Trasformare l’istruzione, costruire il nostro futuro

di Aluisi Tosolini

Il vertice delle Nazioni Unite Transforming Education è stato convocato in risposta a una crisi globale dell’istruzione, che riguarda l’equità e l’inclusione, la qualità e la pertinenza. Spesso lenta e invisibile, questa crisi sta avendo un impatto devastante sul futuro dei bambini e dei giovani di tutto il mondo allontanando il raggiungimento dell’obiettivo 4 dei “Goals per lo sviluppo sostenibile” (SDG 4).

Il Vertice offre un’opportunità unica per portare l’istruzione in cima all’agenda politica globale e per mobilitare l’azione, l’ambizione, la solidarietà e le soluzioni per recuperare le perdite di apprendimento legate alla pandemia e gettare i semi per trasformare l’istruzione in un mondo in rapida evoluzione.
Il vertice è nato anche sulla spinta del lavoro della commissione  International Commission for the future of education dell’Unesco che nel novembre 2021 ha pubblicato un fondamentale rapporto dal titolo “Reimagining our futures together: A new social contract for education” .

La discussione del vertice è stata ampiamente preparata nel corso dei mesi passati grazie al lavoro svolto su 5 Action track, ovvero cinque percorsi tematici e tracce d’azione

Gli Action Track cercano di mobilitare nuovi impegni, mettendo in evidenza gli interventi politici che funzionano e sfruttando le iniziative e le partnership esistenti, comprese quelle emerse in risposta alla pandemia di COVID-19.

Vediamo analiticamente i 5 action track riprendendone la descrizione dal sito del summit

Action Track 1: Scuole inclusive, eque, sicure e sane

L’istruzione è in crisi. La povertà, l’esclusione e la disuguaglianza di genere continuano a impedire a milioni di persone di apprendere. In aggiunta a ciò, il COVID-19 ha messo in luce le disuguaglianze nell’accesso e nella qualità dell’istruzione. Inoltre, sono aumentati la violenza, i conflitti armati, i disastri e l’inversione dei diritti delle donne.

L’educazione inclusiva e trasformativa serve a garantire che tutti gli studenti abbiano pieno accesso e prendano parte all’istruzione. Che gli studenti siano sani e salvi, liberi da violenza e discriminazione.

Problemi chiave

  • Inclusione ed equità
  • Educazione trasformativa di genere
  • Scuole sicure
  • Salute e alimentazione scolastica
  • Educazione nelle emergenze e nelle crisi prolungate

Action Track 2: Apprendimento e competenze per la vita, il lavoro e lo sviluppo sostenibile 

C’è una crisi nell’apprendimento di base. Mancano competenze di alfabetizzazione e calcolo tra i giovani studenti. Nel 2020, oltre 770 milioni di persone non avevano competenze di alfabetizzazione di base. Due terzi dei quali erano donne.

Trasformare l’istruzione significa conferire agli studenti conoscenze, abilità e valori. Costruire atteggiamenti per essere resilienti, adattabili e preparati per il futuro incerto. Contribuire al benessere umano e planetario e allo sviluppo sostenibile.

Problemi chiave

  • Apprendimento fondamentale (dalla prospettiva dell’apprendimento permanente)
  • Competenze per l’occupazione e l’imprenditorialità
  • Educazione allo sviluppo sostenibile compresa l’educazione ambientale

Action Track 3: Insegnanti e professione docente

Gli insegnanti sono essenziali per raggiungere i risultati dell’apprendimento e per raggiungere l’SDG 4. Ma l’istruzione deve far fronte a carenza di personale, mancanza di opportunità di sviluppo professionale e basso status.

Accelerare il progresso verso l’SDG 4 e trasformare l’istruzione richiede un numero adeguato di professionisti. Insegnanti e personale educativo formati, motivati e supportati. Per raggiungere questo obiettivo, l’istruzione ha bisogno di finanziamenti e politiche forti.

Problemi chiave

  • Carenze di insegnanti
  • Sviluppo professionale iniziale e continuo – pedagogie
  • Condizione professionale e condizioni di lavoro
  • Leadership educativa, innovazione

Action Track 4: apprendimento e trasformazione digitale

La crisi del COVID-19 ha portato innovazioni senza precedenti nell’apprendimento a distanza sfruttando le tecnologie digitali. Allo stesso tempo, i divari digitali hanno escluso molti dall’apprendimento. Più di due terzi degli studenti in età scolare (1.3 miliardi di bambini) non avevano accesso a Internet da casa. Queste disuguaglianze nell’accesso hanno fatto sì che alcuni gruppi, come giovani donne e ragazze, fossero esclusi dalle opportunità di apprendimento.

La trasformazione digitale richiede lo sfruttamento della tecnologia come parte di sforzi sistemici più ampi. Rendere la tecnologia più inclusiva, equa, efficace, pertinente e sostenibile.

Problemi chiave

  • Trasformazione digitale dei sistemi educativi
  • Connettività/riduzione del divario digitale; tecnologie inclusive/assistenziali
  • Contenuti di formazione digitale gratuiti, aperti e di alta qualità
  • Cittadinanza digitale, benessere, privacy e sicurezza

Action Track 5: finanziamento dell’istruzione

La spesa globale per l’istruzione è cresciuta, ma è ostacolata dall’elevata crescita della popolazione. La gestione dell’istruzione durante la pandemia di COVID-19 e la riduzione degli aiuti ha lasciato l’istruzione con un grave divario finanziario.

In questo contesto, il primo passo verso la trasformazione è esortare i finanziatori a reindirizzare le risorse all’istruzione per colmare il divario di finanziamento. In seguito, i paesi devono disporre di finanziamenti maggiori e sostenibili per raggiungere l’SDG 4. Queste risorse devono essere allocate e monitorate in modo equo ed efficace.

Affrontare le lacune nel finanziamento dell’istruzione richiede una politica in:

  • Mobilitare più risorse, soprattutto domestiche
  • Aumentare l’efficienza e l’equità degli stanziamenti e delle spese
  • Miglioramento dei dati sul finanziamento dell’istruzione

La determinazione di quali aree devono essere finanziate e come sarà informata dalle raccomandazioni di ciascuno degli altri quattro binari.

