Come predisporre il curricolo di educazione civica

Un convegno promosso da Gessetti Colorati

Un convegno promosso da Gessetti Colorati

di Stefano Stefanel

La legge n° 92 del 20 agosto 2019 ha introdotto l’Educazione Civica obbligatoria in tutti gli ordini di scuola a partire dall’anno scolastico 2020/2021.
In realtà l’idea del Ministro Bussetti era di farla partire dal 1° settembre 2019, ma una disattenzione, che non depone comunque a favore della burocrazia, ha fatto slittare tutto al 1° settembre 2020, dando però tempo al mondo della scuola di fare le sue considerazioni.

Io credo che il punto più importante di tutta l’operazione sia che, nel complesso, il mondo della scuola ha accolto bene questa innovazione (un curricolo di almeno 33 ore annue valutato come una disciplina a parte anche se svolto in forma trasversale) e, anche se in maniera molto cauta forse un po’ lenta, si sta interrogando su come approcciarsi nel migliore dei modi alla questione. Segnalo gli importanti interventi di Giancarlo Cerini (Educazione civica: e se fosse un anno di preparazione?, su www.edscuola.it del 23 agosto 2019), Maurizio Tiriticco (Educazione civica in aula, su www.edscuola.it del 23 agosto 2019) e Franco De Anna (Educazione civica, Cittadinanza, Costituzione, in “Gessetti colorati” 7 settembre 2019), illuminanti come sempre.

Io credo che il punto dirimente di questa innovazione (che però ha dei precedenti che risalgono molto lontano, almeno nella scuola dell’obbligo) sia in che modo il curricolo verrà costruito nelle scuole. Si tratterà di vedere se verrà fatta una scelta didattico/educativa o didattico/disciplinare, con l’introduzione di una nuova materia insegnata a più voci e valutata con meccanismi anche complessi e di tipo misurativo/docimologico da più docenti. Prima di entrare nel dettaglio delle mie osservazioni ritengo utile portare un’esperienza che dice molto sulle due strade possibili che io ho indicato.
Per iniziativa di Marisa Michelini docente dell’Università di Udine e presidente nazionale di GEO (GEO – Centro Interuniversitario  per  lo studio della condizione giovanile, dell’organizzazione delle istituzioni educative e dell’orientamento) è stato organizzato il 30 ottobre 2019 a Brescia un importante seminario dal titolo: “Educazione. Cittadinanza. Costituzione”.
L’incontro si è sviluppato attraverso una serie di interventi i cui titoli sono già significativi riguardo alla problematizzazione intelligente dell’innovazione. Li cito in ordine: “Per un pieno diritto Costituzionale” (Luigi Berlinguer), “Orientamento formativo in giurisprudenza e di educazione civica a scuola” (Gabriella Burba), “Cittadinanza e costituzione, educazione civica: le esperienze della scuola italiana dentro il senso dello stato” (Stefano Stefanel), “Per una buona attuazione della legge 92/2019 sull’insegnamento dell’educazione civica” (Giunio Luzzatto), “L’educazione alla Costizuzione: ‘lievito’ di una cittadinanza consapevole” (Adriana Apostoli).
Il Seminario – molto interessante – ha però aperto una vera spaccatura tra il mondo della scuola che opta per un’educazione civica didattico/formativa e il mondo dell’Università di parte giuridica che ritiene che senza uno studio della Costituzione e di elementi di Diritto costituzionale un’altra occasione sarà persa (e che quindi propende per un curricolo didattico/disciplinare).
Il problema allora, per come è stato posto a Brescia, sembra essere quello solito: se cioè la scuola debba pensare a tutti i suoi studenti o solo ai liceali.

La scelta curricolare

Dentro la divisione di cui ho parlato si colloca la scelta che le scuole italiane dovranno fare, nell’ambito di una redazione del curricolo di educazione civica, che dovrebbe avvenire in questo periodo in modo da poter essere avviato in maniera ordinata dal prossimo anno scolastico. La scelta è riassumibile nel modo seguente:

–       Curricolo progettuale: le scuole progettano un curricolo di almeno 33 ore (un’ora alla settimana o pacchetti più consistenti di ore anche in forma non periodica) e definiscono le modalità orarie (compensazione con una o più discipline) e le modalità di valutazione dei percorsi;

–       Curricolo valutativo: le scuole individuano tra le attività che già svolgono o tra attività aggiuntive definite dai Dipartimenti o dai Consigli di classe cosa viene valutato e con quali modalità.

Nel primo caso il rischio è quello di introdurre una nuova e complicata materia, affrontata in maniera frontale, con tutte le difficoltà insite in questa scelta. Nel secondo caso è bene individuare con chiarezza prima dell’avvio dell’anno scolastico quali attività e con quali modalità verranno valutate e poi far confluire tutto nella valutazione finale.

In entrambi i casi gli argomenti trattati possono essere gli stessi, ma le modalità sono molto differenti. Credo sia anche importante considerare che stiamo parlando di un inserimento per tutti e tre gli ordini di scuola e quindi per studenti dai 6 ai 19 anni. L’educazione civica obbligatoria a scuola con le modalità introdotte dalle legge 92 è una pratica innovativa perché introduce un voto in più (e questo – soprattutto nel secondo ciclo – cambia le cose. Cittadinanza e Costituzione (introdotta dalla legge 169/2008) era solo parzialmente entrata nell’attività ordinaria della scuola, con modalità spesso confuse e i contorni curricolari non chiari.

