Un altro anno difficile. Pensiamo all’estate ma anche all’autunno

di Stefano Stefanel

In questi ultimi giorni sono uscite le Ordinanze n° 52 e 53 (3 marzo 2021) sugli esami di stato conclusivi dei due cicli dell’istruzione e il Decreto legge n° 41 (22 marzo 2021), che contiene il comma 6 dell’articolo 31 che introduce una novità di portata molto ampia: “Al fine di supportare le istituzioni scolastiche nella gestione della situazione emergenziale e nello sviluppo di attività volte a potenziare l’offerta formativa extracurricolare, il recupero delle competenze di base, il consolidamento delle discipline, la promozione di attività per il recupero della  socialità,  della  proattività, della vita di gruppo delle studentesse e  degli  studenti  anche  nel periodo che intercorre tra la fine delle lezioni dell’anno scolastico 2020/2021 e l’inizio di quelle  dell’anno  scolastico  2021/2022, il Fondo per l’arricchimento e l’ampliamento  dell’offerta  formativa e per gli interventi perequativi, di cui all’articolo 1 della legge 18 dicembre 1997, n. 440, è incrementato di 150  milioni  di  euro  per l’anno 2021.

Io credo che qualcuno debba avvertire il Ministro Bianchi che c’è una “mancanza”, perché questi documenti “saltano” dalla fine di marzo alla fine di giugno, quasi che i mesi che ci attendono (aprile, maggio e giugno) siano mesi “indifferenti”.
In questi giorni io, purtroppo, sento molto “rumore di sciabole” e questo mi mette molta paura, perché gli studenti vengono da due anni scolastici inimmaginabili e molti di loro vanno verso una bocciatura che aumenterà la dispersione scolastica e il disagio complessivo del sistema scolastico italiano, senza intervenire sul problema strutturale che questa pandemia ha scatenato.
E’ vero che spendere 150 milioni di euro in sei mesi non è cosa da poco e quindi bisogna prendersi per tempo, ma l’impressione è che non ci sia preoccupazione per il numero di studenti che rimarranno indietro a causa di quanto accadrà nei prossimi tre mesi, dentro una didattica che ha aumentato, attraverso la distanza, il suo impatto formale e formalistico. Non comprendo perché questa corsa verso la dispersione non preoccupi e non preveda forme di supporto nei prossimi tre mesi per limitare quello che la pandemia ha minato nel processo di apprendimento dei nostri studenti.

Inoltre il primo ciclo dell’istruzione è dentro uno stress test mai immaginato, non ipotetico, bensì proprio reale. E questo acuirà la dispersione soprattutto in quella scuola di frontiera che è ormai diventata la scuola secondaria di primo grado. Quindi quando arriveranno gli esami e quando partiranno le attività estive ci sarà comunque una scuola che si troverà a fronteggiare un’improvvisa dispersione. Io penso che ci si debba occupare e preoccupare oggi di quanto avverrà nei prossimi tre mesi e, di riflesso, di cosa avverrà dopo. Qualcuno può pensare che sia “naturale” che ci sia molta dispersione, visto che l’anno scorso tutti gli studenti sono stati promossi: ma la dispersione scolastica non è mai naturale e spesso è indotta da cattive pratiche didattiche e da disastrose pratiche valutative, che nella Didattica Digitale Integrata sono aumentate, non diminuite. Però, natura non facit saltus e dunque un passaggio da marzo a luglio senza tenere in debito conto cosa potrebbe avvenire in aprile, maggio e giugno è molto rischioso e non va sottovalutato.

Parlare poi di tempo perso da recuperare, come a “qualcuno” è sfuggito, non rende giustizia alle scuole che non hanno mollato nemmeno un minuto, anche con strumenti come la Didattica digitale integrata, che avrebbero dovuto integrare e non sostituire. Il curricolo è stato appesantito da troppa didattica frontale e gli studenti non hanno potuto vivere la scuola come andava vissuta. Questo è avvenuto anche nel primo ciclo, martoriato da chiusure, quarantene, contagi e una situazione sempre mutevole e molto in bilico sul ghiaccio pronto a rompersi.

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Il decreto legge mette insieme cose piuttosto diverse tra loro, con una grande ambizione, perché vuole potenziare:

  • l’offerta formativa extracurricolare,
  • il recupero delle competenze di base,
  • il consolidamento delle discipline,
  • la promozione di attività per il recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti.

L’elenco è corretto e centra i problemi principali della scuola italiana, ma quello che è necessario fare è impedire che gli studenti che dovranno recuperare siano troppi. Inoltre un simile programma per essere realizzato richiede due anni, non due mesi, certamente non un’estate sola e dunque forse è bene mettersi con calma a valutare tempi e burocrazia, perché la poesia e la fantasia non possono andare a schiantarsi sulle procedure che saranno messe a presidio di quei 150 milioni di euro. Ci sono delle potenzialità e delle criticità che è importante valutare separatamente. Partiamo dalle potenzialità:

  • è importante che la scuola mantenga la centralità sociale che questa pandemia le ha assegnato e che il suo ruolo venga riconosciuto ancora di più;
  • è necessario puntare sulla qualità dei progetti e non sulla quantità;
  • è importante far comprendere e conoscere alle famiglie le possibilità che la scuola fornisce anche al di fuori delle sue attività canoniche;
  • è necessario che la scuola sappia allearsi con gli enti locali e con i soggetti del terzo settore e dello sport per costruire progetti di senso;
  • tutte le opportunità date agli studenti per recuperare una corretta socialità, anche in estate, vanno colte.

Proprio perché il progetto è importante vanno considerate oggi quelle che possono essere le criticità, alcune delle quali già si vedono nel testo del decreto: “Tali risorse sono assegnate e utilizzate sulla base di criteri stabiliti con decreto del Ministro dell’istruzione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, anche al fine di ottimizzare l’impiego dei  finanziamenti di  cui  al  Programma operativo nazionale «Per la Scuola»  2014-2020, (…). Le istituzioni scolastiche ed educative statali provvedono entro il 31 dicembre 2021 alla realizzazione degli interventi o al completamento delle procedure di affidamento,degli  interventi,  anche  tramite  il coinvolgimento, secondo principi di trasparenza e nel rispetto  della normativa vigente, di enti del terzo settore e imprese sociali.

Vediamole una per una:

  • “anche al fine di ottimizzare l’impiego dei finanziamenti di cui al Programma operativo nazionale «Per la Scuola»  2014-2020”: se c’è qualcosa che non va ripetuta è la burocrazia dei PON. Questo è un punto non da poco, perché la burocrazia collegata ai Fondi PON sta strangolando le scuole, che si vedono costrette ancora oggi a sottostare a controlli su fondi spesi quattro-cinque anni fa per progetti già conclusi, dentro una burocrazia che non arretra neppure davanti all’evidente e conosciuta debolezza amministrativa di molte scuole;
  • “Le istituzioni scolastiche ed educative statali provvedono entro il 31 dicembre 2021 alla realizzazione degli interventi o al  completamento delle procedure di affidamento degli  interventi”: anche in questo caso il concetto di “procedura di affidamento” prevede la prospettiva di ulteriori complicazioni e che si possono abbattere sulle segreterie allo stremo già in estate;
  • tramite il coinvolgimento, secondo principi di trasparenza e nel rispetto della normativa vigente, di enti del terzo settore e imprese sociali”: qui la domanda è semplice, “come?”. Se l’affidamento è tramite “procedure di affidamento” non può essere tramite “coinvolgimento”. O si procede per procedure o si procede per coinvolgimento: tertium non datur.

