I pericoli di Eduscopio

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Stefano Stefanel & Aluisi Tosolini  

               Anche quest’anno, come ormai accade da una decina d’anni, per alcuni giorni dell’autunno le cronache giornalistiche e i social saranno avvolti dai risultati di Eduscopio, il centro di ricerche finanziato dalla Fondazione Agnelli che fa le classifiche delle scuole superiori. Eduscopio agisce in regime di monopolio, perché il Ministero nelle sue varie denominazioni (Pubblica Istruzione, Istruzione, Istruzione Università e Ricerca, Istruzione e Merito) si rifiuta di mettere i dati a regime e di pubblicarli ufficialmente facendo solo trapelare dati parziali dentro indicazioni generali sempre molto controverse (combattere la dispersione ed essere più rigorosi nel bocciare, fornire educazione e formazione e punire il più possibile, insegnare il cognitivo e progettare il metacognitivo) e lasciando, quindi, ad Eduscopio il monopolio dell’informazione sull’orientamento post diploma della Scuola superiore.
La ricerca di Eduscopio è condotta in modo rigoroso, ma parte da un punto di vista settoriale e dunque analizza solo una parte del sistema scolastico.

Negli anni molte scuole hanno utilizzato i dati Eduscopio in modalità dicotomica: alcune – visti gli esiti positivi – per farsi pubblicità (”noi siamo il miglior liceo della città, regione, paese…”); altre – soprattutto quelle con esiti problematici – per rigettarne gli esiti criticando la ricerca a priori sostenendo che si tratta di una indagine parziale, che non tiene conto dei “veri” scopi dell’educazione, ecc…

Al contrario noi crediamo che le scuole facciano molto male se non analizzano i risultati di Eduscopio con grande attenzione e se non fanno tesoro dei dati che Eduscopio fornisce pubblicamente. Quindi in sé la ricerca di Eduscopio è interessante e importante.

Un’analisi di ciò che Eduscopio dichiara apre la luce sulla struttura della ricerca; infatti, così scrive Eduscopio sul suo sito: “In questo canale di Eduscopio.it trovi informazioni comparabili sugli esiti universitari degli studenti che hanno frequentato le scuole del tuo territorio! L’idea è semplice: per capire se una scuola dà buone basi, andremo a vedere cosa è successo a chi si è diplomato in quella scuola e poi si è iscritto all’università”.
L’idea non è, invece, affatto semplice, perché isola il problema dell’orientamento dentro un segmento estremamente settoriale: il diplomato che si iscrive all’università. L’assenza totale di dati su questo diplomato che si iscrive quando, come e dove esce dall’università con in mano una laurea breve, una laurea specialistica o niente non c’è da nessuna parte perché è un dato molto più totalizzante di quello cercato da Eduscopio. Eduscopio cerca subito il colpevole (la Scuola superiore che prepara poco e male i suoi studenti per l’università), ma si guarda bene dal cercare anche gli altri colpevoli (ad esempio le università che chiedono molti soldi agli studenti, ma poi ne perdono tantissimi per strada senza che su questo nessuno abbia molto da dire).

Ad esempio, come scrive il Sole 24 Ore del 23 maggio 2023 “nel 2011-2012 il tasso di abbandono degli studi universitari era del 6,3%, 10 anni dopo, ovvero nel 2021-2022, è diventato del 7,3% il più alto degli ultimi anni, con una percentuale del 7,4% tra gli universitari del sesso maschile e il 7,2% delle donne”.

Anche le università hanno le loro ricerche, ma sono altro rispetto a quella di Eduscopio, che va nel cuore della vita delle Scuole superiori.

Pur con tutte le riserve di cui sopra e detto con chiarezza che Eduscopio si ferma su un dato non stabile e cioè il successo universitario di uno studente partendo dal suo avvio degli studi universitari, va ribadito che la ricerca è interessante e i dati indicati veritieri. Però poi cosa fa Eduscopio per attirare l’attenzione su se stesso? Costruisce un sistema di misurazione e produce una classifica pubblica: “Sulla base della media dei voti conseguiti agli esami universitari dai diplomati di ogni scuola. Sulla base della percentuale esami superati dai diplomati di ogni scuola. All’università è importante non solo superare gli esami nei tempi previsti, ma anche farlo bene, cioè con buoni voti. Il nostro Indice FGA mette insieme le due cose, dando lo stesso peso alla media dei voti e alla percentuale di esami superati (50-50).

Cioè Eduscopio si inventa un metodo di conteggio e attraverso quel metodo di conteggio (l’indice FGA) produce con un semplice clic digitale una classifica correlata ad una zona d’Italia, mettendo insieme scuole con dodici sezioni dello stesso indirizzo e scuole con una sezione, istituti cittadini e istituti periferici, istituti che bocciano moltissimo e istituti che hanno alti tassi di promozioni. Insomma, si inventa un “Campionato delle scuole superiori” e sbatte quella classifica in prima pagina.

Il metodo usato da Eduscopio per divulgare i risultati e attirare l’attenzione corrisponde a quello di un qualsiasi giornale sportivo che elabora una classifica basata su risultati veritieri, ma stilata in base a indicatori non accettati dal soggetto che possiede il campionato, ma da una scelta arbitraria. Eduscopio di fatto dice: la vittoria in casa vale 3 punti, quella fuori casa vale 5 punti, il pareggio vale un punto, se si vince con tre o più gol di scarto si prendono altri due punti. Poi prende la classifica e la pubblica dicendo che il campionato di calcio è andato così. Tutto questo non produrrebbe niente, perché la FIGC pubblica la classifica ufficiale e quindi quella farlocca nata su risultati veri, ma su indicatori inventati, non varrebbe nulla, al massimo un attimo di curiosità. Ma in campo scolastico non c’è una classifica ufficiale del MIM, ma solo quella di Eduscopio. E dunque si fa classifica su qualcosa che non deve avere una classifica.
Inoltre, quella pubblicata da Eduscopio, è una classifica vecchia di qualche anno, perché quella di oggi arriverà tra un po’: quindi come ci si può orientare al futuro scavando un passato che non ha presente?

Eduscopio analizza altri dati interessanti, separando i voti dai crediti e analizzando il dato dei diplomati in regola, ma questi dati non “fanno classifica” e quindi praticamente nessuno li legge. Il mondo della scuola è pieno di persone che ritengono che la comunicazione possa essere solo agiografica e perciò molti si impossessano dei dati positivi e li enfatizzano, nascondendo quelli negativi o contestualizzandoli fino a farne sparire la rilevanza. Però il dato per cui una scuola con un altissimo indice di Eduscopio è indagata per l’alterazione dei voti da parte di Dirigente e alcuni docenti e un’altra scuola con il più alto indice nazionale di Eduscopio nel suo settore che ha dovuto punire alcuni suoi studenti che hanno pubblicato la lista delle studentesse che sono andate a letto con loro, dovrebbe invitare ad essere parchi con le classifiche e con i dati lanciati nel web senza alcuna contestualizzazione o analisi sistematica.

Che fare allora? Buttare via Eduscopio? Far scattare nei confronti della rilevazione una damnatio memoriae? Inventarsi classifiche in cui si è primi? Sono metodi un po’ estremi che sarebbe sbagliato applicare anche nei confronti di chi ha trasformato dati parziali in dati assoluti. La soluzione è semplice, ma certamente non piace a quelli di Eduscopio: pubblicare i dati così come sono, dentro la stessa cornice, ma impedendo di fare attraverso l’ingegneria della piattaforma la classifica. E soprattutto non pubblicando le classifiche. Questo perché gli indicatori di Eduscopio sono quattro: uno, quello che fa classifica, è arbitrario perché definito tramite modalità non neutre pensate da Eduscopio; gli altri tre sono oggettivi (media dei voti, media dei crediti, media del percorso scolastico senza bocciature): quindi ogni lettore può cercare dentro la scuola i dati che gli sembrano più interessanti, Magari perdendo un po’ di tempo ad analizzarli. Ma vuoi mettere la classifica, con Eduscopio che ti dice nel tempo di un clic chi è più bravo e chi lo è meno!

