Un voto non si nega a nessuno

di Stefanio Stefanel

Ha fatto molto scalpore in questi giorni la questione del Liceo Morgani di Roma, dove il Collegio docenti con una votazione pressoché paritaria (37 a 36), ha eliminato la sezione “senza voti” operativa da anni.
Personalmente ritengo un grave errore aver portato una simile questione in collegio docenti, visto che stava già nel PTOF che si chiude il 31 agosto 2025 e, inoltre, non andava ad intaccare la valutazione finale che deve per legge essere numerica.
Rimane il messaggio molto esplicito che questa scelta ha trasmesso, cui credo abbia molto nuociuto l’esposizione mediatica data alla sperimentazione in una sola sezione, che ha trasformato, per l’opinione pubblica, tutto il Liceo Morgani di Roma in una scuola senza voti, creando, dunque, una presa di posizione avversa dei docenti che non condividevano la scelta fatta da quella sezione.

La querelle sul Liceo Morgani fa, però, il paio con le varie prese di posizione di esponenti politici della destra, che da tempo vogliono il ritorno dei voti numerici anche nelle scuole primarie, aboliti dall’Ordinanza Ministeriale 172 del 2020, andata a regime nell’ambito di una grande azione formativa del Ministero conclusasi da poco.

Ci sono poi vari personaggi pubblici apertamente conservatori come Paola Mastrocola o apparentemente progressisti come Viola Ardone che lodano il “2” e la sua potenza salvifica e benefica.
Diciamo che le truppe dei donmilaniani sono ben agguerrite, ma in palese fase di ritirata più o meno strategica.
Reginaldo Palermo in un simpatico intervento (Ci vuole una regola chiara: si usa il voto quando governa il centro-destra e il giudizio con il centro-sinistra, 2 novembre 2023, su “Tecnica della scuola”) ha scritto che, quando governa il centro sinistra nelle scuole primarie si valuta con i giudizi, quando governa il centro destra con voti.

Chi propugna una scuola senza voti (ad esempio Valentina Grion, Cristiano Corsini, Vincenzo Caico) vorrebbe una scuola in cui la trasparenza del giudizio prevalga sull’opacità del voto, anche perché il voto tende a misurare un prodotto (compito in classe, interrogazione, test), mentre il giudizio descrittivo deve addentrarsi nel problema dell’apprendimento.
Faccio notare un piccolo paradosso: molti studenti con voti negativi vengono ammessi alla classe successiva nel secondo ciclo attraverso il così detto “voto di consiglio” (la materia è insufficiente, ma il consiglio decidendo la promozione, autorizza perciò la trasformazione del voto in positivo, magari con un asterisco che indichi l’”aiuto”).
È logico tutto questo? Direi proprio di no: io penso sarebbe più semplice e serio promuovere lo studente, sostituendo quel voto falso (“6 per voto di consiglio”), con una descrizione precisa delle lacune rimaste e da colmare, che mostri palesemente come l’alunno sia stato promosso nell’ambito di una valutazione generale che nulla ha a che vedere con una singola materia.

Questa descrizione c’è, ma è svogliata, e soprattutto non la legge nessuno, perché, messo in tasca il 6, uno guarda solo avanti e non indietro. Tra l’altro questo aprirebbe anche la questione, che è connessa al concetto di didattica orientativa, sull’opportunità di mantenere la struttura di apprendimento tuttologica anche per studenti che si sono già orientati in maniera definitiva (sia verso il mondo del lavoro, sia verso il mondo universitario, sia verso il nuovo e grezzo mondo degli ITS).

Personalmente ritengo che gli argomenti per uscire dalla logica dei voti e trasferirsi in quella di una valutazione complessiva delle materie generaliste, di quelle di indirizzo, dell’educazione civica e del comportamento, dei PCTO, delle progettualità, degli Erasmus, dei corsi per l’ampliamento dell’offerta formativa, dell’orientamento, dovrebbe avere una chiara organizzazione descrittiva ed arrivare ad una trasformazione in crediti al solo fine dell’esame di stato conclusivo.
Il voto di diploma dovrebbe essere integrato da una descrizione completa dello studente, non da una statica e non letta certificazione delle competenze. La valutazione senza voti è destinata a modificare la scuola italiana, che così non può più andare avanti, ma non nei prossimi anni: questo, però, avverrà solo quando sarà chiaro che il sistema della valutazione numerica produce dispersione e non la combatte, condiziona gli studenti verso il voto e non verso l’apprendimento, non aggiunge conoscenza sugli studenti e il loro percorso, ma solo appiccica numeri nel registro elettronico. A quel punto il “2” terapeutico e l’esame di stato nozionistico potranno anche essere sostituiti da prove di resistenza e maturità, sullo stile di quello che fanno i marines nell’addestramento. Prove che forgiano, ma poi l’apprendimento, anche per i marines, è altro. Faccio per dire, ovviamente, perché al giorno d’oggi bisogna stare attenti: si è presi sul serio anche quando si esagera per farsi capire meglio.

Una domanda, alla fine, me la devo porre: ma se è così chiaro che il voto e le modalità con cui viene assegnato producono più danni che altro e poiché le motivazioni di chi propone una scuola senza voti sono più che convincenti, perché si rafforza l’idea che il voto è oggettivo, migliore, utile, chiaro? Se l’attuale governo ripristinerà i voti nella scuola primaria (magari lasciando intatti gli obiettivi: sarebbe un vero capolavoro di astrattismo cubistico) io credo che i genitori degli scolari delle primarie saranno quasi tutti contenti, i commentatori che hanno spazio nei giornali e nelle televisioni plauderanno, molte maestre e qualche maestro (sono molti meno) tireranno un sospiro di sollievo. C’è dunque qualcosa che sfugge a chi ritiene che la pedagogia sia una cosa seria, che l’apprendimento non coincida con l’insegnamento, che la valutazione non sia misurazione. Anche perché l’opinione pubblica ha potere sulle professioni quando le professioni sono deboli, lo si è visto sui vaccini anti-Covid, ma lo si vede anche in altri settori: chi discuterebbe su come si costruisce un grattacielo mettendo sullo stesso piano il gradimento popolare e la progettazione dell’opera? Nella scuola sta avvenendo questo: i progettisti e costruttori di grattacieli (l’apprendimento di bambini e ragazzi) sono messi sullo stesso piano di coloro che in quei grattacieli vorrebbero essere al sicuro da crolli e pericoli senza però sapere nulla di ingegneria (genitori, opinione pubblica, commentatori, politici).
E allora cosa succede realmente? Succede che è il mondo della scuola a volere i voti, ad agognare le verifiche, a godere dei compiti in classe, ad appassionarsi alle interrogazioni dove a domanda si risponde come vuole chi ha fatto la domanda.

Tutto questo avviene – in questo caso ne sono certo, quindi non scrivo: a mio parere – perché la gran parte dei docenti senza voto non sa proprio come fare. Non come fare a valutare, perché ogni docente sa valutare i suoi studenti con una sufficiente profondità, ma proprio come fare: come fare tutto. Senza voto un numero enorme di docenti non saprebbe come e cosa insegnare, come vivere in classe, come verificare, come valutare in maniera trasparente, come correggere, come correggersi, come formarsi, come aggiornarsi. Il voto, soprattutto negativo, certifica che l’insegnante è in grado di vedere il fallo, e certifica anche il suo potere, attraverso voti negativi disciplinari, di poter decidere il futuro dello studente (promosso o bocciato). I docenti ritengono che la loro professione alla fine debba avere un confine e questo confine è proprio il voto, pena l’ingovernabilità del sistema. Il voto è complicato e per questo piace ai docenti, perché è un rapporto personale che non descrive nulla, riferito a standard personali ed esoterici, dentro criteri d’istituto per lo più inutili perché permettono davanti alla medesima prova di assegnare sia “4” che “7” (come Corsini ha dimostrato nel disinteresse generale della scuola).

Su questa questione si è poi innestata la propaganda sul merito non descritto come giusto riconoscimento di chi è bravo (cui il sistema non da nulla di diverso da chi bravo non è), ma come contraltare al “demerito”, per cui “il sei te lo devi meritare” diventa una frase emblematica di una scuola dove si deve studiare per avere i voti non per apprendere e dove anche se apprendi questo non vale nulla finché al tuo apprendimento non viene appiccicato un voto. Tra l’altro per molti docenti insegnare la propria materia è una missione e, come ogni missionario (Pizarro incluso), ritengono che, se non si riesce ad insegnare con le buone le cattive vanno benissimo (da lì i “2” salvifici, che aprirebbero la conversione allo studio di tutti quelli che li prendono).

