando si fanno oggetto di riflessione; altrimenti sono come “gocce d’acqua che scivolano su un vetro, senza lasciare traccia alcuna”.

[11]  V. home page del sito ewenger.it (interessante) si dà rilievo soprattutto ai seguenti ambiti tematici: progettare organizzazioni orientate alla conoscenza, creare sistemi di apprendimento tra organizzazioni, la formazione permanente, ripensare il ruolo delle associazioni professionali.

[12] in E. Wenger, Apprendimento situato (2006)

[14] A queste voci corrispondono altrettanti paragrafi nel testo della svolta.

[15] V. in http://www.proteofaresapere.it/cms/resource/5271/documento-dirigenza-e-organizzazione-scolastica-2.pdf

[16] Il ripensamento del ruolo delle associazioni professionali è un campo tematico a cui Wenger guarda con particolare attenzione (v. nota 12)

[17] Si segnala al riguardo, e più in generale sulla CdP, il recente contributo di M. Giacci, Formarsi nelle comunità di pratica, www.scuolaoggi.org (giugno 2021) che riprende anche il ‘modello’ per valorizzare le CdP come contesto di formazione e autoformazione di  LipariValentini, cit..

 




Le “figure di sistema”: una questione rimossa?  

di Antonio Valentino

  1. Ha sorpreso non poco – nella Misura dedicata a Istruzione e Ricerca del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – la mancanza di riferimenti alle figure di insegnanti non solo insegnanti, indicate finora generalmente come ‘figure di sistema’ o ‘figure intermedie’ o Middle Management[1]. O anche – e forse più giustamente – ‘Figure di supporto all’Autonomia’.

Eppure sono chiari e interessanti i segnali che abbiamo letto su tale questione nel Rapporto finale di fine luglio 2020 della Commissione Ministeriale (nominata dell’allora Ministra Azzolina): Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro”[2], coordinata a suo tempo dall’attuale Ministro.

Ad essa infatti si riserva un intero capitolo (Formazione e valorizzazione delle figure a supporto dell’autonomia, pp. 44-49) e se ne evidenziano non solo il senso e l’importanza, ma anche le condizioni e i passaggi necessari (quadro di riferimento giuridico e contrattuale, meccanismi di valorizzazione delle professionalità, sviluppi di carriera e accordi contrattuali) [3]  e i problemi da prevedere e risolvere per affrontarla.

Ma segnali inequivoci al riguardo il prof. Bianchi li ha lanciati direttamente anche da ministro.
Da ciò la sorpresa, in quanti ci avevano contato, per la totale assenza nel PNRR di riferimenti all’argomento.
Ne ha dato voce recentemente, tra gli altri, e in modo preoccupato, la Rivista telematica DDi del giugno scorso,  dedicata all’analisi della Misura sopra citata del Piano.
Si tratta in effetti di ‘una assenza’ che non andrebbe sottovalutata.

  1. Ad oggi non è dato conoscere le ragioni di tale omissione: avranno probabilmente pesato timori e diffidenze nelle Organizzazione sindacali della scuola, ma anche tra gli insegnanti, per una operazione mai adeguatamente approfondita nelle sedi giuste; oppure la sottovalutazione, nello staff del ministro, della posta in gioco. Ma forse ha giocato anche la diffusa percezione che si tratti di questione a sé, scollegata, o marginale, rispetto ai grandi problemi del fare scuola.

Probabilmente però tutte e tre queste possibili ragioni hanno pesato nell’impedire una regolazione chiara e precisa – in termini di tipologia di incarichi e responsabilità, di requisiti per accedervi, di disciplina giuridica e contrattualizzazione sindacale – che ha fatto parlare giustamente, per quelle attuali, di figure aleatorie e instabili, mandate allo sbaraglio, anche perché generalmente prive della necessaria preparazione. Figure pertanto prive di appeal; e tali comunque da creare frequentemente situazioni di incertezza e instabilità nell’organizzazione e gestione della scuola e nel lavoro del DS; trattandosi, tra l’altro, di nomine annuali.

  1. Probabilmente però non si coglie ancora diffusamente l’importanza e l’urgenza della questione, sebbene il quadro generale nel quale ci si muove veda decisamente cresciuti negli ultimi decenni i livelli di complessità, anche per le nuove responsabilità e incombenze  cui fronte senza adeguati supporti. Si pensi alle trasformazioni introdotte dai processi di inclusione e dagli impegni per la sicurezza e, più in generale, ai cambiamenti che impegnano la scuola – almeno a partire dalla istituzione dell’Autonomia –  sul fronte della progettazione collegiale delle attività formative, e del loro monitoraggio, previsti per il POFT; dell’autovalutazione e rendicontazione di Istituto del SNV del 2013; della pianificazione della formazione di istituto del personale, prevista dalla L. 107/15 e dal CCNI del 2019…. .
    Tutte attività che vanno organizzate e gestite opportunamente perché non vengano considerate degli optional o comunque vissute dentro logiche da puri adempimenti formali.