 

P.S. – Gli estensori di questo articolo sono pensionati e quindi non sono toccati dai dati di Eduscopio. Nel passato hanno diretto Istituti superiori, che hanno “vinto, perso o pareggiato”. Entrambi, pur apprezzando la ricerca di Eduscopio, sono “inorriditi” dal suo utilizzo mediatico.

 

 




L’umiliazione dei licei: secondo il Ministero sono scuole poco impegnative e facili da gestire

di Stefano Stefanel

Una delle prime cose che si insegna a tutti i docenti che vogliono diventare dirigenti scolastici è che ogni provvedimento della Pubblica Amministrazione deve rispondere a canoni di efficienza, efficacia ed economicità.

Se almeno una di queste tre caratteristiche non è soddisfatta allora è meglio lasciar perdere.
Di recente, improvvisamente e a sorpresa, il MIM ha emanato una divisione degli Istituti scolastici in fasce al fine della retribuzione dei dirigenti scolastici.
La retribuzione dei dirigenti scolastici prevede una parte fissa uguale per tutti, eventuali assegni ad personam legati a situazioni del passato transitati nella dirigenza (che residua per non tantissimi casi) e due retribuzioni variabili: una “di posizione” (la complessità della scuola che si dirige) e una “di risultato” (a seguito della valutazione obbligatoria del dirigente scolastico).

Poiché anche i dirigenti scolastici non vogliono farsi valutare a fini stipendiali (come del resto in Italia praticamente tutti ad eccezione degli studenti) e in questo vengono spalleggiati sia dai sindacati generalisti (per intenderci CGIL, CISL, UIL, Snals, ecc.) sia da quelli di categoria (citerei solo ANP) dalla nascita della dirigenza scolastica (1999) nessuno è stato valutato a fini stipendiali.
Praticamente tutti i dirigenti e tutti i sindacati si dicono, a voce alta, favorevoli alla valutazione dei dirigenti (che è prevista per legge), ma poi nei fatti sostengono anche che deve essere “seria” dicendo al contempo che quelle proposte dal Ministero negli anni passati “serie” non lo sono state, determinando di fatto un’assenza di valutazione e che, quindi,  agganciando la retribuzione di risultato a quella di posizione.
Nel passato ci sono state varie tornare di valutazione dei dirigenti, ma nessuna ha avuto ricaduta stipendiale. D’altronde se il valutato può decidere cosa è serio e cosa non lo è nell’ambito della sua valutazione non esiste nessuno così geniale da escogitare qualcosa che venga accettato senza proteste da tutti (tipo il cappone che organizza il cenone di Natale).
In questa situazione, dunque, la retribuzione di posizione/risultato incide sullo stipendio del dirigente e sulla sua situazione pensionistica. Quindi le fasce di livello delle scuole hanno solo un’incidenza sulla categoria dirigenziale e sulle sue retribuzioni. Perciò le fasce di livello interessano solo i dirigenti scolastici e non la scuola e la sua organizzazione. Per circa quindici anni sono rimaste in vigore le vecchie quattro fasce e nessuno parlava dell’argomento, contestava, problematizzava. Dunque di fatto tutti accettavano la situazione così come si era cristallizzata.

Improvvisamente il MIM ha deciso di diminuire i dirigenti (generando degli accorpamenti con modalità bizzarre e ragionieristiche e senza tenere conto di situazioni locali specifiche) e di rivedere le fasce diminuendole da quattro a tre. Il primo provvedimento ha evidenti motivi di economicità (molti meno, direi nessuno, sui versanti dell’efficienza e dell’efficacia), mentre il secondo ha solo creato polemiche perché non rispetta nessuno dei tre requisiti.
Infatti la divisione delle fasce ha mandato, attraverso parametri pensati in modo arcaico e confuso, tutti i Licei non inseriti in un Istituto complesso (gli ISIS) nella fascia più bassa, cioè in quella in cui si prendono meno soldi.
Il messaggio mandato dal MIM è semplice: i Licei danno prestigio, ma sono facili da dirigere, quindi chi vuole più soldi deve andare a dirigere un Istituto comprensivo.
Il messaggio però declassa i Licei che sono, nel bene e spesso nel male, la cartina di tornasole dal sistema scolastico italiano. Il contorto e inefficiente sistema italiano di orientamento (su questo sono intervenute le Linee guida sull’orientamento che finora non hanno molto inciso sul problema, anche perché coniugate con meccanismi attuativi “bizantini” che hanno finanziato l’orientamento verso l’Università, quindi dei trienni delle Scuole superiori, e per niente quello delle Scuole secondarie di primo grado che invitano i bravi a fare i Licei e i meno bravi a fare i Tecnici o i Professionali) produce da anni una concentrazione degli studenti migliori nei Licei e quindi l’efficacia generale dell’Italia in termini di società della conoscenza è ancora delegata soprattutto ai Licei.

Questa è una verità che tutti conoscono, che produce discorsi mediatici prossimi ad un vero e proprio delirio sulla scuola, perché hanno solo i Licei come centro del discorso. Tutta la comunicazione sulla scuola è influenzata dai Licei, visto che gli intellettuali di spicco e che hanno accesso ai grandi canali di comunicazione hanno tutti fatto da giovani il Liceo e, quando parlano della scuola, si riferiscono solo al Liceo in cui hanno studiato (Cacciari, Panebianco, Galli della Loggia, Crepet, Galimberti e via declinando) o in cui hanno insegnato (Mastrocola, Ardone e via enumerando).

Quello che mi permetto di chiedere è: perché si è fatta questa operazione di declassamento? A cosa serve umiliare e declassare il punto alto del sistema scolastico italiano, quello che accoglie gli studenti migliori? Che messaggio viene dato alla categoria dirigenziale? Che idea c’è di scuola?
E – soprattutto – se “chiunque” può dirigere un Liceo, considerato scuola semplice, vuol dire che la professione non deve occuparsi delle sue eccellenze. Perché il problema sta anche qui: cosa si vuole dal dirigente scolastico oggi? Che si occupi degli alunni o dello SPID?
Che abbia a cuore il miglioramento degli apprendimenti o corra dietro alle multe che INPS e INAlL danno a destra e a manca per mancanze tutte loro, ma che nessuno gli contesta?
Che analizzi i percorsi didattici, formativi e di orientamento o consulti graduatorie? Che organizzi percorsi personalizzati per tutti gli studenti in difficoltà o dedichi le sue giornate a compilare piattaforme e graduatorie? Che usi i soldi del PNRR per migliorare il sistema scolastico o per comprare “macchinette” colorate per far salire la spesa del PNRR?  Che si occupi di disabilità, inclusione dispersione o della ricostruzione delle carriere e degli acquisti sotto soglia?

Quando un provvedimento non è efficiente (i Licei nella fascia più bassa sono il massimo dell’inefficienza organizzativa perché si mettono sullo stesso piano Liceo di 500 studenti e Licei di 1500 studenti), non è efficace (perché si comunica che i Licei sono tutti facili da gestire e gli Istituti comprensivi tutti difficili, il che non è un errore ma proprio una stupidaggine), non è economico ( i soldi sono sempre quelli, qui si parla solo di retribuzione dei dirigenti dentro uno schema contabile rigido) l’unico motivo per cui viene emanato è che è punitivo.
Niente di nuovo sotto il sole: il sistema scolastico italiano pare deciso ad andare nel baratro degli adempimenti e dei bassi risultati.
Con i Licei retrocessi in serie C, ma solo perché la D non è stata attivata.