Problemi chiave

  • Finanziamenti adeguati e sostenibili adeguati alle esigenze del Paese
  • Equità ed efficienza della spesa per l’istruzione

The Youth Declaration on trasforming education

Uno dei documenti chiave presentati al Summit è la Dichiarazione dei giovani presentata come contributo dei giovani alla Sintesi della presidenza del Vertice sulla trasformazione dell’istruzione.
L’obiettivo della dichiarazione è quello di stimolare l’impegno politico sulla necessità di trasformare l’istruzione e di far sì che i giovani si approprino di questo processo.
La dichiarazione (disponibile in inglese al seguente link ) è costituita da un preambolo, 25 richieste specifiche ai decisori politici, e cinque impegni che i giovani assumono direttamente e che chiudono il documento.
Ne riportiamo qui la traduzione (effettuata automaticamente con DeepL)

Guidati dai principi, dagli scopi e dalle richieste di cui sopra, noi – i giovani del mondo – ci impegniamo a:

  1. Continuare a essere solidali con tutti i giovani in tutto il mondo e in tutta la loro diversità, in particolare con le giovani donne e le ragazze, i giovani LGBTIQ+, i giovani con disabilità, i giovani rifugiati e migranti, i giovani indigeni e altri gruppi vulnerabili ed emarginati, per trasformare l’istruzione;
  2. Continuare a sostenere la trasformazione dell’istruzione individualmente e collettivamente attraverso movimenti sociali, organizzazioni della società civile, soluzioni guidate dai giovani e altro ancora;
  3. Continuare a ritenere i responsabili delle decisioni, in particolare gli Stati membri, responsabili durante l’intero processo di progettazione, esecuzione, consegna, monitoraggio e valutazione delle richieste di cui sopra, assicurando che i nostri quadri di responsabilità siano trasformativi dal punto di vista del genere;
  4. Lanciare un piano d’azione coordinato dalla Rete dei Giovani SDG4 per portare avanti le suddette richieste oltre il Vertice, mobilitare le parti interessate per continuare a far crescere un movimento globale per la trasformazione dell’istruzione e dotare i giovani delle competenze necessarie per sostenere un’istruzione di qualità sia a livello locale che globale;
  5. Promuovere il dialogo e la cooperazione intergenerazionale, interculturale e interreligiosa nei sistemi educativi di tutte le comunità, paesi e regioni per creare un mondo migliore costruito sulla solidarietà, la diversità, l’empatia, la comprensione reciproca e il rispetto.

Link al documento: https://www.un.org/sites/un2.un.org/files/2022/09/tes_youthdeclaration_en.pdf




Ius scholae, un dibattito quasi lunare

di Aluisi Tosolini

Si dibatte (anche molto aspramente) in questi giorni della proposta di legge definita jus scholae che interviene sul tema della cittadinanza.

La mia personalissima impressione – dal punto di osservazione in cui mi trovo – è che il dibattito in realtà abbia qualcosa di lunare, marziano, sia fuori dal mondo.

Sto facendo in questi giorni il presidente di commissione degli esami di stato in un grande e notissimo centro della provincia di Parma dove la percentuale dei cittadini stranieri residenti (quindi sia comunitari che extra comunitari) è pari al 21,2% (una persona su 5).
Nella provincia di Parma i cittadini stranieri sono il 14,7%, mentre a livello regionale la percentuale è pari al 12,6%  della popolazione contro l’8,4 di media nazionale (e l’Emilia Romagna è la prima regione in Italia per incidenza di stranieri residenti).

Gli studenti delle classi che stanno facendo gli esami rispecchiano la composizione sociale della popolazione della zona. Con diversi candidati abbiamo discusso anche della proposta di legge sulla cittadinanza che si sta dibattendo in parlamento.
Trovarsi davanti candidati 19enni, nati in Italia e che conoscono benissimo la lingua italiana, ben inseriti nel tessuto sociale, molti con un contratto di lavoro già in tasca presso le aziende del distretto che senza lavoratori stranieri sarebbero costrette a chiudere, fa impressione.
Sono italianissimi (certo più italiani di molti discendenti di antichi emigrati in sud America che per lo jus sanguinis potrebbero ottenere la cittadinanza italiana senza fatica) ma non sono cittadini.
A loro manca un diritto fondamentale, quello della partecipazione alla vita sociale e politica da soggetti attivi, votanti. Manca il sentirsi davvero a casa, il non essere e il non percepirsi come ospiti, cittadini di serie B.
Hanno frequentato le scuole in Italia, molti dalla scuola dell’infanzia in avanti e quindi ben più dei 5 anni richiesti dalla legge e che Fratelli d’Italia anni fa chiedeva fossero 8. Prenderanno il diploma, diversi si iscriveranno all’università.
Perché non dovrebbero avere la pienezza della cittadinanza italiana se lo chiedono e lo desiderano?

Una questione di coesione sociale

Personalmente credo che riconoscere queste persone come cittadini italiani sia non solo doveroso dal punto di vista etico e politico ma anche necessario dal punto di vista socio-economico. Sono questi i cittadini che terranno in piedi l’economia italiana nei prossimi anni. Sono loro che con il loro lavoro che finanzieranno l’INPS. Sono loro la linfa vitale della nostra società futura. Chi sostiene, surrettiziamente e ricorrendo alla solita tecnica del benaltrismo, che i problemi dell’Italia d’oggi sono altri, e nello specifico la crisi economica, i salari, l’inflazione il costo della vita, non si accorge che proprio a motivo di questi problemi economici sarebbe interesse dell’Italia riconoscere la cittadinanza a chi vive da anni in Italia.

La loro posizione pecca di iper-culturalismo ovvero l’opposto di quanto dicono. Appartengono a quanti farneticano attorno alle teorie della sostituzione etnica senza accorgersi che il declino della società italiana è già in atto e vede come responsabili primi proprio gli italiani stessi.
Da qui la necessità di riconoscere come nuovi italiani quanti hanno fatto un percorso scolastico in Italia: è una questione di coesione sociale. Infatti solo chi è pienamente cittadino fa parte compiutamente della società e può essere chiamato ad operare per il suo miglioramento, la sua crescita, il suo sviluppo ma anche il suo cambiamento, la rinegoziazione delle norme e delle regole del convivere sociale. Chi non è cittadino è ospite e come ospite non è tenuto a connettersi compiutamente alla rete sociale secondo logiche solidaristiche.

La centralità della scuola

La legge proposta, sin dal titolo, riconosce la centralità della scuola nella formazione di una persona e di un cittadino. Si tratta di una valorizzazione della cultura nel processo di acculturazione che conduce a condividere la lingua, le regole della convivenza, i valori di fondo che tengono assieme il tessuto sociale.
E’ il riconoscimento che la scuola forma in primo luogo cittadini e a questo scopo utilizza i saperi, le conoscenze e le competenze organizzandole dentro percorsi significativi di crescita umana, sociale, politica.
La proposta di legge riconosce alla scuola un compito e un valore spesso nascosti o negati dall’opinione pubblica che della scuola ha spesso una concezione distorta e decisamente parziale come il dibattitto di questi mesi ha più volte evidenziato con la richiesta di ritornare alla scuola di un tempo, quella che dava vere e solide conoscenze, quella che bocciava, che usava i voti come mannaia, quella che creava dispersione e abbandono Una scuola di classe tesa a sorvegliare e punire piuttosto che a formare cittadini critici e partecipi.

E’ di noi che qui si parla….