La scelta del Curricolo progettuale impone alla scuola una definizione oraria e di attività abbastanza rigida. In questo senso va definito anche il rapporto della scuola con lo studio della Costituzione e con il rapporto degli studenti con la conoscenza teorica connessa all’educazione civica. Perciò a seguito di questa scelta sarà dirimente il ruolo della valutazione e dei valutatori, che dovranno esprimere una voto finale che dovrebbe riguardare la crescita civica dello studente e non solo le sue conoscenze teoriche o lo studio di qualche argomento.

La scelta del Curricolo valutativo invece pone l’educazione civica dentro un meccanismo più culturale e diffuso, che lascia la valutazione del comportamento nel suo alveo, ma si concentra verso un vero recupero del senso dello Stato attraverso attività significative e progettate, anche di tipo giuridico e costituzionale, laddove possibile.

Nello schema che riporto sotto si vede chiaramente come le attività possono essere le stesse, solo che sono inserite in due modelli didattici molto diversi tra loro: uno che introduce e l’altro che valorizza quello che già si fa. E questo nel primo ciclo è fondamentale per non creare nuovi squilibri in un sistema che ha già le sue difficoltà. Nel secondo ciclo questo evita tutte le questioni che nascono appena qualcosa deve prendere il posto di qualcos’altro (cosa contraggo per introdurre l’educazione civica? A chi “tolgo” le ore? ).

curricolo

 

UNA PROPOSTA DI CURRICOLO VALUTATIVO

Nell’ambito dell’introduzione dell’educazione civica in forma obbligatoria nel Liceo che dirigo è stato approvato il Curricolo Valutativo che di seguito riporto e che introduce un rapporto di piena autonomia dello studente anche nella scelta dei percorsi su cui farsi valutare. Questo comporta l’azione di una valutazione per processo e non per prodotto, perché lo studente viene valutato dopo una osservazione da parte del docente che svolge l’attività, anche se non è un docente di classe. Tutto questo rientra nella politica del Liceo che dirigo di ampliare lo spettro della valutazione con una forte incidenza anche nel non formale e nell’informale.

Il Curricolo si organizza intorno alla valutazione, intesa come elemento che da valore alla scelta autonoma dello studente. In questo senso anche il lavoro teorico sulla Costituzione rientra dentro un processo complesso di crescita culturale e civica, che solo parzialmente interseca la valutazione del comportamento. Questo curricolo parte dall’idea che il PTOF adottato è un PTOF con forte valenza educativa e civica e come tale va valorizzato, agendo non sull’apprendimento formale, ma sulla scelta autonoma dello studente nell’ambito dell’apprendimento non formale.

Questo il testo di quanto deliberato e che verrà attuato dal 1° settembre 2020




La formazione dei docenti: un CCNI che fa riflettere

matitadi STEFANO STEFANEL

            Reginaldo Palermo, direttore storico di Pavone Risorse ora diventato Nuovo Pavone Risorse – Gessetti Colorati, mi chiede di intervenire sulla questione della formazione dei docenti alla luce del Contratto integrativo di metà novembre soprattutto in rapporto all’ottimo intervento di Antonio Valentino pubblicato su questo sito  (Il nodo della formazione: obbligo o diritto? A proposito del recente Contratto Integrativo, 6 dicembre).
Mentre penso a cosa scrivere vado a rileggere l’intervento di Giancarlo Cerini (Le nuove responsabilità dal Collegio dei docenti nel piano di formazione dell’istituto, su La scuola 7 n° 162 del 2 dicembre 2019) ma, prima ancora di iniziare a scrivere, ecco comparire la pesantissima e pienamente condivisibile invettiva di Cinzia Mion prima su Faceboook e poi sempre su questo sito (Formazione docenti: lettera aperta ai sindacati della scuola, 9 dicembre).

Alla luce di quanto scritto da Valentino, Cerini e Mion mi pare che il problema sia stato pienamente analizzato e compreso: quanto scrivono mi trova concorde e quindi se rispondo positivamente alla richiesta di Reginaldo Palermo lo faccio anche perché ho un punto di vista che loro non hanno: dal 2015 dirigo il Polo della Formazione dei docenti neo assunti della Provincia di Udine (negli ultimi tre anni i tre ambiti della provincia sono stati gestiti grazie ad un accordo di rete da un’unica scuola, quella che dirigo), sono stato mentore di 9 colleghi dirigenti neo assunti, faccio parte del Nucleo di valutazione di dirigenti scolastici, dirigo l’Ambito 8 nel FVG (circa 240.000 euro in tre anni per la formazione), ho gestito la formazione degli Snodi territoriali PN (120.000 euro per circa 25 corsi), attualmente ho avviato corsi del Piano Nazionale Scuola Digitala su base provinciale per 20.000 euro, ho appena terminato la formazione provinciale per il CLIL e regionale su SNV sempre con fondi ministeriali. Prima che tutto questo nascesse per sette anni ho gestito la rete “Udine e non solo” che faceva formazione per istituti di tutti e due i cicli. Ho enumerato tutti queste esperienze perché, non avendo l’autorevolezza di Valentino, Cerini e Mion, intervengo forte di un’esperienza sviluppata dal basso.