 




Il dirigente scolastico oggi

di Stefano Stefanel 

La preparazione del dirigente scolastico, prima di essere assunto come tale tramite concorso ordinario o tramite straordinarietà varie o sentenze giudiziarie, verte su due elementi che si contrappongono:

  1. la conoscenza teorica e manualistica delle norme del sistema scolastico italiano e la loro declinazione in una struttura perfettamente funzionante dove doveri, obblighi, progetti, controlli e poteri organizzativi si armonizzano in un’idea di scuola come comunità educante coesa e ben inserita nel contesto territoriale;
  2. l’esperienza personale fatta come docente quasi sempre impegnato nella gestione della propria scuola, nello sviluppo di progetti, nella organizzazione del microcosmo autonomo che si colloca dentro il proprio istituto.

Appena assunto in ruolo il dirigente scolastico si accorge, invece, di due cose diverse:

  1. la teoria non coincide con la pratica, perché l’autonomia scolastica ha reso il sistema, in quanto tale, illeggibile e dunque ogni scuola ha una sua chiave di lettura;
  2. l’esperienza pregressa si manifesta subito come un elemento negativo, perché le procedure di una scuola difficilmente si adattano ad un’altra scuola, magari di ordine diverso.

Anche le attività formative in atto per la dirigenza non permettono di supportare l’ordinario, perché si riferiscono comunque a modelli coerenti e generali, mentre la coerenza e la generalità di ogni istituzione scolastica vanno verificate sui fatti. E, infatti, il “fatto” è l’elemento che caratterizza la dirigenza scolastica oggi: quando, come, dove, perché e se avviene un dato “fatto” è, però, del tutto imprevedibile.

Dentro questa incertezza si insinua anche la confusione nata dalla contemporanea presenza nell’organizzazione scolastica di un dirigente scolastico dotato di poteri e responsabilità del servizio e di organi collegiali dotati di competenze. I concetti di “poteri”, “responsabilità” e “competenze” non sono sinonimi e ingenerano tutta una serie di complicazioni nella pratica quotidiana, dove l’equilibrio organizzativo della scuola non passa attraverso uno stato teorico, ma solo attraverso una situazione reale. In alcune scuole l’organo collegiale prevale sulla dirigenza, in altre la dirigenza tende a soffocare l’organo collegiale, in altre ancora l’equilibrio è perfetto: chi ha ragione? Impossibile dirlo, perché bisogna analizzare caso per caso.

C’è poi il rapporto con l’Amministrazione dello Stato, laddove gli Uffici Scolastici Regionali vengono percepiti come uffici locali, quando invece sono uffici ministeriali decentrati: mentre gli Uffici provinciali in alcune parti d’Italia vengono chiamati ancora Provveditorati, in altre Uffici scolastici provinciali, in altre Ambiti Territoriali. Il tutto confonde molti dirigenti scolastici, che sperano in aiuti e consulenze da strutture che invece sono di controllo, e che cercano di ottenere, per le vie brevi, quello che per le vie ordinarie non sono riusciti ad ottenere (per lo più docenti e collaboratori scolastici in organico).

Davanti a questa problematicità, che ha spostato la professione dirigenziale da un’azione collegiale delle scuole in accordo con lo stato alla gestione di “fatti” quotidiani o periodici, le strade, che stanno scegliendo la gran parte dei dirigenti scolastici, sono quelle dell’appartenenza, nella speranza che l’appartenenza possa attutire le problematiche. Dunque, la dirigenza scolastica non pare essere interessata alla costruzione di pratiche condivise, ma semmai a quella di raccordi con chi sembra il più forte, quindi il più in grado di dare aiuto. Il problema è che per i dirigenti scolastici le appartenenze sono plurime: vanno dai sindacati di categoria ai sindacati generalisti, dalle associazioni professionali alle associazioni miste, dalle chat chiuse ai gruppi Facebook, dalle conoscenze personali alle appartenenze ideologiche. Tutto questo fa prevalere lo schieramento alla riflessione e, dunque, la categoria si trova esposta a variazioni che generano incertezza e insicurezza quotidiana, dentro l’oscillazione delle collocazioni dell’appartenenza scelta.

Nella gestione odierna la progettualità delle scuole dovrebbe avere più forza dell’ordinarietà e, infatti, le risorse sono riversate sul PNRR, che è una struttura progettuale che non considera l’ordinario come inamovibile. Invece il tentativo di far entrare il vecchio nel nuovo sta creando malessere nella categoria, che si sente oberata dai progetti dello Stato e non tutelata nell’ordinario. Anche perché un po’ tutte le organizzazioni che agiscono nei confronti delle scuole (sindacati, associazioni, uffici) e l’opinione pubblica danno per scontato che il dirigente scolastico si doti di una governance interna di tipo piramidale, funzionale oggi solo alla gestione di un potere fittizio, perché nella realtà attuale non è più possibile gestire in forma ordinata una scuola attraverso strutture piramidali vicarie.

L’idea che il controllo sulla scuola nasca dalla nomina di due collaboratori del dirigente è un’idea che non sta più in piedi e che costringe quest’ultimo a lunghe riunioni con staff riottosi e spesso non in sintonia con il resto del personale. Inoltre, la distanza per lo più irraggiungibile tra le competenze del Dirigente scolastico e quelle del DSGA ha scavato un solco tra quello che un dirigente vorrebbe fare e quello che il DSGA gli permette di fare, chiavi del “tesoro di famiglia” in mano.

La strada della dirigenza scolastica non può essere l’apparente e allettante scorciatoia dell’appartenenza, perché l’unica strada percorribile è quella della competenza: se i dirigenti scolastici delegassero alcuni momenti di rappresentanza a chi ha più esperienza e competenza forse anche dai soggetti terzi (ministero, enti locali, altre scuole, studenti, famiglie, università) potrebbero venire risposte più sensate. Se invece tutto è demandato all’appartenenza e alla domanda fattuale (“oggi mi è successo questo, cosa faccio?”) vedo una strada futura della dirigenza in grande salita, in cui chi sa prima le cose le usa per fregare gli altri, dove le lamentale prevalgono sulla gestione delle criticità, dove le accuse a agli uffici di segreteria e ai docenti sopravanzano le autocritiche personali. Per delegare a chi ne sa di più bisogna però avere il coraggio di riconoscere che ne sa di più e questo è un passaggio molto difficile per un dirigente scolastico, che si vive troppo spesso come un’enciclopedia senza confini. Davanti ad una realtà che cambia anche la dirigenza deve cambiare, mentre vedo in giro tentativi di far finta che non sia cambiato nulla dall’avvento dell’autonomia scolastica: così diventa tutto una prova di forza, che però non interessa a nessuno (chi ha provato a smuovere l’opinione pubblica a favore della dirigenza scolastica, ad esempio sul tema della sicurezza, ha fatto solo un buco nell’acqua). Una dirigenza scolastica non compresa e non aiutata e che non sa creare le sue strutture di competenza e non di appartenenza viene sommersa da ogni notizia imbarazzante che la riguarda. O si lascia l’appartenenza da parte o il destino sarà quello di una dirigenza scolastica di tipo impiegatizio con un basso stipendio e troppi rischi.

 




Valorizzazione dell’autonomia scolastica, ma anche del centralismo e altri esempi di strabismo politico

di Stefano Stefanel

Ci sono tre locuzioni che stanno quasi come “motto” sopra le scuole, perché costituiscono la cornice ovvia entro cui situare l’autonomia funzionale delle scuole italiane: sono le “finalità generali del sistema”, gli “obiettivi generali del sistema formativo”, i “livelli essenziali delle prestazioni”.  Le prime due locuzioni si trovano nel DPR 275/1999 e la terza alla lettera m) dell’art. 117 della Costituzione così come modificato dalla legge costituzionale n° 3 del 2001. Chi sta fuori dal sistema scolastico nazionale può immaginare di trovarsi di fronte ad un libro in cui finalità, obiettivi e livelli essenziali delle prestazioni siano definiti in modo chiaro ed enciclopedico. Tutto numerato e ordinato, con precisi riferimenti normativi, contratti del personale firmati regolarmente di conseguenza, nessuna sovrapposizione o contraddizione. E invece, il sistema si ordina per salti, senza nessun documento che definisca tutto quello che è in vigore e che deve essere applicato (o disapplicato), con anche le modalità di applicazione.

