L’ultimo gol. In memoria di Zaki Anwari
di Diego Palma
(Presidente dell’Associazione La Voce della Scuola LIVE)
Era un classico lunedì di agosto. Fermo con gli allenamenti,
pensavo alla nuova stagione calcistica intanto che la vita scorreva come sempre. Giocavo con gli amici per strada come tutti i ragazzi della mia età. Seduto su un muretto, immaginavo il mio futuro.
Pensando mi sdraiai, addormentandomi e sognando la partita della vita. In quel mondo onirico riesco a dare sempre il meglio di me. Mi vedo controllare magnificamente la palla, superare con facilità gli avversari, correre verso la rete e segnare. Gol!
Le urla di gioia del pubblico sugli spalti rimbombano.
Mancano cinque minuti al termine della partita e l’ultima azione è un calcio d’angolo a nostro favore. La palla arriva al centro dell’area, mi avvito su me stesso per eseguire una perfetta rovesciata. L’impatto con il pallone è da manuale, il portiere spiazzato, immagino già l’esultanza mentre mi accingo a cadere sul campo di gioco. Ma mentre sognavo di toccare il suolo, mi svegliai a terra, spinto dai miei amici.
Tutto impolverato mi arrabbiai ed esclamai: “Perché mi avete svegliato, avremmo vinto la partita!”. Loro risposero: “Scappa stupido, altro che partita!”.
Svegliato di soprassalto non compresi la gravità della situazione. Mi girai attorno e vidi
tanta paura: la gente scappava e si riversava in strada. I convogli americani si dirigevano verso l’aeroporto. Non mi resi conto di cosa stesse accadendo tutt’intorno, ma le urla erano
così forti che capii che era successo qualcosa di grave. Pensavo ad una guerriglia urbana, alla peggio un piccolo bombardamento, eventi a cui eravamo abituati… anche se al male e al dolore non ci si abitua mai. Tuttavia, stavolta era più grave la situazione.
Per strada sentivi urlare: “Sono tornati! Sono tornati!”. Pur non avendoli conosciuti perché nato “libero”, purtroppo sapevo di chi stessero parlando. Vidi una folla immensa di persone in fuga, una nube di polvere sollevata dai mezzi militari americani.
Il frastuono dei Kalashnikov dei Talebani che festeggiavano il ritorno a casa dalle orecchie s’infiltrava nel cuore, facendolo tremare. Posizioni diverse, contrastanti tra loro: paura, rabbia, odio, gioia e arroganza miscelate nell’aria erano più esplosive di una granata. Ripensai al mio sogno, l’ultima partita di calcio. Mi chiedevo spesso perché fossi nato qui, il perché di tutto questo dolore. Ho indossato con orgoglio la maglia delle giovanili della mia nazionale. Ho sempre sostenuto “sei tu il pittore del tuo destino, non lasciare che siano gli altri a decidere per te”. Da piccolo ho sempre sperato che la mia patria potesse essere come tutte quelle nazioni nelle quali i giovani coltivano e realizzano i loro sogni.
Ma oggi la vita mi ha mostrato la triste e disillusa condizione di chi per caso è nato qui, in questa remota parte del mondo, dove si cerca un respiro che possa nutrire l’anima reclusa nel terrore, dove la vita viene schiacciata dalla morte. Non avevo il coraggio di tornare indietro, non sapevo se la mia famiglia fosse in fuga, sentivo solo tanta paura e tanta rabbia. Avrei voluto abbracciare mia madre e dirle che sto bene, che avrei voluto scappare ma non sapevo dove e come. In lontananza scorsi i miei amici che inseguivano i mezzi americani, nel vano tentativo di fuggire. Mi rialzai, le lacrime si mescolarono con la polvere sul mio viso.
Iniziai a correre e per non pensare a quello che mi stava accadendo intorno, rimandai la mente alla partita dei miei sogni.
Correvo evitando gli oggetti personali dispersi e i corpi. Continuavo a correre, cercando di raggiungere la meta. Non mi fermai nonostante il dolore e la stanchezza.
Arrivai all’aeroporto e con sgomento notai del filo spinato bloccare l’ingresso. Ma decisi di non arrendermi! Corsi lungo il perimetro alla ricerca di un varco, senza sapere se fosse la cosa giusta.
Vidi un aereo pronto a partire che si posizionava in pista e corsi fino allo stremo delle forze, raggiungendolo, e mi aggrappai alla fusoliera con le poche forze che mi erano rimaste.
Non ero fiero di ciò che stavo facendo, ma in cuor mio immaginavo la libertà di ritornare a casa come calciatore professionista e di poter aiutare la mia famiglia. Mi tenni stretto e cercavo di
scacciare la paura con quelle immagini a me tanto care di quel sogno, di quel gol che era mio, seppur in un mondo tutto dei sogni. L’aereo iniziò a prendere quota e mi sentii come nell’area
di rigore, sollevato da terra, pronto a segnare ed esultare.
Stavolta riuscivo a vedere la palla in rete, ma io ero ancora sospeso in aria. L’arbitro fischiò, era gol! Rimasi lì, felice a mezz’aria, incapace di tornare a terra. Sentivo l’esultanza dei miei amici, della mia famiglia e dell’intera mia nazione.
All’improvviso diventò tutto blu attorno a me: avevo paura e chiusi gli occhi. Ad un certo punto, mi sentii scivolare e graffiare il corpo dal vento. Riaprii gli occhi, volgendo lo sguardo al cielo, e vidi l’aereo in lontananza volare sopra di me, realizzando di non avercela fatta. Ero caduto, ma avevo segnato e non tutto era stato inutile: ora ero libero. Tu che sei qui ad ascoltarmi, rendi la tua vita speciale come il mio ultimo gol e insegui i tuoi sogni.
Ricorda “sei tu il pittore del tuo destino, non lasciare che siano gli altri a decidere per te”.