Il Contratto integrativo rientra in una logica ferrea, nel complesso condivisa dal mondo della scuola, secondo cui vanno smantellati tutti i principi (attivi) della legge 107/2015 partendo dalle azioni che hanno prodotto. Gli Ambiti territoriali in alcuni casi hanno funzionato e in alcuni casi no, ma la questione non ha mai riguardato il loro funzionamento, ma proprio la loro origine. Molti dirigenti scolastici si sono sentiti “espropriati di autonomia” dagli Ambiti e preferiscono le piccole reti di scopo, attivate spesso per necessità o progettualità anche minime, o le reti imposte dagli Uffici periferici del Miur.
Inoltre ci sono state effettive difficoltà nell’organizzazione della formazione di ambito soprattutto per tre motivi:
–       complessità nel trovare posizioni comuni dentro una logica progettuale nuova e con un’idea di formazione di area;
–       “virulenza immotivata” da parte del MIur nel chiedere una rendicontazione entro il 31 ottobre diminuendo il tempo progettuale di ambito a pochi mesi e quindi non permettendo a molti di riuscire a terminare le attività formative;
–       preferenza di docenti e sindacati per reti imposte dagli organi territoriali del Miur (vedi nomina dei supplenti annuali) e diffidenza per le reti di Ambito, apertamente pensate nella legge 107/2015 “contro” gli organi territoriali del Miur.

Ho visto per mia esperienza personale Ambiti territoriali organizzare una formazione vasta e di altissimo livello (cito esperienze lontane e veramente eccellenti sviluppate, ad esempio, nel Lazio dagli Ambiti 5 dirigente Alessandra Silvestri, 17 dirigente Annamaria Greco e 19 dirigente Orietta Palombo) e Ambiti che non hanno progettato nulla. Una cosa però certamente rimane: dopo l’esperienza degli ambiti pensare che le scuole possano progettare da sole un Piano di Formazione con 3-4.000 euro l’anno pare una cosa ben bizzarra.

La logica che sta alla base del contratto è però stringente: qualunque azione che valuti il personale in forma qualitativa è stata azzerata dalla contrattazione, indipendentemente dagli esiti, spesso affinché non producesse alcun esito.

Oltre ai “cavalli di battaglia” della legge 107 (trasferimento nell’Ambito per curricolo e non per anzianità nominata con raro autolesionismo “chiamata diretta” anche se di diretto aveva poco o niente; bonus premiante il merito che presto sparirà e che viene criticato anche dai dirigenti che spesso si lamentano della qualità dei propri docenti), che non sono più “cavalli” a battaglia conclusa e persa, esiste un sottile filo che lega l’idea di qualità con quella di valutazione e che è stata azzerata.
Parlo di tre elementi cardine del sistema pensato dalla legge 107/2015 e che non ci sono più:

–       valutazione dei dirigenti scolastici (diventata da obbligatoria e con incidenza sull’indennità di risultato a facoltativa senza alcuna incidenza economica)

–       formazione in servizio dei docenti immessi in ruolo di durata triennale azzerata dall’idea di concorsi riservati diffusi per sanare l’esperienza anche se fatta senza alcuna formazione

–       periodo formativo dei dirigenti scolastici prima dell’immissione in ruolo: è vero che in questo caso l’emergenza reggenze imponeva un’immediata immissione in ruolo, ma perché quasi quattro mesi dopo i 2.000 neo dirigenti scolastici sono lasciati operare senza alcuna formazione con la licenza di auto-formarsi opinioni che purtroppo spesso saranno definitive sulla loro professione.

Quindi la logica di derubricare a diritto la formazione fa il paio con l’idea coerente di scuola che agisce per esperienza e non per formazione. L’esperienza senza ragionamento sull’esperienza è spesso foriera di cattivi comportamenti e di vizi inestirpabili, ma il mondo della scuola preferisce la “formazione sul campo” (qualunque cosa questo voglia dire) piuttosto che la formazione specifica e verificata dentro un’area più vasta (quella dell’Ambito).

Personalmente sono contrario alla formazione obbligatoria. Il Piano di Formazione del Liceo che dirigo ha approvato uno schema molto semplice in cui ogni attività formativa da inserire nel Piano doveva essere preceduta da una scheda che illustrasse quale parte di PTOF, RAV e PDM andasse a intercettare. Chi non intercettava nulla di tutto questo è stato autorizzato alla formazione, ma non a inserire questa formazione nel Piano organico dell’Istituto. Nessun obbligo e tutta la progettualità del Liceo spostata nell’Ambito. In tre anni i docenti hanno esercitato il loro diritto per 11.292 ore (4210 nell’a.s. 2016/17, 3222 nell’a.s 2017/18, 3760 nell’a.s. 2018/19) con una media di 34 ore annue per docente (102 nel triennio).
Poiché ci sono docenti che hanno fatto zero ore di formazione vuol dire che molti hanno superato le 200 ore. Ritengo molto positivo questo esito perché il sistema cresce e l’organizzazione migliora se c’è spinta e motivazioni e non obbligo. Però una media di 102 ore di formazione/triennio mi pare un risultato ottimo a seguito di una deregolamentazione controllata con ampie possibilità formative date dall’Ambito, dagli Snodi, dai Piani formativi proposti dal Miur.