Forse in un momento così convulso, com’è quello attuale, può essere interessante comprendere perché il sistema si sia ordinato in questo modo e non come una semplice enciclopedia che tutti (giudici inclusi) possono, alla bisogna, consultare. Solo quest’anno il sistema scolastico italiano ha licenziato (finora) le Linee guida per l’orientamento,  la nomina dei tutor e del tutor orientatore, il Liceo Made in Italy che convive con Liceo Economico Sociale, dopo che era stato annunciato che l’avrebbe assorbito, il percorso di 4 e non 5 anni per gli Istituti Tecnici su base vocazionale (scelta delle scuole e scelta delle famiglie), lo sviluppo piuttosto senza regole degli ITS, l’attuazione del PNRR, il PNRR sui “divari territoriali”, i D.M. 65 e 66, il personale ata assunto fino a dicembre sul PNRR e poi prorogabile con le modalità decise dal ministero, ma pagato coi fondi delle scuole, il concorso straordinario per dirigenti scolastici aperto a chi ha perso l’ultimo concorso ma ha fatto ricorso e, poi, molto  altro di varia entità.

Oltre ai provvedimenti ci sono le quotidiane esternazioni sul ripristino dei voti e poi dei giudizi nella scuola primaria, del voto numerico per il comportamento nella scuola secondaria di primo grado, sulla tutela legale per i docenti aggrediti dagli studenti (non ricordo se c’è anche per chi è aggredito dai genitori e per i dirigenti aggrediti da chiunque), sulle norme sull’occupazione delle scuole da parte degli studenti, sulle classi differenziate per gli stranieri e, anche qui, via enumerando. Una volta questi argomenti venivano trattati uno a biennio e davano vita a manualistiche complesse, piuttosto enciclopediche poi confluite tutte nel testo unico del 1994, di cui sono rimaste ampie tracce, ma che è stato, anche lui, modificato attraverso tagli e incollature. Da ultimo, ma non ultimo, il nuovo contratto dei docenti con modifiche ad anno in corso, il tentativo del ritorno tout court in presenza anche laddove è più efficace ed efficiente lavorare a distanza e poi azioni che si sommano ad altre azioni senza sostituirle. Tutto questo con lo sfondo integratore dell’autonomia differenziata che “ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”.

Dentro un simile oceano si potrebbe ritenere che il “dividi et impera” sia la base strutturale del sistema scolastico italiano, ma io credo non sia così. Il sogno di ogni Ministro o di ogni Direttore di Dipartimento o di Ufficio Scolastico sarebbe quello di avere tutto sotto controllo, a cominciare dalla rubrica di ciò che va tenuto sotto controllo. E questo, dal punto di vista solo formale ma non sostanziale, è ciò che avviene. Rimane un vulnus costituzionale, laddove l’autonomia delle scuole prevista dalla Costituzione non è tutelata da alcuna possibilità che le singole scuole (in quanto autonomie funzionali dello Stato) possano impugnare un provvedimento ministeriale che sia ritenuto eccessivo rispetto ai poteri statali, che comunque non potrebbero ledere l’autonomia delle scuole costituzionalizzata. Così i limiti dell’autonomia sono definiti in forma unilaterale dallo Stato, attraverso provvedimenti che dichiarano sempre che questa autonomia è fatta salva, anche se spesso a chi lavora nella scuola non pare sia proprio così.
Quindi il sistema si muove in forma frammentata e plurale perché manca un’idea generale e condivisa che non sia generica o di parte: si sa, però, che le cose generali poi nei particolari fanno annidare i problemi e che in Italia nessuna parte è mai riuscita a prevalere in maniera definitiva.

Quindi sono molti gli elementi che non permettono l’enciclopedia di finalità, obiettivi e livelli essenziali di prestazione, perché il soggetto titolato ad amministrare decide in autonomia i perimetri senza un reale possibile contraddittorio con chi quell’autonomia ha il diritto di applicarla dentro un quadro normativo certo, non incerto e sempre in evoluzione. Per cui tutto è finalità, tutto è obiettivo, tutto è livello essenziale di prestazione e questo determina una sovrapposizione di note, circolari, decreti ministeriali, ordinanze, leggi, decreti-legge, decreti legislativi, regolamenti, dichiarazioni, proposte, interviste e quant’altro la burocrazia e la politica hanno inventato per complicare le cose semplici. Resta il fatto che nessuno tocca organici, orari, discipline, tempi neppure quando tutto questo diventa obsoleto, stantio e rallentante.

L’esperienza del Covid non ha insegnato niente, dato che tutti vogliono tornare al gennaio del 2020, anche a rifare cose che si facevano male a quel tempo e che poi si è dimostrato si possono fare bene in modo totalmente diverso. A tutto questo si somma il fatto che la piramide decisionale non funziona più né a livello di macrosistema, né a livello di micro organizzazione, laddove le risorse e le progettualità provengono da soggetti fuori dalle piramidi ordinarie. Sono nate così le Autorità di gestione e le Autorità di missione, nelle scuole ci sono Animatori digitali, Tutor, Team di progetto. Nascono nuovi nomi (Mentor, Tutor, Facilitatore, Coach) e gli insegnanti si percepiscono non più come centrali, ma tendono, ugualmente, a lavorare come se la centralità fosse rimasta intatta. Così si alimenta la confusione e il Ministro invia circolari prive di valore normativo, mentre l’Autorità di missione condiziona la vita delle scuole dentro finanziamenti epocali. A livello scolastico il collaboratore del dirigente gestisce i quattro soldi delle ore eccedenti, mentre l’animatore digitale può gestire PON e PNRR da centinaia di migliaia di euro. La piramide è crollata, ma tutti la venerano lo stesso.

Il PNRR viene attuato dallo Stato attraverso performance decise dall’Unione Europea ma operativamente attuate dalle scuole. La performance più complessa è quella che riguarda la formazione di almeno 680.000 docenti (sono quelli dell’organico di diritto) che sono conteggiati “per testa” e non “per attestato” (se qualche volonteroso docente frequenta dieci corsi di formazione vale sempre uno). Così una questione strategica, un LEP ovvio (docenti formati che forniscono istruzione di qualità), determina un’inondazione di soldi nelle scuole senza una logica di sistema, perché l’obiettivo è difficile da raggiungere dato che l’obbligo di formarsi non c’è (c’è invece un comico/drammatico diritto, che troppi docenti – soprattutto di materie STEM – declinano come diritto non fare formazione, tanto la materia la so già e se gli studenti non imparano è perché non studiano abbastanza).

Per cui spesso non si comprende se la finalità e l’obiettivo del sistema scolastico italiano siano quelli di diminuire la dispersione implicita ed esplicita oppure quella di bocciare di più, perché nel secondo caso il “gravemente insufficiente” alle primarie è un’ottima intuizione, nel primo caso l’anticamera della catastrofe. Però nella narrazione quotidiana ognuno narra quello che vuole e possono stare insieme un sistema scolastico di alto livello e gli ultimi posti nelle rilevazioni OCSE-Pisa, un sistema scolastico che valorizza la matematica e al tempo stesso la certificazione europea del peggior divario di genere in matematica di tutta l’area OCSE, con le ragazze italiane che tendono a non appassionarsi troppo alle STEM. Con la lettura dei fenomeni in atto si certifica, al tempo stesso, che gli insegnanti di matematica italiani sono ottimi e le studentesse di matematica svogliate ( e si vede ad occhio nudo che non è così). Se non vogliamo dire che il sistema scolastico italiano propugna il principio di non contraddizione per poi contraddirsi, diciamo almeno che il tentativo di attuate l’e pluriumus unum è almeno un po’ velleitario.

