La pandemia che non vuole finire e che ricompare sempre sotto mutate sembianze, costringendo a rincorrere le emergenze, non ha permesso di trovare soluzioni a problemi vecchi e ha messo tutti davanti ad ostacoli nuovi. Se andiamo indietro nel tempo a due anni fa credo nessuno possa sostenere che la scuola, così com’era, funzionava perfettamente e non aveva bisogno di particolari interventi. Venivamo da vent’anni di riforme incompiute e di risultati certificati come non soddisfacenti e le strade che si aprivano non mostravano, comunque, porti sicuri.
Due anni dopo ci siamo spostati da dove eravamo, ma i problemi si sono ingigantiti, senza che venisse in mente a nessuno una soluzione condivisa, un’idea chiara e distinta, una strada con un punto d’approdo certo. Il sistema scolastico italiano riesce ad individuare con chiarezza i suoi mali, ma stenta a trovare i rimedi; individua con altrettanta chiarezza i suoi punti di forza, ma non li fa diventare sistema, preferendo isolarli dentro una sorta di eguaglianza scambiata per equità.
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Valutazione nella scuola primaria: non c’è formazione senza sperimentazione (e viceversa)
Quest’anno ho avuto una prima grande fortuna, cioè quella di essere chiamato dalla dirigente scolastica Daniela Venturi dall’Ambito 13 della Toscana (Provincia di Lucca) a tenere un corso di formazione sulla valutazione nella scuola primaria, cui hanno partecipato docenti di scuola primaria degli Istituti comprensivi di Porcari, “Piaggia” di Capannori e di Lucca (IC 3 e IC 4): questo corso si è tenuto tra fine maggio e fine giugno a cavallo degli scrutini ed ha permesso di valutare il processo di valutazione prima e dopo la redazione della scheda sperimentale.
Ho avuto poi una seconda grande fortuna, cioè quella di essere chiamato dalla dirigente scolastica Martina Guiducci e dalla maestra Alessandra Galvani a tenere un corso di formazione per l’Istituto comprensivo di Montefiorino (Modena), cui hanno partecipato docenti di scuola primaria e una docente di scuola dell’infanzia.
La terza grande fortuna di quest’anno è stata l’assegnazione della reggenza presso l’Istituto comprensivo di Pasian di Prato (Udine), dove – grazie alla grande collaborazione di tutte le docenti della scuola primaria coinvolte dalle coordinatrici didattiche di sede Elisa Fain, Luisa Del Torre, Anna Barbetti e Valentina Moretti – abbiamo avviato in brevissimo tempo una importante sperimentazione dividendo l’anno scolastico in due periodi disomogenei (dal 16 settembre al 31 ottobre e dal 2 novembre all’11 giugno) e quindi redigendo una sintetica scheda diagnostica che verrà trasmessa ai genitori ai primi di novembre.
Da questo privilegiato punto di vista ho potuto affrontare in modo disteso e approfondito tutte le tematiche connesse alla valutazione per obiettivi, tenendo comunque sempre di vista le Linee guida ministeriali del 4 dicembre 2020 e l’ultimo numero della Rivista dell’Istruzione (2/2021) curato dall’amico Giancarlo Cerini poco prima di lasciarci. I due corsi di formazione e l’attività sperimentale hanno messo in luce alcuni elementi di questa sperimentazione, che non mi pare inutile affrontare in questo intervento di metà autunno.
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La scuola italiana, un sistema senza identità
Si è avviato da poco il terzo anno scolastico toccato dalle misure per il contenimento della pandemia da Covid 19. Il sistema scolastico italiano non è più quello dell’inizio del 2020, che lottava tra innovazione e conservazione mantenendo comunque, nei confronti del digitale, un’assoluta diffidenza, unita però alla spinta verso le sperimentazioni più ardite. Quel sistema scolastico sembrava avere, comunque, tre indirizzi ben precisi che ne facevano una confusa, ma percepibile identità: lotta alla dispersione scolastica, mantenimento di tutti gli elementi conservativi del sistema (esami di stato, libri di testo cartacei, orario rigido, contratti ingessati, progetti slegati dai curricoli, insomma tutto quanto la scuola ci ha mostrato negli ultimi 50 anni), spinta verso pratiche di inclusione. Dentro quel sistema l’innovazione e la ricerca didattica vivevano per spinte avanguardistiche, esperimenti locali, progetti formativi interessanti, ma poco praticati. Invece l’impressione odierna è che il sistema scolastico italiano non abbia più un’identità, anche se confusa, e sia semplicemente un’unione scomposta di indirizzi diversi e di pulsioni contrapposte. Per dare conto di questa impressione mi avventuro in alcune questioni che mi pare siano di attualità.