Dentro una logica esperienziale l’anzianità vale più di tutto e questa è la cifra su cui si è firmato quel contratto. Molte scuole si organizzeranno in reti di scopo (che piacciono più di quelle di Ambito perché le si costituiscono con gli “amici” e non col territorio qualunque esso sia) e faranno formazione come si è imparato in questi anni, altre faranno micro-corsi obbligatori (con quelli delle ultime file costretti a stare lì ad ammazzare il tempo chattando e navigando e quindi migliorando comunque le proprie competenze digitali), alcuni non si occuperanno della questione.
Esiste una evidente tendenza dei dirigenti scolastici a stare in ufficio e a confrontarsi meno possibile (anche se i controlli biometrici della Ministra Bongiorno sono saltati) con l’idea che un dialogo di area faccia perdere tempo ed è meglio presidiare il proprio “orto”.
Credo che Cinzia Mion non se la dovrebbe prendere troppo coi sindacati e Valentino e Cerini avere qualche dubbio sulla reale capacità dei Collegi dei docenti di oggi di progettare come collegio (ormai la progettazione delle scuole sta altrove e in collegio si tende a votare o a esercitare un diritto di tribuna spesso difficile anche da verbalizzare).




Eduscopio, scelte e bocciature

matitadi Stefano Stefanel

Anche quest’anno le valutazioni di Eduscopio (il portale sulle scuole superiori gestito dalla Fondazione Agnelli) premiano il Liceo Marinelli di Udine, scuola che io dirigo dal 2012, in quella che è una rilevazione cruciale per gli studi liceali: i risultati all’Università. Da quando vengono pubblicate le rilevazioni di Eduscopio il Liceo Marinelli si è sempre trovato nella “parte alta della classifica” beneficiando di titoli sui giornali e di un certo risalto mediatico che comunque (e giustamente) si spegne dopo un po’ di clamore.
Ritengo sia necessario a questo punto chiarire la mia posizione in merito alle rilevazioni di Eduscopio, che sarebbe la stessa anche se il Liceo che dirigo non fosse in cima alle rilevazioni, ma che assume forse un carattere più intenso vista la “posizione in classifica”. Le rilevazioni di Eduscopio hanno una grande incidenza mediatica soprattutto perché il Ministero non intende pubblicare niente di simile e anche i dati Invalsi (che riguardano comunque un altro tipo di contesto) non sono pubblici e – soprattutto – “non fanno classifica”.
Personalmente ritengo questa scelta fortemente sbagliata, perché l’opinione pubblica ha dimostrato di tenere conto di queste rilevazioni ritenendole istituzionali, anche se derivano da un soggetto privato.
Pur interessato ai risultati di Eduscopio non sono favorevole a questa classifica pubblica, che vede il Liceo Marinelli ai primi posti di in una gara che non c’è. La scuola come le altre scuole che si occupano di preparare gli studenti per l’Università (Licei, ma anche Istituti Tecnici e Professionali) hanno contesti di riferimento, numeri di studenti, storie e problematiche troppo diverse e troppo complesse per essere inserite in una semplicistica classifica.
Accade poi che molti studenti non rispondano per motivi personali alle attese maturate nel percorso superiore o che si perdano in percorsi personali o che rallentino gli studi universitari per problematiche che nascono in itinere nel loro vissuto privato. L’Università non è la vita, ma solo una parte importante della formazione personale. Dunque io e il Liceo Marinelli siamo felice dell’indice raggiunto, che conferma quanto emerso negli anni precedenti, ma notiamo come alla base della ricerca ci sia una sorta di “infantilismo universitario” che fa iniziare e finire il mondo con gli studi universitari, quasi che la vita precedente fosse una “breve attesa” e quella successiva un “lungo addio”.
Direi che un’analisi più matura e più complessa forse farebbe meglio alla scuola, ma la Fondazione Agnelli è un soggetto privato che meritoriamente mette a disposizione di tutti i dati così come li ha raccolti e valutati. Il problema è che improvvisamente questa posizione privata è diventata monopolistica.
Noto, invece, con grande piacere che da quest’anno la rilevazione Eduscopio evidenzia anche un ulteriore dato, molto interessante: quello relativo alla percentuale dei “diplomati regolari”, cioè di quegli studenti che non sono mai stati bocciati.
In questo caso il divario tra il Liceo Marinelli e le altre scuole di confronto è molto alto e questo è un dato molto oggettivo. Se l’indice di Eduscopio è di 80 non vedo grosse differenze né con 85, né con 70 o 75: dipende dagli anni, dalle contingenze, dalla storia di quell’annata. Diverso è se quell’80 (o 75 o 85) si collega ad un 80% o ad un 50%. Nel caso del Liceo Marinelli si collega ad un 80% e questo, invece, fa la differenza. Il tasso di “bocciature” nel Liceo che dirigo va dallo 0,84% all’1,50% (a seconda delle annate) negli ormai sette anni della mia direzione e questo si collega con i dati che riceviamo dalle Università e che ci confermano in una convinzione assoluta: non sono le bocciature che alzano il livello della scuola.
Anche in questo caso penso sia necessario essere moderati, ma non può sfuggire che la tesi che bocciando molto si alza il livello della scuola non pare sia un dato confermato da Eduscopio, che un certo successo universitario oggettivamente lo monitora. Un dato che, invece, non emerge da Eduscopio è il numero dei diplomati annuali: nel Liceo Marinelli sono da 300 a 350 l’anno corca, anche perché nel Liceo Marinelli c’è il numero chiuso per le iscrizioni e dunque oltre 350 diplomati non si può andare.
Inoltre il Liceo Marinelli è un Liceo scientifico puro, senza altri indirizzi istituzionali, ma solo con opzioni aggiuntive di carattere didattico. E un Liceo scientifico con 60 classi senza indirizzi aggiuntivi è piuttosto raro da trovare e quindi anche da confrontare. Nell’ambito dunque delle considerazioni sopra esposte e di una notevole cautela su dati eccellenti, ma comunque legati ad una rilevazione e classificazione troppo aggressiva, faccio notare come essere attenti agli studenti migliori cercando di limitare al minimo la dispersione scolastica è una strada che vale la pena percorrere.
Il Liceo Marinelli, pur applicando una didattica che tende a recuperare il maggior numero di studenti, punta soprattutto ad innalzare il livello degli studenti di alto e altissimo livello attraverso un’offerta formativa e culturale ampia e completa che permette a tutti gli studenti di realizzare le loro potenzialità.
L’investimento principale è per alzare il livello in alto, dando aiuto a chi ha problemi con la scuola, ma senza farne né un dramma, né un vessillo. Potrei dire che lo slogan è: cerchiamo di risolvere i problemi degli studenti alzando il livello dell’offerta formativa. E certamente il modello scolastico che negli anni abbiamo elaborato ci raffoza nella nostra idea.
In conclusione il Liceo Marinelli è soddisfatto dei risultati di Eduscopio, ma invita a considerarli in maniera moderata e contestualizzata.