Forse però su una cosa possiamo metterci d’accordo: le “finalità generali del sistema”, gli “obiettivi generali del sistema formativo”, i “livelli essenziali delle prestazioni” dovrebbero essere frasi che, inserite in un motore di ricerca qualsiasi, forniscono un bel testo elencativo ed esplicativo alla portata di tutti e comprensibile da tutti. La somma delle pluralità anarchiche non fa unitarietà di sistema neppure nel mondo delle enneadi di Plotino.




La filosofia: come insegnarla (o NON insegnarla). Un bel libro di Massimo Mugnai

Stefaneldi Stefano Stefanel 

Premessa biografica
Mi sono laureato in filosofia a Trieste nel 1979 con una tesi su Ernst Mach e la filosofia della scienza dal titolo Per un dibattito sui rapporti tra il machismo e il materialismo dialettico (relatore Pier Aldo Rovatti) con 110/110. Nel 1981 mi sono diplomato a Padova nella Scuola di specializzazione in Filosofia (indirizzo Estetica) con 70/0 e lode e una tesi dal titolo Percorsi filosofici tra Mach e Musil[1] (relatore Giangiorgio Pasqualotto), poi pubblicata col medesimo titolo. Ho anche partecipato ad un concorso universitario arrivando al terzo posto ma con 100/100 di voto complessivo nelle tre prove (40/40 e 40/40 nei due scritti: uno sull’ontologia in Kant e Hegel e l’altro sulla critica alla metafisica in Nietzsche e Heidegger; 20/20 nell’orale), ma con meno titoli di chi mi ha superato. Ho poi superato 5-6 concorsi a cattedra in filosofia, rinunciando sempre al ruolo nei Licei che avevo vinto per continuare a insegnare alle Scuole medie. Poi dal 2001 ho iniziato a fare il dirigente scolastico e dal 2012 dirigo un Liceo scientifico (quello che ho frequentato da studente). La scelta di rimanere alle medie ha avuto due motivazioni: la prima era che mi sentivo più vicino alla didattica dei Lehrjahren (“veder crescere l’apprendimento dalla parte delle radici” dicevo parafrasando il titolo di un libro degli anni Settanta); la seconda che non intendevo insegnare Storia della filosofia e che per non insegnarla al Liceo avrei dovuto mettermi in conflitto con scuola, colleghi, studenti e famiglie. E quindi ho “fatto” filosofia alle medie (Kinderphilosophie) finché sono diventato dirigente. Oltre al libro sopra citato ho pubblicato molti articoli su riviste filosofiche (Edizione della Società Filosofia Italiana – Sezione Friuli-Venezia Giulia di cui sono stato fondatore e Presidente per 7 anni; Testi & Contesti, Bollettino della SFI Nazionale e altre riviste).

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Il motivo per cui ho tediato il lettore con la tiritera di cui sopra è che il libro di Massimo Mugnai uscito da pochissimo dal titolo Come NON insegnare la filosofia[2] (Raffaello Cortina Editore, Milano 2023) racconta la mia storia ed esprime il mio pensiero come meglio non avrei saputo fare.


La mia adesione alle tesi di Mugnai è assoluta e il dissenso in un paio di punti nasce probabilmente dalla diversità dei nostri percorsi di vita e di studio, più che da una diversa visione della questione. Alla base della tesi di Mugnai c’è quello che io ho sempre pensato: per uccidere la filosofia bisogna insegnare Storia della filosofia agli adolescenti[3]. Il “braccio armato” della storia della filosofia è il manuale liceale. Mugnai descrive il problema così: “La struttura portante del manuale, però, è la stessa da quasi settant’anni: una narrazione della storia della disciplina, secondo la quale le varie teorie e concezioni filosofiche si susseguono nel tempo; è un immane racconto dossografico senza capo né coda[4]”.

Dirlo meglio di così è impossibile e difatti non lo dico. Aggiungo solamente che contestualizzare storicamente il pensiero di un filosofo (o anche di un’opera letteraria) significa sminuirne la forza e tradurre tutto in riassunto, cosa certo utile per gli studiosi, terribile per gli studenti. Quando Protagora scrive che “l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono perché sono e di quelle che non sono perché non sono” e quando Anassimandro dice che “le cose fanno ritorno là da dove sono venute secondo la necessità. In questo modo pagano reciprocamente la colpa di essere mortali” mi pare ci sia poco da aggiungere: c’è solo da argomentare, studiare, analizzare, dibattere, cioè, fare filosofia. Cosa aggiunga il contesto, in cui sono state scritte, alle due frasi sopra riportate proprio non lo vedo. La Storia della filosofia è molto bella (li ho fatti tutti da giovane, quegli esami: Storia della filosofia antica, Storia della filosofia medievale, Storia della filosofia moderna, Storia della filosofia contemporanea: altro a Trieste non c’era, sennò facevo anche quello), ma per gli studiosi, non per gli studenti (anche se studiosi).

La critica ai manuali di Mugnai è perfetta con un unico neo: propone anche lui un manuale sistematico (cioè, sugli argomenti) sulla scia di quello che si fa in varie nazioni che lui cita.
Il manuale sistematico è una bella cosa, ma non è un manuale, è semmai un testo di proposta. Mugnai ricorderà, però, il naufragio di Mario dal Prà, in questo senso, col suo manuale sistematico di Storia della filosofia per i Licei degli Anni Sessanta[5], schiacciato poi dai vari Geymonat, Abbagnano e Fornero, Ferraris, ecc.
Poiché però il rapporto col testo diventa sempre più debole e il tempo sfugge ritengo che la strada da seguire sia quella di fare filosofia a scuola senza alcun manuale, andando sui testi a vedere cosa c’è di interessante. Esemplifico brevemente: per introdurre i Presocratici partirei da quello che di loro dice Aristotele nella Metafisica e andrei a leggere con gli studenti i frammenti che ci sono stati tramandati per vedere se su questo punto Aristotele aveva ragione e se aveva preso un abbaglio (ovviamente io sono per la seconda che ho scritto). E via di seguito: provate a ragionare con gli studenti sulla traduzione di “intelligo id” di Spinoza e fatemi sapere a cosa serva contestualizzare storicamente la prima parte dell’Ethica. [6]

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Esiste anche il problema dei docenti di filosofia su cui Mugnai dice parole definitive. Per cui aggiungo solo alcune considerazioni: molti sono laureati in storia e dunque non hanno un grande background filosofico e quindi hanno oggettive difficoltà ad insegnare filosofia senza i riassunti. Quelli laureati in filosofia per lo più continuano a studiare e ad interessarsi alla filosofia o cercano di agganciare una carriera universitaria. Anch’io avevo quell’idea, pensavo che il mio scopo filosofico fosse quello di dimostrare che Ernst Mach è un Grande Filosofo e non un Filosofo Minore e che con lui lo spinozismo era entrato nelle scienze. Da giovane ero un teoretico antistoricista che avrebbe dovuto per forza di cose insegnare in un Liceo, visto che all’Università non era aria. Ho continuato a studiare filosofia e lo faccio anche ora (ho appena finito di leggere un libro su quel gran pasticcio che si autodefinisce “nuovi realismi”) e mi sono accorto che gli insegnanti di filosofia al mattino parlano e spiegano i Filosofi Maggiori, al pomeriggio si occupano ossessivamente di Filosofi Minori, una volta erano gli epigoni del marxismo, oggi francesi vari e qualche tedesco, mantenendo un certo disprezzo italico per la filosofia analitica.
Leggendo il libro di Mugnai mi è venuta questa domanda: perché gli insegnanti si occupano nei loro studi (pomeridiani) dei Filosofi Minori e spiegano al mattino i Filosofi Maggiori attraverso riassunti (manuali) a giovani di 16, 17, 18 anni? Se è vero che nel mondo gli Studiosi Maggiori (cioè gli studiosi di rango, gli ordinari) si occupano dei Filosofi Maggiori è altrettanto vero all’università gli Studiosi Minori (quelli che vogliono entrare, i ricercatori, gli accoliti, i volontari, gli “sgomitatori”, ecc.) si occupano di Filosofi Minori o di Minuzie Filosofiche.
Allora mi chiedo per quale motivo gli studenti liceali devono sapere cosa pensano i Filosofi Maggiori attraverso riassunti, mentre i loro docenti al pomeriggio dei Filosofia Maggiori non si occupano più (chiedo al lettore di non farsi venire la tentazione di dire perché li hanno già letti tutti). Mugnai tutto questo lo mette in evidenza con grande maestria: “acquisire competenze nell’ambito della storia della filosofia non equivale ad acquisire competenze nell’ambito del ragionamento filosofico[7]”.