L’ultimo punto sopra esposto merita un approfondimento perché il “terzo settore” sta già occupando gli spazi estivi soprattutto per la fascia 6-14 anni con centri estivi e centri vacanze. Ora è evidente che una procedura aperta al mercato (come chiedono le Linee guide ANAC anti corruzione) potrebbe creare del turn over tra gli operatori, che porterà a contenziosi a livello locale, visto che gli “operatori storici” si attendono continuità dopo un anno molto difficile anche per loro. Inoltre molti enti locali sono già partiti nell’organizzazione estiva e pertanto sarà difficile progettare attività alternative o integrare le attività degli enti locali con quelli delle scuole.

Una bella idea e una giusta attenzione al sociale devono camminare con gambe molto ben piantate avendo cura di tener conto della dispersione scolastica in arrivo dentro i prossimi tre mesi che non sono di passaggio, delle procedure di gestione economica delle scuola diventare terribilmente complicate, del radicamento sul territorio del terzo settore.

Restituire ai bambini e ai ragazzi i loro spazi sociali e garantire al tempo stesso un supporto al curricolo informale e non-formale sono degli obiettivi di grande portata e di alto progetto educativo, che devono trovare la giusta collocazione nel difficile percorso della scuola verso l’uscita dall’emergenza.

Credo che uno spazio interessante per le scuole nell’utilizzo di questi fondi più che l’estate sia l’autunno, per poter aiutare una partenza “normale” del prossimo anno scolastico. I fondi aggiuntivi potranno aiutare a mitigare le difficoltà che ogni avvio di anno scolastico ci ha fatto finora conoscere.




La scuola è una pubblica amministrazione da riformare?

di Stefano Stefanel

La scuola è una pubblica amministrazione da riformare?  Da un punto di vista teorico la risposta dovrebbe essere positiva, visto che nel complesso, tra dipendenti di ruolo e dipendenti precari, la scuola ha una pianta organica di circa 1.200.000 dipendenti. La sua composizione mista la porta ad erogare servizi di tipo non commisurabile, come sono quelli dell’educazione, della formazione e dell’apprendimento, collegati a quelli di carattere economico e fiscale, più simili alle altre pubbliche amministrazioni dello stato. Permangono però nel mondo della scuola alcune evidenti anomalie come quella di 8.000 dirigenti scolastici inseriti in una fantasmagorica Area V della dirigenza pubblica, ben lontana da quelle Aree I e II che contengono i dirigenti di altri segmenti della pubblica amministrazione. Ci sono, poi, molte alte incongruenze, che spesso fanno ritenere che la scuola non sia una vera e propria pubblica amministrazione. E infatti i dirigenti scolastici posti in capo alla scuola subiscono i carichi negativi delle pubbliche amministrazioni (responsabilità patrimoniali, qualifica di datore di lavoro al fine della sicurezza, responsabilità nella privacy, nella ricostruzione delle carriere a fini pensionistici, ecc.), senza beneficiare di quelli positivi (stipendi, mobilità tra pubbliche amministrazioni, middle management a loro disposizione con chiari compiti e responsabilità, ecc.).

La domanda la si può proporre anche rileggendo il Decreto Brunetta di 11 anni fa (d.lgs 150/2009). Quel Decreto fece tanto discutere e tanto litigare sindacati e Ministero della funzione pubblica, con un esito, che sarebbe divertente se non fosse allo stesso tempo avvilente, di sentenze quasi tutte a favore del Decreto Brunetta e allo stesso tempo il suo lento sgretolamento, prima attraverso la legge Madia (legge n° 124/2011) e poi attraverso una serie di accordi sindacali che di fatto hanno derogato  a varie leggi (soprattutto alla “famigerata” ma pur sempre viva legge 107/2015), nonostante proprio il Decreto Brunetta dicesse che non si può fare. La questione non è, però,  solo “storica” perché Renato Brunetta è tornato allo stesso ministero ed ha subito siglato un accordo quadro con i sindacati  per una riforma della pubblica amministrazione.

Il banco di prova relativo a tutto il ragionamento sarà ancora una volta la scuola, che il Decreto Brunetta escluse da alcune sue parti fondamentali, con l’idea che dentro la scuola è meglio mettere il naso il meno possibile. Dodici anni dopo, però, saltano agli occhi alcune storture, come quella che vede le segreterie scolastiche obbligate a gestire le posizioni pensionistiche dei dipendenti, quasi che al contempo l’INPS non fosse già pagato per farlo, ma anche come quella che vede il dirigente scolastico come un datore di lavoro responsabile della sicurezza che però non ha alcun potere sulle inadempienze dell’altro datore di lavoro, cioè il proprietario dell’immobile (che di solito è un ente locale, anche se in Italia vi sono tanti privati che sono proprietari di scuole date in affitto agli enti locali), che, invece, può accampare problemi di tipo economico anche in relazione alla sicurezza (mentre il dirigente scolastico questo non può farlo). Ci sono cioè dei veri e propri ossimori sulla pubblica amministrazione scolastica che una vera legge di riforma dovrebbe tenere nella parte alta della sua attenzione e non liquidare con commi che rimandano a tempi o procedure che non arrivano mai.

Il Decreto Brunetta del 2009 è stato reso sterile da alcune gravi sottovalutazioni dell’esistente:

  • l’eccessiva indeterminatezza del ciclo della performance all’interno di una pubblica amministrazione che premia il lavoro svolto e non il risultato ottenuto da quel lavoro: tutto questo stava dentro una definizione molto “culturale” del ciclo della performance, che ha continuato a premiare dirigenti pubblici che hanno ottenuto i risultati individuali prefissati pur dentro risultati generali catastrofici del proprio ufficio;
  • l’eliminazione della scuola dal ciclo della performance ha scritto, nero su bianco, che la scuola non è valutabile e quindi i successivi tentativi di farlo (Sistema Nazionale di Valutazione, “bonus” premiante il merito nella legge 107/2015, valutazione dei dirigenti scolastici in rapporto all’indennità di risultato) sono apparsi tentativi “disperati” di invertire una rotta che il Decreto Brunetta aveva già delineato (nella scuola non si entra perché è una pubblica amministrazione atipica);
  • qualunque legge o norma può essere modificata per via sindacale anche con accordi o intese, visto che il Decreto Brunetta nel richiamare la priorità della legge sui contratti non ha al contempo abrogato tutte le norme vigenti che dicono il contrario.

