Modeste proposte per prevenire (e per riaprire)

ripresa_scuoladi Stefano Stefanel

L’emergenza coronavirus non permette di vedere con chiarezza come sarà il futuro, sia quello immediato pre-vaccino, sia quello lontano post-vaccino. Alcuni concetti però si sono chiariti, di là da qualsiasi previsione si potesse fare durante la fase pre-pandemica. Riguardano punti cardine della scuola italiana, ma anche della vita sociale e richiedono un’attenta ed equilibrata progettazione per entrare a pieno titolo nel mondo scolastico.

Credo possa essere utile guardare avanti e vedere, dentro tutte le possibili prospettive e soluzioni, quali innovazioni possiamo introdurre fin da subito nel sistema scolastico e quali elementi possono aiutare a curvare il sistema scolastico, anche per dare risposte sensate a un futuro vicino, ma ignoto e temibile.

Il sistema scolastico italiano ha tenuto in modo inatteso durante l’emergenza e i docenti di tutti gli ordini scolastici si sono dimostrati categoria molto più forte, resistente, resiliente, flessibile e concreta di quanto ci si potesse aspettare dall’interno del sistema, ma anche certamente di come supponeva fosse chi la giudicava dall’esterno. C’è un’opinione pubblica oggettivamente colpita dal grande senso di responsabilità e dal grande senso dello Stato dimostrato dalla scuola italiana e questo è un elemento che va giocato bene in funzione della ripartenza. Da varie parti vengono prospettate possibili soluzioni soprattutto sul rientro a settembre a scuola e, giustamente, non ci si avventura in territori più lontani, viste le grandi difficoltà a definire scenari futuribili dentro una simile e inedita pandemia. Ci sono idee che riguardano gli spazi, i materiali, i distanziamenti, i turni, la didattica, i tempi, ecc.: dentro questa enorme variabilità possono trovare cittadinanza delle considerazioni che aprono al lungo periodo, pur avviandone l’attuazione nel breve periodo. Queste “proposte” possono aiutare a gestire le emergenze immediate e anche a modificare il futuro della scuola italiana. Alcuni di questi argomenti toccano alla base proprio l’organizzazione e la struttura della scuola pre-pandemia e dunque devono essere attentamente studiati per produrre soluzioni aperte verso un futuro che, comunque vada, è incerto.

Affronto qui quattro argomenti (presenza a scuola, edilizia scolastica, orario dei docenti e degli ata, catena decisionale), che dovrebbero essere inseriti dentro una nuova idea di sistema scolastico nazionale, in modo da guidare la ripartenza delle scuole a settembre, condizionando tutto il prossimo anno scolastico al fine di aprire verso scenari futuri e attuabili. Per tutti e quattro gli argomenti consiglio di lasciare un po’ da parte il passato e letto con un po’ di più di attenzione il futuro: volutamente mi mantengo dentro la sinteticità di un articolo perché intendo indicare solo l’avvio del percorso, lasciando ai decisori la possibilità di tenere conto o meno di quello che scrivo.

LA PRESENZA A SCUOLA

L’idea che si possa apprendere solo stando fisicamente sempre a scuola è andata in crisi con l’irrompere del lockdown, della didattica a distanza, del nuovo concetto di distanziamento fisico, che purtroppo è stato spesso anche distanziamento sociale. Le Linee guida del CTS, da poco emanate, indicano comunque l’importanza di rivedere alcuni aspetti sociali legati alle piccole patologie (tosse, raffreddore, influenza, ecc.), cioè a tutto quello che veicola contagi. L’emergenza Covid-19 ha fatto comprendere come esiste una vulnerabilità sociale che va di là dalle attese e un mondo che si credeva invincibile e inattaccabile si è trovato esposto alle goccioline, capaci di veicolare una pandemia. Anche in futuro sarà meglio stare in casa più spesso, non considerare la scuola come il luogo naturale del contagio (evidenziato dalla frase, sbagliata, propria del senso comune: “A scuola mio figlio si è preso di tutto”) e bisognerà fare in modo che a scuola meno bambini, meno ragazzi, meno docenti e meno personale sia contagiato anche da piccole patologie. Non è solo questione di distanze, ma anche di igiene, di assenza di sintomi negativi quando si viene a scuola, di attenzione alle temperature, di misure che attenuino la trasmissione di germi e microbi.

Cade così improvvisamente l’idea di eguaglianza, che ha condizionato molta parte della scuola italiana e si rende necessario posizionare il servizio scolastico dentro il concetto di equità ed inclusione, come fa l’ONU nell’Agenda 2030, che nel suo Obiettivo n° 4, dedicato alla Formazione, scrive: “Fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Il passaggio dall’eguaglianza (stessi orari, stessi programmi, stessi giorni di scuola, stessi compiti, stesse interrogazioni, ecc.) all’equità e all’inclusività è già iniziato con meccanismi piuttosto farraginosi (PEI per i diversamente abili, PDP per i DSA e i BES, PAI per coloro che hanno un’insufficienza pur essendo promossi,ecc.), ma quella dell’equità sarà l’elemento caratterizzante il prossimo anno scolastico, dove chi avrà di meno avrà diritto ad avere di più. Gli studenti non saranno tutti sempre presenti, forse non saranno neppure sempre tutti insieme, molti seguiranno percorsi individualizzati o personalizzati: cadendo un’idea generica di eguaglianza, che però ha prodotto enormi disparità, ci si dovrà attrezzare per valutare lo studente dentro il suo percorso “personale” o “individuale” di apprendimento, all’interno di una revisione temporale dei curricoli e delle presenze, con un’attenzione all’uso del BYOD, della didattica a distanza, dei sussidi, dei libri, dei device, dell’intelligenza.

GLI EDIFICI

L’emergenza coronavirus ci ha dato la fotografia di un patrimonio di edilizia scolastica fuori dal tempo, fuori dalle necessità delle scuole, fuori da qualsiasi protocollo di distanziamento fisico, difficile da igienizzare, pensato per una scuola vecchia. Per paradosso sono più attrezzati per il futuro i vecchi e giganteschi edifici dell’Ottocento o dei primi del Novecento con le grandi aule, i grandi corridoi, i grandi “spazi inutili”, piuttosto che gli edifici di ultima generazione con aule piccole per tanti studenti e tutto utilizzato oltre la capienza in classi sempre troppo numerose per spazi sempre troppo angusti.

Quello che più mi stupisce è che non vedo partire nessuna progettualità: i soldi del MES per l’emergenza sanitaria potrebbero permettere di costruire immediatamente tante nuove scuole capaci di garantire i distanziamenti (se serve) e l’adattabilità alla didattica in modo da poter sempre tutelare la salute degli studenti. Invece vedo venire avanti richieste solo minimali di “fare lavori quest’estate”, cioè di adeguare il vecchio al vecchio, dando alle scuole, in cui sono fatti questi lavori pensati prima dell’emergenza, una dote di altri cinquant’anni di spazi inadeguati.

Ritengo, invece, dovrebbero essere percorse due strade parallele:

a) Reperire da subito spazi pubblici e privati per dare alle scuole la possibilità di distanziare i propri studenti, rendendo meno angusta la convivenza in classe di 27,28 e più studenti dentro spazi pensati per 20 studenti, di attivare una grande alleanza sociale col territorio che metta la scuola al primo posto o e permetta di portare avanti il servizio scolastico dentro luoghi pubblici e privati capaci di contenere molte persone. Faccio due esempi “nazionali”: il Lingotto a Torino e i giganteschi Musei sempre deserti all’Eur a Roma. Ma potrei fare una miriade di esempi per tutte (dico proprio tutte) le località italiane.

b) Avviare un grande progetto di Scuole Green, ecocompatibili, con risparmio energetico, con molte possibilità di modifiche modulari interne da affiancare agli edifici tradizionali: tutto questo dovrebbe mettere fine allo scempio di scuole statali che vivono in locazioni private in edifici pensati per altro e alle scuole che continuano a stare dentro edifici non a norma. Faccio un solo un esempio: il Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Sora (Frosinone) è un Liceo di altissimo livello che sta in locazione in un edificio privato inadatto alla scuola e ci sta da moltissimi anni. Questa nuova progettazione di cui parlo non può essere realizzata dagli Enti Locali con progetti propri, ma deve avere nel team di progetto anche la rappresentanza della scuola interessata per pensare e realizzare scuole che rispondano realmente alle esigenze della didattica e della connettività legata alla didattica, argomenti che sono totalmente sconosciuti a progettisti e uffici tecnici.

Ritengo, quindi, sia necessaria una duplice alleanza: con gli enti locali e i soggetti pubblici e privati per aumentare gli spazi a disposizione delle scuole nel prossimo anno scolastico e con gli stessi soggetti per avviare una progettazione di sistema per le scuole, aperta al futuro che ci ha travolto.

 

L’ORARIO DI DOCENTI E ATA

Il dibattito che sta venendo avanti con ipotesi più o meno realizzabili (ore di 40 minuti, classi divise per due o per tre, azioni in presenza distanziati e a distanza con la multimedialità, ecc.) impongono un ripensamento dell’orario del personale, visto che quello del dirigente scolastico proprio non c’è. Credo sia il caso di dirlo che i dirigenti scolastici hanno lavorato senza pause e senza soste, anche nei giorni di festa, senza distinzione tra presenza e smart working, sempre connessi, sempre attivi.