Dunque, che fare in questo caos? Direi lavorare molto e tacere ancora di più: lavorare nelle scuole con coscienza e saggezza, cercando di fare emergere su giornali, televisioni, social niente o quasi, come avviene per gli ingegneri che non pubblicano sui social i progetti dei grattacieli che progettano e che poi ditte specializzate costruiscono nel silenzio mediatico più assoluto.




Intelligenza artificiale, libri di testo, riassunti

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Stefano Stefanel

L’intelligenza artificiale e, soprattutto, il suo uso umanistico ha preso alla sprovvista tutti. La scuola, come sempre avviene, tende ad arretrare davanti ad ogni novità e la scandaglia con i crismi della conservazione, chiedendosi, piuttosto attonita, in che modo la sua tradizionale concezione del sapere venga scossa da ogni nuova “diavoleria” in arrivo. L’intelligenza artificiale, sotto le spoglie nemmeno troppo anonime di Chapt A.I., sta dando alle certezze della scuola una scossa quasi pari a quella data dalla pandemia, che ha trasformato in una settimana gli insegnanti in “esperti” sull’utilizzo delle piattaforme digitali, con modalità di apprendimento molto veloci anche se un po’ caserecce e artigianali.

La prima domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa alla proprietà di un testo e quindi al confine che deve esistere tra plagio, citazione, rielaborazione. Il plagio è quando copio qualcosa da qualcuno e non dico che l’ho copiata; la citazione è quando copio qualcosa da qualcuno ed evidenzio chiaramente che cosa ho copiato e dico pubblicamente da chi l’ho copiato (di solito in nota), la rielaborazione è quando prendo spunto da qualcosa scritta o detta da qualcuno, la rielaboro e me ne approprio (e a volte “questo qualcuno” lo cito, mentre altre volte non lo cito). Personalmente sono stato convinto da quanto sosteneva San Tommaso D’Aquino, l’ho imparato all’Università quasi cinquant’anni fa, non ho mai avuto dubbi che alla base di ogni corretta pedagogia ci fosse quel pensiero.
Durante i quolibet all’Università di Parigi nel Trecento gli studenti dovevano sostenere una discussione su un tema introdotto dal San Tommaso. Lo dovevano fare appoggiandosi alle autorità del passato classico o alla contemporaneità del sapere cristiano, spesso contaminata da elementi arabi.

Su una cosa San Tommaso non transigeva: lo studente doveva citare la fonte da cui aveva tratto la sua argomentazione. Se non lo faceva veniva punito duramente o addirittura espulso dall’Università parigina perché aveva peccato contro Dio che lo favoriva facendolo studiare e contro la sua famiglia che pagava gli studi.
E aveva peccato di un peccato gravissimo per San Tommaso: l’arroganza di ritenere, da studente, di aver pensato qualcosa di originale, che qualche grande maestro del passato o del presente non aveva mai pensato prima. Quindi per San Tommaso l’unico sapere vero è quello che si riferisce ad una fonte, autorevole (nel caso suo spesso anche un po’ troppo autoritaria) e certa. Quindi bisognava copiare, dire cosa si aveva copiato e da che autore ci era “abbeverati”.

Questa idea non è quella della scuola italiana, che invece pare amare l’originalità degli adolescenti, spesso costruita su orribili argomentazioni nate non si sa bene dove ed ha orrore assoluto della copiatura, sia questa un ingiustificabile plagio, sia questa una corretta citazione. La scuola italiana ritiene che il riassunto sia invece ciò che produce apprendimento. Il libro di testo manualistico è un riassunto, le citazioni antologiche toccano i punti salienti di un testo e quindi ne riassumono i tratti essenziali, la spiegazione frontale del docente è un riassunto spesso di un altro riassunto (il manuale). Tutto insomma si tende a fare a scuola, tranne un sano lavoro sul testo senza mediazione alcuna.

Su questo meccanismo che continua a ritenere che la lezione frontale sia il metodo migliore per trasferire apprendimenti da una testa ben piena (quella del docente) ad una testa ben vuota (quella dello studente) si è abbattuta l’intelligenza artificiale e soprattutto Chapt A.I. che, a velocità irraggiungibile per qualunque essere umano (sulle possibilità dei replicanti si sa poco), produce testi ben scritti, corretti, banali, informati. Testi che comunque possono far prendere bei voti, perché spesso sono molto migliori di quelli prodotti con grande fatica da molti studenti. Personalmente ritengo che se un testo qualcuno lo scrive meglio di me sia corretto che lo scriva lui o lei e non io. Se poi l’intelligenza artificiale mi aiuta a produrre relazioni o testi divulgativi che io poi rielaboro e faccio miei non avrò scrupoli ad usarla, magari citando in calce l’aiuto che ho ricevuto. In questo momento sto scrivendo di mio pugno, anche perché sto esponendo una tesi che trovo molto difficile far interagire con Chapt A.I.

La tesi è questa: perché studiare su un libro di testo (manuale) che riassume qualcosa sia migliore che interrogare Chapt A.I. (o un motore di ricerca) su un qualunque argomento?
Personalmente sono da sempre contrario ai libri di testo e alla loro adozione, perché in un’ottica curricolare non capisco che cosa si possa realmente apprendere dentro un sapere stantio e immobile prodotto altrove in rapporto molto stretto con i vecchi programmi ministeriali. Ma ai docenti italiani piace il libro di testo (manuale), piace spiegarlo, piace risentirlo raccontato dai propri studenti, piace decidere di non utilizzarlo anche se è stato fatto comprare, piace corredarlo di molte fotocopie. E allora perché non piace anche l’intelligenza artificiale, che trasmette, in tempo reale, il libro di testo nella sua realizzazione più immediata e aggiornata? Questa domanda permette di entrare nella logica della scuola (non solo italiana) dove il sapere è controllo e non ricerca.
Una delle idee-base è che è necessario riferirsi ad un sapere certo e codificato per poterlo trasmettere, perché la base dell’apprendimento è comunque di tipo trasmissivo. Da qui ci si sposta poco e lentamente: un salto era stato fatto con la pandemia che aveva imposto idee nuove e nuovi orizzonti. Ma la fine della pandemia ha prodotto il più grande tentativo di restaurazione della storia della pedagogia italiana: tentativo molto forte che sta producendo danni irreparabili ed esiti di apprendimento con molti elementi critici.
A chi chiede un ritorno indietro (magati al 1967) bisogna rispondere che il ritorno c’è già ed è forte, ma trova qualche impedimento e l’intelligenza artificiale, nel campo umanistico, è uno di questi.

Molto spesso intellettuali, docenti e giornalisti irridono l’intelligenza artificiale perché fornisce risposte sbagliate. E’ balzato alle cronache mondiali un avvocato americano che ha citato in dibattimento sentenze inventate dall’intelligenza artificiale, che, successivamente interrogata sul motivo della sua trasmissione di dati falsi, ha chiarito  che aveva solo fatto un esempio tecnico di come si doveva strutturare una mozione che facesse riferimento a vecchie sentenze, che erano state inventate per meglio esemplificare. Tutti sostengono che la mente umane sia più profonda dell’intelligenza artificiale, anche se nessuno sostiene che è più veloce. Ma allora chiedo io: perché il libro di testo sì e l’intelligenza artificiale no? Visto che entrambi non vanno direttamente alla fonte se non in forma antologica o riassuntiva, non vanno direttamente sul testo ma lo selezionano antologizzandolo? Tra un riassunto manualistico e un riassunto dell’intelligenza artificiale c’è solo una differenza:   il manuale trasmette ciò che gli autori sanno mentre lo scrivono, l’intelligenza artificiale sa ciò che i suoi “gestori” in quel momento hanno immesso, e che cambia e si alimenta ogni giorno. Perché il riassunto del sapere posseduto dal soggetto che scrive il libro di testo vale più del sapere posseduto da un motore di ricerca o dall’elaborazione fatta in questo momento dall’intelligenza artificiale?