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E arriviamo al punto su cui penso che Mugnai ragioni da professore ordinario e quindi non abbia il punto di vista di chi la scuola la vive dal basso. Scrive Mugnai: “Le competenze, perciò, fanno riferimento soprattutto a conoscenze parziali, finalizzate al raggiungimento di determinati scopi: rendere competente uno studente significa dargli la possibilità di mettere in pratica, prima possibile, le conoscenze acquisite[8]”.
A livello altissimo (diciamo, generalizzando, a quello degli ordinari, anche se non proprio di tutti loro) conoscenze e competenze coincidono: chi è esperto sulle ginocchia, sulla guerra del Peloponneso, sugli enzimi o su Pomponazzi ha tutte le conoscenze necessarie e sufficienti che gli servono per essere competente.
Dunque, a livello alto (ho scritto ordinari, non professori di Liceo) spesso il proprio sapere crea confusione sul concetto di competenza. A livello liceale deve esserci un equilibrio tra conoscenze e competenze, perché le competenze senza conoscenze non esistono, mentre troppa conoscenza assemblata e memorizzata uccide la competenza (agli esami di maturità studenti bravissimi a cui si chiede di deviare da quello su cui si sono preparati spesso si perdono tra lo sconcerto dei docenti interni che non si capacitano dell’intoppo). Quindi le competenze non sono uno stratagemma per studenti che valgono poco, ma sono l’unica possibilità che un sapere si cementi in modo da formare quella base su cui far crescere l’apprendimento[9]. “Intelligo id”, dove senza “id” non c’è alcun “intelligo”.

Su un punto Massimo Mugnai coglie quello che è il problema centrale della filosofia in Italia: “se ci domandiamo se è possibile fare filosofia (buona filosofia) senza conoscere la storia della disciplina, la risposta è banale: sì, è possibile[10]. Resta, dunque, incomprensibile perché si voglia continuare ad avere pessimi conoscitori di Storia della filosofia (e anche di Storia della letteratura italiana) quali sono certamente gli studenti e non si va nella direzione delle competenze filosofiche, che sono comunque un’ottima modalità per abituare la mente ad argomentare e ad approfondire. Certamente con i manuali in adozione e le modalità di spiegazione della Storia della filosofia attraverso riassunti di filosofi e dei pensieri filosofici, spesso astrusi, non si sviluppa alcuna competenza e ci si impedisce di riconoscere le competenze che gli studenti nel loro Zeitgeist (spirito del tempo) stanno sviluppando in modo autonomo, come facevamo noi 50 anni fa. Quindi va cercata un’altra strada e io penso sia quella indicata da Mugnai.

In chiusura, dunque, un grande grazie a Massimo Mugnai, sperando che il folle mondo della filosofia (che non è pop [11], nemmeno un po’) cominci ad avere pietà dei suoi studenti e metta fine allo strazio del riassunto raccontato.

[1] Stefano Stefanel, Percorsi filosofici tra Mach e Musil, Lalli, Poggibonsi 1984.

[2] Massimo Mugnai, Come NON insegnare la filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023.

[3] Nel 2014 sul sito Pavone Risorse ho pubblicato un breve articolo dal titolo: Filosofia nei Licei: ripartire da zero, che ha avuto un effetto pressoché nullo. (http://www.pavonerisorse.it/scuolaoggi/filosofia_nei_licei.htm).

[4] Ibid, pag. 76.

[5] Mario Dal Prà, Sommario di storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1964 e successive ristampe.

[6] Sempre dalla mia (noiosa) biografia: ho insegnato per 22 anni alle scuole medie e non ho mai – dico mai – adottato un manuale. I ragazzi hanno sempre comprato libri, non manuali. Libri integrali, non per le medie. Si sono laureati, lavorano, hanno filosofato da ragazzi. Di questo ho scritto in alcuni interventi pubblicati sulla Kinderphilosophie.

[7] Mugnai, cit, pag. 174.

[8] Ibid, pag. 72. A completamento di questo passo rimando alla perfetta fotografia del passato, una sorta di descrizione della mia vita da studente liceale: “Si può dire che la scuola degli anni Sessanta fornisse agli studenti molta informazione, ma che la formazione fosse il frutto di un’attività di acculturazione in buona parte autonoma e individuale”, pag. 167.

[9] La frase: “E’ evidente che, negli ultimi dieci anni, il livello delle competenze degli studenti delle superiori si è notevolmente abbassato, in quasi tutte le materie” (Ibid, pag.. 165) tradisce il punto di vista del professore ordinario. Non si è abbassato proprio un bel niente, anzi nei giovani c’è un notevole aumento di competenze, che però non sono ancora state rubricate dalle università e dalla scuola e quindi vengono ritenute inutili. Invito il prof. Mugnai (si fa per dire, credo non leggerà nemmeno una riga di quello che ho scritto) a verificare il tasso di resistenza e resilienza dei giovani rispetto a saperi obsoleti, stantii, baronali che vengono dispensati come sapere assoluto e la loro capacità di uscirne con grandi disposizioni verso un futuro molto più incerto e incerto del nostro.  L’opinione del prof. Mugnai su Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, pag. 167 mi trova lontanissimo: sono due personaggi oscuri, che scambiano un liceo classico di Torino per il sistema scolastico nazionale.

[10] Ibid, pag. 48.

[11] Ibid, “Filosofia pop e filosofia tradizionale”, pag. 146.




Gli apprendisti stregoni dell’autonomia differenziata applicata alla scuola

di Stefano Stefanel

Nel generalizzato disinteresse generale si sta sviluppando sotterraneamente e mediaticamente l’applicazione dell’autonomia differenziata, inserita in Costituzione nel 2001 con la legge costituzionale n° 3 del 12 marzo 2001 emanata il 18 ottobre 2001 a seguito del referendum popolare confermativo del 7 ottobre 2001 (10.433.574 voti favorevoli, 5.816.527 voti contrari, 229.376 schede bianche e 363.943 schede nulle).
L’autonomia differenziata riguarda molti settori e quello scolastico non si sottrae a questo esperimento di ingegneria costituzionale che non pare riuscito finora benissimo, almeno a livello teorico.
L’autonomia differenziata è una novità per quindici regioni italiane, mentre di fatto già c’era negli statuti speciali per le cinque Regioni individuate dalla Costituzione del 1948 (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta), anche se tre delle cinque regioni hanno applicato le norme anche sulla scuola soprattutto per l’applicazione di trattati internazionali (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Bolzano, il Friuli Venezia Giulia per la minoranza di lingua slovena, la valle d’Aosta per le norme di collegamento con la Francia) e una sola (il Trentino Alto Adige per la sola provincia di Trento) ha realmente regionalizzato la scuola per decisione non derivata da norme internazionali con la legge n° 5 del 7 agosto del 2006.

In questo momento l’autonomia differenziata applicata alla scuola viene rivendicata da poche Regioni e – tra tutte – solo il Veneto pare avere le idee chiare su cosa fare e pretende una totale regionalizzazione del sistema scolastico, uscendo di fatto dal sistema scolastico nazionale. Ci sono delle parti politiche interessate all’autonomia differenziata e parti che sono ostili anche alla sola idea inserita in Costituzione (queste ultime sono soprattutto forze di centro sinistra e sindacali, che paiono essere diventate nemiche dell’autonomia differenziata pur avendola inventata). Ma nel complesso l’opinione pubblica non è interessata alla cosa, la sente distante e non guarda con interesse oltre la scuola frequentata dai propri figli.


