Quando l’educazione all’affettività si faceva anche senza Valditara e senza gli influencer

di Nicola Puttilli       

Alcuni giorni fa un’insegnante della scuola che dirigevo a Nichelino, realtà allora particolarmente problematica dell’hinterland torinese, mi ricordava con un messaggio che più di una ventina di anni fa istituimmo nella scuola elementare un laboratorio di educazione all’affettività e alla sessualità, osservando, con una punta di ironia, come già allora fossimo all’avanguardia, anche senza il supporto degli influencer.

Influencer o meno l’avvio del laboratorio fu reso possibile grazie a quel poco di organico funzionale e di risorse aggiuntive (L 440/97) che accompagnò la prima attuazione dell’autonomia scolastica, voluta dall’allora ministro dell’istruzione, recentemente scomparso, Luigi Berlinguer.
Il laboratorio, così come lo stesso tentativo di dare vita a una vera, per quanto iniziale, autonomia, ebbe breve vita. Il ministro che, come non bastasse l’autonomia, si era messo in testa di riformare anche gli ordinamenti scolastici, sostanzialmente risalenti alla riforma Gentile, fu presto trafitto dal fuoco amico e costretto alle dimissioni.

Dal 2001, ministro Letizia Moratti, cominciarono gli anni delle vacche magre: tagli indiscriminati, di finanziaria in finanziaria, fino a praticamente dimezzare in poco più di un ventennio la quota di PIL destinata all’istruzione. Operazione, quest’ultima, in cui si distinse per accanimento e perseveranza la ministra Gelmini.

L’autonomia scolastica si tradusse presto nello scarico verso le scuole di tutte le procedure burocratiche e amministrative che prima facevano capo ai provveditorati agli studi. Gli organici funzionali furono rapidamente dimenticati e nella scuola primaria tagliate drasticamente  le compresenze sul tempo pieno, rendendo sempre più difficili quelle preziose esperienze laboratoriali che ne avevano caratterizzato la nascita negli anni’70.
Negli altri ordini di scuola è costantemente lievitato il numero di alunni per classe e per converso drasticamente diminuito il numero di autonomie scolastiche (istituzioni oggi per lo più sovradimensionate, cariche di compiti amministrativi, con il dirigente scolastico sempre più lontano dai temi educativi e didattici che dovrebbero invece maggiormente caratterizzarne la dimensione professionale).

Gli esiti di questa fallimentare politica scolastica purtroppo li conosciamo bene: risultati di apprendimento insoddisfacenti, deficit relazionali e comportamentali, dilagante analfabetismo di ritorno, tassi di abbandono e dispersione tra i più alti d’Europa e con fortissimi squilibri regionali e territoriali.

Con l’eccezione della legge 107/15, anch’essa peraltro declinata burocraticamente, dopo Berlinguer i governi e i ministri che si sono succeduti hanno praticamente rinunciato a occuparsi di scuola, considerandola una riserva di caccia per le leggi finanziarie e limitandosi a interventi di piccolo cabotaggio (chi ricorda il “cacciavite” di Fioroni?) o, peggio, tesi a lasciare una qualche traccia purchessia della propria presenza (per onor del vero c’è stato anche il caso del ministro Fioramonti che si è dimesso perché gli investimenti promessi non erano stati confermati, o almeno così ha dichiarato, caso unico per quel che riguarda le dimissioni, regola confermata per i mancati investimenti).

Si sono così ripetute, a seconda degli echi di cronaca del momento, le misure, più o meno andate a segno, tese ad imporre dall’alto ore aggiuntive praticamente su tutto. Dall’educazione stradale in caso di incidenti gravi, all’educazione motoria cara al ministro già insegnante di educazione fisica, nella primaria. Dall’orientamento quando la pubblica opinione discute del disallineamento tra offerta formativa delle scuole ed esigenze del mondo imprenditoriale, all’educazione civica se il tema del giorno è quello del bullismo, fino all’ educazione alle relazioni e ai sentimenti (per la sessualità si può sempre aspettare) in caso di femminicidio, senza dimenticare le ore di religione cattolica già presenti dal 1984.

Nella mente dei nostri ministri continua a prevalere l’idea dei vasi da riempire, come se i comportamenti derivassero più dalla quantità dei contenuti appresi che dalla qualità degli stessi e, soprattutto, dalla qualità degli approcci metodologici e delle relazioni che gli insegnanti sono in grado di impostare fin dalla scuola dell’infanzia e a prescindere dalla specifica disciplina di insegnamento, in ogni istante del loro rapporto con gli studenti.

I problemi della scuola italiana sono enormi e strutturali, a poco servono interventi- immagine e ore aggiuntive distribuite qua e là. Anche se le riforme di sistema, nella scuola in particolare, non hanno mai pagato politicamente, sarebbe forse ora di assumersi la responsabilità di ritornare a una visione generale, a un progetto di grande respiro in grado di dare speranza alla nostra scuola.
Le vie individuate da Luigi Berlinguer più di venti anni fa possono ancora  essere un importante punto di riferimento: sia la riforma dei cicli utile a contrastare la selezione precoce e la successiva dispersione scolastica sia, e soprattutto, una vera autonomia scolastica.

Più di vent’anni fa a Nichelino IV circolo eravamo stati in grado di intercettare le esigenze del territorio e di fornire risposte significative, senza imbeccate ministeriali e tanto meno interventi di influencer o simili dell’epoca. La scuola italiana ha bisogno di investimenti importanti, dalla sicurezza delle scuole alla  qualità degli ambienti di apprendimento, fino alla formazione del personale- Non sarebbe male cominciare con il rispedire agli uffici ministeriali territoriali scartoffie e pratiche burocratiche varie e dare fiducia e mezzi, in termini di organici funzionali e di risorse, ai nostri insegnanti e ai nostri dirigenti scolastici, riprendendo, là dove l’avevamo lasciata, la strada di una vera autonomia scolastica.




Con il PNRR molti soldi per molti progetti, ma manca un progetto

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Nicola Puttilli

Sta crescendo la sensazione che anche per la scuola la valanga di risorse che si sta riversando con il PNRR sia, appunto, soltanto una valanga, una massa imponente e inattesa destinata a sciogliersi nel tempo senza, praticamente, lasciare traccia. In questi mesi assistiamo al paradosso di dirigenti scolastici che lamentano l’arrivo massiccio e continuativo di finanziamenti, quasi sempre vincolati alla digitalizzazione, manifestando quasi il pudore di dover continuare a spendere per materiali e servizi di cui già si ha ampia disponibilità o, comunque, considerati non prioritari. Senza dubbio una singolare constatazione per un sistema che ha visto un progressivo e inesorabile depauperamento di risorse nell’ultimo trentennio.

