Due o tre cose su Invalsi, 100 e lode, competenze e dintorni

di Stefano Stefanel

L’estate porta sempre con sé il dibattito sui risultati Invalsi e sugli esiti degli esami di Stato facendo emergere l’inesistente cultura della valutazione italiana propria dell’opinione pubblica e di troppe componenti della scuola. Inoltre l’estate fa emergere anche la stucchevole polemica sulle competenze, sui voti alti, sulla scuola figlia e vittima del sessantotto. Il tutto visionato da un punto di vista solo liceale, con commentatori che boccerebbero tutti gli studenti che non scelgono di studiare a fondo greco e latino. Poiché, però, l’indignazione non serve a nulla provo qui con “due parole”, ammesso che queste, invece, possano servire in una società e in un mondo che brucia tutto con la velocità di Instagram.

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Con grande voluttà e gran spregio del senso del ridicolo vengono messe in estate in correlazione alcune considerazioni che nascono da contesti diversi:

  • i dati Invalsi fotografano un sud in ritardo rispetto al nord e mostrano i dati Invalsi in linea con le rilevazioni Ocse-Pisa;
  • all’esame finale del secondo ciclo (che qualcuno ancora si ostina a chiamare “maturità” anche se con la maturità delle persone con c’entra nulla) non viene bocciato nessuno o quasi;
  • al sud fioccano 100 e 100 e lode in controtendenza rispetto ai risultati Invalsi.

Alcuni colleghi dirigenti del nord (con una certa malcelata tendenza allo sciacallaggio) si buttano estivamente sui dati per rimarcare la serietà delle scuole del nord di fronte alla leggerezza di quelle del sud. Le scuole del sud, per lo più compostamente, si sottraggono a questo dibattito estivo e poi tutto torna come prima.

Dal punto di vista scientifico (che non interessa praticamente a nessuno) la commistione di questi dati è assurda: al sud ci sono molti studenti molto bravi che giustamente sono licenziati con voti molti alti. Cosa c’entra tutto questo coi dati Invalsi negativi per il sud?
I 100 e 100 e lode mica vengono assegnati agli studenti deboli o debolissimi: quelli al massimo escono dall’esame di stato con 60 o 61, al nord come al sud. La cosa, inoltre, che fa inorridire è che l’argomento è “brandito” da commentatori per lo più in pensione che conoscono la scuola italiana perché sessant’anni fa l’hanno frequentata, o da dirigenti che di solito guidano licei del nord di prestigio frequentati dai migliori studenti in circolazione. Questa caotica sovrapposizione di dati, che non c’entrano tra loro, viene poi trasformata in autorevoli opinioni e tutto non può che fermarsi lì.

Se proprio vogliamo incrociare i due dati sarebbe interessante sapere quanti studenti sia al nord che al sud con valutazioni basse nell’Invalsi hanno preso 100 o 100 e lode all’esame di stato. Non conosco questi dati ma propendo per lo zero per cento o poco più. Se ho ragione allora chiedo di cosa si parla? Confrontare i dati deboli di un sistema scolastico con gli esiti dei migliori studenti dello stesso sistema è segno di una grande incompetenza valutativa, ma anche di smemoratezze assolute: a cominciare da quella basilare che ci fa individuare sempre e dovunque e facilmente il “migliore della classe”. Se una classe è debole al miglior e diamo voti bassi o quelli che si merita? L’esame di stato è dentro la stessa logica: se uno è bravo deve avere il voto alto anche se il contesto in cui studia è modesto.

Decisamente autolesionista è poi la manifestata voluttà con cui molti esprimono il desiderio che all’esame di stato ci siano bocciati. Gli stessi, però, non desidererebbero mai che ci fossero bocciati alle tesi di laurea, perché la fine di un percorso lungo deve essere accompagnata, non messa davanti ad una prova concorsuale. Anche perché abbiamo la dispersione scolastica (leggi soprattutto bocciature) più alta d’Europa. Magari qualche bocciato in più potrebbe esserci, invece, nei concorsi a cattedra, dove partecipano solo i laureati e dove molti commissari sono professori universitari. Ma questo è un altro discorso.

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C’è poi, sempre attiva ma d’estate un po’ di più, la critica al lassismo, ai voti alti, alle competenze da eliminare a favore delle vecchie e amate conoscenze, alla lotta contro le “non cognitive skills”, anche se tutte le aziende e tutta la società della conoscenza quelle cercano dentro un sistema ordinato di “cognitive skills” (che molto spesso sono trascurate proprio dalle università da cui vengono i commentatori più appassionati del sapere trasmissivo, cartaceo, statico).

Le competenze sono nient’altro che il saper utilizzare conoscenze e abilità in ogni contesto e non solo in quello scolastico. Una competenza si poggia sempre su conoscenze e non esiste mai in senso generico. Non si può però valutare una competenza con compiti e interrogazioni standard, perché la sua valutazione è più complessa. Questa idea del “docente trasmettitore” che imbonisce le piccole folle a lui assegnate come un muezzin, forte di una cultura tradizionale, statica e ben definita è alla base della disastrosa situazione italiana (non solo scolastica) dove tutti vogliono parlare e   nessuno vuole ascoltare. Abbiamo tanti conferenzieri e pochi pedagogisti, abbiamo tanti che proclamano e declamano e molti di meno che sanno insegnare. Quando poi si valuta tutto cade nel grigio in cui ogni colore si confonde: si valuta, di solito, attraverso misurazioni standard (compiti e interrogazioni) autodefinite dal docente che poi misura decidendo la scala numerica e che e trasforma i voti attraverso le medie in valutazioni. Percorso completamente sbagliato che limita la conoscenza dei progressi dei migliori, ripete all’infinito le performance dei medi e affossa quelli in difficoltà, che con questi metodi di valutazione sono nella stessa situazione di chi, non sapendo nuotare, viene gettato in acqua con addosso uno zaino di sassi.

Circola poi anche la “malsana” idea che per gli studenti in difficoltà sia necessario far più scuola e non migliorare gli strumenti pedagogici e selezionare i saperi da insegnare, come se il soggetto più debole potesse essere aiutato dall’aumento di carico (quando ero alpino se un mulo era “debole” si diminuiva il suo carico, non lo si aumentava: così, per dire). In questo ci mette del suo anche l’Invalsi che misura i ritardi in periodi (“in certe zone del paese si è indietro di un anno”, ecc.), senza mai curarsi del problema principale, che non è quanto si sta a scuola, ma come si sta a scuola, che non è quanto si studia ma come si studia. Parole al vento, lo so, legate all’altro grande equivoco su cui nessuno vuole mai entrare: i docenti con le loro metodologie ottengono con la gran maggioranza degli studenti risultati sufficienti, buoni o ottimi. Le stesse metodologie con una parte degli studenti producono risultati pessimi. Si assiste però a questa considerazione: se lo studente va bene a scuola è merito del docente, se va male è demerito dello studente. Vecchio vizio italiano: privatizzare i ricavi e socializzare le perdite. Forse sarebbe il caso di capire che le metodologie vincenti per la maggioranza sono spesso quelle che distruggono le potenzialità di apprendimento di una parte di studenti. Quando si parla di personalizzazione nessuno sa bene di cosa si sta parlando e troppi sono legati all’idea della lezione privata. Se però si affacciasse in qualcuno il dubbio per cui è il “mio” metodo che porta sia in alto che in basso, allora forse si comincerebbe a parlare di pedagogia, lasciando perdere l’enfasi sugli errori degli studenti e cominciando seriamente a cercare di correggerli.

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Da questo punto di vista va letta la decisione ministeriale di far cadere su molte scuole 500 milioni di euro (con assegnazioni di circa 250.000 euro a scuola), basandosi in modo piuttosto oscuro sui dati Invalsi e sui dati della dispersione. Se alle scuole che hanno “prodotto” dispersione con metodologie didattiche e valutative sbagliate si danno tanti soldi chi dice che non perpetreranno ulteriori errori aumentando e non diminuendo la dispersione? Perché i soldi non sono vincolati ad un controllo tutto esterno degli esiti e delle situazioni di partenza? Perché chi boccia più studenti deve avere più soldi se non ha mai messo in campo alcuna metodologi attiva e verificabile per diminuire le bocciature?