Così la discussione sulla legge è in realtà la discussione su noi stessi. Su chi siamo e su chi vogliamo essere. Sul presente e sul futuro della nostra società e della nostra scuola.
E, stando alle posizioni viste in questi giorni, l’orizzonte è abbastanza depressivo

https://www.giuseppebrescia.it/ius-scholae-ecco-il-testo-per-una-nuova-legge-sulla-cittadinanza/

 

 




Ripensare la riapertura delle scuole in presenza

di Aluisi Tosolini

Qualche giorno in 15 dirigenti scolastici abbiamo rivolto un appello al Presidente Draghi e al Ministro Bianchi chiedendo loro di ripensare la decisione di riaprire le scuole in presenza dal 7 gennaio.
In 12 ore l’appello è stato firmato da 2200 colleghi.
Non era e non è un invito a 15 giorni di vacanza in più.
Credo che in questi ultimi due anni abbiamo dimostrato nei fatti quanto la Didattica Digitale Integrata sia e possa essere un significativo strumento di interazione educativa.
Di certo molto meglio della situazione cui stiamo assistendo in questi tre giorni con un aumento impressionante di casi di studenti e docenti positivi e contatti stretti di positivi.
Le regole per la gestione dei casi positivi, e dei contatti stretti, a scuola sono poi semplicemente NON applicabili.


Da dirigente dello stato applico le norme e faccio di tutto, assieme agli insegnanti, agli studenti e al personale, perché la scuola che dirigo possa offrire la migliore esperienza educativa possibile e da giorni assieme a tutti i colleghi stiamo lavorando senza sosta per applicare le norme.
Ma, sempre da dirigente dello stato, è mio dovere parlare quando reputo che le scelte fatte siano illogiche e controproducenti.
Il Collega Di Terlizzi, commentando la situazione, ha ripreso giorni fa una famosa frase attribuita al filosofo tedesco Hegel: “Wenn die Tatsachen nicht mit der Theorie übereinstimmen, um so schlimmer für die Tatsachen” (Se i fatti non concordano con la teoria, tanto peggio per i fatti).
Credo sia quello che sta succedendo: i fatti (l’evoluzione del covid) non vanno d’accordo con la teoria che sostiene che la scuola deve restare in presenza a tutti i costi e che la Didattica Digitale Integrata sia il peggiore dei mali possibile.
In risposta i neo hegeliani dicono: PEGGIO PER I FATTI.
Ma la realtà ed i fatti sono cocciuti.
Ne riparliamo fra qualche giorno.
Buona scuola a tutti e tutte




Crocifisso sì, crocifisso no. La soluzione: non togliere, ma aggiungere

di Aluisi Tosolini

Pochi giorni fa la sentenza della Cassazione a sezioni unite (la numero 24414) ha posto fine ad una diatriba giudiziaria iniziata nel 2009 ma soprattutto ad una questione culturale che da decenni attraversa la società italiana.

Il nodo del contendere è il crocifisso  nelle aule scolastiche: imposizione che confligge con la laicità della scuola di uno stato laico in cui non può esistere una religione di stato oppure espressione di un sentire comune radicato nel nostro Paese e simbolo di una tradizione culturale millenaria?

La sentenza della corte suprema scrive: «L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso cercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi».

Aggiungere, non togliere

Anni fa, quando curavo la rubrica di educazione interculturale per il sito Pavonerisorse avevo dato conto dell’evoluzione dei punti di vista su questo tema segnalando come sia i primi documenti ministeriali sull’educazione interculturale prodotti dalla Commissione Ministeriale (si veda http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/ ) che il documento del 2007 dell’Osservatorio (La vita italiana le la scuola https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf) affrontano con chiarezza e stile innovativo il tema della compresenza di religioni diverse nella società e quindi nelle classi delle scuole italiane.
La proposta di cui mi fece portatore allora si riassume nella frase: “aggiungere, non togliere” che è la sintesi anche della posizione espressa dalla consulta.

In tema di religione e di identità religiosa non esiste infatti una possibile sintesi tra diverse esperienze ognuna delle quali si presenta come “verità”. Neppure è possibile ridurre l’esperienza religiosa al privato di una singola persona: la religione non è, infatti, soltanto un’esperienza interiore, ma ha anche una dimensione più ampia, sociale, culturale, materiale che coinvolge l’intera società.

Dove sta dunque la soluzione? Nell’impegno al rispetto dei credo altrui e nell’impegno comune a costruire una società che luogo della convivialità delle differenze dove tutti e ognuno si sentono a casa.
I bambini e le bambine nelle classi multiculturali della scuola italiana stanno imparando a vivere e a costruire assieme una società in cui tutti possano sentirsi a casa anche se con differenti culture e con differenti religioni. Per questo è fondamentale conoscere le diverse esperienze religiose dei propri compagni: solo così sarà possibile comprendersi e rispettarsi vicendevolmente. La scuola è il luogo della alfabetizzazione, ovvero il luogo dove si impara a scrivere, leggere e far di conto, ma anche a vivere assieme impegnandosi per il bene comune. La mancata conoscenza delle diverse religioni e dei vissuti che le stesse richiamano è una forma di analfabetismo che ha conseguenze negative sul presente e sul futuro del- le nostre società glo-cali fondate su doveri e diritti condivisi.

La dichiarazione universale dei diritti umani

La stessa posizione espresse anche uno dei massimi studiosi di diritti umani e fondatore del centro dei Diritti umani dell’università di Padova, Antonio Papisca.
Commentando l’articolo18 della dichiarazione universale dei diritti umani (Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti) Papisca scrive che ci troviamo di fronte al triangolo sacra della dichiarazione.
Per Papisca l’articolo 18 va letto insieme con l’articolo 1 ( “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”) perchè i due articoli contengono la parte per così dire sacrale dell’intera Dichiarazione universale. I soggetti di riferimento sono, ovviamente, tutte le persone umane, quindi ‘credenti’, ‘non credenti’, ‘atei’, ‘agnostici’. Pensiero, coscienza, religione: è il triangolo valoriale di più denso spessore etico, che qualifica la soggettività giuridica originaria della persona umana la cui retta coscienza (foro interno) è vero tribunale di ultima istanza dei diritti.

L’articolo 18 pone in relazione fra loro tre libertà, che sono sia “da” (interferenze e limitazioni) sia “per” (la realizzazione di percorsi di vita con assunzione di responsabilità personale e sociale). E’ il caso di sottolineare che queste tre libertà si riferiscono all’essere umano integrale – fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia – e sono pertanto interdipendenti e indivisibili rispetto a tutti gli altri diritti fondamentali. Però con una caratteristica peculiare. Gli altri diritti possono essere distrutti dall’esterno: si pensi al diritto all’alimentazione o al diritto all’assistenza pubblica in caso di necessità o al diritto al lavoro. Non è così per i tre diritti dell’articolo 18, essi hanno una intrinseca forza di resistenza, possono essere combattuti, contrastati, ma sopravvivono comunque: più forti della morte. Mi possono mettere in carcere, possono combattere la mia religione, ma le mie idee, la mia fede, la mia coscienza rimangono intatte. Al dittatore, al carnefice si può sempre gridare: dov’è la tua vittoria?