L’attuale spacchettamento dell’orario dei docenti (ore di insegnamento; ore funzionali obbligatorie; ore per supplenze; ore non contabilizzate per preparare le lezioni, per correggere gli elaborati, per valutare; ore per gli esami, ore per l’accompagnamento alle uscite e ai viaggi, ecc.) mi pare sia poco funzionale sia rispetto a quanto accaduto (riunioni on line e didattica a distanza: tutto questo è stato un grande esempio di lavoro, di devozione, di impegno e di sperimentazione), sia rispetto a quello di cui ci sarà bisogno. Io penso sia arrivato il momento di riconoscere con un numero chiaro e semplice qual è l’impegno complessivo annuale dei docenti lasciando poi alla scuola la loro declinazione. Non spetta a me indicare il numero esatto delle ore annuali (a occhio e croce dico che potrebbero essere più o meno 1250), ma in questo orario senza distinzione farei ricadere tutte le ore che servono, appunto, per l’insegnamento, per la funzionalità, per gli esami, per la valutazione degli studenti, per l’accompagnamento nelle uscite e nei viaggi, per la correzione dei compiti e la preparazione degli elaborati, per le supplenze orarie, per il ricevimento genitori, ecc.).

L’articolo 21, comma 8 della legge n° 59 del 15 marzo 1997 (Bassanini uno) spiega chiaramente come si potrebbe fare: “L’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente, anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell’unitarietà del gruppo classe e delle modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali, fermi restando i giorni di attività didattica annuale previsti a livello nazionale, la distribuzione dell’attività didattica in non meno di cinque giorni settimanali, il rispetto dei complessivi obblighi annuali di servizio dei docenti previsti dai contratti collettivi che possono essere assolti invece che in cinque giorni settimanali anche sulla base di un’apposita programmazione plurisettimanale”.

Questo monte ore programmabile per i giorni di scuola o d’esame garantirebbe un utilizzo delle risorse dove è necessario, lasciando giustamente a casa (e in pace) i docenti quando non ci sono cogenti obblighi scolastici. Darebbe, inoltre, la possibilità alle scuole di modulare tempi e orari con progettazioni chiare che mettano il docente nella possibilità di realizzare sia attività seriali (cioè con lo stesso orario tutto l’anno), sia attività legate alle necessità della realizzazione del PTOF, sia attività progettuali. Credo che l’anno scolastico 2020/21 potrebbe essere quello sperimentale e potrebbe indicare un nuovo modo di intendere la funzione docente, legando questo nuovo modello anche ad un rinnovo contrattuale con i giusti aumenti, legati all’evidente risparmio di sistema.

Allo stesso modo ritengo che l’orario degli ata vada declinato su base plurisettimanale a fronte di un monte ore annuale in modo da rispondere alle reali esigenze del servizio e non alla necessità della presenza comunque. Tutto questo nel rispetto dei tempi di lavoro, di una programmazione condivisa, di carichi di lavoro equi, di analisi dei bisogni, degli spazi, delle esigenze più proprie della scuola (didattica, formazione, valutazione).

CATENA DECISIONALE

L’emergenza coronavirus ha evidenziato come la catena decisionale anche nelle scuole debba essere più snella, partecipata, effettiva, efficiente, efficace. I vecchi Organi collegiali devono andare in soffitta per fare posto a strumenti veloci che permettano di verificare le volontà collegiali e confluire in decisioni chiare e tempestive, per far fronte a tutti i problemi. E’ diventato evidente a tutti che l’assemblearismo declaratorio e la puntuale adesione a vecchie strutture decisionali poco aiuta in una situazione critica dove le responsabilità alla fine cadono su una persona sola (sicurezza, privacy, organizzazione del lavoro, attività negoziale, attività contrattuale, controllo degli orari, piani delle attività, gestione amministrativa, ecc.). Credo sia necessario che le scuole si diano una propria governance nel rispetto delle responsabilità monocratiche del dirigente e del coinvolgimento di tutta la comunità scolastica nelle decisioni comuni.

La trita polemica sui “più poteri ai presidi” che fa il paio con quella sui “troppi poteri ai presidi” nulla riesce più a dire sulla realtà della scuola dentro l’emergenza e dentro la società. Laddove ci sono responsabilità monocratiche i poteri devono essere monocratici, laddove è necessaria una progettualità d’insieme devono essere solo fissate linee generali di organizzazione lasciando che le scuole strutturino la propria catena decisione come è necessario nel contesto in cui operano. E’ noto a tutti che i rapporti con gli enti locali, i soggetti istituzionali, i soggetti privati non sono uguali e omogenei in tutta Italia e, dunque un unico sistema di governo della scuola, pensato per la scuola e la società di cinquanta anni fa, non regge più gli avvenimenti, il loro corso, la loro velocità.

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Le mie sono solo modeste proposte per prevenire, aperte al dibattito (se ci sarà) e modificabili (magari in meglio).

 




Innovazione, didattica e valutazione

arcobaleno di Stefano Stefanel

La scuola italiana è entrata dentro un’emergenza pandemica di carattere mondiale e ha dovuto accelerare sull’innovazione didattica e metodologica molto al di là di quanto avrebbero permesso le forze presenti nel sistema dell’istruzione italiano.
E’, dunque, importante comprendere come l’innovazione richiesta dalla Didattica a distanza, dalla Valutazione senza possibilità di bocciatura o di sospensione del giudizio, dalle ipotesi che si susseguono di giorno in giorno senza piani di attuazione strutturali che riguardino l’edilizia e la connettività, sia entrata a regime, senza alcun periodo di sperimentazione. Inoltre non c’è stato neppure alcun precedente “stress test”, che abbia potuto permettere di verificare lo stato dell’arte in una situazione senza eguali.
C’è stata una grande improvvisazione nazionale, che ha dato esiti nel suo complesso molto positivi, ma sempre dentro scelte di carattere empirico e non legate a ricerca e innovazione didattica.
Alcune scuole sono già molto avanti nella Didattica a distanza, nella connettività, nell’integrazione del web nel curricolo: ma queste scuole sono poche e soprattutto sono del secondo ciclo. Far guidare l’innovazione di tutto il sistema dell’istruzione da esperienze forti del secondo ciclo significa solo creare un ulteriore sbilanciamento nel sistema stesso.

L’innovazione, per sua natura, richiede tempo e verifiche sul campo, ricerca-azione e protocolli analitici, mentre noi siamo entrati nell’innovazione didattica e metodologica dall’oggi al domani, senza una preparazione, senza un supporto di sistema, ma anche senza contratti del personale, senza un quadro di rifermento nazionale, senza termini di confronto con esperienze simili. Per cui è necessario dire che il sistema scolastico italiano ha reagito benissimo, ha retto come non sarebbe stato prevedibile e, soprattutto, ha mostrato sensibilità, competenze nascoste che sono improvvisamente emerse, senso del dovere, senso dello stato. Da un lato c’è stata un’innovazione imposta da un’emergenza storica ed epocale, dall’altra una risposta attiva di un sistema che è stato scosso, ma che non si è mai arreso.

Credo che di tutto questo si debba tenere conto, riconoscendo soprattutto ai docenti e agli studenti qualità di empatia e impegno molto alte, che dovranno essere potenziate da dosi massicce di competenze tecniche e valutative quando tornerà una situazione normale. E’ necessario stare molto attenti, però, a maneggiare l’innovazione con cura, a non fare salti in avanti, a rendersi conto di come le scuole abbiano imbastito la Didattica a distanza senza stress test, senza procedure verificate, senza competenze certificate, senza connettività certa, senza sicurezza della recettività anche da parte degli studenti più deboli. Il sistema scolastico, dopo questa emergenza, ha bisogno di mutamenti strutturali che lo modifichino nella sostanza. Ad esempio la scuola per piccoli gruppi non può essere realizzata con una parte di studenti in classe e una parte a distanza (anche perché vista l’edilizia scolastica il concetto di distanza in presenza diventa vago in rapporto alle singole situazioni strutturali), ma deve prevedere una revisione totale della organizzazione degli studenti, che deve avvenire per gruppi e non per classi. Questo vuol dire rivoluzionare gli organici, la struttura delle classi, la struttura degli spazi: cose che non si possono improvvisare in poco tempo. Possiamo farlo nell’emergenza? Io credo di no, perché il sistema scolastico sottoposto a troppi mutamenti rischia forti criticità potenzialmente irreversibili. A scelte didattiche radicali, vanno affiancate scelte contrattuali e organizzative radicali, altrimenti cadiamo da un’emergenza pandemica a una emergenza innovativa, resa necessaria dalle cose, ma non attuabile in un sistema non governato. Ci deve poi essere un rapporto armonico tra Ministero e Rai scuola, che coinvolga anche le autonomie scolastiche. Chi deve ragionare su questo? Direi il Ministero con tutte le sue Direzioni generali (che magari dovrebbero diventare da strutture di emanazione e controllo a strutture di supporto), i Sindacati, i Dirigenti scolastici, gli Enti Locali. Perché una volta che le innovazioni organizzative arrivano a scuola i docenti dovranno poter progettare in forma collegiale e individuale in base a dati certi e scelte chiare.