Qui si annida l’idea italiana che le bocciature (dei figli degli altri ovviamente) siano una buona cosa e che chi non studia non debba andare avanti, senza mai chiedersi perché costui non studia e non si impegna, e perché non ascolta rapito le conferenze di conferenzieri che non troverebbero uno spettatore se si mettessero sul mercato. Direi che è ora di finirla con la pedagogia svilita a conferenza trasmessa in diretta e che si debba andare a fondo del problema degli apprendimenti e del problema ancor maggiore della loro valutazione, senza inventarsi soluzioni progettuali che non esistono, ma analizzando studente per studente i motivi dei suoi fallimenti.

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Insomma, due parole, d’estate.

 

 




Perché è difficile riformare il nostro sistema scolastico? Il futuro possibile secondo Damiano Previtali

di Stefano Stefanel

“I grandi investimenti, e con essi l’approccio economico del ricavo immediato e della sua quantificazione, richiedono risultati a breve termine, mentre l’approccio educativo, come risaputo, necessita di tempi lunghi, in alcuni casi di ricambi generazionali”.
Basterebbe questa frase, che fotografa perfettamente la difficoltà di riformare il sistema scolastico italiano, per dedicarsi alla lettura di “La scuola mediterranea” di Damiano Previtali, uscito da pochi giorni per l’editore Il Mulino.
Damiano Previtali è un dirigente scolastico attualmente in forza al Ministero dell’Istruzione dove dirige l’Ufficio Valutazione del sistema nazionale di istruzione e valutazione. È un grande conoscitore di scuola, ma è anche un grande appassionato della scuola e del suo complicato sistema organizzativo. Uno dei più grossi passi avanti fatti dalla scuola italiana nell’ultimo periodo è stato quello di dotarsi di un coerente e completo Sistema Nazionale di Valutazione, che pur generalmente osteggiato in maniera pretestuosa e poco convincente, comunque ha dato un taglio nuovo alla progettazione generale di sistema, alla valutazione, alla rendicontazione. Come a tutti noto, il Sistema Nazionale di Valutazione è stato pensato e organizzato proprio da Damiano Previtali.

Scoprire un Damiano Previtali ottimista dentro il grande pessimismo dei dati in nostro possesso aiuta a comprendere come le letture del sistema scolastico italiano possano avere molti lati e molti punti di vista. Il Sistema Nazionale di Valutazione così come l’Invalsi, così come le indagini internazionali ci trasmettono dati che sconsigliano di continuare nella strada che stiamo percorrendo. L’osservazione di quanto sta avvenendo invece dice che il sistema scolastico italiano non solo non intende cambiare, ma è fortemente orientato verso la piena restaurazione di quanto già in crisi prima della pandemia. Alla base del pensiero di Previtali c’è un’idea “mediterranea” di scuola, dentro un profondo realismo che gli fa definire come assolutamente insensata questa corsa folle ad una parificazione nazionale tra contesti diversi.
La corsa del Sud per raggiungere il Nord e quella del Nord per diventare ancora più competitivo si dimostrano chimere prive di valore, dentro obiettivi sempre irraggiungibili e sempre nascosti dentro dati letti in forma molto personale e mai condivisa.
Il concetto viene espresso in forma molto chiara da Previtali: “Le situazioni di svantaggio sociale non favoriscono i prerequisiti per l’apprendimento scolastico: proprio per questi motivi dobbiamo dotare le scuole, insediate in questi contesti, delle migliori risorse, mentre purtroppo avviene l’inverso.”
Tutto questo lo si è visto chiaramente nelle modalità con cui sono stati attuati i Progetti PON, che hanno privilegiato le scuole più forti, con segreterie efficienti, docenti motivati, mezzi a disposizione e collaborazione degli enti locali, che da “ricche” sono diventate ancora “più ricche”, mentre le scuole che più avrebbero avuto bisogni di quei fondi hanno arrancato accumulando ritardi e rinunce.
Nel libro di Previtali il rapporto tra dato noto a tutti e sua lettura costituisce la spina dorsale del ragionamento e ciò permette di smascherare quanto di falso viene fatto circolare presso l’opinione pubblica. D’altronde tutto questo è suffragato da un’evidenza molto banale: tutti dicono e tutti spiegano che il sistema scolastico italiano è in difficoltà, che abbiamo la più alta dispersione scolastica d’Europa, che due milioni di ragazzi dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano, che la scuola ha cessato di essere “ascensore sociale”, ma è impossibile trovare una scuola (dico una) che non magnifichi sé stessa e i suoi risultati.
C’è qualcosa che non va: il sistema è in crisi, ma le 8.000 autonomie scolastiche godono di ottima salute. Tutti (anche chi scrive) trasmettiamo i nostri dati e i nostri progetti all’opinione pubblica certi di fare bene e correttamente il nostro lavoro, cerchiamo prospettive di lungo periodo, ma ci accasciamo sui problemi quotidiani. Siamo tutti convinti, insomma, che, se il sistema non funziona, è colpa di qualcun altro.
Come scrive Previtali: “Ne consegue una governance paralizzata dal quotidiano senza attenzione ai processi innovativi in atto.” Dirò anche qualcosa di più: l’innovazione è vista con sospetto e interesse, come un qualcosa che si attiverà quando ci sarà tempo, ben sapendo che il tempo non ci sarà mai. Così gli innovatori vengono guardati con poca comprensione perché sono fuori da quel mondo quotidiano che fa privilegiare un mantenimento dello status quo, non per scelta, ma per necessità. Tutto questo sembrava dovesse dissolversi con la pandemia e la grande innovazione didattica, digitale ed ecologica portata dagli eventi e non dalla ricerca, ma, invece, l’uscita dalla pandemia ha solo portato un grande desiderio di riportare indietro le lancette (neppure, però al 2019, ma direi addirittura al 1999).
Dunque un disastro senza prospettiva? Niente di tutto questo: in Previtali c’è un sano realismo collegato ad un ottimismo di prospettiva molto chiaro e ben argomentato. È necessario agire su una reale revisione della didattica e degli obiettivi, per comprendere come il trasferimento dal “pieno” (la mente dell’insegnante) al “vuoto” (la testa dello studente”) non ha alcuna possibilità di produrre alcunché di utile e al passo con le esigenze dei tempi. Previtali invita a dare alle cose il loro giusto valore: le nozioni sono nozioni, le informazioni sono informazioni ma la loro trasformazione in conoscenze come base di competenze durature necessita di un processo didattico complesso, ma non complicato, quindi richiede l’uscita da schemi ormai obsoleti che producono noia e deboli risultati. Previtali indica la strada di una scuola mediterranea ed attiva, che parta dal nostro essere Italia, che conosca il mondo ma non necessariamente voglia somigliare a lui. Chiede un attivismo diverso, una progettualità calata sull’alunno, una personalizzazione fortissima, che permetta ad ognuno di raggiungere gli obiettivi che sono alla sua portata.
“Nelle scuole permane il problema del passaggio dal piano di studi generale (collegato all’indirizzo) al piano di studi personalizzato (collegato al singolo studente)” : da qui si deve partire, da una revisione del rapporto didattico per calare la progettualità sulle esigenze e le possibilità dello studente e non su quelle delle discipline così come si sono formate nel secolo scorso. Per fare questo abbiamo bisogno di nuova conoscenza di soggetti poco esplorati dalla scuola, ma ormai diventati preponderanti: la scuola come organizzazione a legami deboli di cui parlava Piero Romei, la scuola come idea di comunità su cui si è sempre speso Giancarlo Cerini, la scuola come raccordo con la realtà e luogo in cui quella realtà viene conosciuta e letta, senza alcuna disconnessione tra le cognitive skills e le non cognitive skills.
Se mi si chiedesse se “La scuola mediterranea” è un bel libro risponderei che più che bello è un libro proprio necessario. Indica quello che dobbiamo fare e indica anche da dove iniziare per capire bene qual è la strada da prendere.
“L’utilizzo dei dati rischia di avallare le rappresentazioni sociali diffuse, ma l’ignoranza sui dati rischia di non considerare le differenze dove le differenze esistono.” Dobbiamo essere realisti e capire che il nostro sistema scolastico è legato alla nostra storia, ma anche ottimisti per combattere il pessimismo aggressivo di chi invita a non farsi imbrogliare dalle idee innovative, perché il vero cambiamento è non cambiare mai nulla. Un bel libro, speriamo per un bel futuro.




