L’originale contributo di Raffaele Iosa sta suscitando le riflessioni dei nostri lettori.
Pubblichiamo qui l’intervento di Tina Naccarato, docente specializzata di scuola primaria
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Ormai più di 20 anni fa, un eccellente docente universitario utilizzava in maniera reiterata e quasi provocatoria il termine cultura dell’analgesico. Chi scrive, a quel tempo studentessa molto giovane e certamente non avvezza e tantomeno propensa a ricorrere ad analgesici con frequenza, inizialmente accolse tale termine con una certa leggerezza, come un’immagine, una trama, un vezzo dell’argomentazione.
Eppure, a tanti anni di distanza, si ritrova a ricordarlo sempre più spesso, a cercarne vecchi e nuovi significati, ad imparare ancora da quanto imparato rinnovandone sensi ed accezioni alla luce dei tempi che sono.
Ogni analgesico, infatti, è come un oppio che seda e risponde alle impellenze di una diagnosi. Il dolore, l’imperfezione, il difetto devono infatti oggi trovare un farmaco, un medicamento, Se non è cura è terapia, ma non si sfugge.
Così come è vietato invecchiare e sorgono chirurgie miracolose e mirabolanti attraverso cui tutti, più o meno, possono sperare di avere per un tempo indefinito un’età indefinita. E dove non arriva il chirurgo arrivano le magiche correzioni alle immagini, per correggere rughe o capelli bianchi, così da sembrare in foto, almeno sui social media, eternamente giovani. Continua a leggere