DIDATTICA A DISTANZA

E’ naturale che la Didattica a distanza abbia ingenerato molte splendide esperienze e anche qualche confusione. Alcuni paradossi non possono però essere taciuti, perché non costituiscono critica ad un sistema che ha retto benissimo, ma solo elemento di analisi per guardare avanti con lucidità:

–      BYOD (Bring Your Own Device). In molte scuole fino al 21 febbraio lo studente che veniva scoperto connesso era punito. In molte scuole si firmavano protocolli per evitare anche di far portare i device a scuola. Una parte di docenti considerava virtuoso lo studente che non si connetteva e la cultura libresca prevaleva su quella del web (su questo bisognerebbe leggere con attenzione quanto in questi anni ha scritto Roberto Maragliano). Ebbene, improvvisamente alcuni insegnanti che mettevano la nota a chi usava lo smartphone in classe adesso vorrebbero mettere la nota a chi non lo usa da casa. Non si può passare dalla repressione del BYOD all’obbligatorietà del BYOD. Bisogna prima fare chiarezza su questo. E questa chiarezza deve essere fatta dalle singole istituzioni scolastiche in un territorio molto complesso e che ha visto ribaltarsi le priorità. Se prima del 21 febbraio c’era l’urgenza di proteggere lo studente dalla connettività ora c’è l’esigenza di accompagnare lo studente dentro la connettività.

–      LIBRI DI TESTO. Molti libri di carta stanno da due mesi nelle scuole e la didattica è andata avanti lo stesso. Si è compreso come la Didattica a distanza per sua natura si appoggi al web e alle piattaforma, oltre che alla pubblicistica on line, che è fatta di cose ottime ma anche di cose pessime e che, dunque, necessita della mediazione del docente. Però il rapporto tra scuola italiana e libro cartaceo si è interrotto in maniera traumatica e repentina a fine febbraio. E questa interruzione ha introdotto paradigmi nuovi che vanno esplorati con molta cautela.

–      TEMPO SCUOLA. Il tempo scuola prima dell’emergenza era segnato da una serialità semplice legata anche ai trasporti e ai tempi delle famiglie. L’anno scolastico si sviluppava su orari certi e tempi chiari, spesso complicati da seguire, ma comunque legati alla presenza in un edificio di molte persone. Quel tempo però era segnato anche da gite, viaggi d’istruzione, scambi, stage, attività sportive con gare scolastiche, visite a mostre o musei, conferenze, assemblee, assenze di docenti o studenti, ritardi, ecc. Tutto questo è saltato, ma una parte del sistema sta provando a ricreare tutto a distanza, con tempi e orari scanditi in modo reale in un mondo che è diventato irreale. Anche questa è una modifica di cui si dovrà tenere conto, in un anno finito dentro una convivenza che rimane attiva solo grazie al web.

Ho fatto solo tre esempi, ma ce n’è molti altri. La Didattica a distanza non è una didattica sostitutiva di quella in presenza, ma è una Didattica on line che cambia anche quella in presenza, perché cambia radicalmente il concetto di presenza.
Fino al 21 febbraio la presenza è stata per tutti una presenza di gruppo (salvo nelle splendide esperienze della Scuola in ospedale), mentre nella Didattica a distanza la presenza è una solitudine davanti ad uno schermo, che improvvisamente è diventata didatticamente sociale. Ripensare e riprogettare tutto questo non è cosa da poco, soprattutto se ci si dovrà rapportare a piccoli gruppi e non alle classi intere. In ogni caso un’integrazione tra didattiche sarà necessaria e dovrà essere ponderata, perché molte cose che facevamo in presenza ora le faremo per sempre a distanza. Una lezione frontale di un’ora può anche essere goduta o subita quando lo si ritiene opportuno, perché a quel punto, quando si è presenti sia in classe sia sul web, è meglio parlare di ciò che si è già ascoltato. Il web deve creare integrazione, perché permette una trasmissività non legata alla presenza.

LA VALUTAZIONE NON E’ UNA MISURAZIONE

La scuola italiana tende da sempre a confondere Misurazione, Valutazione e Certificazione. I tre vocaboli non sono affatto sinonimi e la media matematica è sempre una misurazione. Sorprende, ad esempio, che il ministero non tenga conto di quello che viene detto da varie persone di scuola molto illuminate (cito solo Giancarlo Cerini, Cinzia Mion, Franca Da Re e l’Andis) e non eviti in questa fase di obbligare le scuole primarie ad attribuire i voti numerici alle materie. Questo sarebbe il momento di uscire da una docimologia che andava stretta alle scuole primarie anche prima della pandemia. Credo in ogni caso che le scuole primarie possano rendere leggera la valutazione alla fine di quest’anno anche attraverso meccanismi comunicativi gestiti in autonomia, che vadano oltre il registro elettronico coi voti e il complesso giudizio analitico, che dovrebbe descrivere l’andamento dell’alunno e invece molto spesso è una difficile lettura per famiglie che alla fine si mettono a contare le valutazioni trasformandole in misurazioni. E’ necessario affiancare a questo strumento tecnico anche un qualcosa di descrittivo ed empatico che resti nella mente e nel ricordo dei bambini e che suggelli questo periodo difficile con le maestre lontane. Ai docenti dell’Istituto comprensivo che dirigo ho proposto un disegno fatto da loro e personalizzato per ogni bambino, che sintetizzi l’anno e lasci un ricordo. Non un disegno fatto dall’alunno per la maestra, ma un disegno fatto dalle maestre per l’alunno. Quella sarà la pagella aggiuntiva, che penso molti bambini appenderanno in camera.

Al di là dell’empatia va detto che la scuola italiana, confondendo misurazione con valutazione, può fare il grande errore di valutare gli studenti attraverso le misurazioni della Didattica in presenza (compiti in classe ed interrogazioni) trasferite dentro la Didattica a distanza. Soprattutto nel secondo ciclo questo altererebbe il sistema di valutazione complessivo (messo in sicurezza dal Ministero dai “colpi di testa” di chi avrebbe comunque voluto bocciare anche dentro una pandemia), perché la misurazione per sua natura tende ad aiutare i migliori (che hanno molto bisogno di misurazioni) e a penalizzare i ragazzi più deboli (che vengono mortificati dalle misurazioni standard al di là della loro debolezza). Citerei, come esempio, tre elementi utili per valutare la Didattica a distanza: il colloquio colto (cioè il colloquio tra soggetti che condividono determinati specialismi), i compiti di realtà (connessi alle competenze tecniche, al rapporto con quello che gli studenti vivono, a ciò che può essere traslato dalla teoria alla pratica), la pluridisciplinarietà attraverso argomenti di vasta portata che amplino l’orizzonte culturale dello studente e richiedano argomentazione e non ripetizione.

Chi continuerà a misurare i prodotti (compiti e interrogazioni) in questa fase semplicemente commetterà un errore più grave di quelli già commessi in passato. Quello che è cero è che la misurazione per lo studente di livello medio alto o alto è un elemento di valorizzazione, mentre per lo studente debole è la strada maestra per la dispersione. Misurare in questa emergenza è dunque un errore, ma per valutare bisogna aver compreso appieno gli elementi cardine della valutazione, che attengono al rapporto empatico del valutatore col soggetto valutato, ad una comprensione del reale valore aggiunto dalla scuola (formale) e dalla realtà (non formale e informale) nel processo di apprendimento dello studente, ad un’attenzione per i percorsi culturali personalizzati. Tutto questo è visibile anche dentro problem solving, problem posing, analisi sistematiche di dati e notizie. Il luogo della valutazione deve essere messo a contatto con strumenti qualitativi e flessibili, non con rigide prove basate su standard autoreferenziali.

Non c’è dubbio che nella formazione dei docenti ci sono buone o ottime competenze specialistiche e una notevole empatia didattica e pedagogica, ma la valutazione non è stata studiata dai docenti e tra i loro obblighi non c’è quello di formarsi sui migliori modelli di valutazione. Tutta colpa dei docenti, dunque? Direi proprio di no: genitori, studenti e società civile sono molto più lontani della scuola dal concetto di valutazione. Nessuna categoria vuole farsi valutare e infatti davanti a qualunque proposta valutativa scatta il richiamo al detto di Giovenale Quis custodiet ipsos custodes? E in quel “Chi controlla i controllori” è già specificato che la valutazione non si farà. La società civile (genitori e studenti) si sentono più al sicuro dietro misurazioni standardizzate e autoprodotte in modo artigianale, perché comunque ritenute meno arbitrarie e volubili. E questo è uno dei punti deboli del sistema dell’istruzione. Ma il Ministero e noi Dirigenti non abbiamo investito come avremmo potuto e dovuto sulla cultura della valutazione e sulla formazione alla valutazione (anche nostra). Quindi è tutto il sistema a doversi riaddentrare dentro questo elemento della pedagogia, per slegarlo da una docimologia rigida e inefficace.