L’esame di stato: valutare le “varie ed eventuali

di Stefano Stefanel

L’accoglienza che questo 2022 sta dando al ritorno dell’esame di stato conclusivo dei due cicli in presenza e con i compiti scritti dimostra come nell’immaginario collettivo nazionale questo sia comunque un momento di passaggio ritenuto fondamentale. Il fatto che sia un esame stressante, contenutistico, ma privo di qualsivoglia selettività, non lo sminuisce nella sua portata sociale e culturale. Dunque facciamo i conti con questo esame, che la pandemia non è riuscita a seppellire, insieme al suo nozionismo, ai suoi stanchi rituali, al suo essere totalmente inutile nel definire orientamenti ormai a tutti già noti.

Il fatto, poi, che sia un rito necessario dice, una volta di più, che deve essere preso sul serio e analizzato come fonte pedagogica primaria almeno degli anni conclusivi del ciclo di studi. Se l’esame finale del primo ciclo è enciclopedico e inutile e condiziona probabilmente solo la parte conclusiva del terzo anno, l’esame di stato nel secondo ciclo invade tutto il triennio e produce una sorta di cappa pedagogica da cui praticamente nessuno vuole uscire o nessuno nemmeno fa finta di voler uscire. Pagati, pertanto, i dovuti debiti ad un rito popolare che costituisce uno degli elementi distintivi del passaggio di età, va, però, considerata, la sua lateralità rispetto a quello che si fa normalmente nelle scuole. Sembra, infatti, che gli studenti studino una cosa e poi nell’esame di stato vengano verificati su altro. L’impressione è che sarebbe come se una squadra si allenasse durante la settimana a giocare a pallacanestro, ma poi la domenica partecipasse al campionato di calcio.

Molta passione nell’opinione pubblica la determinano le tracce della prima prova di italiano, uguale per tutti. E’ una prova che costituisce in prima battuta uno sfoggio di cultura di coloro che la predispongono, dato che producono un’antologia di proposte con molte tracce di difficile lettura. Questo esercizio di lettura di un’antologia di testi, di scelta del testo da analizzare/commentare, di redazione scritta costituisce un unicum nella vita dello studente. Dal punto di vista pedagogico è interessante notare, però, come lo studente nel suo percorso normale venga “interrogato” su contenuti e metodi legati alla disciplina, e come, nel frattempo, si costituisca una sua struttura di pensiero attraverso l’informale e poi debba farci sopra un tema (o un saggio breve). Poiché non conosco uno studente che durante l’anno sia stato invitato a colloquiare su un argomento di attualità e poi ne abbia ricevuto un voto, mi sembra che qui si raggiunga l’apice della pedagogia creativa, valutando qualcosa su cui la scuola non ha nulla da dire, relegando l’attualità ai compiti in classe di italiano o al compito dell’esame di stato.

Questo rapporto tra una scuola che insegna il formale e che poi valuta l’informale è molto interessante, anche se forse pedagogicamente scollegato dall’idea di fondo per cui l’apprendimento comunque tende a passare, per lo più, dall’insegnamento. Fa dunque stupore questa tenerezza italiana per le “varie ed eventuali” che servono a valutare uno studente che ha studiato ed è stato interrogato su altro.
Qualche tempo fa, all’inizio delle pandemia, avevo suggerito di trasformare, anche con l’uso del digitale, l’interrogazione (a domanda risponde o anche “fatti la domanda da solo e risponditi”) in un colloquio colto tra due soggetti non equo-ordinati (l’insegnante e lo studente), che però condividono le basi qualificanti del discorso. Vedo che si è andati nella direzione opposta e che le interrogazioni sono tornate prepotentemente alla ribalta anche con distanziamenti e mascherine. Rimane però questo scarto tra ciò che viene insegnato di ogni disciplina e la richiesta che lo studente si eserciti con senso critico e autonomo, che però nessuno tiene in grande considerazione se non durante questi famosi scritti. Trasformati in articolisti di fondo o saggisti da elzeviro gli studenti dimostrano di apprendere altrove anche ciò che non viene loro insegnato a scuola (l’argomento musicale, che ha fatto felici tutti, non ha prodotto mai un voto durante l’anno).

L’opinione pubblica è simpaticamente colpita da questi testi di giugno, salvo poi disinteressarsi di una scuola che insegna e verifica – per tutto il resto del tempo – su contenuti, ma alla fine valuta lo studente su altro che, evidentemente, lo studente ha imparato da sé. Pensare però di trasformare degli studenti in saggisti con qualche compito in classe è ritenere che tutto ciò che non è direttamente insegnato sta nelle “varie ed eventuali” in cui ognuno può dire quello che gli pare attingendo dove ritiene più opportuno.
Pascoli e Verga antologicizzati sono dunque la foglia di fico dell’operazione di superficializzazione del sapere, laddove lo studente deve prepararsi  su un argomento, ma poi viene valutato su opinioni, anche non supporate da adeguate citazioni. Il fatto, poi, di affrontare un argomento con le sole carta e penna, senza poter accedere direttamente alle fonti per citarle, dice soltanto che si vuole insegnare ad essere “saggisti” nel modo sbagliato, perché quello giusto è scrivere con le fonti sott’occhio, non andando a ricordo (unici casi in cui perdoniamo il “ricordo” sono quelli di Gramsci e Pirenne, che hanno scritto dal carcere e quindi, non avendo le fonti sott’occhio, sono dovuti andare a memoria).

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Il colloquio su cui si chiude l’esame di stato è un altro esempio di “varie ed eventuali” fatte sistema. Nel corso dell’anno lo studente non viene mai interrogato nell’ambito di un colloquio interdisciplinare. Si fanno delle simulazioni, ma giusto per scriverlo nel documento programmatorio finale. In realtà le discipline rimangono sempre ben distinte, per cui quando improvvidamente nell’esame appaiono in forma multidisciplinare o interdisciplinare si assiste al via vai dei collegamenti, alle strane sinergie, alle affinità elettive mai venute in mente a nessuno. Anche in questo caso la scuola verifica in un modo, l’esame finale in un altro. Ciò vale anche per i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) di cui lo studente non parla mai in classe o con i suoi docenti, salvo che all’esame di stato.

In sintesi mi pare che la gioia per il ritorno dell’esame di stato in presenza e degli scritti sia un’ineludibile richiesta restaurativa di qualcosa che costituisce un vero e proprio tratto distintivo dell’italianità, laddove questo rito di passaggio è una sorta di iniziazione necessaria. Nel generale entusiasmo anche mediatico per l’esame mi pare stia sfuggendo la pedagogia e la sua richiesta di un certo rigore processuale. Personalmente toglierei le interrogazioni dalla scuola e le lascerei solo alla loro ineludibile trasformazione in interrogatorio nei tribunali e sposterei tutto sul concetto di colloquio: ma sempre, non solo all’esame. Trovo molto utile che gli studenti dialoghino sull’attualità, sui problemi, sulla cultura, su Pascoli e Verga (o Caproni), ma vorrei che questo fosse il sistema, non il lampo di giugno. Trovo plausibile che le materie di indirizzo vengano testate in rapporto alle reali competenze acquisite. Ma vorrei qualcosa di più strutturato e organico di un esame sulle “varie de eventuali” alla fine di una scuola legata a rigidi ordini del giorno (le materie) così come le ha codificate Gentile al tempo del fascismo. La pandemia e la risposta della scuola a quella tragedia mi avevano fatto sperare nella ricerca di una nuova linea pedagogica. Il flusso mediatico dei pensieri (oramai tutti resi pubblici, questo incluso) mi fa ritenere che si continuerà ad essere valutati durante l’anno sulla battaglia del grano e nell’esame di stato su qualcos’altro di cui in classe non si è riusciti a parlare mai perché si doveva ascoltare la lezione sulla battaglia del grano. Non ho grande passione per le nozioni e il nozionismo testato da domandine, ma non credo si possano eliminare i problemi della pedagogia e dell’apprendimento con esami finali fatti sulle “varie ed eventuali”.