Unicuique suum (Parla bene dei colleghi)

di STEFANO STEFANEL

Una delle principali caratteristiche della dirigenza scolastica è la sua solitudine, che spesso si esplicita nella lode dei propri comportamenti dirigenziali e nella critica – neppure molto velata – al comportamento dirigenziale di altri colleghi, soprattutto se hanno diretto la scuola che ora dirigiamo noi.
Una frase che purtroppo si sente molto spesso da parte di un dirigente di nuova nomina in una scuola (anche se magari è dirigente scolastico da molto tempo) è: “Sapessi cosa ho trovato!”, riferendosi a problemi lasciati aperti, a norme a suo dire disattese, a documenti ritenuti sbagliati, a giurisprudenza applicata a suo dire male e chi più ne ha più ne metta.
Poiché nella vulgata ordinaria se una scuola funziona a dovere è merito dei docenti ( o – a sentir loro – delle segreterie) e se non funziona bene è colpa del dirigente scolastico, si ritiene che, in attesa degli elogi esterni che arrivano poco o mai, sia importante elogiarsi da soli.
Si tratta di una forma di autoconservazione, anche se di prospettiva non lunghissima. E non credo sia questa la strada giusta per valorizzare l’enorme, difficile e sconosciuto lavoro dei dirigenti scolastici.

         Poiché da alcuni anni faccio il valutatore (di colleghi) e il mentore (di colleghi), mi si è sviluppato una sorta di riflesso condizionato per cui quando parlo con un collega o entro in una scuola comincio a ragionare su quello che vedo o sento e poi magari vado sul web a cercare conferme o smentite alla mia impressione. Personalmente faccio il valutatore applicando alla lettera il concetto di valutazione come “dare valore” e cerco sempre il valore (positivo) in chi mi parla o in quello che vedo.
Avendo avuto modo di girare un po’ l’Italia, di aver visto cose molto interessanti e di aver conosciuto colleghe e colleghi “vertiginose e vertiginosi”, vorrei qui riportare alcune impressioni, nate da osservazioni empiriche e non scientifiche su cui ho ragionato quest’estate.
Dico subito che nella regione in cui lavoro (il Friuli Venezia Giulia) si fanno cose notevolissime, ma di quelle magari parlerò un’altra volta. Cerco, però, di dipingere con queste poche note un paesaggio di bella e concreta Italia scolastica.

L’Istituto per i servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera (IPSOE) “Giovanni Salvatore” di Castelvenere (Benevento) è un assoluto gioiello che unisce la passione per la scuola alla cura del territorio.
Annessa all’Istituto c’è anche una splendida enoteca comunale, utile per una didattica reale e di qualità e architettonicamente pregiata. La dirigente scolastica Elena Mazzarelli con grande cultura e sensibilità dirige un istituto teso a coniugare la scuola con il vero orientamento professionale dentro un rapporto qualitativo molto alto dell’Istituto con il suo territorio di riferimento (Benevento). Nell’Istituto cultura (anche musicale) e gastronomia di grande qualità mostrano quello che può fare una scuola quando comprende il suo territorio.