In questa fase innovativa ed emergenziale una misurazione che si traveste da valutazione può diventare un peso e consegnare troppi studenti dentro una fotografia errata. E’ necessario avere ben chiaro che in una didattica nuova e sconosciuta bisogna avere sempre il polso della situazione, per aprirsi verso il prossimo anno scolastico che sarà pieno di incognite. In questo ultimo mese di scuola bisogna rallentare la didattica, ampliare gli stati di conoscenza ed empatia, analizzare competenze e valutare progressi, mettere in sicurezza gli studenti bravi e meno bravi che non devono essere coinvolti in un finale d’anno con compiti e verifiche, anche al fine di individuare le sacche di debolezza del sistema da sottoporre a rinforzo, con proposte anche estive di supporto, tutoraggio, recupero.

 

 




Il 6 “pandemico” e i voti alti

votidi Stefano Stefanel

Inizierei questo breve intervento sulla valutazione e sulla didattica attraverso una banale annotazione linguistica e politica. Si sta parlando sui social e sui mass media di “6 politico” e trovo la cosa insultante e irritante, tra l’altro l’ennesimo modo per esacerbare gli animi da parte di una certa parte politica, cui però si sono aggregati anche altri soggetti da cui non me lo sarei aspettato.
Il così detto “6 politico” era la richiesta fatta circa 50 anni fa dalla frange più estremiste di sinistra, partita dal movimento studentesco nei confronti dell’Università (in quel caso si parlava di “18 politico”, riferito ai trentesimi).
Era dunque una richiesta così detta “proletaria” che voleva eliminare la “scuola di classe”.
Nel 68 si sono fatte molte cose buone e molte scemenze: questa era una scemenza colossale. Trasferire però quella richiesta dentro una pandemia mi pare solo un avvelenamento dei pozzi. E in questo momento bisogna maneggiare con cura tutte le parole.

Qui stiamo parlando di un “6 pandemico” assegnato agli studenti in difficoltà, deboli, svogliati, poco presenti, poco connessi, poco aiutati dalle famiglie. E questo “6 pandemico” sta dalla parte della Lettera ad una professoressa, non da quella di movimentismo di oltre 50 anni fa. Anche perché molto spesso questa invettiva compare a difesa degli studenti bravi, che vedrebbero i loro voti positivi resi più “ingiusti” dal “6 politico” dato a tutti. Il che vuol dire che se oltre ai bei voti, che questi studenti lodevoli meritano, non viene dato anche “lo scalpo” di quelli che non ce la fanno e degli ultimi ciò che gli viene dato non ha valore.

E invece il valore è quello che deve essere riconosciuto in questo momento: e lo si può e deve fare con i 7, gli 8, i 9 e i 10. Questo è il momento di dare tanti 10, tutti quelli che servono, tutti quelli che gli studenti si meritano. E’ inutile lodarli e poi dargli 7 lamentandosi che bisogna anche dare il 6 a tutti gli altri. Quindi questo è il momento di valutare nel senso etimologico della parola: dare valore a quello che lo merita. E se merita un valore alto bisogna dare un voto alto.

C’è poi l’ultima aberrazione in questo atroce uso di una parola del passato ”6 politico” ed è quella che se non si danno voti e non si danno voti negativi i ragazzi non studiano. E qui c’è un senso di superiore disprezzo per i giovani e le loro motivazioni, che non dovrebbe trovare spazio tra chi li educa, tra chi insegna, tra chi vive con loro. La pochezza di molte didattiche, la trasmissività estenuante, gli insegnamenti obsoleti, la corsa verso interrogazioni e compiti inutili e nozionistici, un tradizionalismo culturale lontano dai tempi: questo tiene lontani gli studenti dallo studio.

In questa fase della scuola italiana la gran parte degli insegnanti cerca di appassionare, interessare, capire, interagire, ricercare, innovare, analizzare, sperimentare. E facendo tutto questo riesce a tenere una generazione di studenti dentro una situazione mai vista prima, in cui in primo luogo viene negato da una pandemia mondiale il diritto basilare allo studio, allo stare insieme, allo stare a scuola, al vivere da studenti. E questo è quello che si deve valutare con i 7, gli 8, i 9 e i 10, dentro un’idea di scuola che è anche un’idea di cultura e di società. Segnalo perché lo condivido l’intervento su questo sito La promozione sicura autorizza a non studiare più?, di Aluisi Tosolini

Inventarsi oggi bocciature o rimandature per poi condizionare il prossimo anno scolastico (lo studente che a novembre non recupera i debiti e a quel punto dove va? Le classi sono fatte sui numeri pollaio, i docenti assegnati, i libri comprati: ma siamo matti?) significa credere di vivere in un mondo che non c’è. Nei quasi due mesi che ci separano dalla fine dell’anno scolastico deve partire la più grande operazione culturale mai tentata e cioè quella di fidelizzare gli studenti alla scuola, alla cultura, al sapere, alla fraternità, allo studio, al civismo, al dovere. Credo che ce la faremo, perché gli insegnanti stanno dimostrando grandi doti e grandi motivazioni. Ma dobbiamo toglierci dalla testa paragoni sbagliati tra un mondo che non c’è più (quello del “6 politico”) e quello che c’è oggi (quello del “6 pandemico” dato a chi è rimasto indietro). Non spenderei tanto tempo attorno al “6”, ma attorno al resto.

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Alcune note sulla didattica a distanza

io_noidi Stefano Stefanel

La didattica a distanza è una Didattica digitale e dunque in questo momento (iniziato improvvisamente, ma destinato a durare a lungo) è l’unica possibile. Dopo una fase iniziale di entusiasmo, alimentato di chi si è esposto a sostenere che la Didattica a distanza poteva sostituire quella in presenza, si sta passando a una sorta di dubbio collettivo, alimentato da voci sempre più persistenti di studenti stremati, famiglie oberate e crisi di nervi in arrivo.
Il Ministero fa bene a temporeggiare sulle così dette “promozioni di massa” che poco piacciono ai tifosi della selezione, ma una cosa è certa: sono gli studenti più deboli, svogliati, assenteisti che hanno maggior bisogno della Didattica in presenza, cioè della “vecchia scuola”. Già deboli dentro un sistema cooperativo e comunitario questi studenti sono dispersi nel web e nelle loro lacune, dentro uno sfondo che non li ha dotati di competenze sufficienti per reggere l’urto della scuola in presenza, immaginarsi cosa gli sta succedendo nella scuola a distanza.

Se quindi era già terribile prendersela con i più deboli in periodo “di pace”, immaginiamo quanta violenza ci sarebbe nel prendersela con i più deboli “in tempo di guerra”. Ma di questo ci sono ancora due mesi di tempo per parlarne, cercando, comunque e giustamente, di non dare alibi a nessuno studente che intende limitarsi a sbadigliare invece che a studiare.
Il punto cruciale da affrontare, però, oggi è quello di una Didattica a distanza e di una Didattica digitale (non sono la stessa cosa, ma in questo momento sono l’unica cosa) che sono utilizzate anche da molti docenti che nulla in precedenza avevano sperimentato in merito, molti dei quali erano addirittura strenui combattenti contro il digitale.
Il trasferimento delle metodologie in presenza alle metodologie a distanza, delle metodologie cartacee a quelle digitali può permettere di coprire qualche vuoto, può aiutare gli studenti bravi o bravissimi, ma rischia di gravare il sistema di un nuovo errore, cioè quello di cercare di fare stare il vecchio nel nuovo. La strada da percorrere è quella che permette di ribaltare alcuni stereotipi, per posizionarsi nell’altrove in cui siamo precipitati.

Per questo di seguito indico, in questo intervento, dieci “accorgimenti pedagogici” che potrebbero essere utili per aiutare a definire i confini di una Didattica a distanza che sia una vera Didattica digitale.

1. Dalle domande agli studenti alle domande degli studenti.
L’attività didattica in chat o in videoconferenza permette un’interazione diretta con soggetti lontani, situati dentro ambienti spesso difformi e non tutti idonei all’apprendimento. La vecchia modalità dell’ “a domanda risponde”, propria ormai solo dei tribunali e delle aule scolastiche, non serve a niente, perché semplicemente mima una situazione in presenza dove prevalgono la memoria e non l’iniziativa. E’ necessario passare dalle domande fatte dall’insegnante allo studente alle domande fatte dallo studente all’insegnante. Da quelle domande si percepiranno la profondità, l’interesse, la competenza. Va ribaltato lo schema: l’interrogazione non parte dalla domanda dell’insegnante, ma da quella dello studente.

2. Dall’interrogazione al colloquio colto.
I video incontri anche individuali possono permettere uno spostamento dal concetto di interrogazione a quello di “colloquio colto”. Che cos’è un colloquio colto? E’ un colloquio tra due persone che condividono punti di riferimento culturali di livello elevato (e connessi all’età del soggetto più giovane). Chi non ha mai sentito parlare dei Promessi sposi non è in grado di discutere i motivi per cui don Rodrigo non voleva che Renzo e Lucia si sposassero, né l’eventuale esistenza di punti di contatto tra la pesta milanese del ‘600 e questa nostra epidemia.
Ma il concetto di colto si estende anche alla trigonometria e alla geografia, alla geometria e all’ecologia. Cioè a tutti quei settori in cui è possibile parlare solo con chi ne sa qualcosa. Ad esempio: per stabilire che cosa è un virus, come si trasmette, come si distrugge.