Cultura umanistica, materie umanistiche, digitale

di Stefano Stefanel

Prendiamo una grande squadra di calcio: ad esempio il Milan che ha vinto lo scudetto. Facciamo finta che, dopo il primo tempo, la squadra sia sotto di due gol per errori palesi della difesa. A quel punto l’allenatore pensa: “dato che i difensori hanno sbagliato devo mettere in difesa i più forti che ho” e così sposta due attaccanti (diciamo Giroud e Ibrahimovic) al centro della difesa. A occhio e croce dovrebbe finire sette a zero per gli avversari.  Ognuno deve giocare nel suo ruolo: se sei attaccante attacchi, se sei difensore difendi.

Mi è venuto in mente questo piccolo paragone dell’assurdo pensando alle modalità con cui la cultura umanistica e le materie umanistiche affrontano la questione del digitale a scuola. Il digitale è una “tigre” e, come tutte le tigri, è molto indifferente alle sue vittime. Sta nella sua natura essere interessato a sé stesso, avendo una statura, un peso e una capacità aggressiva che difficilmente si possono mitigare. Davanti ad una tigre abbiamo grosso modo due strade: la prima è cercare di addomesticarla, di non farla arrabbiare, di non impaurirla; la seconda di cavalcarla. Poi qualcuno tenta la fuga, ma la tigre è più veloce e la fuga, di solito, non riesce. La cultura umanistica e le materie umanistiche non sembra intendano “addomesticare” o “addestrare” il digitale, ma lo hanno semplicemente cavalcato, quando era necessario, ed ora non sanno come scendere dalla tigre digitale, perché gli è venuta fame e in groppa ad una tigre non si mangia.
              Il digitale è la nuova grande, inattesa e imprevista possibilità per la cultura umanistica, ma questa, invece di capirne le potenzialità, combatte il digitale dopo averlo utilizzato, per lo più per fare conferenze o lezioni frontali. La cultura umanistica italiana non sta facendo granché per capire le possibilità del digitale e si limita e produrre lunghi PDF, cioè libri di carta fotografati. Già questa questione del poter fotografare i libri è interessante, ma ancora più interessante è sapere in che modo agire con le biblioteche virtuali, ma anche con tutta la lingua scritta e pubblicata sul web, ogni giorno nuova, ogni giorno in aumento. Questo mio articolo ha una modesta possibilità di circolazione attraverso il digitale, quasi nessuna possibilità di circolazione tramite meccanismi cartacei. Fatto banale, ma evidente.

Non è mai accaduto nella storia dell’umanità che si leggesse e scrivesse tanto come oggi: si scrive e si legge dappertutto, sia dove lo si può fare (seduti su un treno, seduti su un aereo, seduti su una metropolitana, nella propria camera da letto, sul banco della scuola, in spiaggia), sia dove non lo si può fare (su un aereo quando lo si pilota, su un’auto quando la si guida, al lavoro quando si deve lavorare ecc,.), sia dove lo si può fare oggi ma non lo si poteva fare una volta (camminando, nuotando, ballando, mangiando, ecc.). Ogni giorno escono miliardi di pagine scritte da qualcuno e messe sul digitale. Dunque, la cultura umanistica dovrebbe vedere il digitale come il suo grande e possibile futuro (è comunque molto più facile mettere in rete una propria poesia piuttosto che una complessa formula matematica).

La risposta della scuola è, invece, preoccupante: dopo essersi messa mani e piedi in mano alle multinazionali e ai loro server, ora che tutto dovrebbe essere tornato normale (ma invece nulla è tornato normale) si sta accorgendo che scendere dalla tigre è un problema, ma è un problema anche restarci in groppa. Tentativi di addomesticamento non se ne vedono. Così la cultura umanistica ha pensato bene di prendere i suoi intellettuali (gli estrosi attaccanti da pochi o tanti gol, ma comunque gente che sta all’attacco) e metterli in difesa contro il digitale, i suoi guasti sulla scuola, sugli adolescenti, sul mondo. Il “ritorno alla carta”, però, avviene in un solo modo: attraverso l’adozione dei libri di testo, unico libro che entra in molte famiglie. I danni che “gli attaccanti” stanno facendo alla scuola e alla cultura umanistica sono enormi, ma nessuno pare accorgersene. Dovrebbero attaccare e convincere le persone a leggere e invece lanciano invettive contro il digitale e la sua invasività anticulturale.

E qui passiamo dalla cultura umanistica alle materie umanistiche: il digitale le contamina, le integra, le rende multi e interdisciplinari, soffre le divisioni nette. Per cui da un lato si fanno comprare alcuni chili di libri di carta e dall’altro si lascia che il web faccia scuola da solo. Come ha detto di recente il mio amico Roberto Maragliano: l’insegnante per sapere se uno studente sa o non sa deve interrogarlo, il digitale per saperlo basta che segua il modo in cui ognuno di noi (e ogni studente) lavora sul web (e – dopo averlo tracciato – valuta se ha capito o meno). L’insegnante del mattino insegna a espandere la lingua, quello del pomeriggio (lo smartphone) insegna a contrarre la lingua: quello del mattino si disinteressa di quello che fa quello del pomeriggio, quello del pomeriggio, invece, sa benissimo come combattere quello del mattino. Lo studente studia sui libri quando è obbligato, ma poi usa il web. Gli insegnanti fanno lo stesso, ma insegnano a fare altro.

Nelle scuole italiane ci sono migliaia di biblioteche che stanno facendo un immane lavoro di catalogazione per libri che pochi chiedono, pochi leggono, nessuno ruba. Chiedere, leggere e rubare non sono tre sinonimi, però al giorno d’oggi che motivo c’è per rubare un libro se non lo si vuole leggere? Io penso che se noi lasciassimo le biblioteche scolastiche aperte e sguarnite nessuno ruberebbe niente, primo perché i libri di seconda mano non li vuole nessuno, secondo perché se voglio leggere un libro me lo compro, terzo perché l’interesse a leggere i libri è diminuito. Quindi non c’è pericolo di furto e si potrebbero mettere i soldi della catalogazione in attività di sensibilizzazione alla lettura, coinvolgimento, lavoro sulla scrittura.

Invece la risposte della scuola alla crisi della cultura umanistica è una ulteriore parcellizzazione delle materie umanistiche e dei libri di testo di accompagnamento. Chi ama le materie umanistiche e la cultura umanistica dovrebbe fuggire dai libri di testo come si fugge dalle pandemie: bisogna far leggere libri “veri” non manuali, bisogna far conoscere il suono, la parola, la suggestione. Una delle cose che non ho mai compreso (tenete conto che ho fatto per vent’anni il professore di italiano, storia, geografia) è come possano appassionarsi alla Divina Commedia studenti costretti a seguire le spiegazioni di versi che, letti, nessuno capisce. E dico nessuno, senza controprova, perché ho sempre avuto il dubbio che molti insegnanti se non avessero le note o non avessero studiato il testo non saprebbero spiegare cosa Dante scriveva. Certi canti del Purgatorio e del Paradiso sono troppo complicati: che senso ha leggerli, non capire nulla ed ascoltare uno che te li spiega? La poesia è un’altra cosa e se qualcosa resta, deve restare perché ti è entrato dentro non perché qualcuno ti ha spiegato quanto è bello. Questo vale anche per le canzoni, vedi il Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan.

Stessa cosa dicasi per I promessi sposi: vanno letti, non spiegati. Vanno letti e commentati, non riassunti. E così per Leopardi, Calvino, Moravia, Ariosto e per tutta la filosofia e la cultura sociologica e umanistica in genere. Invece la scuola procede per riassunti (i manuali), come se il riassunto ti spiegasse la metrica, mentre si limita a raccontarti la storia, anche se spesso – in Hemingway sempre – la storia è molto meno bella di come ci viene raccontata dallo scrittore.