Ma il paradosso che colpisce maggiormente, nell’epoca della moltiplicazione dei progetti e dei progettifici, è proprio la mancanza di progetto.
Il più grande problema della scuola italiana, sia in termini di equità sociale sia di freno allo sviluppo economico del Paese, è quello della dispersione scolastica e della forte disomogeneità nell’acquisizione di competenze fra i diversi territori (nord-sud, centro-periferie, ecc).
Basta dare uno sguardo ai paesi che più e meglio di noi hanno risolto questo problema per capire che la chiave sta tutta in una didattica attiva, modulare, laboratoriale, attenta alla qualità della relazione. L’esatto contrario della didattica frontale e trasmissiva, inesorabilmente uguale per tutti, da sempre imperante nelle nostre scuole. Del resto c’è poco di che stupirsi, né più né meno di ciò che, dall’inizio del secolo scorso, hanno sostenuto tutti i pedagogisti più illustri , da John Dewey alla nostra Maria Montessori, fino a  Célestin Freinet che ha, fra l’altro, ispirato quel Movimento di Cooperazione Educativa che ha fortemente contribuito all’unica vera riforma dal basso, la sola possibile, della nostra scuola.

Trasformazione in senso democratico e ugualitario, suggellata ed enfatizzata dalla lettera di Don Milani, ma che ha avuto insormontabili limiti di natura storica e geografica. Ha infatti dato il meglio di sé tra i primi anni ‘60 e la fine degli anni ’70, soprattutto in alcuni comuni del nord decisi a investire in educazione nelle scuole materne, allora non ancora di competenza statale, con esiti di assoluta eccellenza (Reggio Emilia, Torino, Milano, Bologna, per citarne alcuni) e nella scuola elementare, di nuovo principalmente al nord, fino a produrre fondamentali provvedimenti legislativi come la legge 820 sul tempo pieno e la 517 sulla valutazione formativa e l’inserimento dei disabili.


A distanza di molti anni non appare un semplice caso se negli ordini di scuola e nelle zone del Paese maggiormente toccati dall’innovazione didattica si registrano, ancora oggi, gli esiti migliori per la scuola italiana, anche nelle comparazioni internazionali per la primaria. Resta, d’altro canto, la percezione di come la forte spinta innovatrice di quegli anni abbia sicuramente lasciato tracce ben presenti nelle nostre scuole,  ma non le abbia tuttavia modificate nel profondo e, soprattutto, in modo generalizzato.

Sull’onda della destra governante assistiamo sempre di più a un’opinione pubblica che attribuisce, ideologicamente e senza alcun dato di fatto, al post ’68 tutti i mali, o quasi, della nostra scuola. Verrebbe da rispondere che di ’68 ce n’è stato troppo poco o che è finito troppo presto, non che ce n’è stato troppo. Al di là, infatti, di una buona dose di massimalismo e di velleitarismo, sicuramente controproducente ma quasi fisiologica in un movimento così massiccio e dall’esordio così tumultuoso, furono poste allora le premesse per un rinnovamento complessivo della nostra scuola che non hanno purtroppo trovato seguito nei decenni a venire.

Ciò che è mancato, e che continua clamorosamente a mancare, è stata la canalizzazione delle molteplici spinte riformatrici in una visione di insieme e la sua traduzione in un progetto di medio- lungo termine. I principali nodi problematici della nostra scuola sono nodi storici e soprattutto fortemente interrelati, non si possono sciogliere singolarmente ma solo attraverso un approccio sistemico.

  • Gli spazi di apprendimento: quasi tutte le nostre scuole sono predisposte per una didattica trasmissiva e frontale, spazi tutti uguali per ripetere all’infinito il rito della lezione collettiva, una palestra (non sempre e spesso inadeguata) per l’attività fisica, qualche spazio rimediato qua e là per i laboratori e un locale mensa nei casi più fortunati, quasi mai al sud. Le scuole italiane sono per lo più vecchie e insicure, nella maggioranza manca perfino il certificato antincendio. Non è procrastinabile un piano nazionale di rinnovamento e messa in sicurezza certamente molto impegnativo sul piano finanziario, ma di cui il PNRR può costituire un primo, importante tassello. La costruzione di nuove scuole o la riconversione e messa a norma di quelle esistenti dovrebbe considerare le esigenze di una didattica attiva e rinnovata; esperienze molto significative in questo senso, alle quali fare riferimento, esistono nel nostro Paese e soprattutto all’estero.

A metà degli anni ’70 a Torino, dove vivo e ho lavorato,  furono costruiti alcuni plessi scolastici con caratteristiche molto innovative sulla scorta dell’esperienza della scuola a tempo pieno, nato nel quartiere popolare delle “Vallette”, che cominciava ad avere in città una certa diffusione: pareti delle aule mobili per diversificare gli spazi, buca per il teatro, spazi esterni dedicati agli orti, ecc. Dopo una decina d’anni le pareti erano diventate fisse, la buca per il teatro ricoperta, gli spazi esterni restituiti alla libera ricreazione. Spazi innovativi di apprendimento rischiano di essere una spesa inutile se non affiancati da un serio piano di formazione.

  • La formazione del personale: la legge definisce la formazione come strutturale, obbligatoria e permanente ma, di fatto, non è così. I vincoli contrattuali limitano fortemente queste caratteristiche fino a ridurla a una sorta di benemerito volontariato. Le risorse, pur cospicue in questa fase, arrivano alle scuole in modo disorganico rischiando di convergere su iniziative non proprio prioritarie o nelle mani delle realtà  più virtuose che meno ne avrebbero bisogno. Un serio piano nazionale richiederebbe obiettivi espliciti e dichiarati, finanziamenti adeguati e valide strutture di supporto alle scuole in grado di fornire progettazione ed esperti di qualità. C’erano una volta gli IRRSAE (Istituti Regionali per la Ricerca la Sperimentazione e l’Aggiornamento Educativo), a un certo punto qualcuno ha cominciato a sostenere che fossero inutili e costosi carrozzoni. Per quello che può valere l’esperienza personale ne ho avuto una percezione totalmente diversa e resto convinto che la loro soppressione fosse principalmente dovuta a mere ragioni di risparmio, piccola parte di quel taglieggiamento partito a metà degli anni ’90 e che ha portato, in quasi un trentennio, a praticamente dimezzare la quota di PIL destinato al sistema nazionale di formazione. Strutture simili, ovviamente rivisitate e adattate alle esigenze attuali, sarebbero invece di grande utilità.

Un serio e qualificato piano di formazione, inserito in un progetto di rinnovamento partecipato e credibile, potrebbe anche essere motivante per il personale docente ma comporterebbe nuovi carichi lavorativi e comporterebbe il superamento degli attuali vincoli contrattuali, si tratterebbe realisticamente di porre in essere un altro contestuale e massiccio intervento.