L’aria che si respira nei Licei Cartesio di Triggiano (Bari) è quella di una scuola viva e attiva, dove ragazzi e docenti colgono grandi possibilità dentro una varietà di offerte di alto livello. La dirigente scolastica Maria Marisco dimostra una calma intraprendente e muove istantanee collaborazioni. Sono arrivato ai Licei Cartesio di venerdì pomeriggio e dunque avrei potuto trovare una scuola stanca nell’inizio del fine settimana. Invece ho trovato una scuola viva, con studenti e docenti intenzionati a lavorare fino all’ultimo minuto della giornata, due collaboratori della collega Marisco di qualità e gentilezza squisita (Rosario Suglia e Francesco Mario Pio Damiani). Quello che ho visto a Triggiano è un bel modo di mostrare come può lavorare un Liceo, anche di venerdì pomeriggio.

Il Liceo Oriani di Ravenna diretto da Gianluca Dradi si definisce “The Wellness School”. Il senso di benessere percepito è evidente e Dradi è una presenza vulcanicamente rassicurante. Ho avuto il piacere di incontrare anche alcuni studenti che avevano lavorato al Bilancio sociale della scuola e devo dire che l’impressione è stata quella di una qualità altissima dentro una forte spinta all’imprenditorialità personale. La scuola mi ha trasmesso l’impressione di ragazzi che credono in sé e nell’istituzione e di un dirigente scolastico con le idee chiarissime.

La scoperta della Ciociaria (che proprio non conoscevo) ha fatto il paio con quella dell’ISIS Pertini di Alatri (Frosinone), dove Annamaria Greco ha introdotto un lavoro sinergico e capillare col suo territorio di riferimento. L’ISIS Pertini di Alatri è riferimento forte delle scuole tecniche e professionali, perché in un ambiente ottimo e molto accogliente apre agli studenti importanti ventagli di possibilità e proposte in un clima rassicurante.
Tutto il settore degli istituti tecnici e professionali sta mostrando grandi elementi di innovazione, ma penso che l’esperienza e la qualità dell’Isis Pertini di Alatri sia di valore molto alto e dovrebbe essere tenuta nel debito conto. Ad Alatri ho conosciuto anche la dirigente scolastica dell’Istituto comprensivo di Paliano Ivana Nobler: questo Istituto sta vivendo un momento magico con iniziative settimanali di altissimo livello. E tutto viene documentato anche sul web in maniera impeccabile. L’impressione è che Ivana Nobler cerchi anche nei dettagli di proporre una scuola di qualità che punti ad alzare il livello generale della scuola, partendo da iniziative in cui il formale, il non formale e l’informale si compenetrano.

L’Istituto Alberghiero “Elena Cornaro” di Jesolo ospita da anni il Convegno dell’Andis mettendo a disposizione dei partecipanti i servizi della scuola e degli studenti. La dirigente scolastica Simone De Re, continuando la tradizione di Ilario Ierace, ha mantenuto alta la cura di un Istituto veneto che è veramente un gioiello sia nell’offerta formativa, sia nella competenza con cui si mette al servizio del pubblico. L’interazione tra scuola alberghiera e raccordo con l’utenza si mostra nella qualità dei particolari dentro una struttura scolastica di altissimo livello in cui si vede l’intervento approfondito dell’ente locale e la cura assoluta di chi lo dirige.

Ho anche avuto modo di entrare nel Liceo scientifico e classico Socrate di Roma nel quartiere della Garbatella e conoscere il dirigente Carlo Firmani. La presenza del Liceo nel quartiere è molto discreta e l’impressione è quella di una struttura di qualità che lavora dentro una città complessa. Carlo Firmani è però riuscito anche a dar vita insieme alla collega Lucia Presilla (che invece non ho avuto il piacere di conoscere personalmente) ad una strana e innovativa chat su Facebook cui sono confluiti oltre 3.000 dirigenti scolastici. E d’altronde da colleghi come Carlo Firmani c’è sempre da imparare per il modo equilibrato e realistico con cui leggono il mondo della scuola. Se la comunità della Garbatella ha nel Liceo Socrate un riferimento certo, il mondo della dirigenza scolastica trova sempre nella chat diretta anche da lui il ristoro a molti problemi che altrimenti restano nell’aria.

Annalisa Savino dirige con grande piglio e molta passione l’Istituto comprensivo “Ghiberti” di Firenze al confine con Scandicci. Sono stato accolto nell’istituto in estate e dunque non c’erano studenti. La scuola è grande e unisce attraverso un cortile due plessi di scuola primaria e secondaria di primo grado. Nel poco tempo della mia permanenza e davanti ad un Istituto complesso e che ha bisogno di un rinfresco a cura dell’ente locale, ho avuto modo non solo di trovare colleghi molto attivi, partecipi ed entusiasti, ma anche la dirigente Savino sempre con le antenne alzate. La sua idea di scuola penso sia molto legata alla collaborazione e alla partecipazione, nella valorizzazione di quello che Firenze offre ai suoi studenti attraverso la mediazione attenta di un Istituto comprensivo che vuol essere sempre di servizio.

