La prima delle tre parti dell’articolo di Stefanel[1], pubblicato qualche giorno fa su questa Rivista, si conclude, dopo aver elencato la maggior parte degli investimenti del PNRR per la scuola (PNRR “Dispersione e divari territoriali, PNRR Classroom e Labs, Docenti Tutor, Piano Nazionale Scuola Digitale – STEAM, Poli Formativi per la transizione digitale ….), con le seguenti considerazioni: “…. ritengo che le tempistiche [dei vari investimenti] siano mal modulate, le finalità non sempre chiare e l’impianto piuttosto debole nella sua strutturazione didattica e contorto in quella economica e gestionale.” Considerazioni che ho letto come una sostanziale bocciatura dell’operato ministeriale.
La seconda parte vira invece specificamente sulle questioni della natura e della gestione del sistema scolastico nazionale e introduce la problematica dell’autonomia scolastica, definita ‘funzionale’ nel Regolamento dell’Autonomia[2] e ne richiama la differenza rispetto alle autonomie locali. E questo perché l’autore dell’articolo ritiene che la ‘debole comprensione’ di tale differenza porti molti ds, docenti e dsga a pensare “ che lo stato debba negoziare con le autonomie funzionali [tra cui la Scuola] i suoi obiettivi di sistema [essendo queste] deputate a sviluppare, nella realtà locale in cui operano, gli obiettivi del sistema”.
Considerazione che lo spinge a pensare che anche i progetti e gli investimenti del PNRR, che rispondono a obiettivi di sistema (volti a superarne difficoltà e criticità) difficilmente potranno andare a buon fine in quanto sono destinati ad essere neutralizzati – semplifico sperando di interpretare correttamente l’assunto di Stefanel – da quegli insegnanti che non vogliono sottostare ad essi in nome dell’autonomia funzionale. E continuare quindi – tali insegnanti – in una “pratica didattica ancora trasmissiva e cartacea che ormai non ha uguali nel mondo” e ad una pratica valutativa che li rende “paladini dei voti bassi e delle bocciature in nome della libertà d’insegnamento, considerata come un bene assoluto del docente”.
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“La grande rivoluzione del merito”, annunciata dal Ministro a tambur battente a fine marzo, si è materializzata nelle sue linee portanti il 5 aprile col Decreto n. 63 e con la Circolare ministeriale, stessa data, con oggetto: Avvio delle iniziative propedeutiche all’attuazione delle Linee guida sull’orientamento[1] – A.S.2023-2024 (sottotitolo: Il tutor scolastico: prime indicazioni).
Dal Decreto si derivano essenzialmente queste indicazioni:
si destinano 150 milioni di euro alle istituzioni scolastiche statali del II ciclo di istruzione e più precisamente alle ultime tre classi -, per ‘valorizzare’ l’impegno dei docenti chiamati a svolgere la funzione di tutor e di orientatore”.
si precisano i requisiti dei docenti interessati per l’accesso alla formazione – a carico dell’Indire e per la durata di 20 ore -: condizione per svolgere le funzioni delle due figure;
si prevede che le iniziative da mettere in campo siano destinate alle classi del secondo biennio e dell’ultimo anno del Secondo Ciclo e che le figure saranno attive a partire dal prossimo anno scolastico.
La CircolareMinisteriale definisce invece in modo particolare le cose fondamentali che c’è da sapere: gli obiettivi dell’orientamento, le attività che devono svolgere le due figure e la consistenza dei raggruppamenti di studenti destinatari delle attività proposte; la consistenza come criterio per il compenso alle due figure.
Quanto agli obiettivi dell’operazione, si precisa che sono: (a) rafforzare il raccordo tra il primo e il secondo ciclo di istruzione e formazione, per permettere una scelta consapevole che valorizzi le potenzialità e i talenti degli studenti e, inoltre, (b) contribuire alla riduzione della dispersione scolastica e dell’insuccesso scolastico e (c) favorire l’accesso alle opportunità formative dell’istruzione terziaria”.
Obiettivi sostanzialmente condivisibili se solo non evidenziassero una vistosa incongruenza.
Praticamente si dice: obiettivo urgente e prioritario è il raccordo tra la secondaria di primo grado e il biennio successivo – per le ragioni a tutti note -, ma il decreto prevede di intervenire prioritariamente sulle ultime tre classi della secondaria. Così. Un arcano.
disegno di Matilde Gallo, anni 10[/caption]
di Antonio Valentino
La percezione
In questi ultimi mesi l’attenzione di dirigenti scolastici, insegnanti, personale tutto è apparsa rivolta essenzialmente alla gestione dei fondi previsti per il Piano, agli adempimenti a cui si è chiamati, all’uso della piattaforma messa a disposizione per facilitarne le operazioni.