  • Gli stipendi e la carriera dei docenti: nella primavera del 2019 la commissione europea inviava una formale raccomandazione al governo italiano affinché provvedesse sollecitamente ad aumentare gli stipendi degli insegnanti, di gran lunga fra i più bassi di Europa. Da allora nulla è cambiato, i previsti e rituali aumenti contrattuali nel frattempo intervenuti non hanno in alcun modo colmato il divario, né introdotto alcuna realistica possibilità di carriera. Difficile pensare che una categoria frustrata sul piano stipendiale, oggetto di scarso riconoscimento sociale e lontana dalle attenzioni della politica possa partecipare con entusiasmo a un grande processo di cambiamento come quello che sarebbe necessario e senza gli insegnanti, l’esperienza lo dimostra, non si va da nessuna parte.

Molti altri sono evidentemente i problemi irrisolti della scuola italiana ma quelli sopra delineati sono passaggi obbligati se si vuole tentare seriamente di recuperare il “gap” con i paesi europei più evoluti. I ritardi accumulati sono enormi ma non esistono alternative anche se, al punto in cui siamo, i costi potrebbero sembrare proibitivi. Ancora una volta sono decisive la “capacità di visione” e la volontà della politica, quelle che sono mancate negli ultimi decenni e che sembrano oggi più che mai assenti se è vero che, nel Paese con il maggior tasso di abbandono scolastico e di analfabetismo funzionale, il governo in carica si preoccupa di inserire il merito nella propria intestazione istituzionale. Si inseguono la cronaca e il facile consenso inserendo le ore di educazione civica se il bullismo diventa argomento televisivo, l’orientatore se il tema del giorno è il disallineamento tra l’offerta formativa e il mercato del lavoro e già si prospettano le ore di contrasto al femminicidio, mentre il problema reale è l’innalzamento generale delle competenze dei nostri ragazzi, tutti i nostri ragazzi, in quanto cittadini attivi e responsabili in primo luogo e in quanto lavoratori  adeguatamente inseriti nel processo di crescita del Paese.

Lavorare a un grande e condiviso progetto per il raggiungimento di questi fondamentali obiettivi potrebbe contribuire a dare un senso e una visione anche all’azione quotidiana dei nostri insegnanti e dei nostri dirigenti scolastici. Per la classe politica si tratterebbe di una scelta strategica sulla quale far convergere risorse in buona misura provenienti dalla scuola stessa, dal PNRR a quelle, ancora più ingenti, derivanti dal calo demografico, fino a raggiungere gradualmente  una quota di PIL destinata al sistema di formazione paragonabile a quella degli anni ’90, in linea con quella dei paesi europei. Si tratterebbe, senza dubbio, di un grande impegno e di un grande investimento, inevitabile se si vuole evitare l’ulteriore declino della nostra scuola e, a stretto giro di posta, dell’intero Paese.




C’era una volta il direttore didattico

di Nicola Puttilli

In una dichiarazione rilasciata qualche tempo fa al Corriere delle Sera sul previsto ulteriore taglio di autonomie scolastiche disposto dall’ultima legge di bilancio, il presidente di ANP Antonello Giannelli sottolinea il rischio di ingestibilità amministrativa degli istituti sovradimensionati. Giannelli ha ragione da vendere, anche in considerazione della condizione di perenne emergenza in cui da troppo tempo versano gli uffici amministrativi delle scuole fra carenze, precarietà e inadeguata formazione del personale. Mi ha tuttavia colpito l’assenza di argomentazioni circa la “gestibilità” didattica di tali strutture peraltro comprendenti, come nel caso degli istituti comprensivi, diversi ordini di scuole. Sarà che ho trascorso poco più di una decina di anni nel ruolo di dirigente scolastico mentre una ventina circa in quello di direttore didattico, ma sempre mi ha guidato la convinzione che una buona amministrazione e organizzazione non avessero altra finalità se non l’innalzamento della qualità del progetto formativo e della didattica.

ll passaggio alla dirigenza scolastica è stata una logica conseguenza dell’attribuzione dell’autonomia. Non che prima ci fossero sostanziali differenze fra il ruolo di preside e di direttore didattico, entrambi inquadrati nel IX livello del contratto di lavoro dividevano analoghe condizioni retributive e di stato giuridico, mentre diverse erano, di fatto, le modalità di reclutamento: sempre attraverso regolare concorso, molto selettivo, nel caso dei direttori didattici, spesso con concorso riservato, decisamente più abbordabile, nel caso dei presidi. Diversa, inoltre, la formazione di provenienza: quasi sempre laurea di natura disciplinare per i presidi, non sempre, ma molto spesso, laurea in pedagogia per i direttori didattici, provenienti dall’istituto magistrale, dove un po’ di pedagogia e di psicologia l’avevano pur masticata, e dalla facoltà di magistero.

A Torino, dove ho sempre lavorato, c’era una grande tradizione associativa dei direttori didattici attiva già dal dopoguerra, raccoglieva una massiccia partecipazione e nei primi anni ’80 diede vita alla “Conferenza dei direttori didattici”, riconosciuta con atto formale e autorizzata a riunirsi in orario di servizio dall’allora provveditore agli studi. Nulla di simile esisteva per i presidi.

L’attenzione per i temi pedagogici e didattici era molto alta tra i direttori didattici e nel confronto interno alla  loro associazione (successivamente e quasi per intero confluita nell’ANDIS), ampiamente prevalenti rispetto a quelli più propriamente gestionali e amministrativi.

L’avvento dell’autonomia e della dirigenza, nonchè la formazione comune di 300 ore tra direttori didattici e presidi che l’hanno accompagnata, ha comportato, com’era logico che fosse, un radicale cambiamento di prospettiva. Per quanto il nuovo assetto normativo non prevedesse in alcun modo una diminuzione delle competenze e delle responsabilità del nuovo dirigente scolastico in campo pedagogico e didattico, l’enfasi si è di fatto spostata, quasi inconsapevolmente,  sugli aspetti gestionali e organizzativi con preciso riferimento, rispetto alla specificità del ruolo, alle teorie sul management allora prevalenti. Non è un caso, del resto, se in Piemonte, rispetto alle 300 ore di formazione, la scelta era limitata a due agenzie formative: ISVOR, che faceva capo alla FIAT ed ELEA agenzia formativa di Olivetti. Le teorie di riferimento erano ovviamente quelle più recenti di derivazione anglosassone che, rispetto al settore pubblico, istruzione compresa, si ispiravano prevalentemente al modello allora definito del “quasi privato”.

Certo esigenze di svecchiamento non erano più rinviabili. Come ci spiegava Enrico Autieri, direttore di ISVOR, si trattava di passare da un modello burocratico-artigianale, da sempre imperante nella nostra pubblica amministrazione, a un modello a gestione professionale, di chiara derivazione aziendale, fondato su variabili di progetto: pianificazione, problem solving, misurazione, rendicontazione.