LA BATTAGLIA DEL (O CONTRO IL) DIGITALE
L’e-learning ha sempre avuto un alone negativo in Italia e, infatti, penetrava poco e male nel sistema scolastico italiano. I due passaggi dalla didattica sempre e solo in presenza alla Didattica a distanza e, poi, dalla Didattica a distanza alla Didattica digitale integrata sono stati il più grande esperimento formativo della scuola italiana dalla sua creazione. Sfugge pertanto perché di questo grande esperimento formativo non si vogliano conoscere contenuti, perimetri e risultati, ma si agisca in maniera assolutamente contorta vietando la Didattica a distanza anche in forma sperimentale (e confliggendo proprio con le leggi che autorizzano azioni di innovazione e sperimentazione) addirittura attraverso una legge dello stato e contemporaneamente finanziando enormi progetti di didattica digitale (per ogni progetto dei Curricoli digitali finanziato sono garantiti 180.000 euro). Quello che pare chiaro, ma incredibile, è che non si vuole tenere conto dei passi avanti fatti dalla didattica digitale, che da un lato ha favorito molti studenti e, dall’altro, ne ha fatti sprofondare altri nel baratro delle povertà educative: questo dovrebbe essere un caso di studio non di divieto, per capire in che modo molti studenti siano stati favoriti dalla didattica digitale per continuare a favorirli e dall’altro per intervenire sugli studenti deboli, con sistemi un po’ più scientifici del “tenetene conto” ministeriale della fine dello scorso anno scolastico.
Classi numerose e risultati scolastici
Con il concetto di “classi pollaio” si intendono contemporaneamente due concetti molto diversi tra loro:
- classi con troppi alunni in spazi troppo ristretti e assegnati ad un docente per ora;
- classi che a causa della numerosità penalizzano i risultati degli studenti.
Nessuno ritiene che le “classi pollaio” siano un fenomeno positivo, ma l’argomento viene affrontato in maniera non organica e quasi esclusivamente attraverso dichiarazioni, proclami o generici interventi dentro le molte e spesso illeggibili linee guida. Cerco, pertanto, di andare un po’ al fondo della questione, anche perché la pandemia e il distanziamento non hanno portato a nessuna modifica, nemmeno temporanea, del numero di alunni per classe.
TROPPI STUDENTI IN POCO SPAZIO
25 studenti in 50 metri quadrati stanno troppo stretti. In molti casi i metri quadrati sono 40 e gli studenti 27. Se, dunque, parliamo di vivibilità dentro gli spazi scolastici dovremmo intervenire immediatamente sull’edilizia scolastica, costruendo nuove sedi per trasformare le “classi Pollaio” in classi a misura di studente. Qual è la misura ideale per uno studente? Direi, senza molti dubbi, tre metri quadrati.
Una scuola a misura di studente
di Stefano Stefanel
Una scuola a misura di studente è uno slogan un po’ vecchiotto e un po’ retorico, ma rende ugualmente bene l’idea della scuola dentro la società della conoscenza, che ha cura per tutti i suoi studenti. Gli studenti dovrebbero trovare nel sistema scolastico quello che risponde meglio alle loro singole esigenze, nell’interesse comune di aumentare le possibilità e le potenzialità di tutti e quindi anche il benessere (sociale, culturale, economico) di ogni nazione. Nei fatti, però, accade spesso che sia più corretto lo slogan opposto: Uno studente a misura di scuola. Il sistema scolastico non si struttura come un servizio verso le esigenze di ogni singolo studente, ma propone delle strade e cerca studenti che si adattino a queste. Tutta le questioni dell’orientamento, delle bocciature, dei percorsi opzionali, delle materie di indirizzo, delle valutazioni docimologiche trasformano l’idea di essere, come scuola, “a misura di studente” a quella più pragmatica di cercare studenti “a misura di scuola”. Ma fin qui siamo nella normalità del rapporto diretto tra dichiarato ed agito, una questione su cui la scuola sta dibattendo ormai da almeno vent’anni, quelli dell’autonomia, e che i vari tentativi di accountability non sono riusciti a modificare.