Il digitale dovrebbe essere il grande alleato della cultura umanistica e delle materie umanistiche, che però vivono l’ossessione della copiatura. Il problema non è copiare, ma saper dire precisamente da dove lo si è fatto. Nei libri che ho pubblicato ho sempre citato la fonte da cui ho “copiato” alcuni passaggi che ho virgolettato. E ho sempre citato i libri a cui ho fatto riferimento: qualcuno ha mai letto un saggio in cui l’autore non citi (copi) qualche altro autore? San Tommaso d’Aquino quando faceva un Quodlibet all’Università di Parigi si inferociva se un suo studente esponeva una tesi e non sapeva chi fosse l’autore del passato che l’aveva elaborata. Riteneva il comportamento dello studente che pretendeva di aver inventato qualcosa un affronto a Dio, che aveva dotato di saggezza alcuni uomini perché ne tramandassero il suo messaggio. Lo studente doveva saper copiare, non doveva inventare. Se leggesse i temi dei nostri studenti scritti su carta (spesso attraverso il gesto “solo scolastico” di piegare un foglio a metà e scrivere solo a sinistra) San Tommaso inorridirebbe davanti a tanta arroganza di ragazzini che sdottorano su argomenti aulici senza alcuna autorità e senza alcuna competenza. Per imparare a scrivere bisogna scrivere (perché non digitalmente?) e bisogna leggere, non fare esercizi. Perché non far comprendere la centralità della citazione? Perché non abituare gli studenti a fare abstract e montaggi di testi citati chiaramente e commentati? Perché non lasciare che scrivano consultando il web, copiando dal web, citando dal web? Scrivere quello che si sente e si sa, leggere quello che di bello è stato scritto: il web in questo è un aiuto formidabile per la cultura umanistica.

Il libro di carta sta benissimo ma è un bene di nicchia: mettere i centravanti in difesa, cavalcare l’affamata tigre del digitale, far scrivere tutto su carta al mattino (e poi nel pomeriggio nessuno lo fa più) significa condannare la cultura umanistica a chiudersi nella riserva della scuola, lasciando che la cultura scientifica la faccia da padrona nella società. Le Facoltà umanistiche dovrebbero smetterla di inventare corsi strani per rubarsi studenti tra loro e aprire spazi per studenti che cercano una strada, la scrittura del web deve essere presidiata, non è più possibile lasciarla alla didattica dello smartphone.

Se un allenatore vista la mala parata mette ottimi attaccanti in difesa cavalca una tigre da cui non scende più. Se gli intellettuali per difendere la cultura umanistica dicono pubblicamente scempiaggini su una scuola che non conoscono il tasso di analfabetismo culturale e di ritorno che vogliono combattere semplicemente aumenterà. E d’altronde sono in arrivo 800 milioni sul digitale a scuola, ma la scuola tenderebbe a vietarlo quel digitale a scuola: non tenta di addomesticarlo, ma cerca ora di scendere dalla groppa della tigre. Però, giustamente, ha paura di farlo: le fauci del digitale, più o meno, le conosce e sa che non perdonano. Ma d’altronde, come ha scritto Eschilo, “Giove acceca chi vuole perdere”.

 




In medio (e in media) non stat virtus

di Stefano Stefanel

Ho insegnato per vent’anni nella Scuola media e poi per altri vent’anni ho diretto Scuole medie, sia inserite in Istituti comprensivi, sia aggregate orizzontalmente. Quindi la mia conoscenza dell’argomento è piuttosto professionale e non completamente culturale, probabilmente debole rispetto ai pareri che stanno affollando stampa e social sull’argomento. Purtroppo, tutto quello che so della Scuola media mi influenza molto nelle letture sull’argomento, portandomi ad individuare immediatamente chi scrive (a volte anche con argomenti interessanti) su un argomento che non conosce, rifacendosi spesso alla sola esperienza in suo possesso, che è quella che risale si tempi della sua adolescenza.

  Per analizzare il momento critico e irreversibile del segmento di scuola che si occupa di adolescenti dagli 11 ai 14 anni è importante avere in mente due elementi distintivi:

  1. La Scuola media viene giustamente chiamata Scuola secondaria di 1° grado in quanto il sapere viene insegnato e appreso attraverso la sua secondarizzazione, cioè collegando la divisione dei tempi alla divisione dei saperi in “rigide” discipline autonome l’una dall’altra, aggregate in classi di concorso che fanno ritenere a molti docenti di appartenere al secondo e non al primo ciclo dell’istruzione;
  2. La Scuola media viene giustamente collocata nel primo ciclo dell’istruzione, anche se è una scuola secondarizzata, perché le manca la base strutturare dell’apprendimento superiore: l’elettività degli studenti. Quando entrano secondo ciclo dell’istruzione gli studenti si collocano dentro contenitori rigidi e scelti personalmente (chi va al liceo lo fa insieme ai liceali, chi va negli istituti professionali fa scuola con chi vuole professionalizzarsi, ecc.) e queste affinità elettive (spesso sbagliate e prodromiche di disastrosi percorsi scolastici) non esistono nella Scuola media, dove convivono nella stessa classe gli studenti destinati ai licei e alla laurea con gli studenti condannati alla dispersione, alle bocciature o a percorsi interrotti.

I due elementi sopra riportati sono elementi fortemente critici, vissuti, invece, come naturali da chi insegna nella Scuola media: la propensione dei docenti di Scuola media a prendere sul serio la verticalità curricolare con la Scuola primaria e dell’infanzia è bassissima e l’idea che la divisione dei saperi possa creare una grande confusione mentale a una fetta di studenti non crea alcun allarme. La tendenza della Scuola media è quella di addebitare l’oggettiva crisi a colpe familiari, ad una debolezza crescente dello studente, al digitale, alla mancanza di rispetto per la scuola, ma molto poco al corto circuito di saperi obsoleti trasmessi con metodi arcaici e valutati con metodi artigianali sbagliati.

Un altro elemento sottovalutato dalle scuole, dal ministero e dall’opinione pubblica è il problema della disomogeneità delle classi, ritenuta a priori un valore, ma che attualmente presenta diversificazioni eccessive nelle competenze degli studenti. Quando insegnavo io nella Scuola media diciamo che su base 100 il divario era, di norma, di 20/30 punti tra i vari studenti inseriti nelle classi. Oggi in moltissime classi il divario può oscillare anche di 70-80 punti e la convivenza tra chi tende al massimo delle competenze culturali di un adolescente e quello che sopravvive dentro una cultura retta dall’uso del cellulare è la stessa che c’è tra un semi-analfabeta e un professore universitario: umanamente non ci sono problemi, didatticamente ci sono solo problemi perché i bisogni sono troppo lontani tra loro. Dentro l’estrema disomogeneità delle classi bisognerebbe prendere sul serio quello che dice l’ONU nell’Agenda 2030, laddove  si parla di “fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”  e non ritenere che l’egualitarismo (stessi contenuti, stessi, metodi, stessi compiti, stesse interrogazioni, stessi obiettivi, ecc.) porti da qualche parte, perché – come diceva inascoltato allora come oggi don Milani – “non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi.
L’attuale didattica dell’uguaglianza produce soltanto dispersione scolastica, magari non situata nella Scuola media, ma pronta ad esplodere nel biennio delle superiori. I fautori delle bocciature e della selezione (praticamente tutti gli intellettuali che hanno accesso ai grandi mezzi di comunicazione di massa) paiono non comprendere come la convivenza di 16-17enni con ragazzini di 13-14 anni porti soltanto al degrado della convivenza dentro crescite che vanno accompagnate e non sfidate.

Le avvisaglie della grande crisi della Scuola media c’erano anche quando insegnavo io, ma il riordino dei cicli pensato da Luigi Berlinguer fu osteggiato da tutti e la sua cassazione dal dibattito e dalla norma, operata da Letizia Moratti, fu accolta da tutti con grande sollievo. Ripartire da lì oggi sarebbe un grave errore e creerebbe solo ulteriore caos. In realtà il punto da cui partire è evidente da oltre vent’anni: la costruzione di una vera verticalità nel primo ciclo, facendo comprendere a tutti gli insegnanti della Scuola media che sono la parte conclusiva del ciclo primario e non la parte introduttiva del ciclo secondario. Questo vuol dire lavorare sui saperi e non sulle materie, redigere veri curricoli e non scimmiottare i programmi pensati da Giovanni Gentile. Su questa strada ci sono due avversari formidabili: le case editrici che coi libri di testo sedimentano strutture rigide e trasmissive di saperi disciplinari; i sindacati che difendono le classi di concorso e la loro rigidità applicata all’occupazione, senza tenere in minimo conto esigenze curricolari specifiche collegate a possibili variazioni necessarie, che dovrebbero portare, oltre a modificare il sapere di chi insegna, anche a modificare le materie da insegnare sia nella qualità che nella quantità. Tutto questo porta a mantenere intatta l’idea gentiliana che siano italiano-matematica e inglese a dover reggere il gioco, non comprendendo come, invece, musica, arte e tecnologia avrebbero, dentro strutture didattiche multidisciplinari e trasversali, la possibilità di sviluppare competenze non semplicemente trasmissibili.