3. Dall’esperienza di classe all’esperienza personale.
Ogni studente (dai 3 ai 19 anni) sta vivendo un’esperienza diversa. Queste esperienze con colonne musicali personali, dentro luoghi diversi (case grandi con giardini, case piccole piene di gente, case su più piani, case con grandi saloni, case con piccole camere, ecc.) e dentro stili di vita diversi possono diventare il centro della narrazione e il punto di origine della conoscenza. L’apprendimento per sviluppo prossimo di cui parlava Vygotskij è il punto di partenza dell’esperienza didattica e di quella dell’apprendimento. Poiché non ci sono più ambienti simili, perché mediati ormai da esperienze di convivenza non comuni, le esperienze personali di vita nell’emergenza devono essere proiettate attraverso il web dentro lo spazio comune.
Con racconti, foto, musiche, filmati, selfie, cioè con tutto quello che in questo momento attraverso il web restituisce significato che ognuno di noi assegna a quello che sta accadendo.

4. Dai compiti per casa ai compiti di realtà.
Questo è forse uno dei passaggi più difficili: passare, cioè, da un meccanismo didattico ripetitivo e connesso alla successiva verifica sul raccordo tra quello che sta insegnando e quello che si deve imparare, alla descrizione della realtà dentro cui si vive. Questo mutamento di prospettiva importante per gli studenti adulti diventa necessario per quelli più piccoli che non possono essere inseriti dentro un sistema di semplici apprendimenti teorici, avendo perso anche quella laborialità logica che si trova dentro qualunque classe del primo ciclo dell’istruzione.
Dunque cercare di stimolare la realtà e di portarla nella teoria, non fare viceversa costringendo lo studente dentro una realtà in cui con i compiti per casa si cerca di coprire la mancanza della vita scolastica quotidiana.

5. Dalla verifica di quanto trasmesso alla ricerca della complessità: dal disciplinare al pluridisciplinare.
Se già la Didattica in presenza fatta di lunghe spiegazioni e di lunghissime conferenze mostrava il passo e veniva intaccata sempre più spesso da progetti, laboratori, incontri pubblici, viaggi, stage, ecc. la Didattica a distanza fatta attraverso lezioni frontali diventa insostenibile. Se è possibile apprendere attraverso filmati perché non lo si faceva anche prima?
Lo studente debole che si annoiava in classe a sentire lunghe narrazioni solitarie davanti ad un filmato tende a fare altro (guardare il suo cellulare se non è connesso con quello, ad esempio). E’ necessario allora verificare il processo di apprendimento attraverso la complessità.
Non chiedere nozioni o conoscenze secche, ma chiedere un ragionamento attraverso temi molto complessi e articolati, che non si possano risolvere copiando da internet, ma richiedano pensiero ed elaborazione per fare emergere le competenze reali. La complessità per sua natura esige competenze, quindi bisogna dare compiti difficili per cercare l’eccellenza, non per sanzionare i peggiori.
Questa difficoltà deve valorizzare gli studenti migliori, che attraverso la loro competenza approfondita aiuteranno a migliorare la Didattica a distanza. La complessità disciplinare deve raccordarsi con quella pluridisciplinare di cui è ormai pregna la nostra società. Per questo è importante costruire contenuti pluridisciplinari che stimolino gli studenti dentro ragionamenti complessi e non ripetitivi.

6. Dal fare i compiti allo scrivere libri.
La possibilità di condividere testi dentro cloud permette di passare dall’elaborazione di compiti alla scrittura di libri. Poiché questi libri saranno multimediali, possono essere di qualunque formato, contenuto, durata. L’insegnante è il soggetto ordinatore, la scuola è l’editore, i ragazzi sono gli scrittori. Il passare da una scrittura che trasmette quello che ha recepito a una scrittura che recepisce quello che trasmette permette di mettere allo scoperto la genialità o la pochezza del prodotto.
Il lavoro collettivo diventa anche una traccia delle individualità e della loro capacità di adeguarsi o no alle attività di gruppo. In questo caso l’emergenza non produrrà compiti, ma permetterà di editare (sul web) un libro sull’emergenza, che sarà diverso per ogni classe, per ogni gruppo, per ogni elettività.

7. Dalla penna alla tastiera.
La gestione della tastiera (sia quella di un PC, sia quella di uno smartphone, sia quella di un tablet) è diversa dalla gestione della penna. Il passaggio da penna a tastiera ribalta quello che è il normale senso del procedere.
Per moltissimi studenti la tastiera ha già preceduto la penna: ora non si tratta solo di applicare una sostituzione, ma di comprendere che, dentro una Didattica a distanza che è una Didattica digitale, di nuovo “il mezzo è il messaggio”. Digitare non è mai scrivere con la penna, partendo anche dal semplice fatto che molto spesso ciò che manca al digitale è la pazienza della rilettura di quello che si è scritto. La scuola deve entrare in questo meccanismo e, in questo momento, deve ribaltare la sua priorità iniziale (la penna) per passare alla priorità digitale dei suoi studenti (la tastiera), avendo bene in mente che scrivere con la penna non produce gli stessi effetti che scrivere con la tastiera e pertanto anche su questo è necessario fare scuola (primaria: anche quando si frequenta il liceo).

8. Da segnalare libri (letture) a segnalare link.
In questa fase è necessario che i docenti segnalino correttamente link dove individuare questo o quell’argomento sviluppati in modo corretto. Questo è un lavoro nuovo ed è un lavoro immane. E’ possibile credere ancora che lo studente studi volentieri sul manuale cartaceo, ma forse qualche dubbio in questa fase è necessario farselo venire. Bisogna imparare a linkare (parola pessima: ma ce n’è un’altra?) in forma approfondita, dopo aver girato ore e ore sul web per cercare qualcosa di veramente utile, interessante, ben scritto, ben organizzato.
Qui entriamo nel settore delicato della ricerca didattica, che non può limitarsi a cambiare nomi o a cercare di portare il vecchio programma dentro un nuovo curricolo.
L’emergenza chiede un aumento di profondità e quindi la possibilità di accedere in forma critica e intenzionale ai moltissimi contributi di altissimo livello che si trovano sul web. Diventa perciò necessario “saper linkare”: quando il docente parla agli studenti, deve segnalare riferimenti digitali facilmente reperibili, quando lo studente parla, deve indicare precisamente la fonte da cui ha tratto spunto per quello che sta dicendo.
Va ripristinata la logica didattica di san Tommaso d’Aquino, che pretendeva, durante il quolibet, che i suoi studenti citassero sempre la fonte delle loro affermazioni. A quel tempo avevano solo la memoria, oggi abbiamo un web così enorme che ci sta asciugando la memoria, per cui dobbiamo dare riferimenti chiari, non generici richiami a testi che non sono oggettivamente alla portata fisica (perché cartacei) di nessuno.

9. Dalla lingua madre al plurilinguismo.
Il plurilinguismo dovrebbe diventare la cifra della lontananza. A scuola non si può più parlare solo italiano, ma si deve iniziare a interagire in tutte le lingue con cui abbiamo familiarità, siano esse vive o morte. E’ un lavoro complesso non alla portata di tutti, ma credo sia necessario avviare degli incontri via chat o video con più insegnanti presenti contemporaneamente.
Quelli di lingua straniera avrebbero così la possibilità di presidiare le competenze linguistiche degli studenti dentro importanti contenitori scientifici, umanistici o anche esperienziali. Sia nel primo ciclo sia nel secondo ciclo è importante dare allo spettro plurilinguistico possibilità di spaziare di farsi valere come veicolo.
La didattica dentro il plurilinguismo è una didattica molto complicata e che per questo si sposa con la complessità virtuosa di cui parlavo sopra. Per questo è necessario affinare le competenze del lavoro in team, dentro spettri linguistici differenti su azioni pluridisciplinari complesse. Il senso dell’operazione diventa non solo quello di testare conoscenze, ma soprattutto quello di vedere in che modo si sono sviluppare le competenze, che solo dentro una dimensione plurilinguistica collocano lo studente (anche molto giovane) nella società che si evolve.