In tutto questo ci può essere un punto di equilibrio? Io penso di sì solamente se la così detta “riforma della pubblica amministrazione” prenderà una direzione chiara che preveda alcuni assi portanti:

  1. la semplificazione necessaria e doverosa deve diminuire il carico di lavoro e di carta (oggi PDF) e rendere oggettivamente più snello il lavoro, mentre finora tutte le semplificazioni proposte ed attuate hanno portato a più lavoro e più carta;
  2. la dematerializzazione deve eliminare tutta la carta (anche dagli archivi fisici) con la sola eccezione di quella con valenza storica e culturale e deve portare ad un rapporto con piattaforme di semplice gestione e non con il caricamento di PDF;
  3. i dirigenti devono essere valutati in rapporto ad obiettivi misurabili e chiari, senza alcuna deroga temporale e il primo obiettivo da valutare sono le modalità e la trasparenza con cui il dirigente valuta il personale affidatogli;
  4. dirigenti valutati possono contribuire a valutare il personale in base all’oggettiva prestazione fornita, nel campo scolastico:
    • per i docenti: apprendimenti degli studenti, precisione nello svolgimento del lavoro, gestione dei rapporti con le famiglie, trasparenza nella valutazione, attività di formazione svolta;
    • per gli ata puntualità e precisione nello svolgimento degli incarichi assegnati, competenza reale sulle attività da svolgere, rapporto con l’utenza;
  5. il ciclo della performance può essere una buona cosa da riprendere solo se è strutturato in maniera semplice e sintetica, dentro macro obiettivi;
  6. l’organizzazione del lavoro deve stare in capo al dirigente scolastico senza alcuna ambiguità, nell’ambito dei diritti dei lavoratori e di procedure trasparenti sancite da una valutazione periodica e puntuale.

A questo punto una volta definito il percorso di riforma il punto focale è quello di definire il piano di formazione dei dipendenti, che non può avere solo carattere “uditivo” (il dipendente ascolta quello che gli viene trasmesso), ma deve prevedere un feedback sulle competenze acquisite. Se poi la scuola è pubblica amministrazione allora bisognerà cominciare a comprendere che benefici, come quelli previsti dall’art. 59 del Contratto collettivo nazionale di lavoro del 29 novembre 2007 che prevede che i collaboratori scolastici, anche senza alcuna competenza, possano transitare nei ruoli di assistenti amministrativi paralizzando una buona parte delle segreterie scolastiche italiane, non possono più essere accettati. Qualunque attribuzione di posto e ruolo pubblico deve essere preceduto dall’accertamento delle competenze per poterlo occupare (docenti e ata) perché altrimenti si tratterà ancora una volta la scuola come una “bizzarra riserva”  e non come una pubblica amministrazione.




Valutazione nella primaria: arrivano i giudizi descrittivi

di Stefano Stefanel

La valutazione nella Scuola primaria, in applicazione della legge n° 41 del 6 giugno 2020, trova oggi un suo completo indirizzo attraverso l’emanazione del Decreto Ministeriale n° 172 del 4 dicembre 2020, a cui sono state allegate le Linee guida per la formulazione dei giudizi descrittivi nella valutazione periodica e finale della scuola primaria” e la nota del Capo dipartimento Marco Bruschi (n° 2158 del 4 dicembre 2020).
A questi documenti va aggiunto il parere favorevole del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione del 2 dicembre 2020, le cui proposte correttive hanno trovato ampio spazio nei documenti emanati.

Poiché questo passaggio normativo e progettuale è molto importante ed interessante, credo sia necessario che le scuole non sottovalutino alcune questioni, che si aprono attraverso questi documenti, e non cerchino frettolosi aggiustamenti a fronte di un percorso formativo e progettuale, che i documenti sopra citati impongono. Il documento emanato il 4 dicembre è un documento che nel corso del suo iter di approvazione è mutato in alcuni punti, conservando l’interessante impianto generale. E questo già dice molto sulla delicatezza del passaggio dai voti numerici ai giudizi descrittivi nelle scuole primarie.

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Ci sono però delle cose da fare, in modo piuttosto urgente, ed è il motivo per cui intervengo oggi:

  • gli Istituti comprensivi devono coinvolgere, in questo importante passaggio formativo e normativa (il passaggio della Scuola primaria dai voti ai giudizi descrittivi “molti anni dopo”), sia le Scuole dell’infanzia, sia le Scuole secondarie di primo grado: non è possibile lasciar progettare in solitudine  uno dei tre segmenti degli Istituti comprensivi, visto che il processo di valutazione è solo una parte di quello verticale di apprendimento e non una gamba autonoma a sé stante;
  • il lavoro svolto dalle Scuola primarie deve trasmettersi anche alle Scuole secondarie di primo e secondo grado, che non possono ritenersi escluse da un processo di valutazione che per 8 anni nella vita di uno studente (Scuola dell’infanzia e Scuola primaria) avviene senza voti;
  • le scuole devono evitare di collegare la valutazione descrittiva finale degli apprendimenti a valutazioni informali o formali numeriche in corso d’anno scolastico.

ALCUNI PERICOLI

L’impostazione data alla valutazione della Scuola primaria dai documenti ministeriali contiene anche dei grossi rischi, laddove la sua applicazione sarà meccanica e non progettualmente definita. Il primo è quello di trasferire la scala numerica precedente in una nuova scala dello stesso tipo, anche se letterale. Nella scuola primaria finora si usavano, di fatto, solo cinque voti: 6,7,8,9,10.

Il rischio, evidente, è di trasformare i numeri in parole:

Un altro rischio è quello che nasce dalla richiesta di valutare tutte le discipline previste dalla Indicazioni  Nazionali, continuando nella strada della secondarizzazione della scuola primaria, purtroppo in atto in molte Scuole primarie del sistema scolastico nazionale.  Credo che questa avrebbe potuto essere la volta per mettere a sistema anche una possibilità esplicita di valutare per aree e non per discipline. Leggendo i documenti ministeriali, ma anche il DPR 275/99 e le Indicazioni Nazionali, a mio parere, questa possibilità c’è già ora. Ma credo sia troppo implicita e fortemente legata alla forza progettuale degli Istituti comprensivi, spesso più favorevoli a ricevere ordini precisi, piuttosto che Linee di indirizzo.

Credo, inoltre, che alcune discipline meriterebbero valutazioni scollegate dal livello di apprendimento. Faccio solo un paio di brevi esempi:


LO SPAZIO LUNGO DELLA RIFLESSIONE

I documenti ministeriali nell’ambito del processo di valutazione degli apprendimenti, del comportamento e dell’educazione civica, richiedono alle Scuole primarie una riflessione molto profonda, che deve essere ampliata con i contributi delle Scuole dell’infanzia e delle Scuole secondarie (di primo e secondo grado). Credo,ad esempio, che nelle Scuole del secondo ciclo ci sia un forte deficit di competenze valutative attraverso un utilizzo spesso molto autoreferenziale e poco scientifico di misurazioni di prodotti troppe volte privi di valore probante (compiti in classe e interrogazioni).

Sarà compito, però, degli Istituti comprensivi coinvolgere nella riflessione tutto il sistema dell’istruzione, collegando la valutazione degli apprendimenti nel quinquennio cruciale della crescita formativa e culturale di una persona con procedure virtuose che legano l’euristica della ricerca alla chiarezza della progettazione.

I documenti ministeriali non possono essere semplicemente applicati, ma devono trovare spazio di riflessione, laddove tre saranno i soggetti che devono riflettere:

  • il dirigente scolastico che deve guidare il processo di formazione e il progetto della scuola che dirige;
  • il docente di scuola primaria che deve comprendere le gradi innovazioni introdotte;
  • il collegio docenti (dell’Istituto comprensivo) che deve collegare i tre ordinamenti di cui è composto in un unico progetto verticale di valutazione.

Solo la forza progettuale degli Istituti comprensivi potrà aprire gli spazi necessari a penetrare il secondo ciclo dell’istruzione e a scardinare quello che spesso diventa un coacervo di misurazioni atte a produrre soprattutto dispersione.