Sono tuttora abbastanza rari gli incontri in presenza in cui socializzare dubbi, perplessità, limiti.
Poco e male finora sono entrate nel dibattito – anche in quello pubblico in generale – le ragioni per cui l’Unione Europea[1] ha previsto investimenti – in misura come mai prima era successo – su settori strategici della vita pubblica e, tra questi, quelli di Scuola e Università.
La stessa Amministrazione centrale – a partire dal Ministro – e quella periferica hanno finora dimostrato scarsa consapevolezza della dimensione strategica e della centralità e rilevanza della problematica dei divari territoriali anche in fatto di istruzione; e quindi dell’importanza di strategie di contrasto agli insuccessi e agli abbandoni precoci da mal di scuola che, nel nostro Paese, risultano tra i più alti d’Europa.
Anche altri due progetti del Piano Scuola del PNRR – ‘Zero-Sei’ e ‘Ambienti di apprendimento (‘Aule’ e ‘Laboratori’) – possono ben essere visti come occasioni importanti per contrastare alla base i fenomeni di inadeguatezza del nostro sistema di istruzione, cause non secondaria della dispersione.
A questi è ancora da aggiungere il progetto sull’orientamento (le Linee Guida nel Decreto Ministeriale sono del 22 dicembre 2022), perché anche Orientamento è parola chiave nelle misure previste dal DM 170 sul contrasto alla dispersione[2].
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di Antonio Valentino
Tra dati di fatto e percezioni fondate
Sulla questione ‘nuova emergenza Covid’, considererei soprattutto i seguenti aspetti:
Il dato di fatto con cui anche la scuola è costretta a confrontarsi in queste settimane – con la variante ‘Omicron’ che impazza – è che l’uscita dal Covid non ci è ancora dato di vederla all’orizzonte, come si pensava fino ad alcune settimane fa grazie alla vaccinazione di massa in atto da mesi.
Comunque la crescita percentuale del contagio nelle ultime due settimane (10-16 e 17-22 gennaio) ha continuato a scendere: vi sono ormai “evidenze certe di una decelerazione della curva epidemica, in linea con quanto osservato in altri Paesi” (Franco Locatelli, Coordinatore del CTS)
È percezione fondata che il contagio con l’ultima variante non sembra comportare i rischi gravissimi (persone in terapia intensiva e esiti letali) delle prime ondate, a seguito delle misure adottate.
Le consapevolezze dell’attuale situazione – a. la convivenza obbligata col virus però depotenziato nei suoi esiti più dolorosi (il riferimento è alla variante ultima, la più contagiosa); b. gli strumenti di difesa dal Covid sempre più disponibili e mirati – è condizione di un diverso sguardo anche sul futuro prossimo del mondo scolastico.
Proviamo, con i ragionamenti che seguono, a riavvolgere il nastro di questa storia degli ultimi due anni con riferimento alla scuola, per individuare qualche direzione di marcia sensata e possibile, per gestire al meglio la fase sulla base dei dati e delle consapevolezze di cui ai punti precedenti.
A tal proposito, è opportuno richiamare in prima battuta che il blocco delle attività didattica in presenza nel 2020 – e l’avvio della Didattica a Distanza (DaD), è stato certamente l’evento tra i più drammatici che il mondo della scuola abbia vissuto dal secondo dopo guerra.
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di Antonio Valentino
Un contributo stimolante di Maviglia e Bertocchi per rilanciare la dimensione teatrale del mestiere dell’insegnante
Nei percorsi formativi per il personale della scuola – e probabilmente non solo – il noto studioso austriaco di leadership e apprendimento, Michael Schratz, discostandosi dalle pratiche più comuni nel suo paese (e anche dal nostro), prospetta, già dagli inizi del secolo, un modello che prevede di partire non già dalla consapevolezza di non avere competenze adeguate, ma piuttosto dalla incompetenza non-consapevole – unconscious incompetence – (essere inconsapevoli di non avere le competenze richieste) per giungere alla prima tappa: la incompetenza consapevole – conscious incompetence – (sapere di non sapere).
Pertanto la prima preoccupazione del formatore dovrebbe essere quella di aiutare le persone a diventare consapevoli dei propri bisogni. Solo questa consapevolezza (della mancanza e dei suoi risvolti negativi) permette di procedere verso la competenza consapevole[1].