La strada era segnata ma forse sarebbe stato necessario modularla fin da subito secondo le esigenze prioritarie della nostra scuola: innalzamento qualitativo dei processi di insegnamento/apprendimento, superamento delle ineguaglianze e della dispersione scolastica, inclusione e benessere psicofisico degli studenti. Da subito doveva essere chiarito il nesso fra qualità dell’organizzazione e fini istituzionali, da questo e per questo era nata fondamentalmente l’autonomia scolastica. L’enfasi sugli aspetti organizzativi e “manageriali” ha fatto invece premio, nella percezione del ruolo del dirigente scolastico in particolare, su quelli più strettamente pedagogici e didattici. Credo che anche a tale distorsione si debba il sovradimensionamento, nelle regioni del nord principalmente, di molte istituzioni scolastiche che arrivano a contare più di 2000 studenti senza, peraltro, che siano state create le condizioni normative e organizzative per gestire situazioni di tale complessità (middle management, leadership diffusa, ecc.).

Ricordo ancora le difficoltà che incontrai, da parte delle insegnanti della scuola dell’infanzia, quando decisi di unificare il loro collegio dei docenti con quello della scuola elementare. Nei collegi della scuola dell’infanzia si ponevano in discussione tutti gli aspetti della vita scolastica, compresi quelli apparentemente più irrilevanti: cosa fare con i bambini che non volevano dormire al pomeriggio, le problematiche presentate dalla mensa o dai momenti di gioco, le dinamiche relazionali tra i bambini ecc., tutti quegli elementi di attenzione e di cura così cari, mi  piace citarla, all’amica Cinzia Mion.  Avevano ragione le maestre della scuola dell’infanzia, nel collegio unificato di queste cose non si è più parlato, né si sono trovati altri spazi per poterlo fare, figurarsi in istituti comprensivi con 1800 alunni e tre ordini di scuola.

E’ ovvio che non si sta auspicando un ritorno agli anni ’90, ma ad oltre vent’anni dall’istituzione dell’autonomia e della dirigenza scolastica sarebbero maturi i tempi per una rinnovata riflessione. Anche la ricerca di una giusta dimensione per le istituzioni scolastiche (da 700 a non oltre, tassativamente, 1200 alunni?) e una struttura organizzativa (middle management adeguatamente riconosciuto e formato?) idonea a presidiare gli spazi non solo amministrativi e gestionali ma anche più propriamente psicopedagogici e relazionali, potrebbero aiutare non poco a far ritrovare senso ed equilibrio ad organizzazioni fin troppo complesse e a un ruolo ormai reso indistinto e pletorico come quello del dirigente scolastico.

Anche nel linguaggio comune non si sente più parlare di direttore didattico, poco usata anche la corretta definizione di dirigente scolastico, evidentemente troppo fredda e burocratica, è rimasto il preside a rappresentare tutti. In una delle sue ultime riflessioni un altro caro amico, Giancarlo Cerini, così si esprimeva, con la consueta lucidità: “Si ha spesso l’impressione che la nuova generazione di dirigenti scolastici sia troppo preoccupata delle correttezza delle procedure formali e molto meno della guida di una comunità educativa”. Cinzia e Giancarlo, non a caso due direttori didattici.




Ministero dell’Istruzione e del Merito: ma perché stupirsi? stava già tutto nel programma

di Nicola Puttilli

Stupisce lo stupore con cui il mondo della scuola e non solo ha accolto la nuova denominazione del “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Forse non tutti avevano letto l’accordo di programma relativo alla scuola delle forze che si apprestano a governare, il cui primo punto recita: “rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico…”.

Meritocrazia e professionalizzazione sono aspetti fondamentali nel quadro di un intervento complessivo e organico sul sistema di formazione. L’idea di sostenere i “capaci e meritevoli” è, tra l’altro, alla base dell’art.34 della nostra Costituzione.
Non è d’altro canto possibile non ricordare alcuni decenni di sociologia dell’educazione che, già a partire dagli ’60, hanno chiaramente messo in luce come il “merito” non sia una categoria del tutto neutra ma che strutture concettuali, attitudine all’apprendimento, atteggiamento verso lo studio si definiscono già nei primi anni di vita e dipendono in larga misura dai condizionamenti socioculturali dell’ambiente di provenienza.
Quello che preoccupa, e non poco, non è la presenza della parola merito ma la totale assenza di parole come inclusione e dispersione scolastica. In uno sguardo complessivo come dovrebbe essere quello di chi si accinge a governare non può mancare qualsiasi riferimento a quello che è considerato, ma non da tutti evidentemente, il problema più pressante della nostra scuola, sia in termini sociali sia in costi economici.

Anche “professionalizzante” è una bella parola a cui corrisponde un concetto altrettanto fondamentale. Lo storico disallineamento tra filiera formativa e filiera produttiva è infatti un altro grosso problema del nostro sistema formativo che determina da un lato rilevanti difficoltà al sistema economico, oggi ribattezzato tout court “made in Italy” e dall’altro persistenti fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione che penalizzano in modo inaccettabile i nostri giovani.
Doveroso occuparsene in modo urgente e determinato, ma anche in questo caso colpisce l’assenza di qualsiasi riferimento “all’educazione del cittadino” che in una società democratica dovrebbe precedere o, quantomeno, affiancare la formazione del produttore con l’obiettivo, citando Dewey, di “formare persone in grado di contribuire al processo decisionale nel proprio contesto operativo e di vita e di comprendere in forma critica le scelte di governo”.

Altro punto qualificante del programma che non tarderà ad emergere è il “riconoscimento della libertà di scelta educativa alle famiglie attraverso il buono scuola”. Anche in questo caso ritorna in gioco un principio costituzionale, quel “senza oneri per lo stato” di cui all’art.33, soggetto a diverse e contrapposte interpretazioni. Rimane la considerazione relativa al saccheggio subito dalla scuola pubblica nell’ultimo trentennio, con dimezzamento della quota di PIL alla stessa assegnata e la inevitabile domanda: dove prendere le risorse se non ancora e sempre dalla medesima esausta fonte?

Pochi, certamente condivisibili e quasi di rito gli altri punti del programma relativo a scuola, università e ricerca (14° su 15 non proprio tra le priorità), tra gli altri, investimenti su edilizia scolastica, formazione del personale e superamento del precariato (temi storici rispetto ai quali nulla si dice sul come).

Merito, professionalizzazione, libertà della scelta educativa sembrano pertanto i temi caratterizzanti che segnano una scelta di campo, rafforzata dal non detto su temi non necessariamente contrapposti ma almeno altrettanto distintivi quali il contrasto alla dispersione, l’inclusione, la formazione integrale del cittadino.
Si tratta di un’idea di scuola fortemente identitaria che sembra voler ignorare molto di quanto si è effettivamente realizzato nelle nostre scuole negli ultimi decenni, temi su cui aprire un confronto aperto, senza forzature e tanto meno imposizioni. La scuola è troppo importante per diventare terreno di scontro ideologico, bisogna ripartire da un’analisi attenta dei suoi problemi reali e da quanto i suoi insegnanti e dirigenti scolastici hanno, fino ad oggi, costruito.