Importante è anche che lo spazio che verrà dedicato alla ricerca, alla valutazione, all’innovazione sia uno spazio aperto a cui vengono concessi tempi lunghi. Un errore non da poco sarebbe quello di  approvare in fretta e furia nuovi documenti e integrazioni al PTOF e poi lasciare tutto fermo per i prossimi dieci anni, trasformando l’azione di giudizio in una nuova docimologia “narrativa”.

La ricerca azione, il confronto con le famiglie, l’integrazione verticale di sistemi di valutazione molto diversi tra loro (Scuola dell’infanzia: osservazione e certificazione; Scuola primaria: osservazione e valutazione; Scuola secondaria di primo grado: misurazione disciplinare e valutazione docimologica) richiedono molto tempo e possibilità di agire per prove ed errore e per scambi culturali. Fermarsi alla forma porta ai rischi di secondarizzazione di cui ho parlato sopra e ciò costituisce l’elemento più pericoloso per la crescita dei nostri studenti, che devono partire da campi d’esperienza per arrivare alle discipline e alle specializzazioni dopo un lungo periodo di studio primario.

Credo sarebbe importante nascesse una fase formativa in cui le Scuole del secondo ciclo apprendessero veramente la complessità degli Istituti comprensivi e le che gli Istituti comprensivi studiassero Le linee guida degli Istituti tecnici e professionali e le Indicazioni Nazionali dei Licei, al fine di comprendere come la nuova organizzazione dell’esame di stato del secondo ciclo (e spero anche del primo ciclo con una trasformazione del vecchio esame con 6 prove in pochi giorni in un’unica prova così come avvenuto nel giugno di quest’anno) sia molto vicina ai documenti appena emanati sulla valutazione nelle scuole primarie.

La valutazione non è una gamba a sé stante della scuola, ma solo un elemento fondamentale che concorre alla crescita dell’albero dell’apprendimento. In tutto questo bisogna agire personalizzando i percorsi di apprendimento, ma anche comprendendo in che modo legare la personalizzazione alla cittadinanza che le scuole primarie devono garantire a tutti gli studenti. E qui sarebbe bello nascesse un legame tra Scuola primaria e Istituti professionali sul concetto di personalizzazione dei percorsi di apprendimento.

Ci sono rischi e opportunità: è il momento di riflettere non di applicare.

 




Le decisioni degli organi collegiali non fanno venire meno le responsabilità del dirigente

di Stefano Stefanel

L’emergenza coronavirus ha fatto scoprire all’opinione pubblica, ai mass media, ai social, ai genitori e forse anche agli studenti la figura del dirigente scolastico, ritenuto, probabilmente, prima del Covid 19 una figura di contorno, non sempre fondamentale per la vita della scuola.
Da febbraio a tutti è stato chiaro che senza i dirigenti scolastici la scuola non sarebbe potuta andare avanti e non sarebbe riuscita a organizzarsi neppure nelle minime incombenze. Ed è stato chiaro a tutti che se la scuola è stata in grado di fare la sua parte sia durante il lockdown di primavera, sia in questa drammatica ripartenza, è perché i dirigenti scolastici hanno lavorato sempre sodo e senza sosta, spesso nella solitudine peggiore, quella delle decisioni senza appello. In questi ultime settimane poi si è finalmente scoperto che solo una gestione capace, efficiente ed efficace avrebbe permesso di applicare in tempo reale decisioni prese e cambiate nel giro di poche ore.

GLI OBBLIGHI

Ci sono ancora molti dirigenti, soprattutto tra quelli giovani di breve nomina, che credono che una decisione presa col supporto degli organi collegiali della scuola o sentito il parere (che, se viene dato, è al massimo di tipo orale) dell’Ufficio scolastico regionale di riferimento, possa sgravare dalle responsabilità monocratiche. Sia sulla sicurezza, sia sulla responsabilità patrimoniale a seguito di negoziazione, sia sulle nomine del personale, sia sulle decisioni riguardanti l’emergenza coronavirus è diventato evidente a tutti (Ministero incluso) che per l’ordinamento italiano risponde solo chi si prende la responsabilità della decisione e la firma.

E poiché nelle scuola la rappresentanza legale ce l’ha un solo soggetto, credo sia importante avere chiaro in mente il ciclo del comando, la sua catena di trasmissione, la necessità di motivare tutto attentamente. Non credo sia molto utile cercare improbabili alleanze, quanto avere chiara in mente una linea di governo dell’istituzione affidata e condividere questa linea con gli organi collegiali, i gruppi di lavoro, i delegati, il personale, gli studenti, le famiglie. Condividere una linea dove la decisione finale è di chi risponde non vuol dire mai cedere alle pressioni della collegialità.

Non credo di dire una cosa sconosciuta se affermo che davanti all’emergenza nessun soggetto esterno alla scuola ha voluto interloquire con organi collegiali, docenti delegati, gruppi di lavoro o altri organismi. Tutti i soggetti esterni alla scuola hanno sempre e solo voluto rapportarsi col dirigente scolastico che ha dovuto decidere, rispondere, monitorare, firmare. Non riporto qui un elenco ormai noto a tutti, ma la questione delle distanze, delle sanificazioni, degli acquisti, dei contratti al personale, dei monitoraggi anche a ridosso di Ferragosto e di moltissime altri obblighi, hanno richiesto sempre la decisione del solo dirigente scolastico. Dove c’era un obbligo per la scuola, questo obbligo si è sviluppato come una pianta rampicante che per crescere vuole il muro e quel muro era solo il dirigente scolastico. La solitudine di certe decisioni ha fatto in questo periodo il paio con la sordità dei soggetti che facevano le domande e che volevano solo risposte, chiedevano celerità ma non erano celeri a loro volta. La questione dei banchi è sotto gli occhi di tutti, ma anche quella ben più drammatica dei tracciamenti e dei Dipartimenti di prevenzione pronti a chiedere azioni immediate alle scuole nella segnalazione di contagi e dei cluster, ma lenti nel dare le risposte susseguenti, lasciando il dirigente scolastico da solo nella scelta di chi lasciare a casa, per quanto tempo e come. Perché il dirigente scolastico ha dovuto decidere anche il “come” su materie nuove, prive di giurisprudenza, ma sotto gli occhi di sindacati, giudici, avvocati: smart working, conteggi di ferie e permessi in rapporto all’emergenza, quarantene, lavoratori fragili, inquadramenti giuridici di profili nuovi di assenza, mascherine, distanziamenti, prodotti per la sanificazione, sono solo alcuni argomenti che fino a febbraio non riguardavano la scuola e che improvvisamente sono diventati la sua quotidianità.

Vorrei però fosse chiaro come il mio non è un ragionamento per cercare la comprensione o peggio orientare alla critica, ma solo il tentativo di far comprendere come il sistema scolastico italiano ha deciso di mettere in capo ad una persona sola tutte le responsabilità della scuola, lasciando come contorno soggetti che a volte aiutano e a volte ostacolano, ma non rispondono mai. Se un Consiglio d’Istituto approva un Regolamento sbagliato o una negoziazione fuori dalle norme dell’anti corruzione non risponde di nulla, mentre il dirigente scolastico risponde anche di tutto quello che è stato deciso da altri. Per cui forse è meglio imparare a decidere in solitudine e poi interloquire per togliersi dei dubbi, sapendo che quando si mette una firma sotto un foglio di carta quella firma è per sempre.