Chiudo questa veloce carrellata, nata soltanto da impressioni colte al volo, con il Liceo classico europeo D’Annunzio Pescara, diretto da Donatella D’Amico. La D’Amico è una collega di cultura e competenza organizzativa vastissima, a capo di una rete di formazione territoriale abruzzese invidiabile e di valore scientifico molto alto. Ho poi iniziato a seguire sul web le attività del Liceo D’Annunzio di Pescara, sempre presidiate dalla D’Amico e ho potuto constatare che la presenza di quella scuola a Pescara è un valore assoluto. Il protagonismo attivo e consapevole delle scuole nei propri territori è l’esempio migliore del bene che può fare un’autonomia scolastica ben attuata. E quella attuata dalla D’Amico è certo di altissimo livello, oltre che scolastico anche culturale.

Termino qui il mio brevissimo report di impressioni e ancora una volta mi complimento con i colleghi che ho visto all’opera e che mi hanno insegnato moltissimo anche nel poco tempo in cui ci siamo frequentati.

 

 




Il mondo al contrario. I ricchi con la carta, i poveri con lo smartphone.

bambini_scuoladi Stefano Stefanel

I ricchi con la carta. I poveri con lo smartphone”. “Bocciare i deboli per far migliorare i forti”. “Eliminiamo i progetti e torniamo allo studio serio”.
Il delirante momento storico che stiamo vivendo visto dal versante della scuola potrebbe essere racchiuso nelle tre “orribili” frasi che ho sopra riportato e che possono riassumere, in forma comunque almeno per il momento parodistica, quello che si sente in giro, soprattutto quello che si legge sui giornali di carta stampata.
La battaglia però è impari ed è stata “scatenata” da giornalisti, scrittori, psicologi, opinionisti, professori universitari, cioè personaggi noti e pubblici che parlano di scuola senza conoscerla e che – soprattutto – hanno un’idea della scuola che risale alla loro gioventù.
Tutto questo sta avvelenando i pozzi perché porta il dibattito pubblico dentro il nulla delle prese di posizioni apodittiche ed assolute, che racchiudono la critica a quello che può essere etichettato come “il modernismo post sessantottino che ha distrutto la scuola”.
La scuola non è ancora distrutta, ma è sulla buona strada e tutto questo insulso cicaleccio non documentato porta l’attenzione altrove, non sui problemi veri. Però allo spazio che le celebrità hanno corrisponde solo uno spazio di nicchia e per gli addetti ai lavori di chi prova a rispondere: nelle lotte impari di solito vince Golia. E qui siamo “di solito”.

LIBRI E SMARTPHONE

            Chiunque viva nella scuola sa il peso che ancora ha la carta stampata: libri di testo, libri delle biblioteche, fotocopie, quaderni. Il passaggio al digitale è in troppi casi troppo lento e le poche competenze di molti docenti portano la questione solo sul piano disciplinare e punitivo. Credo però che – al di là del pensiero sul libro di carta e sullo smartphone – alcuni elementi dell’attuale società siano facilmente visibili.
I figli dei ricchi, i figli delle famiglie benestanti o del ceto medio hanno un rapporto abbastanza ordinato sia con la carta, sia con lo smartphone. Vivono in contesti culturali buoni o accettabili che gli permettono la scelta quando questa deve essere fatta, che possono spaziare tra i libri e lo smartphone, che hanno tempi di attenzione adeguati o adeguabili. In questo momento storico i poveri e i figli dei poveri (soprattutto di quelli di spirito) e quasi tutti gli stranieri, hanno come unico riferimento culturale lo smartphone.
La cultura popolare è “cultura del telefonino”, i ragazzi girano costantemente connessi e controllano tutto dentro lo smartphone. La scuola che si rifiuta di educare all’uso didattico e culturale di questo mezzo in virtù di un richiamo alla carta che ormai tutti usiamo in forma mista (un po’ di carta e un po’ di web) si rifiuta di occuparsi della cultura degli ultimi, di quelli cioè che hanno il riferimento solo nel web.
Io invito chi vuol vietare l’uso dello smartphone in classe a entrare nella logica di chi ormai si affida solo allo smartphone e di verificare realmente se questo soggetto – soprattutto se giovane – è disponibile a spostarsi sul libro (uno solo, quello di testo) solo perché costretto. La battaglia è educare all’uso dello smartphone in senso formativo e culturale, far capire ai ragazzi la possibilità di essere connessi sempre ad una biblioteca universale, far comprendere gli spazi di cultura, come si trovano, come si leggono, come si usano.
Invece vedo venire avanti ignobili crociate – tutte snob – per proibire, cercando di far credere che la scuola possa fermare il futuro semplicemente chiudendo gli occhi (e le connessioni). In questo modo di pensare c’è la violenza elitaria di chi comunque avrà sempre a disposizione le connessioni e deciderà di non usarle, incurante di chi ormai ha solo la connessione per collegarsi col resto del mondo e per sfiorare la cultura. Solo una reale pedagogia del BYOD (Bring You Our Device) allontanerà i poveri dall’abbruttimento del web.