Il problema dell’apprendimento è stato messo a nudo da Chapt A.I.: se non si va direttamente al testo, si deve procedere per riassunti e tutti i riassunti, vanno rielaborati, analizzati, compresi, rifatti. Il problema si sposta dalla trasmissione del sapere riassunto all’elaborazioni di una argomentazione che poggia su un sapere conosciuto.
Mi sfugge perché le scuole adottino manuali di storia e non semplicemente Wikipedia (facendo risparmiare un sacco di soli ai propri studenti), che in tempo reale, può portarci dentro l’argomento che in quel momento ci interessa. Non mi soffermo su una dato certo: i manuali contengono più errori di Wikipedia, infatti nessuno adotta il manuale nell’edizione del 1998, ma sempre quella del 2023 per il semplice motivo che quella del 1998 è un’edizione con troppi errori, imperfezione, cose superate. Che però sono state insegnate fino a poco prima. Chapt A.I. fa lo stesso: è un manuale a domanda, che interagisce col soggetto che fa le domande. Si tratta di passare dalla valutazione dell’elaborazione e della sua originalità, alla valutazione delle competenze di controllo e rielaborazione. Quindi lo studente non deve “ripetere”, ma deve rielaborare e argomentare imparando a citare correttamente la fonte.

Il passare dal sapere trasmesso al sapere costruito, dalla riscrittura o ripetizione del riassunto alla gestione argomentata del riassunto, dalla staticità delle informazioni ad informazioni in movimento, dai dati acquisiti ai dati cercati può essere aiutato e non poco dall’intelligenza artificiale. Allora forse è il momento di rimuovere la diffidenza verso la tecnologia per far comprendere agli insegnanti la tecnologia e il suo uso, dentro formazioni di senso e non procedure “fai da te”. Credo si debba riflettere su questo: l’intelligenza artificiale è un libro di testo che risponde solo alle domande che vengono fatte. Quindi bisogna insegnare a farle.

Ah, dimenticavo, poi ci sono i testi. La Critica della ragion pura di Kant non teme l’intelligenza artificiale. E’ stata scritta così e così va letta. E’ perfetta perché non c’è nulla da cambiare. Ma questa è, veramente, un’altra scuola.

 




Autonomia scolastica, autonomia differenziata, Pnrr

Stefaneldi Stefano Stefanel

Il primo anno scolastico “regolare” dopo la pandemia finisce in un turbine di scadenze, adempimenti, progetti, che determinano, nei dirigenti scolastici e nelle scuole, una sovrapposizione tra pareri personali e azioni istituzionali.
Proviamo dare una forma sintetica ed ordinata all’obiettivo disordine che circonda le scuole:

  • PNRR Classroom e Labs, cioè gli acquisti per la transizione digitale nelle scuole: entro il 30 giugno (ma tutti sperano, auspicano, brigano per uno slittamento del termine di almeno tre mesi) bisogna chiudere la procedura negoziale per finanziamenti cospicui che si contano a centinaia e non a decine di migliaia di euro.
  • PNRR “divari territoriali” (D.M. 170/2022), cioè le azioni per contrastare la dispersione scolastica nelle scuole individuate dal Ministero appoggiandosi soprattutto ai risultati nell’Invalsi da strutturare e organizzare secondo target definiti, ma con sfumature interpretative non da poco e che devono essere organizzati per partire quanto prima.
  • PNRR Poli Formativi per la transizione digitale che devono raggiungere un target specifico di soggetti formati (docenti e ata) per attività formative connesse alla transizione digitale, comunque non obbligatorie.
  • Piano Nazionale Scuola Digitale – STEAM che dovrebbe concludere al 30 giugno le sue attività formative sempre di carattere non obbligatorio (con una patologia evidente che permette ai docenti di iscriversi anche a 20 corsi contemporaneamente e poi a non frequentarne nessuno, abbassando il target minimo e rendendo inattuabile il corso).
  • DOCENTI TUTOR da individuare entro il 31 maggio e poi da avviare ad una formazione estiva per poi iniziare le attività di tutoraggio a settembre.
  • PIANO NAZIONALE DI FORMAZIONE 2023 finanziato ai primi di aprile che deve concludersi entro il 31 agosto con ingenti somme non spendibili viste le tempistiche (anche qui è necessaria, logica, indispensabile una proroga a fine novembre).
  • Attività formative finanziate anche qui con oltre centomila euro di media per scuola con i DM 65/2023 – “Nuove competenze e nuovi linguaggi” e DM 66/2023 – “Didattica digitale integrata e formazione alla transizione digitale per il personale scolastico“.
  • Liceo del Made in Italy, avviato con una certa fretta operativa che va a scontrarsi con un’offerta formativa che dovrebbe essere ponderata soprattutto in rapporto ai numeri molto decrescenti degli studenti.

Forse ho dimenticato qualcosa, ma credo che il quadro delineato sia molto chiaro. Ognuno di noi ha la sua idea in merito ed è giusto che l’abbia, sia favorevole a tutto questo, sia contraria a tutto o a una sua parte. Personalmente ritengo che le tempistiche siano mal modulate, le finalità non sempre chiare e l’impianto piuttosto debole nella sua strutturazione didattica e contorto in quella economica e gestionale. Questa, in sintesi la mia opinione.

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Mi pare, però, che esista e stia dilagando una certa confusione sul rapporto tra i propri pensieri (miei inclusi) e la gestione di un sistema scolastico nazionale.
Proviamo, anche qui, ad andare per punti:

  • le scuole sono “autonomie funzionali dello stato” e non hanno nessuna comunanza con le autonomie locali dello stato: la debole comprensione di questo passaggio fa ritenere a troppi (dirigenti, dsga, docenti) che lo stato debba negoziare con le autonomie funzionali i suoi obiettivi di sistema, mentre, più semplicemente, le autonomie funzionali sono deputate a sviluppare, nella realtà locale in cui operano, gli obiettivi del sistema.
  • il PNRR è una forma di finanziamento europeo straordinaria che agisce sulle due grandi transizioni (digitale ed ecologica) individuate come strategiche: per i cospicui soldi dati all’Italia dall’Europa devono andare lì non altrove (quindi non nell’ordinario, negli stipendi del personale, nell’aumento di dotazioni organiche, nella manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici scolastici, nei pre-pensionamenti, ecc.) e questo non pare essere compreso da chi lavora nella scuola;
  • l’Italia è il Paese più finanziato dal PNRR non perché siamo i più furbi a farci finanziare o perché gli altri stati sono buoni e si sono commossi per la nostra reazione alla pandemia, ma semplicemente perché il nostro grado di arretratezza nelle due transizioni è stato ampiamente misurato, dimostrato, accettato;
  • la caratteristica base sia del PNRR, sia degli obiettivi che l’Italia si è impegnata a raggiungere a livello europeo è quella relativo alla diminuzione della dispersione scolastica, che va drasticamente ridotta perché la nostra è altissima (la più alta in Europa): quindi anche questo è un chiaro obiettivo di sistema (che non può essere armonizzato con chi ritiene che la dispersione scolastica si risolva da sé aumentando le bocciature).
  • la formazione del personale sulle due transizioni è strategica e di sistema: ma poiché non è raggiungibile in Italia per via obbligatoria (“tutti i dipendenti statali che lavorano a scuola devono formarsi”) perché questo è un ostacolo non aggirabile, visto che nessuna forza sindacale è disponibile ad accettare in contratto una formazione obbligatoria al di fuori dell’orario di servizio così come è rigidamente definito, si va per grandi cifre e target da raggiungere, al fine di centrare ugualmente l’obiettivo di formare tutti, anche quelli che non vogliono sentir parlare dell’argomento.

È sorprendente come la grandissima parte del personale scolastico non voglia stare a tema e ritenga che le argomentazioni corrette siano quelle che decide lui: l’autonomia deve essere assoluta quando fa comodo, deve essere nulla quando invece ci sono problemi, il dirigente scolastico deve assumersi tutte le responsabilità, ma agendo come un unum inter pares di docenti e ata, a molti dei quali degli obiettivi del sistema scolastico nazionale interessa poco o nulla.