Un altro elemento che supporta l’attuale crisi delle Scuola media è la convinzione di gran parte della classe docente di quel segmento di scuola che la valutazione debba essere realizzata sempre con strumenti misurativi (compiti e interrogazioni) anche per quei saperi dove l’attenta osservazione è molto più utile. Inoltre, il numero di ore di ogni materia viene confuso con il quantum di apprendimento possibile: il mantra delle poche ore a disposizione non fa venire a molti il dubbio che più ore si fanno e più la dispersione aumenta per gli studenti deboli e che le ore aggiuntive devono essere fatte per quelli bravi, non per quelli che arrancano nell’ordinario. Invece si attivano recuperi che portano studenti stanchi a stancarsi ancora di più, lasciando quelli capaci in tempi scuola per loro troppo limitati. La Scuola media scambia l’aumento del tempo scuola con il miglioramento degli esiti, mentre il miglioramento degli esiti comincerà quando verranno abbandonate le metodologie didattiche che hanno portato alla situazione attuale. Per battere la dispersione nella Scuola media bisogna attivare risorse e progetti che ricadano sulla didattica ordinaria, non che ne siano avulsi e che non abbiano peso nella valutazione (come accade oggi).

Danni notevolissimi alla Scuola media la stanno facendo anche gli Istituti superiori ed Eduscopio, diventata la bussola più gettonata per l’orientamento. Eduscopio con le sue classifiche devasta il sistema percettivo delle famiglie italiane, che nella Scuola media pianificano il futuro cercando di agganciare il figlio alla “scuola migliore” e non alla “scuola elettiva”. Così avviene che la classifica pensata da una Fondazione privata su parametri autodecisi diventi l’elemento che orienta verso errori pacchiani, alimentando una dispersione che inizia quando non si guardano più agli esisti del presente dello studente nella Scuola media (che cosa sa realmente fare), ma lo si proietta già verso un futuro che spesso sarà collocato dentro la dispersione. In tutto questo il ruolo delle Scuole superiori è molto negativo in quanto puntano ad aumentare il numero degli iscritti in una sorta di “favola di Cappuccetto Rosso dark”: “caro studente di scuola media vieni da me anche se questa non è la scuola che fa per te, così io posso bocciarti meglio”. Mi sfugge perché il Ministero permetta che molte scuole superiori accolgano le iscrizioni di tanti studenti nelle classi prime pur avendo un altissimo tasso di bocciature. A dire il vero Eduscopio ha anche una classifica (avulsa) dove si vede il tasso di bocciatura delle scuole superiori, ma è una classifica che non interessa a nessuno, anzi se quel tasso è troppo basso i genitori e l’opinione pubblica pensano che lì le cose non si fanno seriamente.

Io penso che la Scuola media debba riprendere ad agganciare gli adolescenti nel loro momento di crescita e che debba organizzarsi per azioni collegiali e non per singole materie. In tutto questo un ruolo molto forte (in senso negativo) lo ha la docimologia applicata da chi non la conosce e non l’ha studiata (all’Università si studiano i contenuti disciplinari non le metodologie didattiche o i sistemi di verifica-valutazione-misurazione-certificazione). Diciamo che nella scuola italiana avviene lo strano fenomeno per cui si pratica qualcosa che non si è studiato: quando vado dal dentista voglio essere certo che il dentista abbia studiato e si sia specializzato in quel settore della medicina, non che sia un generico “dottore”. A scuola invece valutano professionisti specializzati culturalmente, ma senza alcuna competenza valutativa. In questa sacca si insinua la dispersione in quanto gli studenti sono spinti alla realizzazione di prodotti valutabili docimologicamente e non verso competenze spendibili e certificabili. Infatti, la certificazione delle competenze alla fine del ciclo primario non interessa a nessuno, mentre i “voti” vengono vissuti come una certificazione di livello. Questi meccanismi valutativi sono tutti sbagliarti e producono negli studenti, troppo spesso, uno studio teso verso la perfromance valutativa e non verso l’apprendimento duraturo.

Esiste poi il problema della formazione in ingresso dei docenti, che molto spesso vivono la Scuola media come un semplice momento di passaggio prima di approdare alle Scuola superiori. Quando fu il momento io scelsi la Scuola media e benché abilitato e vincitore di concorso nelle Scuola superiori decisi comunque di rimanere ad insegnare nella Scuola media perché mi ha sempre appassionato la costruzione delle competenze e del sapere in quei tre anni di crescita convulsa. Anche da Dirigente quando sono passato al Liceo nel 2012 ho sempre chiesto e ottenuto una (e un paio di volte me ne hanno date due) reggenza nel primo ciclo, perché ritengo che la professione si debba sviluppare nella gestione di studenti dai 3 ai 19 anni per vedere come cresce il sapere. Questi motivi personali-professionali alimentano la mia diffidenza verso chi parla senza conoscere l’argomento di cui parla, facendo ricadere sugli studenti colpe che non hanno.

La strada per uscire è oggi quella di venti o trenta anni fa: lavorare per obiettivi e non per materie, costruire competenze e non percorsi per superare prove di verifica obsolete (compiti in classe e interrogazioni), verticalizzare i curricoli per cementarie i saperi e le metodologie, comprendersi come “scuola di mezzo” che chiude un ciclo senza essere attratta da quello successivo. Ragionando in questo modo alcuni nodi vengono subito a pettine: la verticalità dell’inglese richiede competenze diverse nella scuola primaria e un presidio di chi insegna inglese nella Scuola media su tutto l’istituto comprensivo; l’insegnamento della matematica affidato a non matematici (quasi tutti gli insegnanti di matematica della Scuola media non sono laureati in matematica) richiede competenze didattiche forti e non trasmissioni di meta-spiegazioni che spesso sono più complicate dei teoremi e delle operazioni che cercano di spiegare; la lingua italiana deve essere presidiata da tutto il sistema e diventare una vera competenza alfabetica funzionale e quindi padroneggiare libri, articoli, informazioni, istruzioni, social, web ecc. e non chiudersi dentro l’umanesimo del tema; quelle che una volta erano chiamate educazioni (arte, musica, educazione fisica, tecnologia) devono verificare per osservazione e non per prodotti, senza alcuna docimologia per definirsi dentro obiettivi di apprendimento e non contenuti disciplinari; le materie di studio devono affinare metodi di apprendimento non affastellare contenuti.

Ripartire da dove? Direi proprio da tutto: lo si doveva fare vent’anni fa, lo si deve fare ora. Ma ora è troppo tardi? Rispondo come fece Nereo Rocco, quando allenava il Padova, a cui dissero prima di Milan-Padova: “Vinca il migliore”, e lui rispose: “Ciò, speremo de no”.

 




Dove va il futuro e dove va la scuola

di Stefano Stefanel

La storia ci racconta che dopo il passaggio di Napoleone sulla storia europea ci fu un tentativo molto autorevole e anche molto popolare di rimettere le lancette indietro attraverso il famoso Congresso di Vienna.
L’innovazione napoleonica aveva stravolto l’Europa, ma si pensò di far finta che non ci fosse stata. La pandemia sta finendo (così ci dicono) o, comunque, viene percepita come riconducibile dentro sistemi di convivenza più normali di quelli in cui abbiamo vissuto negli ultimi due anni e, dunque, bisogna ripartire e bisogna farlo tenendo conto di quanto è successo. Il PNRR, la transizione digitale ed ecologica, ma anche l’incredibile guerra in Ucraina dicono che il mondo di domani dovrà essere diverso da quello di ieri e dunque dobbiamo attrezzarci al meglio per capire quale direzione prendere.