Dirigendo da molti anni Istituti comprensivi vedo quotidianamente bambini connessi figli di persone giovani sempre connesse, sempre attive con foto e selfie, sempre attente a documentare tutto, soprattutto quello di cui non sanno cosa farsene. Proprio in queste famiglie e soprattutto se povere va inserita una pedagogia del BYOD attraverso i figli, così come si è introdotta la cultura della raccolta differenziata attraverso i bambini (grande vittoria della scuola che nessuno rivendica mai).
L’incredibile snobismo di molti intellettuali gli fa scambiare il mondo per aule universitarie, per le biblioteche silenziose, per le librerie affollate e per i concerti di musica da camera. Ma c’è anche il mondo dei selfie e dei tatuaggi, di Istagram e di Facebook, di WhatsApp e della navigazione costante che deve trovare una nuova pedagogia se non vuole sprofondare nel baratro delle fake news diventate realtà (siamo purtroppo sulla buona strada).

PROMOSSI E BOCCIATI

L’altro atroce ritornello è quello che continua a battere sulle troppe promozioni. Il dato banale di partenza è quello che vede l’Italia molto in coda nella lotta alla dispersione scolastica e quindi un aumento delle bocciature la metterebbe ancora più in coda. La tesi criminale però non è questa: è quella che vede nelle bocciature una possibilità di migliorare il sistema. Nessuno spiega perché diventiamo migliori se bocciamo più studenti, ma nessuno spiega neppure perché gli studenti medi o bravi diventano migliori se bocciamo di più quelli più deboli. La spiegazione è molto banale: dato che ai più bravi non siamo in grado di dare nulla (paralizzati come siamo da una cultura del posto fisso cui si accede soprattutto per anzianità o per sanatoria) gli diamo lo “scalpo” (bocciatura) dei peggiori.
E questo porta a far credere che un “9” vale di più se ci sono almeno dieci “4” per cui la battaglia non è quella di pretendere di più dai migliori, ma quella di pretendere di bocciare di più.
Si dice “alzare” l’asticella: ma si dice sbagliato, perché siamo di fronte ad un “abbassare l’asticella”, quella della dispersione scolastica (così va in dispersione più gente possibile). Inoltre la scuola italiana non ha alcun piano per i suoi bocciati, se non la speranza che facciano meglio l’anno dopo.
In questa incredibile discesa verso gli inferi nessuno ha prodotto un’analisi del percorso scolastico del milione di NEET (Neither in Employment nor in Education or Training: non studia e non lavora), cioè di quei ragazzi che non studiano e non lavorano e stanno per lo più seduti sul divano a chattare e a navigare su siti pieni di fake news.
Se fosse possibile mettere pubblicamente in relazione la debolezza italiana nella lotta alla dispersione scolastica, la mancanza di un progetto di recupero reale per i bocciati, l’inesistenza di riconoscimenti reali a migliori, la debolezza dei percorso scolastici dei NEET forse il discorso pubblico uscirebbe dal nulla dei richiami degli intellettuali snob alla bocciatura di coloro che ormai vivono connessi agli smartphone senza sapere come usarli.

PROGETTI E STUDIO SERIO

Il sapere evoluto si evolve per progetti, i problemi si risolvono con i progetti, le soluzioni si sperimentano con i progetti, l’inclusione avviene per progetti (visto che la serialità ha prodotto esclusione), le personalizzazioni avvengono per progetti, la ricerca avviene per progetti. Dire “progetto” non vuole dire niente, se non si precisa progetto di cosa, ma anche in questo caso una parte intellettuale – sia interna sia esterna alla scuola – scambia la propria incapacità a lavorare per progetti nella battaglia ai “progettifici”.
Questo lo si è visto molto bene nei PON, dove sia l’Autorità di gestione, sia il Miur, sia le Scuole non hanno saputo spiegare a docenti e studenti cosa si stava cercando di fare. Così si sta sviluppando l’idea che si fanno progetti se non si ha di meglio da fare e che i progetti tolgono tempo alla scuola seria.
Senza progetto non c’è più cultura, c’è solo un affastellarsi di conoscenze, letture, metodologie, memorie, nostalgie. I progetti spingono allo studio serio e infatti gli studenti coinvolti nei progetti lavorano molto meglio che se coinvolti ad ascoltare lunghe lezioni frontali.
Anche in questo caso noi abbiamo una parte della popolazione (quella ricca) che vive dentro progetti di vita (le scuole per il futuro, il lavoro come scelta, le vacanze come letture del mondo, le lingue come bagaglio necessario, ecc.) e un’altra parte che rimane sempre a casa ed è sempre connessa senza nessun progetto (in attesa forse di un reddito, non di una cittadinanza).
La scuola non ha più bisogno di riforme, ma ha bisogno di progetti: solo con quello potrà analizzare bisogni e problemi e potrà dare risposte.
Altrimenti si va avanti per sentito dire, lamentandosi che non c’è più l’ascensore sociale: per forza, è sempre occupato dagli intellettuali che ce l’hanno fatta (e dai ricchi che comunque hanno i soldi per costruirselo).