La tesi sostenuta è che “il lavoro dell’insegnante sia fortemente intriso di teatralità – spesso agita in modo del tutto inconsapevole da parte dei docenti – anche se dentro un quadro contraddistinto da una serie di condizionamenti e aspettative. Quadro nel quale, come ben sappiamo, e nel libro si richiama esplicitamente, ogni insegnante, “recita la sua propria parte – un po’ come fa un attore – in base ad un personale copione[2], più o meno elaborato e più o meno efficace, rispetto agli obiettivi perseguiti”.
Dove il termine copione traduce il cosa e il come viene rappresentato nella classe, ben assimilabile ad una scena definita ‘educativa’ per le sue specifiche caratteristiche.
Il convincimento, esplicitato già dalle pagine iniziali della prima delle due parti, redatta da Maviglia, è che l’acquisizione di uncopione più evoluto raffinato e flessibile passa necessariamente attraverso una specifica formazione; a partire dalle competenze proprie della comunicazione verbale e non verbale (tratto fondamentale del profilo docente). E ciò, nonostante gli studi e le ricerche che, almeno dagli anni ’70 del secolo scorso si sono susseguite meritoriamente nel panorama internazionale e anche nazionale[3].
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di Antonio Valentino
Alcune ragioni per parlarne.
La percezione diffusa, mi sembra, è che la nostra scuola sia stata poco coinvolta dal dibattito e da esperienze legati alla Comunità di Pratica (d’ora in avanti: CdP). Prima della pandemia è stato oggetto di interesse soprattutto nei convegni e nelle sedi universitarie dove si coltivano questioni riguardanti le teorie dell’apprendimento. Non sono mancate tesi di laurea e pubblicazioni [1] – molto più numerose di quanto si possa credere – che hanno approfondito l’argomento proponendo anche esperienze maturate in Italia[2]. Però la loro risonanza era e continua ad essere ancora modesta.
Nello stesso sito dell’Indire, alla voce ‘Comunità di pratica’ , vengono riportate poco più di un centinaio di iniziative e studi, che però si riferiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, a progetti italiani ed europei di School Improvement (progetti di miglioramento delle scuole), che solo tangenzialmente toccano questioni riconducibili specificamente alle CdP e alle ricerche ed elaborazioni al centro di queste riflessioni.
Però, a ben vedere, non poche, nè di poco conto sono le ragioni che spingono anche e soprattutto le persone di scuola ad avvicinarsi a tali questioni, in quanto volte a capire più e meglio la natura dell’apprendimento come fenomeno sociale collettivo e a coltivare quindi luoghi e strategie che ne permettono lo sviluppo.
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Ha sorpreso non poco – nella Misura dedicata a Istruzione e Ricerca del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – la mancanza di riferimenti alle figure di insegnanti non solo insegnanti, indicate finora generalmente come ‘figure di sistema’ o ‘figure intermedie’ o Middle Management[1]. O anche – e forse più giustamente – ‘Figure di supporto all’Autonomia’.
Eppure sono chiari e interessanti i segnali che abbiamo letto su tale questione nel Rapporto finale di fine luglio 2020 della Commissione Ministeriale (nominata dell’allora Ministra Azzolina): “Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro”[2], coordinata a suo tempo dall’attuale Ministro.
Ad essa infatti si riserva un intero capitolo (Formazione e valorizzazione delle figure a supporto dell’autonomia, pp. 44-49) e se ne evidenziano non solo il senso e l’importanza, ma anche le condizioni e i passaggi necessari (quadro di riferimento giuridico e contrattuale, meccanismi di valorizzazione delle professionalità, sviluppi di carriera e accordi contrattuali) [3] e i problemi da prevedere e risolvere per affrontarla.
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di Antonio Valentino
Perché parlare delle “figure di sistema” [1]C’è un problema oggi – tra i tanti del nostro sistema scolastico – di cui spesso si parla, ma che si fa difficoltà ad aggredire: la demotivazione di larga parte dei docenti, che spesso non li fa sentire dentro il ‘progetto culturale ed ‘educativo’ delle proprie scuole; e li spinge verso una visione vicina a quella impiegatizia del proprio lavoro.
Sono considerati sostanzialmente come optional attività come: coltivare competenze e ed esercitare responsabilità (nel senso di aggiornare e sviluppare capacità professionali e di dar conto dei processi che si mettono in atto e dei risultati in rapporto a quello che si progetta); o vivere positivamente la dimensione collegiale del proprio lavoro.