Autonomia scolastica: ha ancora senso parlarne?

Stefaneldi Nicola Puttilli

Nel recente dibattito congressuale dell’ANDIS, come sempre interessante e ricco di stimoli, pochi e tutto sommato fuggevoli i richiami all’autonomia scolastica, quasi si trattasse di un argomento minore o appartenente a un passato neanche troppo vicino. Eppure autonomia e dirigenza erano le due idee-forza su cui nacque l’associazione dei dirigenti scolastici più di un trentennio fa.

La sensazione, palpabile anche se mai dichiarata, è quella di un fallimento senza ritorno. A vent’anni di distanza siamo a un simulacro di autonomia, mentre la dirigenza piena, che si misura anche in termini di reddito e che doveva essere conseguita entro pochi mesi (chi ricorda le promesse di Aprea e Bassanini nella campagna elettorale del 2001?) è rimasta una pia illusione a cui nessuno più crede.

E’ del tutto verosimile che la classe politica dell’epoca fosse in buona fede e che, anche con un certo coraggio, credesse veramente in un progetto complessivo di rinnovamento e trasformazione (penso a personaggi come Luigi Berlinguer, De Mauro, gli stessi Aprea e Bassanini, non certamente Gelmini che tagliò le prime significative risorse a ciò destinate).

Quello che è clamorosamente mancato è, come quasi sempre accade nei tentativi di riforma avviati nel nostro Paese, la necessaria continuità e coerenza tra il dettato legislativo e i provvedimenti applicativi, tra il dichiarato e l’agito.

A distanza di oltre un ventennio e osservando attentamente i diversi passaggi che hanno portato al deludente risultato odierno, mi sentirei di individuarne le cause più rilevanti in due fattori del tutto trasversali e che travalicano lo stretto ambito scolastico: l’ipertrofia  burocratica e l’inerzia (o, forse, meglio sarebbe dire l’ignavia) della politica.

Con l’avvento dell’autonomia scolastica le varie burocrazie ministeriali centrali e periferiche avrebbero dovuto concentrarsi sulle funzioni di indirizzo, coordinamento e verifica abbandonando una volta per tutte le pratiche gestionali. Lo stesso smantellamento degli ex provveditorati agli studi portava chiaramente in questa direzione.

Per contro mai come in questi anni abbiamo assistito a una così abnorme proliferazione di norme, regolamenti, criteri applicativi, richieste dati dalle fonti più diverse e incongrue, attribuzione alle scuole di compiti e incombenze improprie, andando ben oltre la felice, pur se datata, locuzione di molestie burocratiche.

La burocrazia scolastica ha scaricato sulle neonate autonomie il proprio “modus operandi” non avendo più la possibilità di agire autonomamente. Anziché trasformarsi in supporto alle autonomie è riuscita un po’ alla volta a trasformare le autonomie in elementi a supporto di se stessa. Operazione che è peraltro riuscita anche nei confronti della politica, basti pensare alla fallimentare, e tutta burocratica, gestione della Legge 107 (quando andammo in audizione presso le commissioni riunite di camera e senato in rappresentanza dell’ANDIS, qualcuno ricordò opportunamente come per scrivere la legge sulla scuola media unica, tanto per dire la più importante dal dopoguerra in materia di istruzione, furono sufficienti poco più di tremila parole, per la 107 non ne sono bastate centomila).

Serve, d’altro canto, ricordare che nei vecchi provveditorati agli studi si celavano rilevanti competenze tecniche in materia di bilancio, sicurezza degli edifici, contenzioso con il personale ecc. di cui le scuole autonome avrebbero potuto efficacemente giovarsi per potersi concentrare sugli aspetti più propriamente formativi della loro progettazione e della loro azione. Competenze che sono andate via via perdendosi, lasciando le relative incombenze alle stesse autonomie, private per contro di personale amministrativo numericamente adeguato e adeguatamente formato.

E’ anche vero che le autonomie scolastiche mai sono state in grado di esprimere un apprezzabile peso politico sulle materie più rilevanti di politica scolastica: organici, entità e distribuzione delle risorse, reclutamento, stato giuridico e carriera del personale per dirne alcune. Temi sui quali si decide la qualità del sistema formativo del Paese e sui quali il potere decisionale e gestionale sta nelle mani della classe politica e della burocrazia scolastica, con prevalenza, spiace dirlo, di quest’ultima.

In verità nei primi anni dell’autonomia ci fu un generoso tentativo di organizzare associazioni territoriali di scuole autonome in grado di interloquire con l’amministrazione scolastica e i poteri locali (ricordo come particolarmente attive le Associazioni del Lazio, del Piemonte, della Sicilia, di Milano), tentativo che ha gradualmente perso forza e significato. Così come sovente sembra venuto meno quel “coraggio dell’autonomia” dei molti dirigenti scolastici che si erano riconosciuti nel motto di Luigi Berlinguer “Tutto ciò che non è esplicitamente vietato è permesso”. Oggi mette una certa malinconia leggere nelle chat dei colleghi, anche con una certa frequenza, frasi come “fermi tutti, aspettiamo le indicazioni ministeriali (o della direzione regionale)”.

La politica, dal canto suo, poco o nulla ha fatto per dare corpo e vita all’autonomia scolastica. Niente di quanto previsto dal complesso quadro normativo di fine/inizio secolo è stato compiutamente realizzato: in più di vent’anni non si è stati in grado di procedere alla definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione, fondamento per la progettazione delle autonomie scolastiche ed elementi imprescindibili in chiave di elaborazione e di equità per le politiche scolastiche nazionali e per le previste autonomie regionali. Irrisolta è rimasta la questione centrale della governance, una volta aboliti i provveditorati agli studi mai sono stati definiti con certezza normativa ruoli e funzioni delle direzioni scolastiche regionali anche in relazione alle autonomie scolastiche e ai poteri locali ancora in attesa, a loro volta e dopo tanto parlare di autonomie più o meno differenziate, di conoscere in via definitiva i rispettivi compiti e prerogative.

Logica avrebbe voluto che all’avvento dell’autonomia e della dirigenza avesse fatto seguito una revisione di tutta l’impostazione relativa agli organi collegiali nati in epoca e per esigenze del tutto diverse, così come è unanimemente riconosciuto che una struttura complessa come le attuali autonomie scolastiche non può funzionare efficacemente con un unico organo di vertice e senza posizioni intermedie stabili e riconosciute (esemplari in questo senso le ricerche del prof. Paletta, sostenute anche dall’ANDIS, ma, anche in questo caso, nulla si muove).