In questo scenario ci sono un futuro incerto ma pieno di occasioni, innovazioni necessarie e cambiamenti da cui non si può più tornare indietro. Banalmente, osservo che lo sviluppo del digitale ha portato alla nostra nuova identità (digitale) e lo SPID, piaccia o non piaccia, è il nostro futuro. E anche le battaglie ecologiste, partite con grande clamore prima della pandemia, tornano ora sotto le spoglie di una radicalmente modificata sensibilità ecologica che non viene contestata da nessuno e trova grandi finanziamenti e grandi progetti.

Anche l’idea di formazione sta avendo a livello mondiale una sua enorme mutazione verso saperi nuovi, discipline contaminate, nuovi lavori, nuove occupazioni, nuove sensibilità, nuove opportunità. Sembrava, dunque, che la cifra all’uscita dalla scossa pandemica, superiore per forze e impatto a quella napoleonica, portasse verso un’idea di innovazione entro cui inserire anche il nostro sistema scolastico.

Così qualcuno può essere sconcertato dalla spinta restaurativa e conservatrice che sta pervadendo il mondo della scuola, dove sono tornate alla ribalta parole antiche, che sembravano dover uscire dall’universo di una scuola che vuole recuperare il tempo passato dentro la pandemia. I segnali sono molto chiari e vanno dal ritorno agli esami di stato in cui gli scritti su carta e il nozionismo del colloquio finale spostino il tempo a dieci anni addietro fino alla proposta di reintrodurre il latino alle medie come elemento orientativo tra il liceo classico e il liceo scientifico, quasi che l’istruzione tecnica e professionale fosse un inciampo del destino, da scavalcare con l’enfasi sugli IFTS (cioè i corsi post diploma in alternativa all’università). Oltre a questo, c’è stata la violenta enfasi contro la Didattica a distanza con un’idea di presenza che supera qualsiasi interrogativo su che cosa si va a fare in quella presenza, ma anche un finanziamento cospicuo e disordinato sul digitale che, invece di unificare il sistema, lo ha ancora di più disgregato. È ripartito con grande evidenza il centralismo ministeriale con continui monitoraggi su qualsiasi argomento, piattaforme da compilare quotidianamente con dati su dati che non è chiaro dove confluiscano e perché. Molto spesso si sentono snocciolare sui social e sui media dati tratti da azioni di controllo che hanno avuto esito parziale (dati parziali che portano a decisioni globali). Ha ripreso vigore l’idea della scuola del rigore che boccia molto e che si occuperà non si sa bene come della dispersione in aumento, anzi la dispersione in aumento viene vissuta quasi come il debito pubblico in aumento: un tempo elemento di allarme ora semplice dato statistico. Anche la spinta verso il terzo settore come elemento di aiuto alla scuola rientra in una logica matrigna che spiega all’opinione pubblica come la scuola da sola non è in grado di andare da nessuna parte.

Tutto questo scenario è reso ancora più interessante dal passaggio durante la pandemia da una fiducia iniziale nella dirigenza scolastica, chiamata a fronteggiare un problema immane apparso improvvisamente, alla sua successiva esautorazione da qualunque catena di comando (con il passaggio, ad esempio, di competenza alle prefetture degli orari scolastici), fino alla spinta verso una dirigenza scolastica esecutiva di compiti decisi altrove. Che il mondo della scuola non debba mettere il naso (o il becco) dentro il PNRR pare ormai chiaro a tutti e le due commissioni ministeriali che lavorano sull’argomento con tutti dialogano tranne che col mondo della scuola, nella certezza che da quel mondo non possano venire idee interessanti. Tra l’altro i soldi del PNRR per le scuole stanno dentro i progetti delle Amministrazioni locali, che con molta fretta hanno dovuto tirare fuori dai cassetti vecchi progetti di messa a norma o di demolizione senza una precisa progettualità di area e con le regioni interessate ad altro.

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Analizzando tutto questo si deve però constatare che l’opinione pubblica è attratta da questa restaurazione che tocca il mondo della scuola, quasi che da uno stravolgimento epocale (sia determinato da Napoleone o dal Covid) si esca solo riportando tutto alla vecchia normalità e come se quella che stavamo vivendo prima dell’emergenza lo fosse stata realmente. Però l’innovatore davanti alla restaurazione e ai conservatori e alla loro popolarità qualche domanda sulle sue debolezze se le deve fare. Se le idee in cui chi vuole innovare credeva e crede non hanno alcuna popolarità, se alcune evidenze non sono percepite come tali dalla grande maggioranza dei cittadini qualcosa di problematico nella progettualità innovativa c’è. L’impressione è che l’Italia non voglia combattere due battaglie piuttosto impegnative, che ora appaiono troppo complicate: quella della lotta alla dispersione scolastica e alle povertà educative e quella per un riequilibrio dell’ascensore sociale. Se così è per l’innovatore nella scuola non c’è più molto posto e dunque può essere controproducente spingere in tal senso, quando alla grande maggioranza convince di più una restaurazione di pratiche antiche e comunque ritenute coerenti con quello che abbiamo sempre fatto e abbiamo sempre saputo fare.

E’ uscito in questi giorni a cura di FORUM PA il “FPA – Annual Report 2021” e già nei titoli degli interventi introduttivi c’è un’idea di futuro ineludibile: Coesione, coerenza e costanza nell’innovazione per un’amministrazione al servizio di tutto il paese” (Carlo Mochi Suismondi) e L’allineamento astrale 2022: la nostra ultima chanche (Andrea Rangone). Gran parte di quello che è contenuto nel report non c’è a scuola e la scuola non pare coinvolta in questo enorme processo di innovazione ritenuto indispensabile.

Ma anche il Piano di RiGenerazione scuola, di cui molto si parla indica “i quattro pilastri della transizione ecologica” (Rigenerazione dei saperi, Rigenerazione dei comportamenti, Rigenerazione delle infrastrutture, Rigenerazione delle opportunità) che nulla hanno a che vedere con quello che si sta progettando a scuola (ritorno al latino, esame di stato come ai vecchi tempi, niente didattica digitale se non in presenza e magari solo nelle aule dedicate, struttura cartacea imperante, orari rigidi, saperi legati alle classi di concorso, nuove graduatorie basate sull’anzianità, nessun investimento sulla formazione in ingresso, nessuna obbligatorietà della formazione dei docenti, ecc.).

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Tutto questo sconcerta e merita un pensiero riflessivo non banale, perché è evidente che in futuro non ci sarà lavoro per tutti e ci saranno opportunità solo per alcuni in un mercato del lavoro e della conoscenza che non avrà motivo di combattere le povertà, perché potrà semplicemente “mantenerle” tramite l’assistenza. Nel ritorno al passato io vedo un brutto disegno di esclusione, perché il sapere che conserva è il sapere di chi avrà la possibilità di scegliere se innovare o meno, mentre chi non ha la possibilità di scegliere o innova o è fuori dal mercato.

Sembra quasi che la scuola di massa abbia nel dopo pandemia il compito primario di trovare un’occupazione ai bambini e ai ragazzi nelle ore in cui i genitori lavorano, di dare assistenza al mondo della disabilità, di avviare un percorso di alfabetizzazione che si tenga ancorato alla tradizione per poi lasciare correre una parte della sua gioventù verso i licei e la laurea. Se questo non è vero perché il PNRR, le forze politiche l’opinione pubblica non parlano di Rigenerare tutti i laboratori degli Istituti tecnici e professionali e delle Università? Se non si rigenerano in questo modo le infrastrutture come le si rigenerano? Inoltre, viene il dubbio che il PNRR sulla scuola voglia occuparsi del contenuto e non del contenitore dando per scontato che comunque con il calo delle nascite di contenitori nuovi non abbiamo tanto bisogno ed è sufficiente fare in modo che quelli vecchi migliorino il risparmio energetico e l’ecosostenibilità (se ci riescono).

Credo sia necessario prendere atto che la restaurazione scolastica in atto è molto popolare e che l’innovazione sarà sempre più vista come un lusso inutile che non fornisce reali opportunità agli studenti più forti e non muta il destino di quelli che dalla dispersione scolastica si trasformano in NEET (Neither in Employment or in Education or Training) cioè in coloro che tra i 17 e i 25 anni non studiano e non lavorano (e che sono oltre due milioni). Gettare la spugna e rimandare a un lontano futuro la ripresa di un ascensore sociale che non è mai stato molto popolare, dentro sicurezze che permettono di tornare alle amate conoscenze con tutto il loro seguito di editoria dedicata e classi di concorso amate dai docenti e dai sindacati sembra l’orizzonte più vicino. Insomma, quella che avanza è una restaurazione da prendere molto sul serio in cui i segnali si sommano a dati forniti sempre in maniera incompleta e strumentale con modalità mai organiche ed omogenee. Dura la vita degli innovatori, ma complicato vedere l’innovazione che avanza nella società e la conservazione che si riprende la scuola.