Rimandando al testo originale di Papisca per le altre considerazioni (https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Articolo-18-Libere-coscienze/22 ) basti qui rileggere quanto scrive a proposito dei simboli religiosi:  C’è anche dibattito sui simboli religiosi a scuola e in altri luoghi pubblici. C’è chi vuole togliere il Crocifisso dalle pareti motivando che nella scuola pubblica aumenta il numero di studenti di religione diversa dalla cristiana. La mia personale risposta è: non togliere, ma aggiungere. Non estirpiamo radici di grandi culture, al contrario motiplichiamole: la condizione della loro compatibilità è che tutte siano compatibili con il codice universale dei diritti umani, a cominciare dall’articolo 1 della Dichiarazione universale. Laicità non significa “togliere” valori, fare tabula rasa. Laicità significa pluralismo e rispetto reciproco. La laicità dello Stato si misura con gli indicatori che si riassumono in “tutti i diritti umani per tutti”, e tra questi, c’è appunto il diritto alla libertà religiosa”.

Per una scuola delle differenze

Spero che la soluzione proposta dalla Cassazione venga accolta da ogni singola scuola: far sì che nel rispetto di tutte le diverse posizioni (credenti, non credenti, atei, agnostici) a scuola ogni studente possa ritrovare il riferimento simbolico anche alla propria fede. Solo così può sentirsi a casa e solo così ognuno può impegnarsi per la costruzione di una casa comune delle differenze dove tutti si sentano a casa lavorando nel contempo per il bene comune.
Personalmente credo anche utilissimo creare, all’interno di ogni scuola (così come di ogni spazio pubblico), l’equivalente della stanza che  nel 1957 il segretario dell’ONU Dag Hammarskjöld volle al palazzo di vetro. Una stanza del silenzio e della meditazione come luogo di raccoglimento per tutte le fedi (https://www.un.org/depts/dhl/dag/meditationroom.htm).

Un segno che la scuola è capace di anticipare e costruire la società di domani dove tutti possano vivere la propria esperienza religiosa rispettando le altre posizioni in merito di religione apportando nel contempo il proprio contributo alla costruzione della convivialità.
Dove non si toglie, ma si aggiunge.




6 agosto 1945, Hiroshima – 9 agosto 1945, Nagasaki

di Aluisi Tosolini

Cade oggi il 76° anniversario del primo bombardamento atomico della storia che pose fine alla seconda guerra mondiale costringendo il Giappone alla resa incondizionata.
Le due città furono distrutte in un lampo. I morti diretti, per lo più civili, furono circa 200.000 cui seguirono negli anni moltissime migliaia di morti per radiazioni e conseguenze del bombardamento atomico.

Il mondo entra in una nuova dimensione: la distruzione di massa è possibile

76 anni fa il mondo entrava in una nuova dimensione, quella della guerra atomica dove una nuova arma di distruzione di massa fece irruzione segnando per la prima volta la possibilità concreta e non solo teorica della totale distruzione dell’umanità. Un’arma concretamente ontologica.
Un’arma che manda in pensione l’idea della guerra giusta, come ha ben segnalato qualche anno dopo il Concilio Vaticano II che nella Gaudium et spes dichiarando che la guerra totale (ovvero in primis la guerra atomica prima e nucleare poi) alienum est a ratione (GS, 80). È fuori da ogni razionalità.
E la stessa legittima difesa, scrive la Gaudium et Spes, nella situazione attuale deve fare i conti con limiti oggettivi determinati dai rischi di distruttività totale, anche se agli stati non può essere negata: «fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà una autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa» (GS, 79). Nello stesso tempo, visto che la pace non è la semplice assenza di guerra (GS, 78), va ricordato che «l’edificazione della pace esige prima di tutto che, a cominciare dalle ingiustizie, si eliminino le cause di discordia che fomentano le guerre» (GS, 83).

Negli anni successivi il mondo per decenni è stato ostaggio di un bipolarismo che si è caratterizzato soprattutto come corsa agli armamenti ed in particolare come corsa a dotarsi delle più distruttive armi nucleari possibili.

Oggi siamo usciti dalla guerra fredda ma non dalla corsa alle spese per armi nucleari. Basti pensare che nel 2020, secondo il rapporto dell’ICAN (Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari, premio Nobel nel 2017, https://www.icanw.org/ ), nonostante l’epidemia da corona virus, le nove potenze mondiali dotate di armi nucleari hanno aumentato di 1,4 miliardi di dollari i loro investimenti per la produzione di bombe atomiche.

L’ammontare delle spese a livello mondiale ha raggiunto la stratosferica cifra di 72,6 miliardi  di dollari.
Nel dettaglio gli Usa Stati Uniti hanno speso nel nucleare militare 37,4 miliardi di dollari, la Cina 10,1 miliardi,  la Russia 8 miliardi, il Regno Unito 6,2 miliardi, la Francia 5,7 miliardi. Seguono India, Israele e Pakistan con una spesa ciascuno di oltre un miliardo di dollari per i loro arsenali nucleari, mentre la Corea del Nord ha speso, secondo l’ICAN, 667 milioni di dollari (a fronte di una crisi alimentare terribile)

A livello generale la spesa militare mondiale nel 2019 è ammontata, secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute ) a 1.917 miliardi di dollari, pari al 2,2% del prodotto interno lordo (PIL) globale o a 249 dollari pro capite. La spesa complessiva del 2019 è aumentata del 3,6% rispetto al 2018 e del 7,2% rispetto al 2010. La spesa militare globale nel 2019 è quindi cresciuta per il quinto anno consecutivo, con l’aumento più consistente dell’ultimo decennio (2010–19), superando quello del 2,6% del 2018. La spesa militare è aumentata in almeno quattro delle cinque regioni globali: del 5,0% in Europa, del 4,8% in Asia e Oceania, del 4,7% nelle Americhe e dell’1,5% in Africa. Per il quinto anno consecutivo il SIPRI non è in grado di fornire una stima della spesa militare totale in Medio Oriente (dati ripresi dal rapporto SIPRI 2020)

Per la spesa militare italiana, che è stata nel 2020 pari a 28,9 miliardi di dollari, si veda il sito della Rete Pace e Disarmo).

I numeri non ingannino: vanno riletti con attenzione. Nel 2020 il SIPRI di Stoccolma ha registrato un aumento del 2,6% della spesa militare che ha raggiunto la cifra record di 1.981 miliardi di dollari, cioè oltre 5,4 miliardi dollari al giorno. Ripeto: 5,4 miliardi di dollari al giorno.
Il tutto senza che vi sia stato alcun aumento della sicurezza a livello mondiale e con evidente e significativo sperpero di risorse che se usate in altro modo in pochissimi anni permetterebbero di raggiungere tutti i 17 obiettivi del dell’Agenda Onu 2030 (su cui continuiamo a fare chiacchiere e poco altro in convegni internazionali e progetti di educazione civica).
E non sto qui a paragonare le spese militari (o anche solo nucleari) con le spese per debellare a livello mondiale la pandemia Covid 19.