A proposito di complessità è utile ricordare che il numero di alunni (e di conseguenza delle unità di personale) per autonomia scolastica è cresciuto a dismisura nell’ultimo decennio, a seguito di processi di dimensionamento piuttosto dissennati, rendendone ulteriormente difficoltosa la gestione. In tale contesto appare di particolare interesse la vicenda degli istituti comprensivi che, nel segmento di base, hanno di fatto soppiantato direzioni didattiche e scuole medie e in cui convivono docenti con orari, carichi di lavoro e retribuzioni diverse. Anche in questo caso le più che legittime esigenze di omogeneizzazione di stato giuridico e trattamento retributivo sono state completamente ignorate e disattese.

Ipertrofia burocratica e immobilismo della politica (nei confronti della scuola in modo del tutto particolare, del resto chi si è permesso di toccare i fili negli ultimi trent’anni è rimasto fulminato) sono ostacoli giganteschi e quasi insormontabili. Eppure, prima o poi, bisognerà provare ad abbatterli. In caso contrario non solo autonomia e dirigenza resteranno a metà del guado, ma sarà  verosimilmente compromesso ogni possibile processo di rinnovamento della nostra scuola, progetti e risorse del PNRR compresi.

 

 

 

 




Lo strano caso degli istituti comprensivi, la crisi infinita della scuola media e l’ignavia della politica

Stefaneldi Nicola Puttilli

Nel bel convegno organizzato da ANDIS a Jesolo lo scorso 29 ottobre il presidente di INVALSI Roberto Ricci ha ancora una volta ricordato come la scuola primaria italiana non sfiguri affatto nei confronti internazionali, mentre si registra una caduta verticale non appena il riferimento ricade sui dati relativi alla scuola secondaria di primo grado. Nell’intervento immediatamente successivo la prof.ssa Barbara Romano di Fondazione Agnelli (entrambe le relazioni sono visibili nell’area riservata del sito dell’associazione) ha illustrato in modo dettagliato numeri, condizioni e caratteristiche di questa crisi ormai più che ventennale, esito di una ricerca recentemente pubblicata.

Così come più che ventennale è l’istituzione dei primi istituti comprensivi, nati a metà degli anni ’90 come risposta al progressivo spopolamento di alcune specifiche e circoscritte aree del Paese (comuni montani, piccole isole, ecc.).
In poco più di un ventennio quella che era un’esperienza di nicchia legata a condizioni del tutto particolari è diventata la forma organizzativa largamente prevalente nella scuola di base, verosimilmente destinata ad ulteriori incrementi, fino a rendere di fatto residuali direzioni didattiche e scuole medie autonome.

Il tutto senza riferimenti normativi particolarmente significativi se si considera che quello più rilevante può essere considerato il DL 98 del 6.7.2011 dall’eloquente titolo “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” (neanche successivamente confermato dal Parlamento), scritto in tutta fretta dal governo Berlusconi in risposta alla famosa lettera a firma congiunta Commissione Europea – BCE, nel tentativo disperato di frenare la crisi economica dilagante.

Per il resto la L 97/94 ne decreta la nascita nell’ambito, come già detto, delle misure sulla “tutela delle zone di montagna”, mentre la crescita esponenziale di questo modello organizzativo è dovuta sostanzialmente al DPR 233/98 relativo a norme sul dimensionamento delle istituzioni scolastiche. Nessuna analisi né motivazione di ordine pedagogico nelle norme citate. Eppure, laddove nulla ha potuto la L 30/00 con il suo disegno complessivo di riforma è stato l’intervento fin troppo determinato di comuni e regioni (comunque ben assecondato dai vari governi in carica) a modificare sostanzialmente in pochi anni il panorama organizzativo (e non solo) della nostra scuola di base.

In realtà le prime esperienze di comprensivo erano nate in condizioni quasi sperimentali, in contesti fortemente motivati e protetti, con attenzione prioritaria alle variabili di ordine pedagogico, a partire dalla non semplice costruzione di un curricolo verticale, come base e premessa dei cambiamenti organizzativi.

I due ordini di scuola venivano del resto da storie e vissuti molto diversi: oltre un ventennio di riforme nate dal basso e in buona misura metabolizzate dalla scuola primaria (L 820 sul tempo pieno, L 517 sulla valutazione formativa, nuovi programmi dell’85, buona attitudine alla formazione in servizio), mentre la scuola media era sostanzialmente rimasta quella delle “vestali della classe media” così ben descritte da Barbagli e Dei nel loro saggio degli anni ’70, con riforme che pur ci sono state in analogia con quelle della scuola primaria (tempo prolungato, programmi del ’79) ma che non hanno inciso in modo sostanziale sul reale modo di essere di questo ordine di scuola.

Nonostante tutto ciò il messaggio lanciato dal comprensivo è risultato suggestivo e accattivante: come rispondere alle sacrosante esigenze di continuità e alla crisi, già nettamente percepita, della scuola media senza intervenire formalmente sugli ordinamenti, materia sempre scottante anche sul piano ideologico e soprattutto senza toccare lo stato giuridico, e i conseguenti aspetti retributivi, del personale docente. Una volta scongiurato il “pericolo” della L 30 il personale (e i sindacati) della scuola hanno accettato come male minore le proposte (a volte folli più che stravaganti) degli enti locali sul dimensionamento, purtroppo entusiasticamente sostenuti (non sempre per fortuna) da dirigenti scolastici in vena di manie di grandezza.

E’ del tutto ovvio e generalmente condiviso che una reale continuità didattica, curricolare, organizzativa possa essere di grande giovamento ai due ordini di scuola e in particolare a quello che si trova in maggiore difficoltà e il modello originale di comprensivo offriva per intero questa potenzialità. Il fatto di nascere “dal basso” ne costituiva, inoltre, un ulteriore punto di forza. La continuità, tuttavia, non si ottiene magicamente mettendo semplicisticamente  insieme due pezzi di scuola che, tra l’altro, per decenni non si sono parlati, guardandosi  spesso con sospetto e diffidenza.