Questa forma di schizofrenia ideale va a frangersi poi su due questioni molto evidenti:

  • per attuare le varie pretese delle scuole servirebbe l’autonomia differenziata, che, così come è stata delineata a larghe linee, di fatto elimina il sistema scolastico nazionale, parcellizzando gli obiettivi a livello locale e creando un baratro tra le varie zone d’Italia;
  • Per combattere la dispersione scolastica e le sue terribili prospettive (aumento dei ragazzi che dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano, aumento delle qualifiche inutili legate alle classi di concorso dei docenti e non alle necessità del sistema economico e imprenditoriale, aumento della popolarità della selezione a scuola soprattutto da parte di un consistente numero di docenti di sinistra diventati paladini dei voti bassi e delle bocciature in nome della libertà d’insegnamento considerata come un bene assoluto del docente, che non intende sottostare agli obiettivi del sistema) è necessario rivedere completamente le modalità didattica e gestionali del rapporto tra insegnamento, apprendimento e valutazione, ancorato in italiana ad un’idea didattica trasmissiva e cartacea che ormai non ha eguali nel mondo.

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L’autonomia funzionale non piace perché limita le idee di chi lavora nella scuola convinto di aver capito per bene il sistema e le sue necessità, magari lavorando per 30 anni nello stesso luogo.
L’autonomia differenziata è il tentativo di una parte politica di scardinare il sistema scolastico nazionale, partendo da bisogni oggettivi dei territori. Oggi è nelle intenzioni di chi la propugna uno strumento di differenziazione irreversibile che in questo momento non può convivere con gli obiettivi unitari del sistema scolastico nazionale, decisi dallo stato, non dalle sue autonomie funzionali. Dentro un sistema scolastico nazionale il Ministero può attivare tutti gli indirizzi che ritiene opportuno, senza interagire con le sue autonomie funzionali. Il Liceo del Made in Italy può sembrare o forse proprio è una “stramberia”, ma non vedo perché non possa essere attivato, visto che tanti indirizzi nella scuola secondaria sono legati ad una vecchia logica e non al mondo che cambia (e sono, appunto, altrettanto “strambi”).

Il PNRR è un piano straordinario per accompagnare delle transizioni, cioè per cambiare radicalmente il nostro modo di vivere, anche a scuola. La digitalizzazione non è una semplice opzione, ma il futuro sotto gli occhi di tutti. Anche di quelli che invece di insegnare le discipline insegnano i libri di testo e mettono in atto tutta la loro straordinaria furbizia per fermare i plagi da internet.
C’è poi la patologia cronica di chi ritiene che le cose si possano risolvere con l’aumento del personale, senza considerare che personale generico e non formato non produce benefici ad alcun livello. Da nessuna parte sento dire che è necessario slegare gli organici dal numero degli studenti e collegarli alle necessità locali, rendendo migliore il supporto alle piccole scuole dilaniate da organici ata esigui e spesso poco competenti e da organici doventi che faticano o a gestire l’ordinario. Né sento parlare di una stabilizzazione reale dell’organico di sostegno, basato su docenti specializzati e non su docenti che si improvvisano in un settore così delicato.

La questione vera è che l’organico definito sul numero di alunni produce dispersione e che l’orario di lavoro contrattualizzato non risponde agli obiettivi da raggiungere. Io credo si arriverà prima o poi a due soluzioni semplici, ma proprio per questo osteggiate:

  • organico quinquennale di scuola senza alcuno spezzonista, con possibilità di modulare l’offerta formativa scolastica di ogni scuola, non legato alle iscrizioni;
  • orario del personale docente calcolato su base annuale (io dico 1250 ore) da declinarsi su tutte le attività della scuola (insegnamento, recuperi, supplenze brevi, esami, attività funzionali, riunioni, correzioni elaborati, preparazione lezioni, ecc.) nei periodi dell’anno in cui è necessario operare (con una chiusura delle scuole per 15 giorni ad agosto).

Penso che in questa fase sia necessario, però, comprendere che i due grandi obiettivi del sistema (transizione digitale e lotta alla dispersione scolastica) non sono obiettivi di una parte politica, ma proprio obiettivi del sistema scolastico nazionale. Invece si parala d’altro, cioè del perché lo stato ha messo i soldi lì e non là, confondendo la propria idea col proprio ruolo.




Valutare uno studente e misurare un divario non sono la stessa cosa

di Stefano Stefanel

Il dibattito sul merito è subito scivolato sul de-merito. È di questi giorni lo scambio mediatico sull’uso dei voti inferiori al quattro, che ha avuto nel Ministro Valditara uno dei suoi protagonisti. La questione del demerito e dei voti inferiori al quattro rientra in quella passione tutta italiana per la docimologia del negativo che sta letteralmente facendo cadere la questione del merito nella gabbia (non salariale, ma non meno divisiva di quella) del de-merito. I sistemi scolastici più evoluti, come quelli nordici, tendono a diminuire l’esistenza o l’impatto delle valutazioni negative, perché fortemente interessati a quelle positive. Ma anche i sistemi scolastici più selettivi (come quelli dell’estremo oriente asiatico) utilizzano strumenti misurativi per selezionare in ingresso e poi impongono standard di rendimento altissimo, che vedono le valutazioni negative come semplici elementi di blocco al prosieguo degli studi.
Il sistema scolastico italiano invece si definisce inclusivo e ha come suo principale obiettivo la lotta alla dispersione scolastica, per cui non si comprende come la questione della docimologia del negativo venga posta in maniera così sommaria. Mi sfugge, cioè, come sia possibile pensare che uno studente in difficoltà riceva uno sprone a fare meglio da una serie 2 o di 3 dati con l’intento di punire incoraggiando, cioè creando un ossimoro valutativo-punitivo, che dovrebbe fare orrore a chiunque si occupi di pedagogia.


Il dilemma potrebbe essere anche questo: in quanto sistema scolastico quello italiano è interessato alla pedagogia o invece è più propenso a sposare il meccanismo che verifica l’effettiva trasmissione del sapere dalla “testa ben piena” del docente alla “testa ben vuota” dello studente attraverso sistemi misurativi tutti autoreferenziali e tutti per loro natura con tendenza misurativa-punitiva? Il discorso sulla pedagogia si frange contro quello del disciplinarismo, che vede nella pedagogia un elemento di diluizione della disciplina entro metodologie meta-cognitive che allontanano dal risultato cognitivo, elemento necessario per ogni competenza disciplinare. Però se manca l’attenzione alla didattica e alla pedagogia dallo schema didattica trasmissiva/misurazione docimologica non si esce.
Se proviamo a ribaltare la questione pedagogica una pratica interessante è certificare dopo attenta valutazione (non misurazione) se uno studente è in grado di essere valutato su un contenuto o su una abilità o anche su una competenza.
Se voglio assegnare un compito sulle frazioni o sulle derivate (in base all’ordine di scuola) dovrei prima accertarmi se lo studente ha compreso il concetto di frazione e le potenziali operazioni connesse o se ha compreso come ci si muove nelle derivate.
Altrimenti lo studente consegnerà il compito in bianco o cercherà di copiare. Questa certificazione in ingresso impone un’analisi attenta del processo di apprendimento degli studenti al fine della valutazione, non dopo la valutazione. Invece questa certificazione viene effettuata attraverso un passaggio semplice empirico privo di alcun valore scientifico: dato che l’insegnante ha spiegato le frazioni o le derivate questo costituisce di per sé elemento d’accesso alla verifica e quindi alla valutazione sulle frazioni o sulle derivate.
Io ci vedo un salto poco logico, ma forse perché mi occupo troppo di pedagogia e poco di discipline. Nell’ambito di questa impostazione misurativo/valutativo ecco che allora diventa logico accanirsi sulla docimologia del negativo, quella docimologia in cui il 3 è meglio del 2,5 e il 4/5 è peggio del 5. Se noi applicassimo questa mentalità – molto gettonata a livello scolastico e a questo punto anche ministeriale – ad esempio al salto in lungo avremmo giudici che perdono un sacco di tempo a misurare salti di atleti che non hanno raggiunto la sabbia con misure ridicole e inutili. Nel salto in lungo se il salto non è di almeno 3 metri non lo si misura, mentre nelle scuole italiane se il compito vale meno di 5 è tutta un gran misurazione in basso. Qualcuno dirà: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.