La guerra è sempre possibile ed è già una terribile realtà per molti

A 76 anni da Hiroshima e Nagasaki dobbiamo infatti riconoscere che nessun deterrente “armato” ha mai funzionato nel debellare la guerra ed anzi la guerra è sempre possibile e ancora oggi abita il nostro mondo, anche se a noi pare lontana ed improbabile.
Eppure già le spese militari sono una guerra combattuta tutti i giorni che provoca milioni di morti ogni anno per fame, malattie, povertà.

Per una nuova politica ed una nuova cultura della pace

Per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2021 papa Francesco così ha titolato il suo messaggio: «La cultura della cura come percorso di pace». È a partire dalla parola pace, e del suo risuonare dentro la logica della cura, che è possibile anche una rilettura dell’enciclica Fratelli tutti  pubblicata da Papa Francesco il 3 ottobre 2020 . Enciclica direttamente ispirata alla figura di san Francesco, che «dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi, e seppe far cader le frontiere anche nella sua visita al Sultano Malik-al-Kamil affrontato col medesimo atteggiamento che esigeva dai suoi discepoli: che, senza negare la propria identità, trovandosi “tra i saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio”» (FT, 3).

Oggi, secondo papa Francesco, siamo chiamati ad incamminarci lungo le strade di un nuovo incontro: «percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite. C’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia» (FT, 225).

I tratti di questi percorsi sono esplicitati chiaramente:

a) i conflitti non possono essere né negati né dimenticati;
b) occorre ricominciare dalla verità, anche storica: «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia» (FT, 227);
c) il percorso di costruzione della pace non è un percorso di omogeneizzazione: la pluralità di progetti di società è ricchezza;
d) il cammino verso una migliore convivenza chiede sempre di riconoscere la possibilità che l’altro apporti una prospettiva legittima – almeno in parte –, qualcosa che si possa rivalutare, anche quando possa essersi sbagliato o aver agito male (FT, 228);
e) un’autentica pace si può ottenere solo quando lottiamo per la giustizia attraverso il dialogo, perseguendo la riconciliazione e lo sviluppo reciproco (FT, 229);
f) la sfida è superare ciò che ci divide senza perdere la nostra identità (FT, 230);
g) non basta una architettura di pace ma occorrono anche artigiani di pace (FT, 231): l’architettura è costituita dalle istituzioni e dai passi istituzionali che tuttavia richiedono il concreto, fattivo, caldo impegno di ognuno chiamato a svolgere «un ruolo fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione».
h) il percorso non ha mai termine: il cammino della costruzione della pace, nella costruzione dell’unità di una società, non è mai dato una volta per sempre. Occorre continuamente lottare per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune (FT, 232)

Artigiani di pace: il ruolo dell’educazione e della scuola

Hiroshima e Nagasaki sono stati e continuano ad essere una sfida terribile all’educazione e alla scuola. Le parole della Fratelli tutti ci ricordano un elemento essenziale e ben condiviso dai filosofi e saggi di questi anni (da Gunther Anders a Edgar Morin, da Gregory Bateson ad Hans Jonas, solo per citarne pochissimi), ovvero che siamo tutti sulla stessa barca, che il mondo è uno, che nessuno potrà salvarsi dalla distruzione del pianeta, avvenga essa per guerre nucleari o per creisi ambientale ed ecologica.
Siamo tutti fratelli, abbiamo tutti lo stesso destino sulla terra matria.
Da qui la sfida di una scuola e di una educazione chiamata a formare cittadini capaci di trasformare il mondo e la società.
La sfida, in sostanza, a connettere cultura e politica.  Saperi e trasformazione della realtà.

E’ la sfida che sta al centro, ad esempio, della Marcia Perugia-Assisi di cui questo anno si celebrano i 60 anni e che si svolgerà il 10 ottobre 2021 vedendo ancora una volta la scuola come uno dei soggetti chiave del camminare verso Assisi

Perché Hiroshima e Nagasaki restino solo un monito ed un ricordo ed Assisi ed il messaggio di Francesco l’orizzonte cui tendere.

 




Piano Scuola Estate 2021. Una lettura di prospettiva

Stefaneldi Aluisi Tosolini

 Si sta molto discutendo in questo periodo del Piano Scuola Estate 2021.
Il punto di partenza è la nota 643 del 27 Aprile del capo dipartimento Stefano Versari. Si tratta di una nota scritta in un linguaggio decisamente non burocratico e che fa i conti con una situazione davvero molto difficile dopo due anni scolastici vissuti all’insegna della pandemia covid 2019.

In questo mio approfondimento non intendo commentare o analizzare compiutamente la nota Versari (per questo basti il rimando alla lettura integrale della nota 643 oltre che alla lettura delle molte prese di posizione sulla stessa). Intendo invece soffermarmi su una questione diversa, di fondo (di grund,  direbbero i filosofi), e che ha a che fare con la collocazione o meno del Piano Estate entro una diversa visione di scuola e quindi su un percorso possibile di trasformazione del sistema di istruzione e formazione della nostra società.

  1. Una premessa

In premessa credo rilevante sottolineare la personale adesione all’impianto complessivo segnalato dalla nota ministeriale. Da anni molti dirigenti scolastici, assieme a realtà associative presenti sui territori, enti locali, terzi settori stanno lavorando per far uscire la scuola da una concezione fordista e tayloristica operando in particolare su due assi: l’asse del tempo e l’asse dello spazio.
L’idea che sta sotto il Piano Scuola Estate 2021 scardina esattamente questi due assi: la scuola non è più legata ad un calendario e ad un orario rigido e può aprirsi alla società e all’ambiente letti come spazi di apprendimento (che è poi l’idea di fondo dei patti educativi di comunità). Ho più volte definito negli anni questa prospettiva con la frase: la scuola come intellettuale sociale[1].

  1. Solo un piano emergenziale o l’avvio di un diverso modo di concepire la scuola?

Ma il problema nasce proprio qui: il piano estate è solo un piano emergenziale o è l’avvio di un nuovo modo di concepire la scuola e il suo servizio alla società? E’ ponte verso un anno uguale agli altri o è una testa di ponte verso territori inesplorati?

Se è solo un piano emergenziale, e che quindi finirà il giorno in cui si tornerà a far scuola come prima della pandemia, allora tutte le critiche che si sono lette in questi giorni hanno una loro significatività plausibilità e portano con decisione verso una sostanziale non adesione al piano (o ad una adesione molto limitata, insomma una sorta di facite ammuina).

Se invece si tratta dell’avvio di un diverso modo di concepire la scuola, le stesse critiche non sono altro che utili riflessioni per mettere al centro i cambiamenti necessari per dare davvero fiato e spazio ad un diverso modo di essere (e non solo di far) scuola. Per un nuovo inizio che sia anche un diverso inizio.

Qui di seguito provo a sviluppare alcune (solo alcune) riflessioni lungo questo filone di pensiero.