Chi ha effettivamente lavorato su una vera continuità sa che si tratta di un percorso lungo, faticoso e delicato che deve essere costantemente guidato e supportato e che richiede, per avere successo, alcune condizioni di contesto e di fattibilità. Almeno su alcune di queste si sarebbe dovuto intervenire prima di procedere (o al limite contestualmente) ai massicci processi di accorpamento ai quali abbiamo assistito e alla quasi generalizzazione degli istituti comprensivi:

la continuità tra i flussi di alunni e la dimensione delle autonomie scolastiche.
Viene meno la continuità del progetto educativo elaborato congiuntamente se gli alunni della scuola primaria, per ragioni di vicinanza ad esempio, vanno a frequentare la scuola media di un’altra autonomia scolastica. La dimensione dell’autonomia è inoltre un fattore cruciale: i parametri delineati dal DPR 233/98 (tutt’ora in vigore, di norma tra 500 e 900 alunni) consentono un confronto non solo formale nell’ambito del Collegio dei docenti e al dirigente scolastico l’esercizio di quella leadership educativa e relazionale che tante ricerche hanno dimostrato essere elemento centrale nel buon funzionamento della scuola e nei relativi esiti.
Nella gran parte dei dimensionamenti realizzati che hanno portato alla formazione degli istituti comprensivi non si è assolutamente tenuto conto di questi fattori. Nei contesti a forte urbanizzazione in particolare, sovente non è rispettata la continuità dei flussi e l’accorpamento si è spesso verificato mettendo semplicemente insieme una direzione didattica e una scuola media, a volte neanche la più vicina. Altre volte si è proceduto alla scomposizione della direzione didattica assegnando i relativi plessi a diverse scuole medie. In ogni caso l’esito conclusivo è stato quasi sempre il raddoppio della popolazione scolastica, con medie intorno ai 1500 alunni, delle singole autonomie (peraltro in molti casi, come in Piemonte, già perfettamente dimensionate ai sensi di legge) quasi fosse vanto dell’assessore di turno procedere al maggior numero di accorpamenti possibile (nelle superiori è andata anche peggio con la creazione di mostri di 2500/700 alunni, per i dirigenti scolastici è un altro lavoro).

Le condizioni di lavoro, lo stato giuridico e il trattamento retributivo del personale docente.
A oltre un ventennio dall’istituzione dei primi comprensivi continuiamo ad assistere al paradosso dell’insegnante che lavora di più pagato meno di tutti. Sempre da un ventennio circa per tutti i docenti è prevista la formazione universitaria, ma un’insegnante di scuola dell’infanzia con 25 ore settimanali di insegnamento (certo non meno impegnativo degli altri ordini di scuola) guadagna meno dell’insegnante di scuola primaria che di ore ne ha 22+2 di programmazione e ancora meno dell’insegnante di scuola media il cui orario di cattedra è di 18 ore (senza programmazione, evidentemente serve solo nella primaria, mentre nella costruzione di una realtà così complessa e innovativa sarebbe una condizione irrinunciabile).

– Il piano strategico della formazione.
La situazione generale della nostra scuola per come emerge dai confronti internazionali e per le forti disparità che la caratterizzano, richiederebbe un’azione di formazione qualificata e permanente in tutti gli ordini di scuola e in particolare nella secondaria per quanto concerne gli aspetti pedagogici, psicologici e relazionali. La costituzione degli istituti comprensivi avrebbe a sua volta richiesto un parallelo percorso di formazione particolarmente centrato sulla continuità curricolare.

L’idea di istituto comprensivo, per quanto nata per e in contesti specifici e particolari, si è ben presto rivelata un’idea di successo apprezzata dal personale della scuola, contrariamente a leggi di sistema che intervenivano in modo più completo e organico sugli ordinamenti e le prime esperienze lasciavano intravvedere interessanti sviluppi sia sul piano organizzativo che sul piano pedagogico e didattico. L’aver praticamente identificato il percorso del comprensivo con quello del dimensionamento, senza minimamente curarne le condizioni di fattibilità (corretta dimensione e rispetto dei flussi di continuità, omogeneizzazione delle condizioni di lavoro e di stato giuridico del personale, congruo tempo per la progettazione e la programmazione comune tra ordini di scuola, formazione mirata e qualificata) rischia di bruciare nel caos e nella frustrazione un’esperienza che avrebbe potuto essere vincente (si aggiunga, non ultimo per chi lo deve gestire, il caos generato dai processi amministrativi diventati molto più complessi senza alcun adeguamento del personale).

Quanto ai dimensionamenti è impossibile tornare indietro, ma è doveroso considerare con attenzione estrema quelli futuri e correggere le distorsioni più evidenti e insostenibili, per il resto le risorse ci sarebbero anche, quello che manca è un po’ di visione e di volontà politica, anche nel contrastare le resistenze “a prescindere” di parte del personale.

Cura, accompagnamento, supporto e qualche solido finanziamento per un serio percorso di formazione e per l’adeguamento e l’omogeneizzazione dello stato giuridico e del trattamento economico del personale. Invece si è colta l’occasione di ulteriori risparmi con la soppressione, senza condizioni, di centinaia di autonomie scolastiche, con l’alibi più o meno consapevole della continuità didattica. A quanto pare la scuola media non è migliorata, speriamo non peggiori la scuola primaria.




La scuola a tempo pieno, formidabili quegli anni

di Nicola Puttilli

Ho incominciato a insegnare in una classe a tempo pieno nel settembre del 1973 in una scuola elementare di Mirafiori Sud, quartiere popolare di Torino cresciuto in fretta, a fianco della Fiat, sull’onda dell’ultima ondata immigratoria. Erano due le classi a tempo pieno di nuova istituzione e cinque gli insegnanti ad esse assegnati dalla direttrice didattica, tutti pressoché ventenni vincitori dell’ultimo concorso, fortemente motivati e ancor più ideologizzati.
Metodo di insegnamento rigorosamente MCE: tutto partiva dalla relazione e dagli interessi dei bambini. La mattinata iniziava inevitabilmente con la conversazione che si faceva comunque, anche se i bambini avevano poco da dire, cosa che comunque accadeva raramente.
Da lì si partiva per le attività: per lingua soprattutto testi, in gran parte liberi, che poi confluivano nel giornalino di classe. Anche per matematica si cercava di partire dai problemi reali e poi grandi esercitazioni sui “quaderni MCE”. Non ci siamo fatti mancare nulla, dal complessino tipografico originale “Freinet” per la composizione dei primi testi, ai laboratori di teatro e di falegnameria e perfino un laboratorio di storia per la costruzione di ciottoli e bifacciali.
Nella fase aulica riuscimmo anche ad attrezzare un orto nel giardino della scuola, convertendo alla causa parte dei bidelli da cui ne dipendeva l’esistenza durante la stagione estiva (in compenso mi ero personalmente impegnato a difenderne le inesauribili vertenze nella mia recente veste di delegato sindacale e poi di eletto nel neonato consiglio di circolo). Per qualche tempo abbiamo anche tenuto un’oca, non ricordo chi la portò, i bambini l’avevano chiamata Giannina.

Il ministero non lesinava i finanziamenti, 150.000 lire a classe se non ricordo male, una cifra allora più che rispettabile, per l’acquisto di materiale didattico, per i laboratori e per la biblioteca di classe, alla quale si provvedeva anche con la sostituzione del libro di testo. Eravamo  cinque insegnanti distribuiti su due classi “aperte”, considerando anche le ore di compresenza era possibile alternare i momenti collettivi con le attività di gruppo in laboratorio e anche con attività individualizzate per gli alunni con maggiori difficoltà.