Al di là delle paradossalità tutto questo confluisce verso un meccanismo perverso di raccordo tra misurazione e valutazione.
La valutazione molto negativa (quella di cui si è parlato, sotto il 4) se è una vera descrizione di livello e viene inserita in una media matematica non è migliorabile. Se il livello dello studente è 2 o 3 quello studente non sarà mai in grado di prendere 8 e 9 per bilanciare la media (un’insegnante mi ha detto: difficilmente sarà in grado anche di prendere 6) e quindi una misurazione molto bassa che fa media impedisce il recupero.
Se invece la valutazione molto bassa non fa media ma è solo la misurazione di una pessima prova o la punizione allora non si comprende perché venga data e a cosa serve, visto che un semplice 6 è in grado di cancellarla. Devo tornare al salto in lungo, purtroppo: pensate a una giuria fortemente impegnata a misurare i salti che non hanno raggiunto i tre metri e che quindi vanno misurati in pedana e non sulla sabbia e che sono più lunghi da rubricare, e che dica che comunque tutti quelli che saltano più di sette metri sono eccellenti e quindi vincono la gara a pari merito. Quella giuria verrebbe presa per una congrega di pazzi e tutti direbbero che non sono interessati alle misure basse, ma solo a quelle alte, che devono essere precise al millimetro, perché si vince il campionato del mondo o l’olimpiade anche per un centimetro o addirittura per meno. O pensate allo sci dove i migliori si devono misurare in forma elettronica, mentre i meno bravi si potrebbero misurare con un cronometro a mano. Si dirà ancora: ma la scuola non è il salto in lungo o lo sci. Ovviamente, purtroppo.

L’idea che la docimologia del negativo sproni al miglioramento si frange sui dati della dispersione italiana (ancora altissima) e sull’abbandono che conduce verso i due milioni di NEET, cioè dei giovani che dai 17 ai 25 anni non studiano e non lavorano e sono tutti passati dalle nostre scuole.
La docimologia del negativo ha una semplice conseguenza: se lo studente è bravo e ottiene buoni risultati è merito dei docenti e della scuola, se i suoi risultati sono negativi è de-merito suo o della famiglia, o del web, o della società, o del degrado dei costumi. Diciamo che la scuola come tutti vuole privatizzare i profitti (buoni esiti merito nostro) e pubblicizzare le perdite (cattivi esiti de-merito degli altri).

In questa oggettiva confusione pedagogica si apre il grande problema del PNRR-Divari territoriali, del PNRR-Next Generation Labs e del PNRR Next Generation Classroom.
Dal punto di vista misurativo-valutativo gli esiti di questa enorme operazione solla scuola verranno verificati sulle presenze ai corsi, sugli acquisti effettuati dalle scuole e non sulla diminuzione dei divari e quindi sulla riduzione della dispersione. Anche in questo caso si da per scontato che il semplice accesso ad un servizio o ad un’attività produca di per sé un esito positivo in uscita. In realtà non può essere così, perché la differenza le faranno i singoli percorsi e il loro valore pedagogico. E lo faranno anche gli acquisti se messi a sistema con una nuova pedagogia.
In realtà mi sembra che molta scuola italiana sia molto concentrata sul merito che si misura in base al de-merito (cioè tutto quello che non è de-merito è merito, quindi tutti i salti dai tre metri in su sono “meritevoli”) e non mi pare ci si stia rendendo conto che una Ri-Generazione della scuola (terminologia ministeriale) parte solamente dall’idea che la scuola vada rigenerata, perché altrimenti continua a De-Generare. Se devo Ri-Generare qualcosa vuol dire che sta De-Generando, quindi una qualche idea sulla pedagogica come elemento di eliminazione o diminuzione dei divari ci dovrebbe essere. In realtà poiché noi valutiamo misurando (per lo più con una gioiosa attenzione al negativo) la pedagogia ci fa un po’ paura, perché a differenza della trasmissione impone che colui che insegna sia più interessato a quello che gli studenti apprendono piuttosto che a quello che gli studenti ascoltano.
Diciamo che se la mia squadra di salto in lungo fa troppi salti nulli devo allenarli meglio, non misurarli con ossessione sotto i tre metri. E devo cambiare qualcosa perché altrimenti sono costretto ad abbassare a due metri la base di misurazione. Anche qui c’è un’obiezione: ma la scuola non è il salto in lungo. Ovviamente, purtroppo.




Disciplinarismo e pedagogia

di Stefano Stefanel

Il dibattito sulla valutazione formativa, i richiami alla valorizzazione del merito, l’idea che lo studente migliore è quello che studia sulla carta e solo se autorizzato va sul web, il concetto di apprendimento inteso come forma guidata di conoscenza, i miliardi riversarti sul digitale ma collegati ad una cultura proibizionista sull’uso dei dispositivi di proprietà, il concetto vago di divari territoriali collegato ad azioni di recupero finanziate prima ancora di essere decise, la richiesta di finalizzare il sapere al proprio futuro anche se nessuno sa indicare quale sarà sono tutti elementi dell’attuale contemporaneità che cozzano contro lo scoglio da aggirare: la pedagogia.

In teoria disciplinarismo e pedagogia dovrebbero essere strettamente collegate: se voglio insegnare qualcosa devo avere a che fare con un contenuto e questo contenuto sta per forza dentro una disciplina, che, a sua volta, richiede un determinato metodo per essere insegnata, cioè la pedagogia dovrebbe servire per transitare contenuti (e abilità e competenze che ne seguono) dalla mente di un sapiente alla mente di un non sapiente. Difficilmente vado ad imparare qualcosa che già so, difficilmente qualcuno mi insegna ciò che pensa io sappia o ritenga io debba sapere (i prerequisiti).

Da oltre cento anni la pedagogia è stata considerata una “materia” a sé stante, non necessariamente collegata al suo compito: far apprendere. Infatti, in alcune scuole si studia la pedagogia come una forma di pensiero filosofico minore, interessante, ma con valore più storico-sociale che metodologico. Il problema, però, è un po’ più complesso e va a toccare le discipline così come sono state codificate e così come si sono imposte, le uni a scapito delle altre. Da questo punto di vista Le parole e le cose di Michel Foucault ha dimostrato che le discipline sono strumenti di potere (politico) e che talune hanno preso il sopravvento, mentre altre vivono nell’ombra. In Italia questa evidente stortura ha dato vita al costrutto artificiale delle “classi di concorso”, una struttura di sapere che è diventata struttura di potere con un valore economico molto forte, strettamente collegato ai posti di lavoro che è in grado di farsi riconoscere.

L’ostilità dei disciplinaristi nei confronti dell’educazione civica sta tutta qui: l’educazione civica è una disciplina chiara e obbligatoria che non ha prodotto nuovi posti di lavoro. Quindi la sua trasversalità va abbattuta. Finora non ci sono riusciti, ma chi ha pazienza vedrà presto nascere le cattedre di educazione civica con tanto di abilitazione. Il disciplinarismo ha alcune caratteristiche molto marcate, che si possono riassumere in tre modalità didattiche.

La trasmissività vista come l’elemento base della disciplina: io ti racconto, ti spiego, ti argomento quello che devi imparare, tu studi e lo impari. La trasmissività impone la conferenza, la cultura del contenuto, la spiegazione anche di ciò che è già chiaro, la meta-spiegazione artigianale (la lezione in classe) di quello che è oscuro, il riassunto virtuoso, la chiacchiera diventata orazione.

Il manuale o il libro di testo in cui è codificato il riassunto di tutto lo scibile disciplinare, in fascicoli da compulsare e leggere annualmente, visto che tutto è diviso per annualità e prevede una chiara spesa da sostenere come base per accedere a quel sapere codificato, stantio e immobile, ma comunque certo, almeno nei limiti di quanto la comunità disciplinare ha deciso sia certo in quel momento.

La memoria come ricordo di ciò che è stato trasmesso attraverso conferenze (anche operative: gli esperimenti nei laboratori) e che deve essere esercitata senza supporti tecnici e multimediali in quelle che sono le prove disciplinari per eccellenza, cioè i compiti in classe e le interrogazioni.