10. Dall’orario dei docenti all’orario degli apprendimenti.
Pensare che Didattica a distanza possa rispettare gli orari della Didattica in presenza è una pericolosa perdita di tempo. Mimare da remoto, attraverso video incontri o lezioni frontali, i tempi della presenza significa stare dentro un medium senza averne capito nulla. I consigli di classe, i team docenti, i dipartimenti dovrebbero attivarsi per rivedere la propria progettazione curricolare slegandosi dall’idea (morta) di programma.
I programmi non si potranno finire né quest’anno né mai, ma bisogna, invece, costruire curricoli anche temporalmente al passo con il processo di apprendimento degli studenti. Era una cosa che bisognava aver fatto prima, ma che adesso diventa imprescindibile e come tale deve essere attuata nell’emergenza.
Passata la prima fase accompagnata dall’entusiasmo dei neofiti, degli avanguardisti, degli estremisti del web e di quelli della carta, si deve transitare alla mediazione processuale per capire qual è il tempo migliore per sviluppare apprendimenti e per cementate conoscenze. Inutile rimanere ancorati all’orario: il mattino si spiega il pomeriggio si studia. Il tempo non è più quello che conoscevamo, le giornate sono più brevi di prima perché la solitudine annulla i tempi e cambia i ritmi.
E quindi anche la scuola deve essere diversa. Il tempo della Didattica a distanza e della Didattica digitale non può essere quello della Didattica in presenza, scandita oltre che dalle sveglie mattutine anche dagli autobus, dai treni, dagli scuolabus, dalle mense, dai rientri, dagli orari dei genitori, dallo sport, dalla dottrina, dai gruppi musicali e culturali, dalle feste, dagli incontri, ecc. Bisogna ripensare il tempo della scuola, collegandolo a quello dell’apprendimento in situazione di emergenza. Serve un tempo nuovo, magari un tempo senza tempo, in cui ci siamo perché apprendiamo, non perché siamo obbligati a esserci.




La fragilità degli studenti

matitadi Stefano Stefanel

Il punto di partenza me l’ha dato l’amico Piervincenzo di Terlizzi con un messaggio via whatsapp: “Poi verrà il momento di capire tutto questo: con l’aiuto di famiglie e ragazzi”.
Il pensiero agli studenti di oggi è un pensiero alla loro fragilità esistenziale, messa alla prova da un evento epocale, che nessuno aveva immaginato. Su quello che sta succedendo suggerisco di leggere il completamente condivisibile articolo di Paolo De Nardo (La scuola dopo il Covid-19, www.edscuola.it, 18 marzo), l’ottimo intervento di Ariella Bertossi (Covid-19: come si rovescia il sistema, www.edscuola.it, 14 marzo) oltre ai testi ministeriali, in primo luogo la Nota n° 388 del 17 marzo firmata dal Direttore generale Marco Bruschi, con annesse le reazioni dei sindacati (Richiesta ritiro nota n° 388 del 18 marzo), quelle di alcuni dirigenti scolastici (Comunicato stampa: La scuola non è dei sindacati, è degli studenti del 18 marzo), quelle di Anp (Pavlov è vivo, 18 marzo).

Ciò che appare evidente in tutto questo è che il sistema scolastico italiano è mutato in meno di un mese e si trova a fare i conti con la instabilità del futuro. In questo mutamento epocale della scuola e della società in cui tutte le priorità si sono ribaltate i giovani in età scolare (dai 3 ai 19 anni) sono quelli più esposti alla perdita di punti di riferimento. Quindi sono i più fragili.
La loro fragilità nasce dalla mancanza di esperienze pregresse utili a leggere il tempo presente: chi è avanti negli anni “ne ha viste molte”, come si dice e cerca di comprendere in che modo inserire nella sua vita questo avvenimento. Chi, invece, ne ha viste poche non sa da che parte girarsi.

I giovani si stavano occupando d’altro e non avevano alcuna percezione che tutto fosse così debole e incerto e che una pandemia potesse entrare nella vita dell’occidente e dell’oriente, sconvolgendo entrambi. La globalizzazione, vissuta come connettività totale, libera circolazione, scambi, viaggi, merci e on line si è andata a infrangere contro una pandemia da nessuno attesa e quindi senza difese pronte. Poiché stiamo tutti combattendo una guerra che nessuno ha dichiarato siamo spaesati e dentro questo spaesamento siamo impauriti. Gli studenti sono anche molto fragili: gli abbiamo spiegato un mondo, ma si trovano a viverne un altro.

E DIAMOLO QUESTO VALORE

La scuola in questa fase deve imparare a valutare e a usare il termine valutazione nel suo significato letterale: dare valore a quello che viene fatto, cercare di capire quello che vale, evidenziare il valore aggiunto, premiare il valore dell’apprendimento e dello studio. La Didattica A Distanza è entrata di prepotenza nell’immaginario scolastico e tutte le idee repressive sull’uso dei device sono sparite in un attimo, anzi molti ex “repressori” vorrebbero mettere note di demerito agli studenti che non si connettono alle loro lezioni (spesso molto frontali come quelle in aula). Il paradigma è mutato profondamente e la necessità sentita dai docenti di continuare a fare scuola anche se in maniera differente è condivisa dagli studenti e dalle famiglie che stanno seguendo questa strana scuola via web.
A questo in primo luogo bisogna dare valore: al lavoro dei docenti, eccezionale in tutto e per tutto; al lavoro degli studenti che si fanno forza della loro fragilità per rimanere ancorati attraverso la scuola alla società. E poiché dopo il tempo dell’emergenza verrà il tempo delle scelte bisognerà capire che principale scelta da fare è quella su ciò a cui bisogna dare valore.

Salute e scuola in questo momento mostrano come il nostro vivere insieme si basi su bisogni essenziali e forti e questo è un altro punto attraverso cui dare valore ai nostri studenti. Il lavoro a distanza ha bisogno di riconoscimenti ancora più forti del lavoro in presenza: per questo ritengo sia doveroso riconoscere attraverso i voti il lavoro scolastico positivo che viene fatto a casa e on line. Perché parlo del lavoro scolastico positivo? Perché io credo che la valutazione in questa fase non debba essere una misurazione di intervalli o di raggiungimento di standard che non possono esistere, ma debba invece essere il riconoscimento alto e forte delle potenzialità positive di chi studia come non avrebbe mai immaginato di dover fare.

La fragilità dello studente si protegge e si cura attraverso il riconoscimento del positivo, non attraverso la misurazione del negativo. L’anno scolastico è irregolare a tutti gli effetti (e al Ministero lo sanno bene e anche in questo senso penso vada letta l’intelligente nota 388 di Bruschi) e dentro questa irregolarità vanno garantiti tutti e l’unico modo per farlo è quello di valorizzare tutte le cose buone che si fanno dando loro valore. I difetti è facile trovarli, i pregi invece sfuggono nel grande mare della disattenzione: è tempo che tutto questo finisca e che il valore venga sempre riconosciuto nel momento in cui c’è. Il richiamo al DPR 122/2009 quando dice che la “valutazione è trasparente e tempestiva” ci può venire in aiuto: la trasparenza sta nell’individuare attraverso meccanismi chiari e pubblici cosa deve essere valutato (nel senso, appunto, di “dare valore”); la tempestività richiede che appena vedo qualcosa di positivo lo registri.

USIAMO IL 10

Una delle caratteristiche più strane della scuola italiana è che il 10 è più facile prenderlo all’Università (lì lo chiamano 30) che alle scuole medie. C’è un’idea di standard che aleggia nella scuola italiana secondo cui il 10 deve corrispondere alla conoscenza “assoluta” e all’abilità chiaramente manifestata con perizia. E così i 10 non si danno e si assegnano a lavori di eccellenza degli 8 o forse dei 9. Io penso che invece questo sia il tempo dei 10: che siano pochi, ma intensi, individuati con cura e attribuiti con tempestività. Io penso che se dati con attenzione i 10 aiuteranno il sistema a reggere la crisi e potranno intervenire sugli studenti facendo vedere che il futuro è possibile. Il sistema scolastico, ma anche quello sociale viene migliorato dalle performance dei migliori, non dal numero di “aiuti” con cui vengono promossi gli studenti in difficoltà (le famigerate stelline delle piattaforme e dei registri elettronici). Bisogna aiutare gli studenti a dare il massimo, saper leggere l’eccellenza, saper capire il positivo, comprendere le competenze di chi oggi sta lontano a studiare dentro scenari inediti.

Il ritorno a scuola dentro un anno epocale e irregolare non dovrà essere l’inseguimento di programmi non conclusi dentro verifiche cartacee aggressive e dedite all’assurda misurazione del passato, ma devono in primo luogo comprendere a che punto è lo studente: non quello generico che non esiste, ma quello che abbiamo davanti con la sua singolarità, il suo dolore, il suo stupore, le sue incapacità, i suoi slanci e la sua fragilità. Prima di ripartire lancia in resta sarà necessario capire quanto è fragile lo studente che abbiamo davanti e quanto questa fragilità è stata accentuata dall’emergenza. Proprio perché ci dovranno essere garanzie per tutti gli studenti, che stanno vivendo un anno scolastico inimmaginabile, è necessario avere una grande cura nel dare valore agli studenti che sono stati in grado di studiare, migliorare e apprendere in questi momenti difficile e con una Didattica a Distanza che nessuno aveva sperimentato con queste modalità totalizzanti e uniche. D’altronde in questo momento se non c’è una Didattica a Distanza non c’è alcuna didattica: e questa è una novità per i docenti, ma soprattutto per gli studenti.