E allora, verrebbe da chiedersi, dove sta il problema? Anche perché tutto va a rilento e i Livelli Essenziali delle Prestazioni, che dovrebbero definire il quadro economico di partenza e la solidarietà nazionale alle parti del territorio nazionale che quei livelli non li raggiungono nemmeno lontanamente, sono più uno schema di lavoro che una solida base di partenza.

DOVE STA IL PROBLEMA

Il problema sta in alcuni punti del (mancato) dibattito che si possono così riassumere:
a) l’applicazione dell’autonomia differenziata richiederebbe una unanimità di intenti di tipo federalistico in tutta Italia, in modo che si vada verso uno stato con elementi di federalismo dentro l’unitarietà nazionale confermata, mentre invece stanno venendo avanti proposte autonomistiche legate a forze politiche partitiche con progetti di parte, indifferenti a qualunque richiamo ad un disegno unitario (ad esempio quella del Friuli-Venezia Giulia che propone di regionalizzare il solo Ufficio scolastico regionale);
b) l’autonomia differenziata nella scuola non deve riguardare l’intero sistema di istruzione, ma può riguardare anche singole e marginali parti di quel sistema, il che vuol dire che non è necessario per regionalizzare avere un progetto generale e organico, ma è possibile anche intervenire su piccoli punti, molto adatti alla propaganda politica e poco alla gestione quotidiana delle scuole;
c) non tutto ciò che riguarda l’autonomia differenziata abbisogna di LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) e dunque è possibile anche regionalizzare parti del sistema scolastico partendo dal proprio punto di vista e non da quello generale: l’esempio più eclatante è quello del segmento 0 – 6 (da zero a sei anni, scuola non dell’obbligo, asili nido, sezioni primavere, scuole dell’infanzia in parte consistente non di proprietà statale) attualmente per lo più in mano a soggetti non statali e quindi non “tabellabile” dentro livelli di prestazione nazionali;
d) una volta approvati i LEP è possibile che le regioni più ricche (Veneto e Lombardia in testa) li accettino a scatola chiusa, perequazione a favore del meridione italiano inclusa, e dunque a quel punto il sistema scolastico nazionale si sfaldi, anche perché i LEP possono prevedere livelli alti di prestazioni (che solo le Regioni più ricche possono fornire), ma anche LEP più realistici che – paradossalmente – possono produrre un vantaggio economico per le regioni più ricche e che quindi diventerebbero elemento politico vincente (il presidente della regione Veneto Zaia e l’assessore all’istruzione Donazzan qualche tempo fa hanno dichiarato che vogliono regionalizzare la scuola veneta per stabilizzare i docenti attraverso aumenti stipendiali che possono tranquillamente erogare).

LA CONFUSIONE DELLA POLITICA

Una materia così tecnica e sistemica dovrebbe essere maneggiata solo dagli esperti del settore e dovrebbe avere dei passaggi esplicativi chiari nei confronti dell’opinione pubblica, destinata a portare bambini e ragazzi a scuola almeno finché non nasce una modalità alternativa all’istruzione, cioè, dico io, per almeno altri duecento anni. Invece tutto è lasciato in mano a politici e giuristi che col mondo della scuola non hanno alcuna familiarità. Lo si vede chiaramente da quanto viene portato all’attenzione pubblica sui documenti (per lo più segreti) di cui si sta discutendo in parlamento e nei consigli regionali.
Perché avviene questo? Io ritengo per un motivo molto semplice: un qualunque professionista della scuola può smontare il tutto in un batter d’occhio, perché quello che viene proposto mediaticamente ha come primo obiettivo quello di smantellare il sistema scolastico nazionale, che sta alla base della nostra costituzione e della nostra convivenza civile e che in Italia pochissimi vogliono, invece, smantellare a favore di regionalismi collegati alla propaganda politica.
Ci son però dei fatti molto gravi, alcuni dei quali talmente di dettaglio da essere praticamente invisibili (ma si sa che il diavolo sta nel dettaglio). Recentemente il Governo ha razionalizzato (tagliato) la rete scolastica eliminando alcuni posti in organico di diritto di dirigenti scolastici e direttori dei servizi generali e amministrativi.
Il provvedimento ministeriale è stato di tipo contabile e naturalmente poteva essere osteggiato da chi lo riteneva sbagliato. Ma alcune regioni, governate dal centrosinistra, hanno impugnato il provvedimento chiedendone il suo ritiro perché avrebbe violato la potenziale autonomia regionale e forze di opposizione al centrodestra hanno accusato i “governatori” regionali di non aver difeso l’autonomia regionale. Se lo si analizza dal punto di vista di un sistema scolastico regionale è molto grave chiedere l’applicazione dell’autonomia differenziata su un singolo provvedimento, perché chi governa attualmente le Regioni ha allora diritto ad applicare quell’autonomia come ritiene meglio di fare.

O l’autonomia differenziata è una riforma in applicazione della costituzione che non deve toccare l’idea di sistema scolastico nazionale, ma solo definire in forma autonoma le specificità regionale, oppure se la si può richiamare ogni qual volta qualcuno a livello centrale decide in maniera diversa da come la si pensa allora tutto diventa lecito: sia quello che si decide a destra, sia quello che si decide a sinistra, senza tenere in alcun conto l’interesse generale, ma occupandosi solo dell’interesse di parte. Anche perché – io penso – se si regionalizzassero i dirigenti scolastici e i direttori dei servizi generali e amministrativi (cosa possibilissima) lo Stato perderebbe su di loro immediatamente il potere di “razionalizzazione”, ma si assisterebbe a quella che – per me -sarebbe un’involuzione inqualificabile di un sistema scolastico nazionale, che vuole la sua dirigenza scelta attraverso concorsi pubblici e nazionali, anche se su base numerica regionale.

E DUNQUE COSA VUOL DIRE REGIONALIZZARE

Per capire cosa vuol dire regionalizzare un sistema scolastico o una sua parte porto solo alcuni sintetici esempi. In sé ognuno di questi esempi porta dei vantaggi per chi regionalizza e immediatamente svantaggi per gli altri, ma sono tutte questioni molto tecniche che chi sta dentro la scuola vede bene e chi sta fuori dalla scuola difficilmente comprende:

a) Sistema 0-6: in questo momento è già “selvaggiamente regionalizzato”, nel senso che i servizi che ci sono al nord non ci sono al sud e che il livello delle prestazioni non è definibile a livello nazionale, anche per una carenza strutturale di edifici adatti all’infanzia. Il sistema attualmente è diviso in due segmenti (0-3: asili nido e 3-6: scuole dell’infanzia) con un segmento di unione (sezioni primavera) e solo il secondo segmento vede la presenza diretta dello stato con le scuole dell’infanzia statali. Su questo segmento insistono 7-8 contratti diversi per personale di diversa derivazione, con una babele normativa che non ha niente di nazionale o sistematico. Ora se una regione regionalizzasse questo segmento facendolo diventare tutto regionale si accollerebbe una spesa notevole, ma al tempo stesso interverrebbe massicciamente sul welfare delle famiglie a cominciare da quelle più giovani, che hanno figli piccoli. Ma in questo modo l’omogeneità del sistema nazionale “scapperebbe” per sempre.

b) Organico del personale della scuola: è regionalizzato solo in Trentino e costa un mucchio di soldi, perché la regionalizzazione ha aumentato gli stipendi del personale. Diciamo che questa tipologia di regionalizzazione è la più costosa e per ora la rivendica solo il Veneto: è una gabbia salariale di nome diverso, che parte da un reclutamento e una formazione regionale e non nazionale.

c) Istruzione tecnica e professionale e formazione professionale: questa regionalizzazione toglierebbe quel tipo di segmento di istruzione dal sistema scolastico nazionale potendo prevedere anche qualifiche di tipo diverso decise dalle regioni per tutta la filiera e – soprattutto – toglierebbe il dualismo tra formazione e istruzione professionale, gestendo qualifiche e percorsi in forma diretta.

d) Ufficio socialistico regionale: regionalizzare solo l’ufficio scolastico (che si chiama regionale, ma è di fatto un ufficio statale che agisce nelle singole regioni, ma risponde al Ministero) significherebbe far dirigere il personale dello stato selezionato con concorsi statali (dirigenti, direttori, docenti, ata) da personale di nomina regionale, mettendo la politica regionale in posizione di vantaggio rispetto alla gestione del sistema.