LE SCELTE

L’emergenza coronavirus ha però fatto emergere anche la necessità che il dirigente scolastico abbia una forte capacità di scelta. La scelta non è un obbligo, ma orienta, guida, indirizza, condiziona. Anche in questo caso non ci sono manuali di riferimento o indicazioni semplici e ogni dirigente scolastico decide se essere il controllore dei minuti di Didattica Digitale Integrata erogati da ogni docente o colui che orienta la didattica affinché sia incisiva e garantisca gli apprendimenti; se essere colui che perde le giornate a capire come va giuridicamente inquadrato un docente in isolamento fiduciario o colui che telefona al docente per sapere come sta e cosa è possibile fare a favore degli alunni; se essere colui che misura tempi e spazi dei collaboratori scolastici quando la scuola è vuota o li motiva perché siano pronti quando la scuola si riempirà; se essere colui che si preoccupa che gli studenti da casa rispondano alle domande dei docenti senza sbirciare sui libro o colui che fa capire ai docenti come la distanza non è mai la presenza; se essere colui che emana Linee guida di duecento pagine su tutto o colui che cerca di farsi capire con poche parole; se essere colui che sulla carta è sempre protetto o colui che protegge gli altri con decisioni su questioni che solo il futuro potrà permettere di verificare nella loro correttezza.

Le scelte sono importanti quanto gli obblighi perché costringono chi dirige la scuola a scegliere tra il dibattito costante su tutto o le decisioni che rassicurano e aiutano. L’incredibile e astruso dibattito sulle ore da 45 o 50 minuti con o senza recupero mostra naturalmente che i vicoli ciechi sono fatti apposta perché qualcuno vi si infili dentro. C’è una legge che mai nessuno ha cambiato (la Bassanini Uno, legge n° 59 del 1997) che parla di “obblighi annuali di servizio” dei docenti e “monte ore annuale delle discipline” degli studenti. La risposta c’è già e va al di là dei contratti, basta semplicemente porre le domande nel modo giusto e non limitarsi a battaglie di principio senza chiedersi poi quel principio a cosa porterà.
Che siano 45, 50 o 60 i minuto servono ad insegnare qualcosa, non a far passare il tempo. Meno conteggi e più obiettivi, meno adempimenti e più progetto: non serve contare i minuti, ma capire a cosa servono quei minuti. Scelte non mansionari, scelte non discussioni, scelte non assemblee.

Le scelte riguardano anche rapporti con soggetti esterni, che a parole aiutano la scuola e nei fatti invece aiutano se stessi. In Italia però non è possibile ammettere gli errori, perché chi lo fa è subito indagato da un giudice. E infatti errori macroscopici – nessuno dei quali compiuto dalle scuole –  durante l’emergenza non trovano nessun messaggio di scuse, perché ognuno difende la sua posizione, preoccupato che a qualche giudice quella “difesa” non vada bene. E’ chiaro che la scuola ha fatto tutto quello che doveva fare e in modo puntuale: ma la scuola è retta da un dipendente statale che risponde all’amministrazione centrale e alla legge, non ad un soggetto che risponde agli elettori e all’opinione pubblica. Gli enti locali sono retti da politici che rispondono agli elettori e che non avranno alcun problema a scaricare su altri il peso di propri eventuali errori. Le questioni dei trasporti, degli spazi scolastici e delle mense sono sotto gli occhi di tutti, ma si sentono in giro solo accuse e non prese in carico di responsabilità. Il dirigente scolastico questo non lo può fare: ha delle responsabilità e le deve esercitare e non ha nessuna opinione pubblica votante da convincere, ma solo studenti a cui garantire l’apprendimento, la formazione, l’educazione. Il dirigente scolastico guida un’istituzione votata all’istruzione e alla formazione, non un servizio sociale da esercitarsi per le ore ritenute necessarie dalle famiglie o dagli enti locali.

LA COMUNICAZIONE

Mai come in questa fase il dirigente scolastico è diventato soggetto pubblico che deve saper comunicare. A molti è costato troppo aver sottovalutato un esercizio comunicativo importante come è stata la Rendicontazione sociale, perché al momento della comunicazione spesso si viene travolti dalla propria incompetenza comunicativa. I mass media e i social cercano la notizia ad effetto, il numero dei contagiati, il numero dei banchi, il numero delle mascherine, il numero degli studenti non connessi. Così ci sono quelli “furbi” che non danno il numero dei contagiati della propria scuola e quelli “trasparenti” che lo danno: attenzione perché in entrambi i casi i giornalisti o i cittadini cercano il negativo, non il positivo, perché il positivo fa “notizia breve”, mentre il negativo fa il le “otto colonne”. La regola base della comunicazione è che se un cane morde un uomo non c’è notizia, mentre se un uomo morde un cane sì. Dunque bisogna stare attenti a non trasformarsi in notizia e comprendere che “il medium è il messaggio” come ebbe a dire Marshal McLuhan cinquant’anni fa. Il giornale deve avere una sua aggressività di vasto momento, altrimenti è noioso e non viene letto da nessuno; la televisione centra l’attenzione su qualcosa e poi si volta immediatamente altrove; i social invece vanno dove e come vogliono loro lasciando dietro “morti e feriti”.

L’inavvedutezza della comunicazione scolastica fa scambiare i propri comunicati per comunicazione e le proprie spiegazioni per motivazioni. Invece è tutto molto mescolato: per comunicare bene bisogna essere pronti a rispondere sempre a tono e brevemente, per spiegare bene qualcosa bisogna saperlo fare in venti parole. Sennò vincono i mass media e i social, che possono decidere la lunghezza della comunicazione e il tempo da dedicare ad un problema. Proprio perché il ruolo del Dirigente scolastico è diventato un ruolo esposto ed evidente bisogna saper comunicare, saper anticipare, saper sintetizzare. Mai farsi travolgere da un problema, mai polemizzare pubblicamente, mai attaccare. Perché alla fine nessuno difenderà il dirigente scolastico che ha sbagliato di comunicare: il rilancio all’esterno di ciò che avviene a scuola corre sempre il rischio che prevalga l’enfasi e il rumore.

Il dirigente scolastico deve imparare a porsi in forma autonoma davanti agli obblighi, deve saper scegliere quale direzione far prendere alla progettualità della propria scuola, deve imparare a comunicare in un mondo che cerca gli sbagli altrui. E’ un mestiere difficile ma i fatti hanno dimostrato che è un mestiere in mano a ottimi professionisti. Non aspettiamo le norme che descrivano la realtà dei fatti, quelle, forse, arriveranno dopo: attrezziamoci perché la seconda ripartenza sarà anche più dura della prima, avrà molti obblighi, imporrà molte scelte e si svolgerà dentro una comunicazione aggressiva.

 




Si riprende scuola, ma con poca pedagogia.

di Stefano Stefanel

            Il ruolo del dirigente scolastico è molto cambiato negli ultimi anni, assumendo connotazioni, anche pubbliche, che non erano state previste da nessuno dei legislatori che si sono  occupati di normare la materia. Chiuso l’anno scolastico finora più difficile, se ne sta per aprire un altro che sembra essere ancora più difficile di quello precedente e chi, come me, entra nel suo ventesimo anno da dirigente scolastico si trova davanti alla necessità di aumentare il grado di riflessione in rapporto ad avvenimenti e novità impreviste, che di giorno in giorno stanno cambiando scenari già fragili. Mi accorgo, però, che il raggio della riflessione è diventato così ampio, che è difficile anche soltanto mettere in ordine le cose, sia sulla scrivania fisica dell’ufficio, sia sulla scrivania virtuale del proprio computer, sia sulla scrivania mentale, che è quella più importante. Soprattutto perché il dibattito sulla scuola va in direzioni opposte a quelle che dovrebbero animare il dibattito: pedagogia e apprendimenti, non sanificazioni e mascherine. In questo breve contributo mi permetto di sollevare alcune questioni e di cercare di riflettervi sopra.