2a. L’asse del tempo

Covid 19 ha radicalmente mutato la concezione del tempo nelle attività umane, nella vita sociale, e anche nella scuola. La Didattica digitale integrata ha messo in crisi l’idea stessa di orario scolastico, ha obbligato a fare i conti con concetti quali lezioni sincrone e attività asincrone, palinsesto, attività a progetto, …

L’idea di Piano Estate mette in crisi e reinterroga il concetto di calendario scolastico.
La domanda cruciale è la seguente: le possibili attività “estive” sono scuola oppure no?
La mia risposta è si: sono scuola. E lo sono nella loro triplice declinazione indicata dalla stessa nota ministeriale

  • Rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e relazionali
  • Rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e della socialità
  • Rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e relazionali con intro al nuovo anno scolastico

Se infatti non fossero “scuola” sarebbero un campo estivo, un centro ricreativo dove certo si fanno esperienze interessanti, con altri tempi ed orari, ma il cui focus non è l’apprendimento, non è il rinforzo e il potenziamento di competenze disciplinari e relazioni.
Ma, se il piano Scuola Estate 2021 non è un mega centro estivo e queste attività sono scuola – ecco la seconda domanda –  in che senso esse sono differenti dal resto delle attività scolastiche realizzate sino ad adesso?

La prima differenza sta nel fatto che si tratta di attività cui gli studenti aderiscono volontariamente[2].
La seconda è che queste attività avranno tempi decisamente diversi dai tipici orari scolastici. Tempi che obbediranno alle logiche delle esperienze proposte e che certo non ipotizzeranno (spero!) attività dalle 8 alle 16 per 5 giorni alla settimana (come un centro estivo o un centro vacanza dove “consegnare” il proprio figlio perché non si sa come altro “custodirlo”).

La domanda radicale, sottesa a queste sintetiche riflessioni, è la seguente: è impensabile una scuola sempre aperta? Che non chiude mai? Che è sempre attiva nel suo proporre attività e percorsi di insegnamento/apprendimento? E se la risposta fosse sì, che cosa implica ciò dal punto di vista della sua ri-organizzazione?

2b. L’asse spazio

Le attività del Piano estate dovrebbero privilegiare, e non solo per motivi pandemici e climatici, ambienti di apprendimento decisamente diversi rispetto alle aule (climaticamente bollenti) delle scuole: spazi aperti, luoghi naturali, luoghi d’arte, lo spazio urbano, lo spazio digitale. Il verde e il blu, direbbe Luciano Floridi[3].
E poi certo anche laboratori, atelier, spazi interni delle scuole. Spazi che non dovrebbero però obbedire alla logica delle aule disposte per le tipiche lezioni frontali.
E anche in questo caso vale la domanda di fondo: non è che la scuola dovrebbe essere sempre o prevalentemente così? E se la risposta è si: che conseguenze ha questa riflessione sul modo con cui si costruiscono le scuole? Sugli spazi deputati all’apprendimento?

Ma se così fosse come dovrebbero cambiare, ad esempio (ed è uno fra i tanti), le reti dei trasporti? Il piano Estate 2021 – almeno per le scuole superiori – rischia di essere appiedato dal fatto che i trasporti capillari che raccolgono gli studenti da tutti i territori chiudono con la chiusura delle lezioni alla fine dell’anno scolastico (anche le aziende dei trasporti loro adoperano infatti il classico orario scolastico applicandolo, appunto, ai trasporti). Così chi vive in zone periferiche e isolate non avrà spesso nessuna possibilità di frequentare le attività del Piano Estate 2021 con il conseguente rischio di aumento della povertà educativa a motivo della realizzazione dello stesso piano che vorrebbe combatterla !
Classico caso di effetto contro-intuitivo di una azione razionale che produce il proprio opposto.

2c. La didattica

Mutando gli assi spazio/tempo muta anche la didattica. E’, questa, l’idea di fondo del movimento Avanguardie educative[4] e le indicazioni / suggestioni presenti nella nota del Capo Dipartimento vanno esattamente in questa direzione: modalità didattiche laboratoriali, peer to peer, blendend, one to one, cooperative. Ma, ed ecco che torna la domanda: perché queste modalità dovrebbero essere catalogate come estive e non invece come la normalità quotidiana del fare scuola?

Se così non fosse significa ammettere che la scuola vera, quella si fa dalle 8.00 alle 13.00 durante l’anno scolastico (quello vero, da metà settembre a inizio giugno) è fatta di lezioni frontali.
Tutto il resto è per le altre occasioni: per i pomeriggi di ampliamento dell’offerta formativa e quindi anche il mega ampliamente estivo.  Scuola di serie B contrapposta alla scuola di serie A.
Eppure, proprio questi due anni scolastici ci hanno mostrato che la scuola può – nel senso: è capace di – ripensarsi, rinnovarsi, cambiare, mettere in campo modalità inedite di creare e realizzare percorsi di insegnamento/apprendimento.
Perché dovremmo smettere adesso che abbiamo iniziato?

2d. I soggetti

Chi realizzerà il Piano Estate? Non credo lo faranno i docenti, stremati da due anni scolastici devastanti. Ma se è comprensibilissimo che per questa estate siano altri i soggetti che realizzano le attività che le scuole proporranno ed organizzeranno, non possiamo certo tacere sul fatto che la scuola, come luogo di costruzione della cultura, non può pensare di continuare a svolgere il proprio compito senza l’apporto delle competenze, esperienze, conoscenze delle miriadi di persone che con la scuola interagiscono e che portano nella scuola saperi e vissuti che devono essere valorizzati e messi in circolo.

In secondo luogo – andando ancora più a fondo – queste riflessioni toccano il nervo scopertissimo dell’organizzazione del lavoro nella scuola italiana. Organizzazione che andrebbe rivista a partire da un nuovo patto fondativo.
Se – e penso alle superiori – i tempi di presenza a scuola degli studenti fossero diversificati, se il gruppo classe costituisse solo uno dei molti tipi di aggregato con cui lavorare, se la scuola fosse lo spazio che organizza percorsi ed occasioni di apprendimento lungo tutto l’anno (solare, non scolastico !) perché un insegnante non potrebbe distribuire  in modo diverso il proprio lavoro ? Le 594 ore di attività didattica con alunni (18 ore alla settimana x 33 settimane) che ogni docente deve realizzare secondo il contratto attuale? Perché non potrebbe lavorare in modo più flessibile? Saltando maggio e venendo a luglio, giusto per fare un esempio?

Oggi sarebbe impossibile: il contratto pone, ad esempio, il vincolo delle 18 ore in non meno di 5 giorni alla settimana (del calendario scolastico che prevede le lezioni). In sostanza quasi nessuna flessibilità. Come nessun incentivo

2e. la valutazione

La nota 643 ha generato uno (strano) dibattito sulla valutazione.
Qualcuno si è infatti chiesto se anche le attività del piano estate debbano essere valutate. La risposta logica dovrebbe essere: SI. Ma anche NO se per valutazione intendiamo dare voti a queste attività secondo la logica della valutazione sommativa.
Nel campo della valutazione il periodo pandemico ci ha costretti a ragionare su diversi paradigmi spingendo molte scuole a fare i conti con la logica della valutazione per competenze[5] applicata anche a quelle discipline  in cui sino ad oggi tale logica non è in realtà mai stata davvero applicata. Dibattito attualissimo anche in vista di questa fine anno scolastico.