La pedagogia, dunque, viene sempre più vista come un elemento di ostacolo alla disciplina, quasi che il piegarsi alle esigenze del discente debole sia un cedimento inaccettabile verso una contaminazione al ribasso della purezza disciplinare. Il discente forte – ed è questo il punto di grande ambiguità del concetto di merito – è perfettamente inserito nello specifico disciplinare ed apprende per trasmissione, tradizionalismo manualistico, memoria. Siamo dunque di fronte ad un problema molto serio che vede la disciplina come strumento delle élite e la pedagogia come strumento del popolo. Il sapiente è un disciplinarista se comprende che deve esserci un elitarismo nell’insegnamento che non può permettere alla disciplina di scendere verso la banale comprensione, il modesto impegno, il poco interesse; mentre è un pedagogo se cerca di raggiungere il popolo col sapere. Con il termine dispregiativo di “pedagogismo” si indica la china facilitatrice verso concetti e apprendimenti non facilitabili e come tali necessari più per il mantenimento del potere della disciplina che per migliorare l’apprendimento della stessa in studenti comunque giovani e generalisti.

Tutto questo lo aveva già detto Foucault molto chiaramente, ma il pensiero pedagogico novecentesco (Montessori, Dewey, Gardner, Brunner) ha sottovalutato la forza del potere economico sotteso alla disciplinarietà dei saperi. Ne ha fatto le sue spese anche la filosofia, per sua natura trasversale, diventata nei libri di testo liceali una parodia di un percorso storico-letterario, con teorie elencate insieme a dati biografici e bibliografici in cui tutti i pensieri sono metafisici, astratti, simpaticamente astrusi. Lo spacchettamento tra filosofia e pedagogia ha fatto il resto e la lezione di un grande pedagogo come San Tommaso d’Aquino è andata totalmente perduta.

Se si scende a questo livello la partita non si può vincere: il sapere alto, la specializzazione non ha pedagogia e, infatti, la disciplina più forte negli studi liceali è la matematica, che avanza solo per trasmissione e spiegazioni di teorie sempre più complesse, rese forti da un’inutile prova finale d’esame, troppo semplice per chi la matematica la conosce da disciplinarista, troppo difficile per gli altri che dimenticano tutto subito e vivono il resto della loro vita senza la matematica, dimenticando la matematica, per lo più odiando o disprezzando la matematica. D’altronde non c’è nessuno che a tavola o al bar dica: “io a scuola non capivo niente di grammatica o di scienze o di storia”, ma molti dicono, spesso con orgoglio: “sono sempre andato male in matematica”. La disciplina prima e più importante dei nostri giorni è finita in mano a indiani e cinesi, capitale primo delle multinazionali, mentre in Italia è lo spauracchio dei liceali e basta. Tutto il resto, da noi, lo fanno le macchine, che la scuola non vuole affiancare all’insegnamento della matematica come parte essenziale di supporto, perché vuole una matematica di memoria e lavagne d’ardesia.

Gli specialisti ci sono sempre stati nella storia dell’umanità e sempre ci saranno: non è mai stato questo il problema. Ma i disciplinaristi non sono degli specialisti, sono, forse, dei cultori della materia, cioè competenti dentro i limiti di una disciplina. La contaminazione è inutile in uno specialista, ma viene ritenuta pericolosa da coloro che non sono specialistici, ma sono solo disciplinaristi, perché la contaminazione fa perdere potere alle discipline. La struttura enciclopedica è una “lotta mortale” tra discipline, che vogliono avere più voci riconosciute possibili, perché tante sono le voci, tanto è il potere. Le arti del trivio e del quadrivio una battaglia simile l’hanno disputata circa mille anni fa.

Se torniamo a noi lo svilimento della funzione della pedagogia, soprattutto nelle scuole superiori, non è un modo per preservare il rigore e la precisione disciplinare, ma solamente per delimitare il campo del potere. Discipline che si contaminano, che agiscono su base multidisciplinare e interdisciplinare alla fine finiscono per perdere la loro specificità e a trasformarsi in altro. Questa battaglia la scienza, ad esempio, l’aveva già combattuta alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento quando si è sviluppata una notevole filiera di divulgazione scientifica, iniziata da Ernst Mach con e Letture scientifiche e popolari e continuata anche con grandi scienziati che si sono impegnati nella divulgazione come Einstein, Bohr ed Heisenberg. Ed è una battaglia che ha reso le discipline più arcigne, desiderose di essere trasmesse, ma ostili verso la pedagogia, cioè verso quell’azione del docente che comprende come raggiungere la mente del discente, non per riempirla, ma per farla diventare migliore.

Per questo servono i voti e non le valutazioni formative: per delimitare il campo della disciplina. Se il voto è negativo viene sancito il “debito disciplinare”, cioè quel terreno incerto e di controllo per cui l’insegnante non deve trovare metodi nuovi per raggiungere risultati di apprendimento che non ha raggiunto con i metodi trasmissivi, sperimentali, misurativi in vigore, ma semplicemente rubricare l’insuccesso, quella debolezza disciplinare che non permette di andare avanti. Più le discipline sono obsolete più sono difficili e astruse e per questo forti, perché essendosi tramutate in classi di concorso alimentano la schiera di chi insegnerà quella disciplina nella scuola italiana. Il tramonto della pedagogia, però, è il tramonto dell’apprendimento. E senza apprendimento non c’è progresso.




Divari territoriali, valutazione senza voti, bocciature

Stefaneldi Stefano Stefanel

In questa fase della scuola italiana, che coincide con l’avvio del PNRR, sulla scuola si stanno abbattendo alcuni dibattiti solo apparentemente distanti tra loro, che ruotano tutti attorno ad un’unica “ragione sociale”: selezionare o includere. Tutto quanto viene discusso, però, lo è in maniera un po’ convulsa e non sempre gli obiettivi del sistema sembrano essere chiari a tutti.

Per i così detti divari territoriali un congruo numero di scuole ha ricevuto complessivamente 500 milioni di euro dallo stato (circa 250.000 euro a scuola), con uno stanziamento comunicato a giugno, quasi come un fulmine a ciel sereno, visto che le scuole nulla avevano chiesto. Anche i parametri indicati dal Ministero, per decidere il finanziamento, hanno individuato situazioni di criticità non ritenute critiche da molte scuole e hanno fatto pervenire cospicui finanziamenti per sanare situazioni problematiche che alcune scuole non ritenevano di essere tali. In attesa delle Linee guide sull’argomento sono però già trascorsi quasi cinque mesi dall’invio della comunicazione e l’anno scolastico 2022/23 ha già percorso un tratto della sua strada. In questo clima e con il passaggio del ministero alla destra si sta sviluppando anche un dibattito sul voto numerico e la sua eliminazione, sul concetto di valutazione formativa in contrapposizione a quella sommativa. La valutazione attraverso voto numerico e il concetto stesso di bocciatura (ripetere nell’anno successivo tutto quello che si è fatto nell’anno precedente) vanno nella direzione di aumentare i divari territoriali e la dispersione e dunque un ragionamento sulla valutazione sta in stretto rapporto con gli elementi da introdurre per recuperare questi divari.

L’impostazione solo numerica della valutazione nella scuola secondaria italiana aiuta a combattere la dispersione o la genera? Su questa domanda sono sorte varie teorie ed opinioni, a partire da quelle che nasce nella scuola primaria a seguito della trasformazione della valutazione numerica in valutazione i obiettivi – e non di materie – attraverso livelli e non voti.

Un altro elemento interessante da analizzare è quello relativo alla possibilità che i divari territoriali si sanino con un maggior numero di bocciature e di studenti insufficienti, cioè se i 500 milioni di euro possano servire per mettere in sicurezza una parte degli studenti non curandosi degli altri. Questo potrebbe portare ad una sorta di corso di recupero generalizzato e di massa che supporti gli studenti che si collocano a vario titolo nell’ambito della dispersione, attraverso un tentativo generico di risollevare il sistema dell’istruzione con metodi tradizionali.

Tutto questo, però, ruota attorno all’idea che il numero sia l’unico modo per valutare e che le verifiche tradizionali (compiti in classe e interrogazioni) ancora svolgano la loro funzione pedagogica e formativa. Non credo che, in questa fase, sia utile addentrarsi troppo in considerazioni di pedagogia generale, perché alla fine il PNRR porterà a valutazione dei risultai raggiunti non da parte del sistema scolastico italiano, ma da parte dell’Unione Europea. Se i soldi spesi per recuperare i divari territoriali non li avranno recuperati ci sarà stato solo un travaso di risorse su venditori ed almanacchi per un tentativo (a quel punto non riuscito) di raggiungere l’obiettivo della diminuzione della dispersione. Non credo che questa sia una strada realisticamente percorribile. Non potrà restare tutto così com’è, questo almeno dovrebbe essere chiaro.