Ovviamente non contavamo le ore trascorse a scuola, né quelle dedicate alla preparazione del lavoro che si svolgevano prevalentemente la sera a casa dell’uno o dell’altro. I colleghi, tutti più anziani di noi, ci guardavano con un misto di scetticismo ma anche di ammirazione per l’impegno che dimostravamo e per   l’originalità delle proposte di lavoro che illustravamo con entusiasmo nelle prime riunioni collegiali e, soprattutto, di timore di essere, un giorno o l’altro, indotti o addirittura obbligati a seguire le nostre orme.

Le motivazioni di ordine sociale, oltre che pedagogico, ci portavano infatti a proporre il costante incremento del numero di classi a tempo pieno, da noi viste come condizione per un percorso di radicale rinnovamento che, a partire dalla scuola, avrebbe dovuto coinvolgere la società intera. Il processo di espansione avvenne in effetti in tempi abbastanza rapidi, sotto la pressione delle esigenze lavorative dei genitori e del Comune di Torino che trasformò i posti del doposcuola in “tempo lungo” creando i presupposti per una graduale estensione del tempo pieno statale, ma non senza contrasti anche duri.
Ricordo chiaramente la forte opposizione nei Collegi degli insegnanti dello SNALS, il sindacato autonomo, che preconizzavano da un lato disastri per la scuola italiana e dall’altro, in modo fin troppo evidente, temevano di dover cambiare  consolidate, e comode, abitudini di lavoro. Difficile per chi per tutta la vita aveva fatto il maestro unico nelle sole quattro ore del mattino rassegnarsi ad andare a scuola anche il pomeriggio, collaborare nella stessa classe con almeno un altro collega dividendosi le materie, condividere il momento della mensa, ecc.

Questi colleghi, molti dei quali seri e preparati nella loro didattica tradizionale, cercarono fino all’ultimo di “scansare” il tempo pieno, diventandone peraltro fervidi fautori dopo l’introduzione dei moduli della Falcucci che imponevano orari e condizioni di lavoro ben più gravosi (famoso in questo senso e quasi ingestibile in molte situazioni, il 4 insegnanti su 3 classi).
Potendo vantare buone condizioni di anzianità e graduatoria si spostarono in massa sul tempo pieno con i loro metodi di insegnamento già consolidati, lasciando i moduli ai colleghi più giovani.

La legge 148/90 istitutiva dei moduli, figlia  dell’impostazione cognitivista dei programmi dell’85 con  l’abolizione del maestro unico e del tempo scuola di 24 ore, è stato l’ultimo grosso investimento sulla scuola italiana. Da allora tagli pressoché continui in particolare agli organici, fino a quelli famigerati della Gelmini con il tentativo di ritorno al maestro unico e al cosiddetto “tempo normale”. Il tentativo è miseramente naufragato ma i tagli sono rimasti togliendo al tempo pieno risorse finanziarie e, soprattutto, di organico, depotenziandone ulteriormente la qualità della proposta formativa.

Nel frattempo il tempo pieno era cresciuto allontanandosi sempre di più dall’ impostazione originale che noi, con entusiasmo, coraggio e un po’ di ingenuità avevamo cercato di dare, ispirandoci al nucleo fondatore del tempo pieno torinese di cui Fiorenzo Alfieri era il più noto esponente.

Sono diventato direttore didattico agli inizi degli anni ’80 con il preciso intento di proporre “quel” modello di scuola, ovviamente adattato alle diverse circostanze.
Pur avendo vissuto esperienze bellissime e in qualche caso eccezionali, non ho mai più incontrato né avuto modo di organizzare classi con quelle caratteristiche: una vera comunità educativa, la conoscenza che scaturiva da interessi reali e dall’esperienza di laboratorio, il legame continuo con il territorio, anche grazie alle splendide opportunità allora offerte dalla Città di Torino con gli assessori Dolino prima e lo stesso Alfieri poi, entrambi, non a caso, maestri e  direttori didattici.

Si trattava, evidentemente, di un modello legato a una precisa fase storica che richiedeva, tra l’altro, livelli di dedizione e motivazione difficilmente riproducibili.

Attualmente nel tempo pieno si riscontrano, peraltro, impostazioni pedagogiche e organizzative molto diversificate ma  troppe restano le classi  che replicano, a tempo raddoppiato, le modalità didattiche e relazionali del vecchio tempo “normale”: bambini pressochè inchiodati ai banchi, didattica quasi esclusivamente frontale, laboratori (se ci sono) frequentati sporadicamente e solo per specifiche attività, rare uscite sul territorio. Una sofferenza più che una conquista.

Spiace inoltre rilevare una costante e particolare disattenzione del Ministero e di tutta l’amministrazione scolastica verso le esigenze e la qualità della scuola a tempo pieno: paradossalmente anche in quest’anno di (post) pandemia, quando più forti sono le necessità di recuperare il terreno perduto, si registrano tagli in organico di diritto proprio su queste classi, andando ad eroderne ulteriormente le compresenze per poter mantenere il tempo scuola.

Le risorse del PNRR, appena approvato dal Parlamento, unitamente quelle derivanti dal consistente calo demografico, consentirebbero, dopo anni di tagli dissennati, di ridisegnare contorni e caratteristiche della nostra scuola nella direzione di un radicale rinnovamento e del superamento delle intollerabili disuguaglianze che ancora oggi, a oltre cinquant’anni dalla lettera di Barbiana, la caratterizzano. Tra le misure previste si parla di estensione del tempo pieno, in particolare al sud dove è tuttora scarsamente presente. Si tratta indubbiamente di una scelta giusta e prioritaria ma bisogna essere ben consapevoli che il tempo pieno non si realizza con il semplice raddoppio del tempo scuola: ci vogliono ore di compresenza per consentire la formazione di gruppi di lavoro, laboratori attrezzati per una didattica del “fare”, spazi di incontro e destinati alle attività ludiche e sportive, mensa e servizi di qualità e, soprattutto, insegnanti motivati e preparati, attraverso la leva irrinunciabile della formazione continua,  in grado di privilegiare la qualità della relazione e di una didattica attiva e partecipata.

Ripensare ruolo sociale e funzione del tempo pieno, le sue fondamenta pedagogiche, le sue condizioni didattiche e organizzative, i suoi rapporti con i servizi e con il territorio, può e deve essere  la pre-condizione non solo per la sua estensione ma anche per la riqualificazione di quello esistente, magari recuperando un po’ dello spirito e dell’entusiasmo delle origini  (e lavorando sull’idea di scuola e di scuola primaria in particolare che ci hanno lasciato i due grandi Maestri e amici, Fiorenzo Alfieri e Giancarlo Cerini, che ci hanno recentemente lasciato).