I Dirigenti scolastici sono chiamati a dare equilibrio a tutto questo evitando che tutto diventi un grande equivoco su cosa è obbligatorio e cosa no, se il voto a distanza vale o non vale e altre stupidaggini che purtroppo circolano. Bisogna presidiare, non controllare; favorire non imporre; capire non comandare; aiutare non pretendere; condividere non obbligare. Insomma è nato un nuovo ruolo anche per il Dirigente scolastico che deve farsi carico di quella didattica che spesso ha lasciato al suo destino per occuparsi di privacy, sicurezza, acquisto della carta igienica, concessione di permessi, graduatorie e via di seguito. L’emergenza chiede equilibrio a chi è più forte: Dirigenti e Docenti sono più forti degli studenti e devono farsi carico della cura. Gli studenti ne verranno fuori diversi e questo sarà uno spartiacque profondo, dove la salute e la scuola balzeranno davanti agli altri problemi che torneranno con la loro potenza scomposta dopo l’emergenza.

Un’ultima cosa: siamo passati da social dove l’odio, la violenza, la cattiveria e l’ignoranza la facevano da padroni a social diventati strumento di aiuto, supporto, dialogo. Prima c’era troppa violenza, oggi c’è forse troppa “melassa” (anche da parte mia) e dunque presto anche i social muteranno di nuovo. Ma tra la violenza e la melassa sceglierò sempre la melassa e credo che anche questa sia una mutazione non da poco: un sistema di comunicazione che si credeva forte ora si sente fragile e lo fa con tutte le debolezze proprie della natura umana.




Il curricolo digitale

corso_appcoop_062019di Stefano Stefanel

L’emergenza per il Coronavirus ha portato allo scoperto un tema (che presenta molti aspetti: didattica a distanza, comunità virtuale, scuola attraverso il cloud, smart school, smart working, ecc.), che stava prendendo una strada priva sbocco, cioè quella della contrapposizione tra libri e web.

Le norme prodotte in funzione dell’emergenza per il Coronavirus mettono nero su bianco, in maniera anche un po’ confusa, metodologie e possibilità che già c’erano e che qualcuno stava già sfruttando. Sui social poi sono fiorite le testimonianze delle varie comunità scolastiche virtuali nate a seguito dell’emergenza o che già si stavano sviluppando. Così il dibattito su libri e web è tornato, ma sotto mentite spoglie, con il web che dimostra come possa essere utile e utilizzato, fermo restando che a casa e a scuola si possono continuare a leggere anche i libri.

Io credo non sia possibile percorrere la china che ha preso, nel frangente dell’emergenza, una parte del dibattito sulla scuola italiana e vada riaffermato un principio cardine molto semplice: è necessario e fondamentale che le scuole si dotino di curricoli digitali che siano di supporto al curricolo d’istituto o che interpretino in forma autonoma il digitale. Non si possono improvvisare classi virtuali, chat didattiche, cloud più o meno operativi o lezioni su you tube senza prima aver predisposto un lavoro progettuale frutto di ricerca e innovazione e ricerca sull’innovazione.

Il Miur ha finanziato nel 2016 per quasi due milioni di euro progetti nazionali per la redazione di Curricoli digitali: da quell’autunno del 2016 ci sono voluti tre anni per arrivare nel novembre del 2019 ad individuare i vincitori di quei progetti, che stanno aspettando (sempre da novembre) che vengano accreditati i fondi e autorizzate le spese per iniziare i progetti. Troppo tempo dunque e tutto troppo lento pur in presenza di soldi e di volontà. Però anche un monito: non si producono didattiche alternative in poco tempo e soprattutto non le si producono durante un’emergenza. Il processo progettuale deve essere graduale, ma non lento, innovativo ma non necessariamente rivoluzionario, attento alle esigenze degli studenti e dei docenti, collegato a device e a software facilmente utilizzabili, economici ed anche abbastanza sicuri da intrusioni.

Se la contrapposizione tra libri e web mi sembra una contrapposizione sterile che mette in secondo piano quello che è l’elemento centrale della scuola e cioè lo sviluppo armonico dell’apprendimento dello studente, lanciarsi in improbabili esperimenti a seguito della chiusura per una settimana delle scuole (in alcune regioni di meno, perché tre giorni di chiusura erano già previsti per Carnevale) significa avere in spregio la pedagogia, non conoscere la multimedialità, sottostimare il processo di apprendimento.
Esiste un passaggio eccezionale dell’Iliade che ci viene in aiuto. Achille si è ritirato sulle navi e i Mirmidoni non combattono più. Ettore fa uscite le truppe da Troia e incalza gli Achei che combattono con i piedi in acqua tanto avanti sono arrivati i troiani. Escono allora in battaglia i due Ajace che respingono i troiani combattendo appaiati e avanzando insieme, ma con metodologie diverse: Ajace Telamonio combatte e avanza da solo, poi si ferma a riposare e i suoi uomini tengono la posizione che ha conquistato; Ajace Oileo invece avanza mentre i suoi uomini da dietro tirano frecce sui troiani in sincronia con i suoi movimenti. Scrive Omero che i due eroi mitologici avanzano insieme come buoi in un campo da arare e i troiani indietreggiano. Diverse metodologie, un unico traguardo.
Ma anche un’altra cosa: precisione millimetrica di tempi e spazi, sincronia, fiducia nel vicino: tutte cose necessarie per frenare l’avanzata di Ettore, ma anche per mettere a punto una didattica efficace e non solo efficiente.

Per prepararsi a uscire in battaglia contro Ettore e in una situazione drammatica non si può improvvisare o sperimentare, bisogna mandare fuori i migliori perché loro sanno come si fa. E lo sanno perché le loro competenze vengono da molto lontano. Improvvisare, a causa di una emergenza, lezioni a distanza o condividere compiti on line se si è sempre agito di persona e su carta è il peggior modo di entrare in quella struttura didattica innovativa e digitale di cui l’Italia ha molto bisogno. E molto male fanno all’incedere corretto della didattica e dell’innovazione coloro che estremizzano la comunicazione, dando per scontato ciò che è processo, dando per trovato quello che è ancora ricerca. In situazione come queste e davanti a dibattiti surreali su argomenti discussi sul web prima che nei collegi docenti bisogna avere la capacità di pensare e costruire mappe di ricerca che producano una reale curricolarità. Il digitale ha bisogno di curricolo, anche perché non viene da lontano e non ha un programma, dunque si trova nella terra di nessuno, quella delle competenze nominate ma non declinate. Da ormai vent’anni la competenza digitale sta tra quelle chiave dell’area Ocse ed è stata assunta nei programmi di sviluppo per le scuole, di cui i PON sono solo l’esempio più eclatante. Da vent’anni c’è la competenza digitale inserita tra le otto competenze chiave, ma non c’è il curricolo, anzi si stanno sviluppando, quasi di pari passo, il BYOD (Bring You Our Device) e i tentativi di reprimere con mezzi artigianali un processo di sviluppo molto potente. Quello del web è un mondo complesso, dove si possono acquisire contemporaneamente dati, conoscenze, notizie, informazioni, fake news, bufale, stupidaggini e competenze che si intrecciano con confini spesso molto sfumati tra loro.

Se dunque è corretta l’idea ministeriale che la curricolarità digitale abbisogni di una progettualità che nasca da sperimentazioni dal basso, pare molto confusa l’idea che le scuole hanno nel complesso delle competenze digitali, di come si certificano, di come si valutano, di dove si valutano e – soprattutto – di come possano convivere con la repressione sull’uso degli strumenti di proprietà. Tutto questo ha bisogno di solidi curricoli d’istituto, che traccino i confini e in cui il web sia al servizio dell’apprendimento, permetta di costruire repositori e cloud accessibili e scientificamente approfonditi, che integri il sapere dentro strutture di controllo analitico di quanto viene divulgato e sviluppato.

Credo anche sia necessario che la curricolarità digitale parzialmente abbia un appiglio in alto (Università, Miur, Ricerca didattica) e parzialmente nasca da ricerche e azioni di istituto, esperienze che si consolidano strada facendo, formazione docenti e formazione studenti che vanno i pari passo. Sono le scuole che devono iniziare la ricerca e devono perseguire l’innovazione, perché lo ritengono necessario, non perché obbligate dal Ministero o dall’emergenza. Personalmente ritengo molto obsoleta l’dea che il circuito “Spiegazione e assegnazione compiti – Interrogazione o compito sulla spiegazione – Misurazione che si trasforma in valutazione” possa essere considerato virtuoso nel rapporto tra insegnamento e apprendimento, anche perché tiene fuori il rapporto ormai necessario e paritario nel percorso di apprendimento tra formale, non formale e informale nella valutazione degli studenti. La spinta all’innovazione, all’uso di tecnologie informatiche, allo sviluppo del BYOD, che viene anche dalla società civile, non penso stupisca più nessuno (semmai produce inspiegabili reazioni contrarie a difesa della carta, che di fatto nessuno attacca). Anche per questo i riferimenti governativi in relazione alla didattica a distanza, all’uso delle piattaforme, al rapporto con gli studenti in forma diversa da quella tradizionale deve collegarsi a quanto contenuto nei PTOF, non a livello formale, ma proprio a livello sostanziale. In questo come in quasi tutti i settori del sapere e della conoscenza nulla si inventa dall’oggi al domani, ma tutto è sperimentalmente possibile.
Penso non sia inutile ricordare quanto contenuto nel comma 10 dell’art. 21 della legge 59 del 15 marzo 1997 (la Bassanini Uno): “Le istituzioni scolastiche autonome hanno anche autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo nei limiti del proficuo esercizio dell’autonomia didattica e organizzativa.”