Verso la scuola del post-pandemia (purché non sia quella del pre-pandemia)

di Stefano Stefanel

La pandemia che non vuole finire e che ricompare sempre sotto mutate sembianze, costringendo a rincorrere le emergenze, non ha permesso di trovare soluzioni a problemi vecchi e ha messo tutti davanti ad ostacoli nuovi. Se andiamo indietro nel tempo a due anni fa credo nessuno possa sostenere che la scuola, così com’era, funzionava perfettamente e non aveva bisogno di particolari interventi. Venivamo da vent’anni di riforme incompiute e di risultati certificati come non soddisfacenti e le strade che si aprivano non mostravano, comunque, porti sicuri.
Due anni dopo ci siamo spostati da dove eravamo, ma i problemi si sono ingigantiti, senza che venisse in mente a nessuno una soluzione condivisa, un’idea chiara e distinta, una strada con un punto d’approdo certo. Il sistema scolastico italiano riesce ad individuare con chiarezza i suoi mali, ma stenta a trovare i rimedi; individua con altrettanta chiarezza i suoi punti di forza, ma non li fa diventare sistema, preferendo isolarli dentro una sorta di eguaglianza scambiata per equità.

Una delle evidenze maggiori portata allo scoperto dalla pandemia è il tentativo di affrontare con sistemi tradizionali una situazione emergenziale in costante mutamento. A due anni dalla pandemia non solo non è chiaro come ne usciamo, ma nemmeno cosa faremo o dovremmo fare per limitare i danni al sistema scolastico ed educativo che l’emergenza ha prodotto.
Anche perché il nostro sistema scolastico è in perenne affanno ed ha una sua intrinseca fragilità, dentro meccanismi come le graduatorie permanenti, i mansionari rigidi del personale ata, le difficoltà di reclutamento di docenti di valore, la facoltatività oggettiva della formazione, l’alta dispersione scolastica, l’enorme numero di giovani che non studiano e non lavorano.
Da due anni il problema maggiore, però, è quello di come rientrare a scuola tutti insieme e contemporaneamente, per poi ritrarsi davanti a bollettini terribili, a norme di complessa attuazione, a soldi che non sempre aiutano a risolvere le molte contingenze. È vero che tutti speriamo che questa sia l’ultima emergenza e che presto tutti saremo di nuovo insieme dentro le scuole senza distanziamenti, senza mascherine, senza quarantene. Ma è anche vero che in due anni non siamo riusciti a dare un contenuto didattico e formativo all’emergenza. Il primo anno sono stati promossi tutti gli studenti, il secondo anno si è tornati alle bocciature, il terzo anno (questo) sarà una grande finzione di normalità che sfocerà in esiti punitivi su studenti che sono oggettivamente rimasti indietro. Il tutto giocato sempre dentro azioni emergenziali in attesa che “passi la nottata”.

Se la cosa più importante è sempre stata il tornare a scuola non è nato alcun dibattito su cosa dentro la scuola in cui si è tornati era meglio fare. Personalmente sono tra quelli che hanno sperato (invano, temo) che questa emergenza levasse alcune pratiche del passato molto punitive per il sistema scolastico italiano, ma sono anche tra quelli che prende atto del desiderio predominante di restaurazione. Anche, però, se si è disponibili a ragionare se sia meglio l’innovazione o la restaurazione, non pare ci sia nessuno che abbia realmente voglia di farlo. Prendete tutta la questione del digitale: da un lato si tende alla sua demonizzazione collegandolo alla Didattica a distanza vista come male assoluto, dall’altro si nega alla Didattica digitale integrata una vera cittadinanza, ma dall’altro lato ancora si finanziano progetti con cifre molto consistenti proprio per la transizione digitale.
Ma anche sulla questione dell’ecosostenibilità non si va mai veramente al fondo delle cose per far uscire le materie scientifiche dal loro retaggio passato e autoreferenziale e farle entrare nel mondo del futuro (degli algoritmi, del problem solving, della complessità informatica, delle bio-tecnologie, dell’eco sostenibilità, ecc.). Se un compito in classe vale più di mille lavori di ricerca e di analisi decisamente la transizione ecologica avrà vita piuttosto combattuta in Italia, ma, soprattutto, sarà appannaggio delle multinazionali e non di un Sistema Italia che dia un futuro professionale ai suoi giovani laureati in materie scientifiche.

Un’altra questione di grande interesse, legata all’emergenza, è quella delle rilevazioni nazionali e dei vari monitoraggi. In questo labirinto di numeri ognuno li usa per il suo scopo, magari premettendo che sono numeri inficiati da situazioni alterate dalla pandemia o mitigati nella loro profondità da risultati acquisiti a macchia di leopardo. Ma poi tutto cade dentro il calderone dei dati trattati tutti come sondaggi, come tendenza, come classifica. Non c’è nessun senso critico nell’analisi confusa dei risultati Invalsi (resi deboli da rilevazioni avvenute in emergenza e non complete), dei dati di Eduscopio (totalmente fuorvianti), dei monitoraggi sui contagi a scuola, di quelli sull’uso dei mezzi di trasporto, di quelli sulle connettività, di quelli sugli esami di stato. E quindi ognuno di noi usa i numeri che più gli fanno comodo, si compara con chi decide di compararsi, espone teorie ed opinioni sperando che si trasformino in dati.

La pandemia ha aumentato una tendenza a mostrarsi più forti di quello che siamo, quasi che le nostre debolezze nascessero da nostre inadempienze e incapacità, e non da una situazione oggettivamente drammatica. Tutta la questione delle povertà educative in aumento sta lì a dimostrare che la situazione oggettiva è grave e lascerà strascichi anche in futuro. E allora perché non si è pensato in questi due anni a come supportare i contenuti dell’apprendimento e non solo l’ingresso a scuola? Credo perché abbiamo avuto tutti paura di dimostrarci deboli, paura che le nostre debolezze venissero scambiate per incapacità e dunque cercando di nasconderle.

Invece io credo che dobbiamo avere paura di un futuro che sembri il passato e da questa paura dobbiamo farci nascere una nuova idea di comunità che ci faccia comprendere come valorizzare le eccellenze e dare riparo e aiuto a ciò che non è eccellente. Non servono proclami ed esposizioni, non serve una costante presenza sui social a magnificare sé stessi. Serve, invece, saper dare conto di quello che si fa. Tutto questo non è aiutato dalle incombenze eccessive ed invasive che costringono ogni giorno chi lavora a scuola a sopportare il carico di inutile burocrazia che assale da ogni parte. Penso si debba cominciare ad imparare a misurare il valore aggiunto (dell’apprendimento, dell’insegnamento, della valutazione, delle risorse, delle sinergie, della formazione, dell’efficienza, dell’efficacia), ma partendo dalla reale situazione in cui ci si trova e non richiamandosi ad una passata età dell’oro che non è mai esistita. Essere severi e critici con noi stessi per capire quanto siamo deboli e quanto bisogno di aiuto abbiamo.

La scuola ha bisogno delle società, delle famiglie, della politica, delle amministrazioni locali, delle università, del mondo dello sport e del volontariato, della cultura, del mondo della comunicazione e di altri ancora. Ma anche questi mondi hanno tutti bisogno della scuola e senza la scuola non sanno come fare. Se siamo diventati soggetti formativi ma anche di supporto al welfare, se le famiglie hanno bisogno di noi non solo per l’apprendimento ma anche per avere un luogo dove lasciare i bambini e i ragazzi, se la società ha bisogno che da noi si affini il senso civico allora bisogna costruire alleanze partendo dalle nostre debolezze. Dobbiamo lavorare per una scuola che risponda alle esigenze del futuro e della società, non che ricordi tempi passati e che si condanni così ad essere lontana dai ragazzi che deve formare.