 EDILIZIA SCOLASTICA, MES, RECOVERY FUND

             Con mia grande sorpresa vedo che il problema dell’edilizia scolastica è stato improvvisamente rimosso.  Durante la chiusura delle scuole è apparso evidente a tutti che gli edifici scolatici italiani hanno tali e tante carenze, che non possono essere considerati un patrimonio adeguato alle esigenze della scuola italiana. Mi sono illuso che almeno dieci miliardi del MES sarebbero stati spesi quest’estate per costruire, creare, progettare nuovi spazi per garantire quel distanziamento che ha una certa ricaduta sanitaria ( e che quindi autorizza l’uso del MES). Invece si è andati nella direzione delle misure e dei beni mobili (banchi) senza che ci fosse da parte dei dirigenti scolastici, degli insegnanti, del personale ata, degli enti locali, delle regioni, dei parlamentari, delle opinioni pubbliche una richiesta di costruire subito nuove scuole leggere, adattabili, eco compatibili capaci di entrare nell’emergenza e di aprire possibilità per il dopo. Addirittura sono andati avanti progetti già finanziati, ma assolutamente obsoleti, pensati per scuole vecchie prime e diventate improvvisamente vecchissime.

Tutta la progettualità nazionale prescinde dalla scuola e, infatti, di uomini di scuola non se ne sono visti nella “Commissione Colao”, ma non se ne vedono neppure oggi nelle varie commissioni che stanno sorgendo per il Recovery Fund. Forse sarà solo il Ministero dell’istruzione a parlare per conto delle scuole autonome. Questo è grave perché se c’è un soggetto che non ha il polso della situazione nazionale è proprio il Ministero dell’Istruzione, capace di attivare monitoraggi che cercano di far stare le grandi diversità della scuola italiana dentro una semplice modalità numerica e che comunque da un centro così lontano, situato in una grande metropoli, non conosce le realtà degli ottomila istituti autonomi statali. E non la conoscono neppure gli Uffici periferici del ministero, occupati ad applicare norme generali e a richiedere di non manifestare alcun dissenso.

NORME COVID E DIDATTICA 

Un altro fronte molto sorprendente è quello che tende a ridurre il problema della scuola agli ingressi, alle uscite e alle permanenze negli spazi comuni, ma non a che cosa insegnare o apprendere in quegli spazi e in quei tempi. La questione delle mascherine sta tutta qui: è possibile imparare con la mascherina addosso? è possibile insegnare con la mascherina? Legato a questo problema c’è quello di una scuola statica a fronte di una gioventù dinamica. Ma l’importante pare sia solo garantire distanze che permettano di ritornare tutti a scuola e procedure che siano a prova di giudice. Qui si apre il fronte del grande equivoco italiano, ingigantito dall’emergenza, ma presente da molto tempo: scambiare il diritto allo studio per il diritto a fare tutti le stesse cose, con gli stessi orari, dentro gli stessi edifici e tutto contemporaneamente.

Dopo le esperienze traumatiche della Didattica a distanza, dell’esame di stato modificato dalle necessità e della promozione generalizzata, si è entrati in un’estate in cui tutti hanno cominciato a fotografare (in senso metaforico e non) la realtà modificata delle scuole al fine di far tornare tutto come prima. Il distanziamento è necessario per diminuire la pericolosità del virus e limitare i contagi: a questo distanziamento non è stata legata alcuna riflessione sulle modifiche necessarie alla didattica, ma solo un serrato dibattito sulle procedure da adottare in attesa del vaccino.

Il curricolo che si insegnava prima non era molto efficace (visti gli esiti delle rilevazioni internazionali e nazionali) e quindi questa inattesa emergenza poteva aprire un vero “cantiere” analitico su contenuti, metodologie, valutazioni. Invece si è cominciato a misurare e a organizzare quella che sarà probabilmente una grande attesa statica di tornare tutti alla dinamica e spesso caotica normalità precedente.

Scuole vecchie e didattica vecchia: tutti lo diciamo, ma tutti, alla fine, non facciamo niente per cercare di cambiare quel “vecchio” in “nuovo”, anche perché se il “vecchio” produceva risultati non esaltanti, magari col “nuovo” qualcosa si migliora. Questo bloccarsi davanti al progetto pur in presenza di ingenti risorse economiche (MES e Recovery Fund) mi ha molto sorpreso, ma mi ha portato alla riflessione per cui il mondo della scuola e l’opinione pubblica sono molto più interessati a rientrare a scuola, piuttosto che a discutere su cosa fare una volta rientrati.

PERSONALIZZARE IL PERCORSO

La necessità del distanziamento, le nuove norme igieniche, le precondizioni per ritornare a scuola (assenza di problemi respiratori e febbre), lo smart working, la derubricazione dell’importanza della didattica rispetto alle norme di prevenzione, i lavoratori deboli, i mezzi di trasporto, le nuove potenzialità del web, avrebbero potuto portare ad una sospensione dell’idea di una scuola uguale per tutti, contemporanea e ripetitiva per portare verso un’idea di Curricolo dello studente, in cui ogni studente certifichi il suo reale percorso, fatto di competenze proprie, di tempi non omogenei, di presenze e assenze bilanciate dall’aiuto del web, di un’integrazione tra Didattica in presenza e Didattica a distanza, di una personalizzazione assoluta che tenga conto delle reali esigenze di tutti. Questo avrebbe potuto portare ad un’azione di verifica e valutazione interessata al processo e all’esito e non agli stanchi e stantii riti dei compiti in classe e delle interrogazioni.

Per gli Istituti professionali qualcosa del genere è nato l’anno scorso, ma mi sembra che questa giusta modifica non sia stata colta nella sua reale portata. Siamo tutti diversi e abbiamo tutti esigenze diverse, ma dentro queste esigenze i curricolo hanno spazio per ognuno di noi. Si tratta di diversificare per non disperdere, di personalizzare per non bocciare.

Dentro un’idea moderna di personalizzazione poteva trovare spazio il rapporto tra obiettivi della scuola ed esigenze delle famiglie: spesso le due cose non coincidono, perché le famiglie vogliono che i figli possano passare 5-8 ore al giorno a scuola, mentre le scuole vogliono ottimizzare il processo di apprendimento degli studenti dentro quelle 5-8 ore. Classi troppo numerose, studenti troppo disomogenei, orari troppo rigidi, necessità della scuola sottomesse a quelle delle parrocchie, dello sport, dell’associazionismo, degli enti locali, delle mense, del mondo del lavoro hanno reso difficile strutturare un servizio così vasto in maniera veramente efficiente ed efficace. Ma, invece di usare l’emergenza per intervenire su almeno alcuni di questi problemi, li si è tutti aggregati dentro un’idea di ripartenza in cui leggi, note, linee guida, faq, ordinanze andassero a costruire un coacervo di norme spesso inapplicabili, sulla cui applicazione, però, risponde alla fine solo il dirigente scolastico.