E quindi ribadisco quello che ritengo un concetto chiave: si può ricercare, sperimentare, innovare e sviluppare tutto (didattiche, pedagogie, pratiche, verifiche, valutazioni, metodologie, contenuti, ecc.), ma non si “deve” fare nulla perché ci viene imposto dall’alto o dall’emergenza, ma solo perché ci viene imposto dalla necessità di fare il meglio possibile per migliorare l’apprendimento degli studenti. Sta in questo la libertà di insegnamento, nel collegarla alle necessità dello studente, allo sviluppo della professione, all’attenta analisi di quanto viene proposto dal mondo scientifico, culturale, pedagogico. Non ritengo che un’emergenza debba stravolgere il corso degli eventi: se la didattica integrata col web è un valore positivo lo è in tutte le giornate dell’anno, come in tutte le giornate dell’anno è utile e bello leggere un libro, consultare un manuale, scoprire o conoscere qualcosa.

Certamente possiamo fare di più e di meglio e la mia speranza sarebbe di non vedere più docenti girare con obsoleti pacchi di fogli di carta da correggere (ma forse è una speranza un po’ vana), ma quella (in questo caso ben riposta e confermata nei fatti) di tanti docenti che sperimentano metodologie didattiche o modalità di valutazione alternative, mitigando così la passione per l’assegnazione di numeri alla ripetizione dell’identico (compiti e interrogazioni), Ma esternata questa speranza, in qualità di dirigente devo aiutare e favorire il processo di redazione curricolare, non farlo io con imposizioni o iniziative che minano la professionalità del lavoro dei docenti.




Curricolo di storia, curricolo della memoria

matitadi Stefano Stefanel

In questi ultimi tempi c’è stata un’accelerazione imprevista di comportamenti e segnali molto preoccupanti per chi ritiene che alcune verità storiche non possano più essere revisionate, ma debbano soltanto essere insegnate dentro un sistema naturale di civiltà. Molto spesso, poi, accade che dal mondo accademico o scolastico si chieda di smetterla con competenze e curricoli e si torni a conoscenze e programmi. E così i segnali peggiori vengono ignorati e abbandonati al loro destino senza avere il coraggio di andare a vedere da che cosa nasce tutta questa confusione revisionistica su un passato piuttosto recente e incontrovertibile (Shoah, leggi razziali, alleanza tra Hitler e Mussolini, antisemitismo). Il vecchio mantra di destra “ma Mussolini ha fatto anche cose buone” si è evoluto, purtroppo, in un incredibile crescendo di follie interpretative.

Assemblo alcuni fatti a cui ci stiamo assuefacendo e che sono il sintomo di un mutamento drammaticamente duraturo: l’insegnante che in classe denigra Liliana Segre dicendo che cerca solo visibilità; il Comune che attribuisce la cittadinanza onoraria alla Segre, deportata in quanto ebrea, e poi dedica una via ad Almirante che aveva firmato il “Manifesto della razza” che ha dato origine alle leggi razziali che hanno fatto deportare la Segre; un aumento di italiani (qualcuno ha detto che sono il 15%) che nega la Shoah; il saluto fascista ridiventato segno di distinzione; le scritte antisemite sulle porte delle case degli ebrei e sui muti delle città; il richiamo al comunismo ogni volta che si nomina il nazismo; il negazionismo su quanto avvenuto nei campi di sterminio. Questo museo degli orrori è sì un museo “storico” degli orrori, ma questo uso distorto della storia sta entrando nelle coscienze civiche, alterando il concetto stesso di civismo che non può svilupparsi dentro queste atroci falsità.

La prima banalità che balza agli occhi è che tutte queste persone hanno frequentato le scuole pubbliche italiane in cui si insegna, ormai da più di 70, anni in forma antifascista e antirazzista la storia del Novecento. La scuola esecra, ma non si interroga sul perché ciò sia potuto accadere. La scuola italiana ritiene che la storia si possa insegnare solo in forma storicistica, cioè seguendo nella linea del tempo l’evolversi degli avvenimenti, dei motivi e delle cause. E così la storia del Novecento si affronta in terza media (secondaria di primo grado) e in quinta superiore (secondaria di secondo grado), cioè senza alcuna connessione temporale e verticale (a 14 anni si studia la storia del Novecento e a 15 quella dei greci e dei romani: e tutto questo viene ancora definito logico!), per poi ritornare a studiare il Novecento a 18-19 anni. La battaglia sul compito di italiano con una traccia di tipo storico continua a pretendere questa partizione di tipo storico. E la drammatica assenza di verticalità tra i due ciclo oltre a produrre dispersione, ora mi pare produca anche revisionismo.

Tutto questo cozza contro la banale considerazione che l’evoluzione mentale dei ragazzi si evolve più velocemente di un tempo, anche perché messi a contatto con un mare di nozioni e notizie rinvenibili senza sforzo critico sul web. Così può accadere (ed è accaduto) che uno studente faccia un approfondito studio sul passato di suo bisnonno, internato nei campi di concentramento dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e contemporaneamente sia segretario provinciale di Casa Pound. Non comprendo perché a nessuno venga in mente che l’insegnamento storicistico della storia (parto dall’uomo di Neanderthal e arrivo fino a Donald Trump se ci arrivo) sia un elemento cardine della trasformazione del sapere storico in un semplice film del passato dove tutto si confonde (la Resistenza come Lepanto, la Prima Guerra Mondiale come la Guerra dei Trent’anni). E tutto questo avvenga mentre cresce e si sviluppa il pensiero dello studente e le ideologie si sedimentano e non sono più scalfibili. Così accade che se un ragazzo tra i 15 e i 18 anni diventa fascista poi quando in quinta superiore studia la storia non la collega con la propria ideologia e può al tempo stesso studiare la Shoah e negarla. Cosa avvenga poi dopo la fine degli studi è sotto gli occhi di tutti. Quando un’ideologia si è formata – qualunque essa sia – è difficile da scalfire: e a 18 anni è quasi sempre già formata.

A me pare evidente che la storia del Novecento si dovrebbe studiare in prima superiore legandosi strettamente a quanto si è studiato in terza media, prima cioè che la corsa verso l’ideologia (sia di destra sia di sinistra, sia antifascista sia revisionista) inizi la sua “fuga” irreversibile. Ma poiché questa evidenza appare solo a me e l’Università, gli intellettuali, il Miur, gli studiosi si battono per la Storia del Novecento in terza media e in quinta superiore assistendo, attoniti, al drammatico fatto per cui tutti quelli che hanno studiato nelle scuole pubbliche italiane (statali e private) possano acquisire quanto appreso o negarlo senza poterci fare nulla. Credo che allora l’unica cosa da fare sia quella di separare il Curricolo di Storia (che continuerà nel suo incedere storicista, per cui se prima non si è studiata la Seconda Guerra d’Indipendenza non si può studiare la Seconda Guerra Mondiale) dal Curricolo della Memoria. Erodoto non la pensava così e neppure Tito Livio, ma allora la Storia raccontava i vincitori e non aveva altre pretese. Noi invece abbiamo attuato una pedagogia scolastica dell’antifascismo per sentirci poi dire da troppi che Fascismo e Antifascismo sono solo due modi di pensare e tutti e due leciti.

Potrebbe allora accadere che il Curricolo di Storia produca le amate conoscenze dentro i sempre applauditi Programmi, il Curricolo della Memoria, invece, sviluppi dentro un suo percorso, slegato da rigide partiture annuali, le Competenze Civiche e di Cittadinanza dove i valori del sapere e quelli del civismo coincidono. Prima che sia troppo tardi spero nello sdoppiamento, così che il Curricolo della Memoria aiuti dai dieci ai vent’anni lo studente a crescere culturalmente su quanto si deve ricordare mentre sviluppa la sua ideologia, fermando così alcune derive revisioniste, antisemite e naziste che si annidano nella mente dei giovani mentre sono spinti a studiare il Medioevo e il Rinascimento.

Il passato non è ordinato e il suo ordine dentro in manuali è spesso spaventoso, con la storia della Cina ridotta a qualche paragrafo e quella dell’Islam messa qua e là. Ma questo Novecento messo alla fine dei due cicli, senza neppure farsi sfiorare dal dubbio che il passaggio dallo studio della Seconda Guerra Mondiale (terza media) allo studio di Pericle (prima superiore) non sia così logico come sembra in uno sviluppo armonico e organico dell’apprendimento.

Quello che stupisce è, allora, che ci si stupisca che il passaggio dal Curricolo di Storia al Curricolo della Memoria non sempre avvenga e che l’incedere idealista dello “svolgimento della storia che cade nel tempo” non sia poi il modo migliore perché tutti imparino cosa è accaduto realmente nel passato, perché è accaduto e – soprattutto – cosa sarebbe meglio non accadesse più.

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