Allora resta solo la messa in atto di strumenti, strutture e didattiche che puntino a rafforzare gli elementi positivi degli studenti deboli, per far salire il rendimento generale attraverso una modifica strutturale della didattica di fascia bassa. Credo sia necessario cancellare dalla scuola italiana l’idea che possa esistere una scuola attraverso cui si forniscono conoscenze, abilità e competenze uguali per tutti gli studenti e che questi poi vengano sottoposti ad una semplice fotografia in cui alcuni hanno raggiunto risultati soddisfacenti e altri no, quasi che il ruolo dell’insegnante sia solo quello di trasmettere e misurare.

Un piano che vada a coprire i divari territoriali deve porsi dalla parte dei più deboli per vedere come può farli diventare più forti, partendo dall’idea preliminare che non sempre il più debole è in grado di mettere in campo strumenti personali e sociali utili a costituire una solida base di apprendimento. Detto in termini “western spaghetti” molto spesso il ragazzo debole, che studia poco, è disinteressato e demotivato non è “buono”, ma è proprio “brutto e cattivo”. Se, però, vogliamo eliminare i divari territoriali dobbiamo addentrarci tra i “brutti e cattivi” dove è difficile produrre grandi cambiamenti, ma può essere interessante cementare apprendimenti (anche tecnici e pratici e non solo teorici).

Nell’immediato la strada più semplice ed efficace mi pare quella che procede attraverso quattro passaggi:

  • analisi dei (pochi) punti di forza e dei (molti) punti di debolezza degli studenti deboli o in dispersione;
  • predisposizione di Piani di apprendimento personalizzati (quindi percorsi totalmente autonomi ed individuali, non un abbassamento dei livelli o degli obiettivi) che rafforzino i punti di forza e semplicemente presidino in forma essenziale i punti di debolezza
  • valutazione dell’anno scolastico centrata sui punti di forza e non sulla situazione generale dello studente
  • azione orientativa per l’uscita dal primo ciclo dell’istruzione o per l’uscita dal sistema dell’istruzione verso il mondo del lavoro.

Si tratta di agire su base sociale e pedagogica per avviare lente modifiche in parti complesse del sistema, con l’idea che il cambiamento della didattica impone un’idea pedagogica e non disciplinare di apprendimento. Su questo, però, le associazioni culturali e professionali sono chiare: oltre un certo limite non si può e non si deve scendere, perché altrimenti non si insegna più la disciplina, ma si fanno azioni pedagogiche e formative generiche. Ecco che allora diventa necessario verificare con attenzione se tutto quello che si insegna nella scuola secondaria deve essere necessariamente imparato da tutti: perché se è così quelli che impareranno tutto diminuiranno sempre di più e quelli che impareranno poco o niente aumenteranno sempre di più.

Parafrasando potremmo dire “che cento latini fioriscano, che cento matematiche gareggiano”, cioè che si vada verso la didattica di discipline che raggiungono una parte di popolazione in maniera profonda e approfondita e una parte di popolazione semplicemente con una infarinatura culturale. Nella vita degli adolescenti e dei ragazzi si deve fare strada un rispetto per il generalismo e al tempo stesso una possibile apertura verso il disciplinare di medio e alto livello. Proviamo a declinare un paio di domande e un paio di risposte:

  • quante matematiche si devono sviluppare in una classe dunque?
  • quante servono
  • quante matematiche sono possibili?
  • infinite

Tutto questo è possibile? Con il Piano Rigenerazione scuola, il PNRR- Futura, il Piano Nazionale Scuola Digitale sì, ma per farlo bisogna rispettare il passato, non trattarlo da presente, perché non c’è più. Quindi le scuole davanti al problema di come ridurre i divari territoriali dovranno scegliere se prendere la strada della pedagogia o quella delle discipline. Davanti all’obiezione: come si può fare pedagogia senza discipline? la risposta è molto semplice: la pedagogia è pedagogia di discipline, ma le precede, non può semplicemente essere uno stratagemma per definire il concetto di recupero.

Qui sta l’elemento più difficile da progettare e attivare: slegare il concetto di corso o attività di recupero a quello di azione per il recupero dei divari territoriali. I divari sono una cosa seria, il recupero fatto dalle nostre scuole spesso non lo è. E non lo è non per carenza di mezzi, impegno, passione, interesse per gli alunni, ma per carenza di pedagogia, quasi che un argomento spiegato al pomeriggio diventi più semplice da comprendere dello stesso argomento spiegato al mattino. Qui forse è il caso di entrare nel merito del concetto di “spiegato”. Spiegare vuol dire ampliare, cioè collocare la meta-conoscenza (spiegazione) sulla conoscenza, quasi che la seconda sia per sua natura più semplice e comprensibile della prima. Quindi lo spiegare amplia e produce i risultati che tutti consociamo: ottimi su alcuni alunni, medi o mediocri su altri, pessimi su una parte sempre crescente di alunni. Agire pedagogicamente significa saper scegliere e selezionare cosa “spiegare” cosa “piegare”, cioè cosa trasmettere per sintesi e cosa per estensione, cosa è essenziale e cosa non lo è, cosa serve a chi tende al massimo e cosa serve a chi non tende da nessuna parte.

Credo che le scuole farebbero bene a lavorare in rete e a costruire solidi team progettuali con la consulenza di esperti esterni in linea con il progetto della scuola. Serve, penso, un po’ di umiltà e capire che chi è finito in un divario territoriale farà bene a non cercare di chi è la colpa (la scuola tende comunque a dire degli studenti che non studiano come si deve, delle famiglie che non fanno più il loro dovere, del digitale imperante), ma a capire con chi allearsi.

Concludo indicando il luogo dove trovare la linea per comprendere come eliminare i divari territoriali, l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030: “Obiettivo 4: Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.  In questa splendida definizione non c’è la parola uguaglianza (che piace tanto alla nostra scuola a livello di enunciazione ma non di fatti) ma ci sono altre parole chiave:

  • Educazione di Qualità (don Lorenzo Milani: “non c’è ingiustizia più grande che far parti uguali tra diversi”)
  • Educazione Equa (il Maestro Antonio Manzi: “quello che può fa, quello che non può non fa”)
  • Educazione Inclusiva (Edgar Morin: “servono teste ben fatte, non teste ben piene”)
  • Opportunità di apprendimento per tutti (John Dewey: “Una società consiste di un certo numero di individui tenuti insieme dal fatto di lavorare in una stessa direzione in uno spirito comune, e di perseguire mire comuni “).

 




Il discorso sul merito

di Stefano Stefanel 

Merito e Meritocrazia sono due nomi che, in questi giorni, fanno discutere, da qualunque parte li si voglia considerare. Poiché il Merito è diventato il nuovo logo del Ministero dell’Istruzione e del Merito credo che, almeno in questa fase, sia meglio attenersi al mondo della scuola, visto che analogo trattamento non hanno ricevuto, ad esempio, i ministeri della Funzione Pubblica, dell’Università e delle Ricerca, degli Interni, ecc.

Se ci fermiamo dunque al Ministero dell’Istruzione e del Merito sono quattro le categorie interessate alla questione:

  • gli studenti
  • i docenti
  • i dirigenti
  • il personale ATA

LA PERICOLOSA CHINA DEL MERITO COME CONTRALTARE DEL DE-MERITO

Cominciamo dagli studenti che, a tutt’oggi, nel mondo della scuola sono gli unici ad essere valutati in maniere, comunque, troppo disomogenee e molto poco eque. Va immediatamente sgomberato il campo da un possibile equivoco e cioè che tutto ciò che non è de-merito, per sua stessa natura sia merito. Per dirla in modo molto semplificato: se prendo 5 de-merito, se prendo 6 merito: questo è un modo proprio perverso di ragionare. La docimologia italiana è la base strutturale della sua dispersione, perché scambia misurazioni sommarie ed arbitrarie con i processi di valutazione. Bisogna, quindi, sgomberare il campo – immediatamente – dal de-merito, categoria legata a situazioni sociali, personali, culturali, motivazionali che si vanno ad intrecciare spesso con didattiche frontali ed obsolete, ossessione per compiti in classe e interrogazioni, interesse per i risultati dei prodotti e non per quelli dei processi. Il merito deve, dunque, essere qualcosa che dimostra particolari capacità degli studenti che devono essere premiate nell’ambito di un’azione meritocratica, che parte cioè dagli oggettivi risultati di coloro che riescono a sollevarsi dalla media. Dunque, il merito dovrebbe essere la ricerca degli elementi di eccellenza in un sistema che deve, contemporaneamente, avere attenzione ai bisogni di inclusione, supporto, accompagnamento, azioni dirette sulle persone.