Il tema della valutazione è stato poi in questi giorni al centro di uno scontro durissimo sulle pagine del Corriere della Sera tra Enrico Galli della Loggia[6]  e Giorgio Vittadini[7].
Ha iniziato Galli della Loggia accusando con forza il curriculum dello studente di promuovere una una doppia pratica odiosa. Odiosa perché certificherebbe una divisione di classe (marxianamente intesa: a volte ritornano?) tra chi può (fare corsi all’estero, studiare uno strumento, pagarsi certificazioni di lingue, ecc) e chi non può. Odiosa poi perché fa riferimento alla teoria  dei character skills del premio Nobel James Heckman[8].
Vittadini ha risposto con convincente chiarezza rimandando anche al recentissimo volume curato da lui e da Chiosso e Poggi e pubblicato dalla Collana Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo[9].
Una prospettiva estremamente utile a rivedere la logica della valutazione aggiornandola ad una diversa concezione (e ad un diverso ruolo) della scuola nella società contemporanea.

  1. Criticità del Piano Scuola Estate 2021 come spie di criticità del sistema

In questa ultima sezione del mio intervento esaminerò due sole criticità del Piano Scuola Estate 2021 che a mio parere possono gettare luce su alcune criticità di sistema. Ovviamente ve ne sono molte altre ma qui mi interessa il ragionamento complessivo.

3a. la gabbia burocratica

La maggior parte dei finanziamenti del piano (320 milioni di euro) sono risorse PON.
Appartengo alla schiera (amplissima, devo dire) di dirigenti scolastici che appena sentono parlare di PON alzano gli occhi al cielo e, fossimo nell’antico west, metterebbero mano ad un’arma.
Gestire un Pon, per una scuola,  è una impresa burocraticamente molto ardua e complessa. E fin qui amen. Ma occorre poi aggiungere che la rendicontazione ed il controllo rasentano lo stalking burocratico e fanno sentire spesso il dirigente come un truffatore che sicuramente ha distolto soldi pubblici e che quindi deve provare la sua innocenza producendo miriadi di documenti assurdi riferiti anche a cifre irrisorie,  pubblicando e ripubblicando le stesse determine e delibere firmate in modi sempre diversi (con firma digitale, prima in formato CAdES e  poi in formato PAdES, poi con firma autografa poi ancora con firma autografa più firma digitale…. ).
Insomma una follia che ha fatto giurare a molti dirigenti: “PON MAI PIU”. E ha costretto gli altri a chiedersi “ma chi me lo fa fare?”.

A tutto ciò si aggiunga che spessissimo gli uffici amministrativi delle scuole sono sguarniti di personale davvero esperto e anche quando questo esiste lo stesso deve dedicarsi anche ad altre decine di diverse incombenze senza mai potersi specializzare in un campo così da poter operare con sicurezza e padronanza.  Cosa che accade in moltissime altre amministrazioni dove sono previsti uffici specializzati per settori ma che è ovviamente impossibile realizzare a scuola, soprattutto nelle piccole scuole dove gli uffici amministrativi possono sostanza essere costituiti da 3 persone più DSGA. Persone che devono seguire tutte le pratiche degli alunni, del personale (assunzioni, supplenze, pensioni stipendi…), della contabilità, degli acquisti, del bilancio…. e magari solo uno fra di loro è di ruolo e gli altri sono collaboratori scolastici trasformati ex lege in amministrativi. Per non dire che il Piano estate rischia di restare a piedi perché mancano i collaboratori scolastici: molti di essi hanno nomine al 30 giugno, i pochi altri devono pur far le ferie entro il 31 agosto ma, ad oggi, non è chiaro se sia possibile o meno contrattualizzare nuovi collaboratori per tenere aperte le scuole d’estate.
Insomma, una follia.

Nel caso tecnico dei PON va poi detto che pensare riuscire a rendere operativo al primo di luglio un PON che prevede la scadenza delle domande al 21 maggio significa non aver mai visto davvero una scuola e non conoscere le procedure.
E gli aiuti previsti dalla norma (quali ad esempio i due mitici quaderni sulle procedure per gestire contratti pubblici ed incarichi individuali) fanno venire alla mente più che altro la logica della “burocrazia difensiva” che, al pari della medicina difensiva, comporta la scelta da parte del dirigente di produrre in primo luogo carte su carte, pareri su pareri, sino a giungere alla scelta di non agire pur di non rischiare di avere problemi.
E’ assurdo ma oggi si rischia molto meno a far nulla (anzi, non si rischia nulla !) che ad impegnarsi a far funzionare la scuola che si dirige partecipando a bandi, acquisendo finanziamenti e gestendoli.

3b. il sogno mai realizzato del middle management

Organizzare la vita di una scuola e la sua operatività è azione molto complessa e dipende dalla capacità della organizzazione stessa di apprendere[10] , di definire con chiarezza la propria vision e la propria identità anche valoriale.
Un qualche supporto organizzativo tuttavia occorre: non può essere che una scuola con 1000 studenti, 150 insegnanti, 40 ATA non abbia uno stabile e riconosciuto staff che coordina e organizza. Eppure è questo che ancora oggi succede e sono moltissimi coloro che sono contrari alla creazione, anche flessibile e modificabile nel tempo, di un middle management nelle scuole.

  1. Un ponte

Il piano per l’estate è definito un ponte e la metafora serve a chiarire che si tratta di mettere in connessione la fine di questo anno scolastico e l’inizio del prossimo.
Lungo tutto questo intervento ho cercato di mostrare che forse (dico forse) potrebbe essere il caso di dare un senso più ampio alla metafora del ponte visto non solo come funzionale collegamento a settembre 2021 ma anche come ponte che permette l’avvio dello sbarco su un terreno in pare ignoto in cui confrontarci e confrontarsi con le sfide più profonde della scuola e della formazione nella società del XXI secolo.
Ecco, questo è un percorso sul quale vale la pena di provare ad incamminarsi.