È all’interno di tale quadro che si può cogliere più facilmente il senso di Figure professionali, opportunamente ‘regolate’ per sostenere i cambiamenti, e vederle come promettente risorsa per aiutare il sistema a superare le difficoltà da essi prodotti.

  1. Ma perché questo atteggiamento maturi, vanno sviluppate e chiarite alcune consapevolezze che danno fondamento al senso e alla necessità di queste figure e maggiore chiarezza ai termini di una loro regolazione. E prime tra queste:
    – che la didattica non può continuare ad essere vista come una faccenda individuale del singolo docente e la progettazione collettiva un optional[4];
    – che la qualità e l’efficacia della didattica non si possono concretizzare senza l’impegno differenziato e la preparazione di chi (insegnanti motivati e attrezzati, appunto) si faccia carico delle condizioni operative e degli strumenti e materiali che permettono l’effettivo funzionamento delle diverse articolazioni del Collegio.

Né, d’altra parte, si può continuare a pensare che gestire i gruppi in modo efficace e competente sia la stessa cosa che presiedere una riunione; e che, quindi, tempo a disposizione e preparazione e gestione degli incontri siano fattori ininfluenti sull’efficienza e sull’efficacia del lavoro dei gruppi o del presidio di aree specifiche della vita scolastica.

Oppure ritenere che tutti i docenti abbiano esperienze e competenze – o siano interessati  ad averle – per svolgere  le funzioni previste per il  coordinamento degli organismi collegiali o la cura specifica di iniziative e progetti.
Che sia giusto e doveroso che tutti i docenti abbiano le competenze per insegnare – e insegnare bene – e partecipare agli impegni collettivi, è scontato[5].

Qui però il discorso – come è subito evidente – non riguarda i compiti e le competenze dell’insegnante in quanto insegnante, ma competenze e compiti altri e diversi che devono essere svolti per garantire efficacia al lavoro nelle scuole[6].

A questo punto, il problema si sposta su come (cioè con quali dispositivi contrattuali e giuridici con quale nuova cultura professionale e quindi con quali percorsi formativi) far diventare consapevolezze e pratica professionale diffusa (e non mero adempimento formale) i ragionamenti di cui sopra; ma soprattutto su chi se ne debba far carico. Su quest’ultimo interrogativo, la risposta, in una situazione di normalità, dovrebbe essere ovvia. Ma purtroppo, nella nostra situazione non è sempre così.

Anche il mondo della scuola però – a partire dall’associazionismo professionale e dalle OOSS della scuola – non può tirarsi indietro e fare al riguardo la propria parte. La scuola è del Paese, ma chi la fa  sono quelli che ci lavorano, che devono quindi sentire il dovere di proteggerla e migliorarla.

  1. Ultimo punto. Il funzionamento dei gruppi nei quali si sviluppa la collegialità docente rinvia per forza di cose alla più generale questione organizzativa delle nostre scuole e alla necessità di un suo ripensamento per recuperarne senso e valore (la parola d’ordine della partecipazione dei DD del 1974 è ormai inadeguata a cogliere esigenze e attese della realtà di oggi). Al riguardo, l’idea di una strutturazione reticolare del Collegio[7] – non certo nuova, ma sempre lì appesa, come i caciocavalli di Benedetto Croce – può diventare una risposta promettente solo se le sue articolazioni (i vari gruppi di lavoro: consigli, dipartimenti, gruppi di progetto e di approfondimento …), diventano unità operative funzionali al POF di scuola (e – a voler volare – prime anticipazioni di comunità di pratica nelle nostre scuole).

E tutto questo ‘chiama’, verosimilmente, due essenziali condizioni: la prima che riguarda proprio le  Figure degli insegnanti non solo insegnanti e la necessità di un loro profilo professionale potenziato – dentro il ruolo docente[8]; la seconda che ci porta al profilo del DS e alla necessità di una sua opportuna rimodulazione che si faccia carico delle nuove ‘competenze’ della scuola e dei cambiamenti del lavoro docente e delle responsabilità che ne derivano (e delle quali abbiamo difficoltà a parlare).
Rimodulazione che tenda a spostare il focus dell’impegno professionale ds

  1. su una maggiore vicinanza al lavoro dei suoi insegnanti, anche per prevenire eventuali difficoltà professionali e facilitare il loro coinvolgimento nei lavori delle articolazioni collegiali;
  2. sul supporto alle figure professionali impegnate nella conduzione dei gruppi ecc..