Sulle povertà educative
La pandemia e l’avvento totalizzante delle tecnologie digitali hanno reso agevole per tutti la comprensione di un concetto che prima dell’emergenza era appena entrato nel lessico scolastico e sociale e cioè quello di povertà educativa. Fino a qualche tempo fa si parlava di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale e dentro queste distinzioni sociologiche era nata tutta la problematica relativa ai Bes (Bisogni Educativi Speciali), vissuti da una parte del sistema scolastico nazionale come l’ennesimo tentativo di sdoganare i fannulloni, da un’altra parte come una vera emergenza con potenzialità distruttive, da un’altra parte ancora come un elemento da catalogare senza avere bene chiaro in mente poi di cosa farsene di questa catalogazione.
Dietro il concetto di povertà educativa ci sono due macro categorie: quella di isolamento e quella di deprivazione. I vari loockdown e un anno e mezzo di grandi incertezze delle classi politiche e di quelle educanti hanno reso macroscopico il problema. La novità è che la povertà educativa è diventata una categoria non difficile da individuare e che va al di là della volontà del singolo. E’ indifferente, dentro questa categoria, se un ragazzo si chiude in camera e dialoga solo con lo smartphone perché sta male, perché è depresso o perché è un fannullone o perché sta deviando: comunque siamo dentro ad un problema e ad una vera povertà educativa e solo questo è il dato da cui partire. Le famiglie non sono tutte attrezzate allo stesso modo e una stessa povertà educativa può dare esiti diversi: un figlio ci sta dentro fino al collo, un altro figlio invece riesce, pur vivendo nello stesso ambiente, ad affrancarsi dalla povertà educativa familiare e a salire sul famoso, anche se acciaccato, ascensore sociale.
La grande distanza tra il Recovery Plan e la scuola italiana
Esiste una distanza, temo a questo punto incolmabile, tra il Recovery Plan (o Next Generation Eu o Piano Nazionale di Ripartenza e Resilienza) e la scuola italiana. Il primo elemento di distanza lo si vede dalla totale assenza di uomini di scuola nei luoghi in cui il piano è stato elaborato. Se, infatti, tra i consulenti e gli esperti pullulano i docenti universitari, il mondo della scuola manca totalmente.
Già si è visto, però, in passato, che l’Università non è riuscita a leggere il mutamento e il futuro, perché è un mondo troppo preso dalla sua autoreferenzialità: infatti i docenti universitari diventati ministri dell’Istruzione negli ultimi dieci anni non hanno lasciato grandi ricordi di sé. Tutto questo sta avvenendo perché le scuole, benché dotate di un’autonomia funzionale di rango costituzionale, non sono state dotate di alcuna rappresentanza e gli uffici scolastici regionali (uffici del ministero non del territorio e infatti qualcuno vorrebbe regionalizzarli) sono sempre più lontani dalla realtà delle scuole e dentro a meccanismi ministeriali spesso frutto di un’idea molto vecchia di sistema dell’istruzione (graduatorie, gestione PON e PNSD, trasferimenti, concorsi, ecc.).
Si è poi ritenuto che manager che vengono dalla city londinese o soggetti che hanno un passato industriale e tecnocratico o che avessero un raccordo col terzo settore, fossero i soggetti migliori per progettare il nostro futuro. Ed è evidente che questi soggetti non hanno alcun reale interesse per il mondo della scuola, che non considerano centrale per lo sviluppo dell’Italia. D’altronde in questo momento chi comprende meglio i processi pedagogici, educativi, gestionali e organizzativi delle scuole sono i dirigenti scolastici, ma quando sì è voluto qualcuno a gestire le varie ripartenze si sono chiamati al tavolo i prefetti e non loro.
Anche in questo caso manca la rappresentanza delle scuole, anche perché una rappresentanza delle scuole dovrebbe passare dal loro legale rappresentante e questo è un oggettivo ostacolo, perché il sistema preferisce il dirigente-burocrate al dirigente-leader educativo o soggetto competente di governace.