Se si volesse percorrere la strada della valorizzazione del merito una buona lettura è quelle costituzionale: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questa dicitura intende tutelare un principio di equità non di concorrenza, mettendo tutti i “bravi e meritevoli” sullo stesso piano, sia che abbiano i mezzi, sia che non li abbiano. A prima (ma anche a seconda) vista sembra che l’idea insita nella Costituzione non sia molto simile a quella che ha ispirato il cambio di nome ministeriale. Il merito, comunque, si può premiare e individuare ma, per farlo, è necessario slegarlo totalmente dal de-merito, altrimenti si passa da una tendenza equa, ad una tendenza selettiva e iniqua. Quindi si deve partire dall’idea che i voti, in sé, non possono essere merito, ma soprattutto non possono discriminare il merito in rapporto al de-merito. Se non si sta molto attenti, in questo frangente, si rischia di trasformare tutto in un’unica notte dove tutte le mucche sono nere.

                L’azione sul merito inteso come elemento di valore e qualità alta o altissima dovrebbe produrre due provvedimenti che però scardinerebbero il sistema scolastico italiano:

  • L’eliminazione del valore legale del titolo di studio
  • L’eliminazione delle bocciature

Il valore legale del titolo di studio pareggia tutto: i diplomi e le lauree presi in Istituti e Università di grande valore e quelli presi per via telematica; i percorsi di eccellenza e quelli mediocri, le lauree di chi le ottiene al primo appello utile e quelle di chi si trascina per vent’anni all’università. Non credo sia necessario enumerare tutti gli elementi che hanno prodotto la grande distorsione italiana per cui il “pezzo di carta” fa aggio su qualunque competenza sia stata acquisita per raggiungere quel “pezzo di carta”: sia quella di alto valore e livello, sia quella strappata anche attraverso tutte le varie patologie del sistema (due anni un uno, istituti che usano metodologie valutative non comparabili, e via di seguito). Se i diplomi e le lauree non avessero valore legale, in primo luogo, si abolirebbero gli esami di stato, che forniscono classifiche tanto inutili quanto deleterie, su prove di tipo contenutistico spesso proposte per soddisfare le aspettative dei valutatori e non dei valutati.

Il secondo passaggio dovrebbe essere quello dell’abolizione della bocciatura, con la conseguenza di rendere necessaria una valutazione e una certificazione che descrivano attentamente tutti i percorsi in modo che si possano conoscere le reali competenze acquisite dagli studenti. Così si avrebbero, ad esempio, studenti che escono dai licei con il 100 e lode e studenti che escono con il 25, cioè con un semplice attestato di frequenza. Tutto questo collegato agli accessi universitari aperti solo a chi – in determinate materie – ha un voto alto. Per cui, ad esempio, se esco da un liceo scientifico con 4 in matematica non posso iscrivermi a ingegneria, dove ci vuole, poniamo, l’8. A quel punto pur provvisto di diploma devo andare a prendermi l’8 (al liceo o all’università), altrimenti a quella facoltà non posso accedere. Non credo sia questo il luogo per dettagliare, ma se voglio fare lettere classiche all’università devo proprio avere da 8 a 10 in latino e greco. Questo permetterebbe un’azione personalizzata sui percorsi, con studenti che decidono di perseguire il livello alto in tutte le discipline e studenti che si specializzano in rapporto all’università e al mondo del lavoro. A questo punto diventerebbe fondamentale e interessante sapere da che scuola o università viene uno studente, che percorso ha seguito, dove è di alto o medio livello e dove di basso livello. E gli unici “bocciati” sarebbero quelli che a scuola non ci vanno proprio e quindi diventano soggetti su cui si dovrebbe agire in primo luogo per via sociale.

Non credo sia molto complicato comprendere che questo sistema rivoluzionerebbe tutta la scuola italiana e – soprattutto – renderebbe evidenti, pubbliche e verificabili le valutazioni e le certificazioni delle scuole. Il voto perderebbe il suo valore e diventerebbe soltanto la descrizione di un livello di competenza, come già avviene per i livelli linguistici (anche se questi livelli a scuola assurdamente convivono con i voti). E anche gli studenti che escono dal sistema con una bassa votazione potrebbero vedersi valorizzate alcune competenze. In questo modo la ricerca del Merito inciderebbe sul profilo dello studente e non sul suo tempo di permanenza a scuola.

Io credo non si possa continuare a dare in premio agli studenti migliori lo “scalpo” (leggi bocciatura) di quelli deboli e in difficoltà, perché non si ha altro da dargli. Sono due profili di studenti diversi e devono essere trattati in modo diverso. Lo Stato dovrebbe prevedere posti di lavoro immediati per gli studenti di alto livello, con percorsi certificati da scuole-università-organismi indipendenti. Insomma, lo Stato dovrebbe saper individuare i migliori, non lasciare indietro nessuno differenziando le didattiche a tutti i livelli, premiare i capaci e meritevoli senza metterli in raffronto con chi ha problemi ad essere capace e meritevole.

QUIS CUSTODIET IPSOS CUSTODES?

La questione dei docenti, invece, la si potrebbe chiudersi già dal titolo: poiché in Italia i valutatori destano sempre sospetti, nessun metodo di valutazione cancellerebbe i dubbi sui valutatori e quindi tutto sarebbe destinato al fallimento (come è successo a tutti quelli che ci hanno provato da Berlinguer a Renzi). Anche in questo caso si potrebbe fare un tentativo separando il de-merito dal merito. Non tutti gli insegnanti che vengono a scuola tutti i giorni sono meritevoli: qualcuno oltre a venire a scuola fa ottenere ai suoi studenti ottimi risultati, qualcun altro un po’ meno. Però come si verifica tutto questo? L’unica possibilità è che il merito sia un elemento certificato di eccellenza, non una semplice sequela di cose fatte premiate per il solo fatto di essere state fatte. Una base di partenza potrebbe essere questa: su base volontaria l’insegnante chiede di essere valutato e un soggetto esterno definisce il livello di partenza dei suoi studenti e lo stesso soggetto esterno (nucleo di valutazione) verifica a fine anno se c’è un valore aggiunto: se c’è, bene, si premia il merito, se non c’è non accade nulla e si è fatto quello che si è potuto. Questo metodo non produrrebbe insegnanti di diversa categoria, ma solo docenti desiderosi di verificare la propria capacità di lavorare sul valore aggiunto.

Sui dirigenti non merita – almeno qui – fare un lungo discorso, ma solo dire che va applicata la legge e vanno tutti valutati.

SEGRETERIE IN AFFANNO

Anche in questo caso si tratta di cancellare il concetto di de-merito e di occuparsi solo del merito, ma non attraverso astrusi meccanismi valutativi, bensì premiando economicamente le eccellenze delle segreterie. Anche in questo caso va ribaltato il concetto di intensificazione della prestazione che col merito non ha nulla a che vedere e va, invece, approfondito quello di competenza tecnica ,che va premiata sempre (gestione economica, graduatorie, progetti, piattaforme sono solo alcuni nomi dove è semplicissimo vedere l’assistente amministrativo di alto livello da quello di basso livello). E anche nel settore dei collaboratori scolastici per un dirigente scolastico è immediato verificare il dipendente che interpreta il suo ruolo in forma minuziosa da quello che fa quello che deve fare senza cercare di migliorare, anche perché poi comunque riceve un’intensificazione (anche se spesso molto piccola). Il problema è che, anche in questo caso, se tutto ciò che non è de-merito diventa merito allora invece di produrre efficienza ed efficacia nelle scuole si produce un sistema falso-egualitario dove tutti hanno teoricamente gli stessi carichi di lavoro, anche se non ne hanno – con un’evidenza molto semplice da verificare – le forze e le competenze per gestirli.

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