Mi fermo qui perché questo è solo un articolo. Tutto quello che ho scritto meriterebbe approfondimenti passo per passo, mentre vedo in giro poco interesse e soltanto posizioni di parte, prive di qualunque logica di sistema. Cioè, vedo molti apprendisti stregoni su una questione come la scuola dove si ha a che fare con le menti e le intelligenze di tutta la gioventù italiana.




Scuola bene comune, un libro che spiega perché la nostra scuola è malata e cosa fare per farla stare meglio

di Stefano Stefanel

È uscito da poco un libro di Aluisi Tosolini, dal titolo molto intelligente: “Scuola bene comune” (Edizioni EMI, Brescia 2023), che parla di scuola e sulla scuola. Che la scuola sia realmente un “bene comune”, come l’acqua, è cosa molto chiara all’Europa, ma molto meno chiara all’Italia, dove riforme raffazzonate e politiche incomprensibili hanno supportato gli interventi della politica, nel complesso tutti tesi a smontare quello che il compianto Luigi Berlinguer aveva costruito. Prevenendo e prevedendo la crisi sistematica dei sistemi dell’istruzione l’Europa ha avviato percorsi di analisi (i “libri bianchi” ed “Education at Glance”, il “periodico” annuale sulla scuola dell’OCSE), poi programmi ambiziosi (Lisbona 2010, EU 2020 e l’attuale Next Generation Eu da noi ribattezzato, chissà perché, PNRR), infine linee di progetto con ampi finanziamenti al seguito. In Italia la risposta è stata inizialmente ottima con la trasformazione della scuola italiana nell’ambito di un’autonomia di rango costituzionale per poi perdersi dentro riforme partitiche, settoriali, casuali. L’Europa ha fatto il suo percorso con una linearità e una consecuzione che Aluisi Tosolini ricostruisce mirabilmente, rimandando ad una serie di importanti documenti con grande precisione e attenzione. Se si segue la linea narrativa di Tosolini si può ricostruire con attenzione il quadro d’insieme che ha portato l’Italia dove è ora (cioè, nelle parti basse dei sistemi dell’istruzione dell’area Ocse). Ma si può anche comprendere come il sistema scolastico italiano, dentro i suoi quotidiani contorcimenti tra modalità ripetitive e ferrei diritti sindacali difficilmente potrà in tempi brevi uscire dalla crisi.

MA COS’E’ QUESTA CRISI

Lasciamo la parola a Tosolini: “il quadro complessivo segnala oggi un aumento significativo a livello mondiale della disuguaglianza in tutti gli ambiti e settori” (pag. 35). Questa disuguaglianza fa il paio con la drammatica ascesa delle povertà educative: “la correlazione tra povertà e povertà educativa è nota e conclamata” (pag. 44) e tutto questo porta ad una progressiva perdita di learning loss, ovvero “perdita di apprendimento” (pag. 45). Questo corto circuito sta avvelenando i sistemi dell’istruzione, a cominciare dai più fragili, cioè da quelli come il nostro. E tutti i soldi che vengono trasmessi oggi alle scuole, senza un quadro di riferimento chiaro, poco potranno fare. Ma come può esserci un quadro di riferimento chiaro, quando il percorso narrato da Tosolini è sconosciuto alla gran parte dei dirigenti e dei docenti italiani, ancora alle prese con le modalità didattiche ed educative sedimentatesi negli Anni Settanta del secolo scorso? Su questo Tosolini è molto chiaro e preciso: senza una comprensione chiara dello scenario digitale e globalizzato in cui è inserita la scuola si può poco o nulla. Tosolini rimanda agli obiettivi dell’OCSE e ne isola due: “la definizione di global competence e l’aggiornamento del concetto di competenza” e “la rivisitazione del concetto di apprendimento e ambiente di apprendimento” (pag. 89). È chiaro che, mentre l’OCSE modifica i suoi parametri, in Italia stiamo tornando ai dibattiti sui voti, sui contenuti, sulla didattica trasmissiva, sulle bocciature, siamo cioè ripiombati nell’altrove più lontano da quelli che sono gli elementi di progresso cognitivo, dentro il poderoso avanzamento della serrata difesa dell’insegnamento da qualunque attacco portato dalle obiettive necessità dell’apprendimento.

Interessante come Aluisi Tosolini analizza l’Obiettivo n° 4 dell’Agenda 2030: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Questo obiettivo, all’apparenza ovvio, contiene un elemento di grande profondità che modifica gli equilibri dei sistemi formativi. Nell’obiettivo si citano la qualità, l’equità, l’inclusività e le opportunità di apprendimento, ma non si parla di eguaglianza? Perché ci si domanda allora? E il libro di Tosolini fornisce il percorso per comprendere come rispondere a questa domanda: perché l’eguaglianza si costruisce dentro una cultura della pace, dentro uno sviluppo delle competenze, dentro un’equità che permetta a tutti di essere inclusi. Purtroppo, quindi, dentro un percorso lontano da quello che prevede il sistema dell’istruzione italiano, in cui all’eguaglianza dichiarata non corrisponde una vera equità di fatto: come si dice spesso, l’ascensore sociale ha smesso di funzionare. Se la scuola è un bene comune che va rafforzato ecco che allora è necessario riprendere in mano le modalità di costruzione dell’apprendimento: “vanno incoraggiate condizioni di autonomia, flessibilità e agire collaborativo”, cioè quegli elementi che le classi di concorso, i rigidi orari, le valutazioni docimologiche, il rapporto irrisolto col sapere informale e non  formale condizionano in maniera decisiva in ogni serio tentativo di far uscire il sistema scolastico italiano dalle secche delle sua difficoltà. E infatti Aluisi Tosolini ci riporta alla necessità di “rispondere alla crisi globale dell’istruzione, che riguarda l’equità e l’inclusione, la qualità e la pertinenza” (pag. 73) e quindi non verso una generica eguaglianza dichiarata da tutti e praticata da pochi, con richiami costanti a don Milani di maniera e non di contenuto, ma dentro un sistema equo e riflessivo, più professionale (pag. 72: “l’insegnamento deve essere ulteriormente professionalizzato”).

L’EDUCAZIONE TRASFORMATIVA

Un passaggio essenziale del bel libro di Tosolini è quello che richiama la necessità e l’importanza di ragionare in termini di “educazione trasformativa” (pag. 77), cioè di un sapere sempre in movimento dentro i due grandi elementi della nostra contemporaneità, che Tosolini affronta in due appositi capitoli: il digitale e la pace. Se non comprendiamo che quella del digitale è una sfida ineludibile e quella della pace una cultura che va costruita, ci limiteremo a sperare che improvvisamente gli smartphone spariscano dalla scuola e a constatare che la pace è solo una bandiera colorata da sventolare alle manifestazioni. In realtà il percorso trasformativo della conoscenza passa attraverso la trasformazione di un sapere statico ed autoreferenziale in un sapere trasformativo che può cambiare le cose.  Troppo puntuale per essere eludibile il libro di Tosolini ci aiuta a capire che cosa è successo con una mole documentale che dovrebbe diventare patrimonio comune per farci costruisce quella “scuola bene comune” che poggia su solide fondamenta e che non affonda, invece, nella melma di un dibattito pubblico veramente avvilente.