7 maggio 2021

[1] Si veda ad esempio A. Tosolini, Service Learning e territorio: la scuola come intellettuale sociale, in L. Orlandini, S. Chipa, C. Giunti (a cura di) Il service learning per l’innovazione scolastica, Roma, Carocci, 2020 e, molto prima ancora,  A. Tosolini, Autonomia scolastica e territorio, in M. Morettuzzo, A. Tosolini, D. Zoletto (a cura di), Acqua come cittadinanza attiva. Democrazia e educazione tra i nord e i sud del mondo, Bologna, Emi, 2003

[2] Non abbiamo qui tempo e spazio per riflettere sulla conseguenza di questa affermazione. Infatti, mi si passi il paradosso, perché anche le attività scolastiche classiche, quelle, per capirci, che si fanno dal 15 settembre al 5 giugno, non potrebbero avere la stessa logica? Ovvero essere occasioni di apprendimento cui gli studenti – almeno quelli delle superiori – partecipano in modo molto più libero, con tempi personalizzati ed in spazi personalizzati – in presenza/distanza – mettendo così in crisi l’irreggimentazione di intere classi d’età e generazioni secondo le logiche ben descritte dal sorvegliare e punire di Michel Focault? Certo, capisco lo sconcerto: una scuola a cui “si va” quando lo si ritiene utile o necessario può risultare decisamente eccessivo. Eppure, forse, non lo è se, a partire da un patto educativo personalizzato con task precisi per ogni studente, fossimo capaci di costruire una precisa profilatura del percorso di apprendimento per ogni studente.

[3] Mi permetto di inviare alla lectio magistralis tenuta a Parma da Luciano Floridi il 22 04 2021 (Lions Club Parma Host – Università degli Studi di Parma) dal titolo:  Il Verde e il Blue – Il progetto dell’umanità per un futuro sostenibile e preferibile. La lectio è reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=jbO_Upz7ZPs

[4] http://innovazione.indire.it/avanguardieeducative/

[5] Mi permetto di rimandare al lavoro realizzato dalla collega Daniela Venturi (anche con la mia partecipazione) in ordine alla valutazione in tempo di DAD,  https://www.isipertinilucca.edu.it/portal/valutazionedad

[6] E. Galli della Loggia, Maturità. Con il curriculum sarà un esame un po’ classista, Corriere della sera, 05.05.2021 pag. 26. Interessante (e curioso !) notare che la posizione di Galli della Loggia sul Curriculum dello studente in buona parte coincide con quella di Tomaso Montanari pubblicata sul Il Fatto Quotidiano il 16 aprile: “Con Bianchi alla scuola si premia chi è più ricco”. (https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/04/16/con-bianchi-alla-scuola-si-premia-chi-e-piu-ricco/6167654/ ).

[7] G. Vittadini, Le nuove vie dell’apprendimento, Corriere della sera, 7.05.2021 pag. 30

[8] Si veda J.j. Heckman – T. Kautz, Formazione e valutazione del capitale umano. L’importanza dei «character skills» nell’apprendimento scolastico,  Bologna Il Mulino, 2017

[9] Vittadini, Chiosso, Poggi, Viaggio nelle character skils, Il Mulino 2021 (scaricabile gratis al sito:
https://www.researchgate.net/publication/350726347_Viaggio_nelle_character_skills_Persone_relazioni_valori/link/6077f4c42fb9097c0ce56e81/download

[10] faccio qui riferimento alle riflessioni e alle teorizzazioni sulla complessità di Alberto Felice De Toni. Si veda ad esempio A.F. De Toni – S. De Marchi, Scuole auto organizzate. Verso ambienti di apprendimento innovativi, Milano, Fabbri, 2018

 




Homeschooling, Filter Bubble e lo spirito del tempo

di Aluisi Tosolini

Sulla scuola parentale (e sulle specificità tutte italiane di questa esperienza) hanno già scritto in molti su questo sito e lo hanno fatto in modo per me davvero convincente e molto approfondito.
Così, quasi come una chiosa, credo possa essere utile aggiungere solo un piccolo ulteriore approfondimento che connette alcuni aspetti dell’esperienza homeschooling con il più complessivo spirito del tempo nel quale viviamo.

Nel 2011 lo studioso americano Eli Pariser ha scritto un saggio che ha avuto molto successo. Il suo titolo è The Filter Bubble: What The Internet Is Hiding From You, tradotto poi in italiano dalla casa editrice Il Saggiatore con il titolo Il Filtro (una sintesi della posizione di Pariser si può leggere su Internazionale).
Nel volume Pariser spiega con grande precisione il funzionamento della bolla nella quale molti utenti internet si rin-chiudono grazie ai filtri che vengono adoperati nel corso della navigazione. L’esito è semplice: ognuno vive la propria vita in un mondo fatto a misura di marketing che finisce per diventare costrittivo. Un’isola di sole notizie gradevoli, attinenti ai nostri interessi e conformi alle nostre convinzioni, che lascia sempre meno spazio a punti di vista diversi e a incontri inaspettati, limita la scoperta di fonti di creatività e innovazione, e restringe il libero scambio delle idee.

Il sociologo Vanni Codiluppi – studioso dei fenomeni comunicativi presenti nel mondo dei consumi, dei media e della cultura di massa –  recensendo il volume di Pariser scrive: ciascun utente del Web tende a vivere oggi all’interno di una “bolla” in cui può sperimentare soltanto quello che corrisponde ai propri interessi e alle proprie opinioni personali. Ne consegue che si riduce la capacità personale d’innovare, perché è noto che la creatività può nascere soprattutto dall’incontro con l’imprevisto e l’inconsueto. Il digitale sembra dunque produrre un effetto di tipo paradossale: accelera con forza i movimenti dei flussi comunicativi, ma rallenta pesantemente i processi di cambiamento in atto all’interno dell’economia e della società” (vedi link).

Inoltre, continua Codiluppi, Pariser mostra con chiarezza come funziona il “filtraggio” rispetto al mondo esterno, ovvero come “uno spazio nato come liberamente accessibile e privo di confini si è progressivamente trasformato in un insieme di luoghi recintati e chiusi, dove spesso si può accedere a certi servizi solamente pagando un determinato prezzo. Il risultato di tutto ciò è che ciascun utente tende a vivere all’interno di una “bolla”, la quale diventa progressivamente sempre più definita, ma anche sempre più isolata. Ciascuno vede riflesse nello schermo del computer solamente le sue opinioni personali e si vede offrire solo quello che corrisponde ai suoi interessi. Non siamo cioè di fronte ad un mondo più libero e democratico, ma semmai al suo contrario. La democrazia richiede infatti che ci sia un confronto tra diversi punti di vista a partire da una piattaforma comune, da una conoscenza almeno parzialmente condivisa dello stesso argomento. Se ognuno vive in una “bolla” personale popolata solamente dei suoi interessi, ciò difficilmente può verificarsi”.

Per questo motivo ho scritto prima che l’Homeschooling è, a mio parere, perfettamente connaturata allo spirito del tempo. Di questo strano ed assurdo tempo nel quale alla massima potenzialità e possibilità di incontro e scambio con l’alterità corrisponde poi, nella pratica quotidiana, una comoda bolla che ci tiene al caldo e al riparo da tutto ciò che è “altro”, diverso. Il rischio – a livello educativo e sociale – sta proprio qui: nel venire meno del contesto e dello spazio in cui far interagire le differenze. Lo spazio del conflitto da gestire in modalità nonviolente. La spazio della conversazione necessaria, direbbe Sherry Turkle.