Per cui sembra che lo scopo sia quello di riaprire per far entrare tutti contemporaneamente a fare le stesse cose il più fermi possibile e non quello di individuare obiettivi didattici ed educativi, strutturare alleanze locali, creare dei meccanismi di personalizzazione del curricolo che integra il lavoro a scuola con quello casalingo, con quello on line e con quello delle agenzie che sul territorio si possono occupare di operare con bambini e ragazzi quando la scuola e la famiglia non ce la fanno. Qui non sto parlando di sorveglianza, ma proprio di contenuti: quelli che la scuola deve trasmettere al fine di migliorare gli apprendimenti, quelli educativi che la famiglia deve dare in piena serenità, quelli che i vari soggetti sociali devono poter elargire a supporto o in aggiunta e che a questo punto possono essere pagati perché i soldi ci sono e ci saranno.

Sto pensando (ma elenco in maniera semplice a livello di esempio) a scuole dell’infanzia con meno bambini e più maestre supportate da centri comunali di supporto che agiscano in parallelo in modo da operare su più spazi; parlo di scuole primarie che si colleghino al territorio e possano sdoppiarsi all’esigenza (più organico, quindi), parlo di scuole secondarie collegate al territorio in forma omogenea e complementare, con ampie possibilità di diversificare. Per fare questo servirebbe uscire dalla logica del tutto uguale per tutti ed entrare in quella personalizzazione dei tempi, delle metodologie, degli spazi che porterebbero ad un vero Curricolo dello studente, che rispetterebbe le necessità dell’apprendimento, collegherebbe queste alle esigenze delle famiglie e alle offerte della società civile. Però bisognerebbe abbandonare l’idea degli orari rigidi, dei tempi scuola obbligatori uguali per tutti, della didattica frontale come base fondativa dell’azione scolastica. I soldi ci sono, ma la volontà mi pare non ci sia.

Un rinnovamento della scuola passa dal transitare dall’orario settimanale ripetitivo ad un monte ore annuale mobile e personalizzato per studenti e lavoratori della scuola, in cui la funzione docente accompagni i tempi di apprendimento e non li condizioni. Dentro l’idea di Curricolo dello studente va rivista completamente anche la procedura valutativa, che attualmente vuole agire per standard e non per azioni valorizzanti. Un esempio lo abbiamo avuto sia nella valutazione di fine anno, sia nell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo: tutti promossi e in complesso con voti migliori e un esame di stato interessante e meno oppressivo del precedente. Il flebile dibattito sull’argomento ha sottolineato che l’emergenza ha creato un aumento delle valutazioni, senza però far venire in mente a nessuno che fossero sbagliate quelle di prima, non quelle di quest’anno. Come è noto qualunque misurazione altera l’oggetto o il soggetto misurato e noi scambiamo la misurazione per valutazione. E una volta tanto che, a causa dell’emergenza, abbiamo dovuto valutare e  non misurare, poi storciamo il naso perché abbiamo dato più valore ai nostri ragazzi. Da professionista riflessivo dico: se un metodo di valutazione mi da risultati migliori forse è il caso di verificare se non era il metodo di valutazione precedente (mnemonico, ossessivo, nozionistico) ad alterare il sistema.

GIORNALISMO ADDIO

Credo che mai come in riferimento alla scuola il giornalismo abbia mostrato la sua crisi strutturale, nella sua disperata rincorsa ai social. Tra titoli scandalistici, argomenti affrontati con superficialità, ossessione nel cercare il negativo, accentuazione degli elementi generali partendo da situazioni particolari, spazio dato ai molti narcisismi (mio incluso), sintetizzazione di documenti corposi in poche righe e disegni impropri, rapporto non mediato con esperienze estere, predilezione per lo scontro e non per il confronto tutto è scivolato nel gossip, nello sconto, nella polemica, nella trasformazione del problema pedagogico italiano in una questione di banchi e centimetri. E qui la scuola è caduta nel tranello, fidando su giornalismo e social e aprendosi con parti di comunicazione ad un’opinione pubblica che della scuola e dell’istruzione non capisce nulla, dentro terminologie sbagliate, richieste inapplicabili, proteste in cui alla fine si chiede solo più rigidità, disinteresse per i risultati modesti del sistema. Tutto questo ci ha portati qui, nel punto in cui solo la riflessione ci può salvare dalla confusione.

 




Homeschool, ovvero segnali di naufragio

di Stefano Stefanel               

Il Ministero dell’Istruzione e, a questo punto, anche il Governo intero credo abbiano preso, sulla scuola, una strada che porterà in un vicolo cieco.
Incredibilmente da fine giugno il dibattito è stato spostato dalla didattica alle misurazioni, con continui monitoraggi che si smentiscono tre loro e una sottovalutazione dell’importanza di permettere alle scuole di partire da settembre in modo diverso da quanto avvenuto nel settembre 2019.
La questione dei banchi ha spostato l’attenzione da cosa ci si deve fare su quei banchi a cosa si può comprare per cercare di tornare come prima. Come prima, però, non si torna, almeno in tempi brevi.

La scuola ha dimostrato una grande forza e la didattica a distanza un forte contenuto di innovazione, utilissimo nel momento dell’emergenza.
Ad un certo punto però si è spostata l’attenzione dalla forza della scuola, della sua didattica, della sua resilienza, della sua capacità innovativa alla debolezza delle aule troppo piccole, degli organici non sufficienti, dei soldi da spendere non per la didattica, ma per mascherine e prodotti igienizzanti. E mentre si perde tempo dietro alla speranza di far funzionare spazi sbagliati e costruiti in altri tempi e per un’altra scuola ci si fa sfuggire la potenzialità del MES e l’importanza che la scuola stia con le sue competenze nel Recovery Fund (tutto questo lo si può leggere nel mio contributo apparso anche su Gessetti colorati col titolo Una scuola per l’Europa).
Il discorso che qui ho solo abbozzato è stato già condotto con grande maestria da Aluisi Tosolini nel contributo apparso su Gessetti colorati dal titolo Onlife school. Non mi soffermo dunque oltre e rimando al citato intervento.

Lo sbaglio compiuto dal Ministero e fatto proprio dall’opinione pubblica può portare a distorsioni non da poco, una delle quali è la così detta “Homeschool”, cioè una sorta di scuola familiare o scuola privata di pochi. Cento anni di grande pedagogia hanno portato una scuola non attrezzata all’innovazione ad essere fortemente innovativa e un passaggio storico che poteva essere letale per la crescita degli studenti ad essere invece un’opportunità. Questo ci ha detto l’emergenza che abbiamo vissuto e da lì dobbiamo partire. In questa estate andava cambiato tutto: spazi, tempi, contratti. Non lo si è fatto e non lo si vuole fare, ma la risposta inversa di chiudere bambini e ragazzi dentro una bolla familiare per cercare di salire nella scala dell’istruzione attraverso la segregazione è quanto di più deleterio può esserci.

La battaglia deve essere fatta per cambiare la scuola, non per eliminarla. Lo spazio comune, il ruolo del docente, la sua competenza che si sviluppa negli anni e che porta innovazione e pedagogia applicata dentro la scuola  sono valori di civiltà che una chiusura dentro la famiglia o dentro luoghi di apprendimento ristretti possono azzerare in poco tempo. Bisogna battersi perché i più piccoli tornino dentro spazi comuni, tempi comuni, saperi condivisi. La personalizzazione degli apprendimenti deve essere l’elemento che guida le diversità verso un sapere di cittadinanza e dentro una società della conoscenza aperta. Le “sette” chiudono e l’idea di “Homeschool” è quella di trasformare la crescita e il sapere in società chiusa e segreta.