Per capire meglio il problema dall’interno, è opportuno allargarne il quadro di riferimento alla più larga e impegnativa questione organizzativa delle nostre scuole che, su questo aspetto specifico, si lega al tema – anch’esso ancora problematico – dell’Autonomia scolastica.
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di Antonio Valentino
La notizia l’ho letta solo stamattina. Stavo infatti scrivendo per lui un articolo che mi aveva chiesto per il numero di luglio-agosto di Rivista della Istruzione.
È stato un colpo di quelli che fanno male. Come ho potuto avvertire anche nei messaggi delle amiche e amici con cui si è voluto condividere un pensiero per lui.
Mi piace ricordarlo attraverso una sua lettera del mese scorso – scritta nel pieno delle urgenze della sua malattia che lo affliggeva da tempo – nella quale si coglie immediatamente la concretezza dei suoi interessi professionali (che per lui erano anche esistenziali, ma mai ossessivi); l’attenzione ‘militante’ al mestiere dell’insegnante e alla necessità di valorizzarne il merito come valore che genera la qualità del fare scuola, ma anche l’occhio vigile al ‘contesto’ e alle condizioni che ne favoriscono l’impegno; un modo di guardare ai problemi cercando di vedere sempre l’oltre, come luogo dell’approdo alla soluzione che possa funzionare; la condivisione come cifra della scuola democratica.
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di Antonio Valentino
Parto dal Decreto sulla Didattica Digitale Integrata (DDI) del 26 giugno scorso (in GU dal 20.8), per cercare di capire qualcosa in più sullo stato dell’arte della nostra scuola a tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico: con l’Infanzia, la Primaria e le prime classi della secondaria di I grado aperte da settembre, ma con alterna fortuna e non ovunque (dal 30 novembre, anche le seconde e le terze di quest’ultima); e le ‘Superiori’ che continuano con la Didattica da remoto, con le varianti previste dal Decreto.
Decreto la cui ’sostanza’, come è noto ai più, può essere così sintetizzata:
l’obiettivo: fornire indicazioni (Linee Guida) sulla DDI – intesa come metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento” (?!) –;
il compito: “integrare la didattica in presenza” (con attività laboratoriali e interventi sugli studenti con BES, ove possibile, entro però spazi orari delimitati), garantendo comunque un “bilanciamento tra attività sincrone e asincrone”;
i destinatari: “tutti gli studenti della scuola secondaria di II grado, nelle situazioni in cui c’è Didattica a Distanza” (DaD).
La DDI – si stabilisce – può però essere estesa anche agli altri ordini e gradi scuola, ma solo in caso di un nuovo lockdown generalizzato.
Questo, in buona approssimazione, il quadro generale delle disposizioni entro cui la nuova metodologia della DDI dovrebbe poter esprimere la sua carica innovativa. Se, ovviamente cercandola, la si trovi.
Il passaggio principe previsto, perché l’operazione si concretizzi: “Elaborare un Piano Scolastico di Didattica Digitale Integrata”. Di questo in effetti, in tanti tra ds e docenti, avvertivano acuta mancanza.
Il quale Piano però, per essere elaborato come si deve, deve qualificarsi con ‘ingredienti’ di peso puntualmente indicati nel Decreto. Tra questi, si segnalano, a ben leggere, soprattutto i seguenti tra i fondamentali:
– “integrare il Regolamento d’Istituto con specifiche disposizioni in merito alle norme di comportamento da tenere durante i collegamenti ….” (guai – si sottintende – a evitare questo imperdibile passaggio);
– “disciplinare le modalità di svolgimento dei colloqui con i genitori, degli Organi Collegiali … e di ogni altra ulteriore riunione” (la cui urgenza e significatività, chi la può negare?);
– “Individuare gli strumenti per la verifica degli apprendimenti inerenti alle metodologie utilizzate” – e qui siamo nell’ordinario – e specificare (è la nota qualificante) che “… qualsiasi modalità di verifica di una attività svolta in DDI non [può] portare alla produzione di materiali cartacei …” (non sia mai …)
Una perla a sé è la seguente:
– preoccuparsi (soggetto, gli insegnanti) “di salvare gli elaborati (sic!) degli alunni medesimi e di avviarli alla conservazione (sic! Sic!) all’interno degli strumenti di repository a ciò dedicati” (No comment)
C’è da chiedersi, anche solo con questi richiami, e senza voler tirare in ballo l’autonomia e altro: ma, un Ministro come fa a pensarle così e tutte insieme o a consentirle? Ce ne vuole!