Sulla base di queste considerazioni – fermo restando il necessario approfondimento degli aspetti ancora problematici[9] -, passaggi ulteriori dovrebbero riguardare la costruzione di una di una leadership distribuita, in grado di valorizzare competenze ed esperienze che maturano nelle figure professionali al centro di queste riflessioni.  E non solo di esse, ovviamente.

Ma con questi temi, siamo oltre gli intenti di queste note.

[1] V. A. Valentino, Insegnanti non solo insegnanti, in Gli insegnanti nell’organizzazione scolastica, Edizioni Conoscenza, 2015

[2] L’argomento è affrontato con chiarezza in un apposito capitolo dal titolo ‘Le figure di sostegno all’autonomia’ (pp.44 sgg)

[3]A tutte le figure a supporto dell’autonomia, sono richieste competenze e responsabilità diverse. Ma non ci sono standard di riferimento, mancano indicazioni per eventuali sviluppi di carriera, gli accordi contrattuali sono assai generici. A fronte di una certa vaghezza giuridica e contrattuale c’è una realtà molto ricca, articolata e complessa che avrebbe bisogno di un nuovo quadro di riferimento (giuridico e contrattuale). Per qualificare ulteriormente le diverse figure professionali sarebbe forse utile prevedere nuovi meccanismi di valorizzazione delle professionalità e processi di reclutamento più funzionali.” (dal Il Rapporto finale del 23 luglio 2020, del Comitato ministeriale coordinato dal prof. Patrizio Bianchi)

[4] Per questo paragrafo, ho seguito, considerandole stimolanti e condivisibili, alcune considerazioni di P. Calascibetta, Figure di sistema: questa volta partiamo dal problema, in “Nuovo Pavone Risorse (www.gessetticolorati.it/dibattito), maggio 2021, svolte su un mio articolo: Figure di sistema e questione organizzativa. Farci i conti, in “Nuovo Pavone Risorse”, www.https://www.gessetticolorati.it/.it – Maggio 2021, dove si cerca di presentare un quadro più compiuto sull’argomento.

[5] G. Cerini ha sempre sostenuto (e tanti con lui, anche chi scrive queste note) che forme di premialità andrebbero previste (accelerazione di carriera, altre forme di riconoscimento) per gli insegnanti che investono sulla loro professionalità (ricercando, sperimentando, formalizzando esperienze ecc.) e conseguono risultati significativi, misurabili attraverso evidenze riconosciute come tali da apposite Commissioni interne (esiti di apprendimento soddisfacenti anche di allievi in situazioni critiche; costruzione e realizzazione di progetti didattici proponibili anche in altri contesti similari…).

[6] Sul punto però non vanno minimizzati né il rischio cosiddetto di aziendalizzazione della scuola, nè le preoccupazioni di ricadute divisive per il personale scolastico. di cui parlano un po’ da sempre le organizzazioni sindacali della scuola, e non solo loro. La questione è certamente complessa, come è seria la problematica del recupero di efficacia e di efficienza dell’organizzazione scolastica per assolvere alle sue finalità. La letteratura è vasta al riguardo. Quelle che vanno contrastate sono le derive autoritarie che possono esserci dietro certe trasformazioni organizzative e va invece promossa e sostenuta, attraverso strategie ad hoc, una cultura che assume e ‘agisce’ le posizioni organizzative che si ricopre non come posizione di autorità, ma come insieme organico di funzioni e compiti che devono essere svolti per garantire efficacia al lavoro nelle scuole. V. L. Benadusi, R. Serpieri (a cura di), Organizzare la scuola dell’autonomia, Carocci 2000, pp. 93 sgg.)

[7] V. mio contributo citato nella nota 5.

[8] Qui comunque si pensa a figure scelte dal collegio (altro è il discorso per i collaboratori del DS) e nominate dal DS e a incarichi almeno triennali, in coerenza con la durata di vigenza del POFT, ma non a tempo indeterminato.

[9] V. in http://www.proteofaresapere.it/cms/resource/5271/documento-dirigenza-e-organizzazione-scolastica-2.pdf, un interessante contributo – di un Gruppo interregionale dell’Associazione Nazionale Proteo Fare Sapere – sulle questioni ancora aperte e alcune ipotesi di lavoro.