Il dibattito va riportato sulla didattica, sulla flessibilità organizzativa e sui percorsi di apprendimento. Non sulle confraternite familiari che qualcuno ad un certo punto chiama scuola.

 




Una scuola per l’Europa, fra MES e Recovery Fund

di Stefano Stefanel

In questa strana estate mi sento estraneo e antico e non riesco a stare dietro alle cose della scuola così come fanno molti colleghi dirigenti, molti insegnanti, molti opinionisti, molti sindacalisti, ma anche molti venditori di banchi e di strumenti per sanificare e misurare, in linea di massima anche terrorizzare.
Constato poi, con un certo orrore, che sulla didattica a distanza si è ormai scesi a dibattiti di parte, con qualcuno che vuol proibire una modalità innovativa di didattica a favore di una didattica solo in presenza, che nega il tempo che avanza, ma anche il modo di innovare e migliorare. Possiamo anche ridurre a dodici centimetri la distanza di sicurezza tra un alunno e l’altro per fare stare tutti dove stavano prima, ma non possiamo certo ridurre lo spazio del sapere e nemmeno la naturale coerenza del virus, piuttosto disinteressato – temo – dalle metrature delle nostre aule e dei nostri corridoi.

Da dirigente antico, che ama fare le cose una volta sola e quando serve, non posso non osservare con stupore molti colleghi dirigenti misurare tutto ad ogni battito di Facebook, dentro una logica geometrica e non didattica. I problemi vanno risolti pensando alla didattica non alle lampade a raggi ultravioletti.  Settembre è vicino, ma non proprio alle porte e dunque ancora molto può accadere. Diciamo che non sono attratto dal dibattito in corso, sono piuttosto perplesso sulle molte linee guida, che guidano poco o nulla, sono piuttosto sconcertato da quello che viene detto sugli organici, il numero di alunni per classe e tutto quanto riporta il discorso al punto di partenza, quel 22 febbraio 2020 che mai più ritornerà.

Mi sarei aspettato, e ancora mi aspetto, che la scuola cominci ad appassionarsi al suo futuro europeo e che si scopra Scuola per l’Europa. Credo che tutto quello cui ho accennato sopra sia teoria di retroguardia e che lo sguardo debba sollevarsi sulla pratica e sulla concretezza. Che stanno lì belle in vista e belle forti, in attesa che qualcuno si occupi di loro. Ma poiché Ministro e Ministero, Sindacati e Insegnanti, Personale Amministrativo e Studenti, Famiglie e Opinione pubblica nulla hanno da dire in questo luglio sulla grande concretezza dell’Europa, provo a dire qualcosina io (anche se il tasso di ascolto sarà piuttosto modesto).

Le cose concrete a cui la scuola deve guardare sono due:
1) MES
2) RECOVERY FUND

Il MES 2020 dice che può essere speso per costi “diretti e indiretti legati alla sanità” e quindi in apparenza non può essere speso per la scuola. Le nostre scuole, però, hanno dimostrato limiti enormi laddove c’è stato un problema sanitario e pertanto ritengo che con progetti mirati e precisi, connessi alla pandemia e alla necessità di distanziamento a fini di diminuzione del contagio, potrebbero essere costruite strutture leggere e agili capaci di rispondere alle necessità collegate al distanziamento sociale, soprattutto degli studenti più piccoli. Evidentemente ai costi diretti (palazzine, spazi didattici, ecc.) vanno aggiunti quelli indiretti che renderebbero possibile dotare quegli spazi di personale (educatori, insegnanti, altro personale). La sanità si attua non slo in ospedale, ma anche con forti dosi di prevenzione.

Il RECOVERY FUND invece potrebbe usare 15 dei 209 miliardi per rifare tutte le scuole d’Italia, dotandole di spazi nuovi e modellabili, didatticamente all’avanguardia, grandi. Quei soldi potrebbero far nascere una scuola nuova collegata alle necessità del tempo e non stipata in edifici costruiti per altri scopi educativi e formativi. Per esempio le scuole del Friuli, ricostruite dopo il terremoto, sono state realizzate con aule piccole e corridoi enormi: il contrario di quello che serve oggi.

Chi ragionerà su tutto questo? Gli esperti di edifici o quelli di didattica? Gli ingegneri o gli insegnanti? Il personale del ministero o i dirigenti scolastici? Chi progetterà la scuola del futuro e chi si batterà perché una cospicua parte di quei soldi arrivi alle scuole? Quelli che capiscono cosa veramente serve alla scuola o quelli che sanno progettare edifici belli da vedere e difficili da usare per le pratiche didattiche dell’oggi?

Vedo in giro troppe dichiarazioni generiche e molte task force dove la scuola non esiste o dove la scuola è rappresentata soprattutto da chi a scuola non ci mette quasi mai piede. E soprattutto vedo la scuola del primo ciclo senza una vera rappresentanza nelle istituzioni, mentre è la scuola da cui parte tutto il resto. Esiste,poi, in Italia l’idea assurda che il mondo universitario capisca e conosca quello della scuola: non succede praticamente mai e se c’è una cosa che l’Università non conosce è proprio la scuola. Anche nelle Facoltà di Scienze della formazione, che dovrebbero essere quelle più vicine alla scuola di base, si fa troppa teoria e poca pedagogia reale, tanta didattica frontale e poca didattica per competenze.

Tutti questi soldi che la scuola deve pretendere devono passare da una progettazione scolastica e quindi mi piacerebbe che la scuola alzasse gli occhi dalle misurazioni degli spazi fatte ogni settimana con parametri diversi dalla settimana precedente e cominciasse a chiedere con forza che si esplorino le possibilità del MES e le potenzialità del RECOVERY FUND in funzione didattica. Non servono belle palazzine, belle scuole, begli edifici: servono edifici nuovi costruiti in maniera diversa da come sono stati fatti fino ad ora, funzionali alla scuola e al suo futuro. Abbiamo troppi edifici che si sono rivelati insicuri (il numero di edifici fuori norma è enorme) e inadatti per fronteggiare il nuovo e l’emergenza (e, infatti, usciti da quegli edifici il 24 febbraio rientreremo il 16 settembre, sperando di poter far finta che nulla sia accaduto).

A scuola ci vanno 8 milioni di studenti l’anno e ci lavorano oltre 1 milione di persone. Stiamo parlando di 9 milioni di utenti diretti e almeno altri 18 indiretti (le famiglie collegate a questo mondo). Ma perché 27 milioni di portatori di interesse non devono essere ascoltati? Perché non si comprende che la scuola è il problema centrale della società della conoscenza? Io spero che dalla scuola venga forte la richiesta di essere coinvolta nella progettazione e che questa progettazione non vada per la sua strada cantierando ancora una volta spazi sbagliati e obsoleti. Basta aulette rigide, basta palestrine monofunzionali, basta laboratori adattati a qualunque disciplina, basta computer comprati a caso, basta assenza di banda larga. I miliardi dell’Europa chiedono una Scuola per l’Europa. Che deve essere progettata dalla scuola, non da professionisti di altro.