Il principio di laicità non esclude la necessità di una “formazione religiosa”

di Antonella Mongiardo

Una domanda semplice, in apparenza, che negli anni ha attraversato correnti di pensiero diverse e, talora, contrapposte, fino a giungere, in tempi recenti, ad interpretazioni restrittive e fuorvianti che identificano la laicità con assenza di religione nelle scuole. Cos ‘è, ad ogni modo, la laicità? Qual è il suo significato nella scuola?

La risposta, nel significato letterale, la troviamo nei dizionari. Secondo la Treccani, laico è chi non fa parte del mondo clericale. Lo stato laico è quello che riconosce l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, senza concedere particolari privilegi o riconoscimenti ad alcuna di esse, e che riafferma la propria autonomia rispetto al potere ecclesiastico”.

Il laicismo, quindi, si identifica con una concezione più ampia e complessiva della cultura e della vita civile, basata sulla tolleranza comprensiva delle credenze altrui, sul rifiuto del dogmatismo in ogni settore della vita associata, anche al di là dell’influenza diretta dell’istituzione religiosa dominante.

In una realtà sociale come quella di oggi, dove il cedimento dei valori etici e l’affermazione di nuovi stili educativi, talvolta discutibili, interferiscono spesso con l’azione formativa della scuola, è sempre più arduo realizzare quell’auspicata corresponsabilità educativa tra scuola e famiglia, che dovrebbe essere la base dello sviluppo identitario dei giovani. Le nuove generazioni stanno crescendo in un’epoca in cui si fa sempre più sfocato il confine tra i ruoli e le responsabilità, con una conseguente perdita di autorevolezza, sia della scuola sia della famiglia, che devono essere, invece, i due più importanti avamposti pedagogici della società.

E’ proprio nella prospettiva di un recupero di valori e di una più forte alleanza tra scuola e famiglia che si inserisce la dimensione sociale dell’elemento religioso nella scuola.

Condivido le acute osservazioni del matematico Piero Del Bene, quando sostiene che, se laicità significasse assenza di religione, allora nella scuola laica non dovrebbero trovare posto il cattolicesimo di Manzoni e di numerosi altri autori della letteratura italiana, non si dovrebbe studiare la divina commedia di Dante e non si dovrebbero visitare chiese, né ammirare le rappresentazioni sacre attraverso i libri di storia dell’arte o durante le gite scolastiche.

 

Invece, sappiamo bene che le discipline umanistiche traboccano di cultura cattolica; l’arte, la filosofia, la musica, sono ambiti in cui il cattolicesimo ha lasciato la sua impronta indelebile. La cultura religiosa fa parte, a pieno titolo, della formazione scolastica. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che essa permea tutta la nostra tradizione culturale, la nostra società, i nostri valori e i nostri linguaggi.

D’altro canto, basti dire su tutto una sola cosa: l’insegnamento della Religione cattolica è una disciplina istituzionale, presente nella scuola pubblica e affidata spesso a religiosi approvati dall’autorità ecclesiastica.

Un insegnamento che, pur nell’avvicendarsi di governi e diverse forme di Stato, non è mai venuto meno. Dall’unità d’Italia ad oggi, questa particolare disciplina è sempre stata parte integrante del progetto educativo dell’istruzione nazionale.

E’ evidente, peraltro, il senso della sua presenza nella scuola. Nell’ambito della sfera prettamente didattica, eliminare la religione cattolica significherebbe svuotare la nostra cultura, dal momento che il patrimonio culturale e artistico del nostro Paese custodisce tesori inestimabili in gran parte a tema cattolico-cristiano; e significherebbe snaturare la nostra stessa identità storica, che si è forgiata, nel corso dei secoli, a stretto contatto con la dottrina cattolica.

 

Come viene specificato anche nella normativa scolastica, la conoscenza delle radici storiche della religione cattolica “svolge un ruolo fondamentale e costruttivo per la convivenza civile, in quanto permette di cogliere importanti aspetti dell’identità culturale di appartenenza e aiuta le relazioni e i rapporti tra persone di culture e religioni differenti”.

 

E che dire, poi, della valenza educativa dell’insegnamento religioso? I principi ispiratori della religione cattolica, improntati al rispetto del prossimo, alla solidarietà e alla pace, rappresentano un faro nell’azione educativa della scuola, la quale, andando oltre i traguardi cognitivi connessi all’acquisizione di saperi disciplinari, tende alla formazione globale dello studente, alla sua crescita personale e sociale.

 

Come scrive la Congregazione per l’educazione cattolica nella lettera n°520/2009: “Ai fanciulli e ai giovani va garantita la possibilità di sviluppare armonicamente le proprie doti fisiche, morali e intellettuali; essi vanno anche aiutati a perfezionare il senso di responsabilità, ad imparare il retto uso della libertà, e a partecipare attivamente alla vita sociale (cfr c. 795 Codice di Diritto Canonico [CIC]; c. 629 Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [CCEO]). Un insegnamento che disconoscesse o emarginasse la dimensione morale e religiosa della persona opporrebbe un ostacolo insormontabile per una educazione completa, perché «i fanciulli e i giovani hanno il diritto di essere aiutati a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali”.

In definitiva, si pur dire che Laicità non significa assenza di religione. E non potrebbe del resto significare assenza di religione nella scuola, se l’insegnamento della religione cattolica viene istituito dallo Stato come garanzia di laicità. A riprova di ciò, difatti, nella normativa scolastica, l’unico riferimento esplicito alla laicità della scuola lo si rinviene nelle Indicazioni Nazionali del curricolo, laddove si parla dell’Insegnamento della Religione Cattolica, ma non per limitarla, bensì per salvaguardare il diritto dell’alunno a non avvalersene, facendo risaltare così l’effettivo significato della laicità nella scuola. Una laicità che non si adagia nell’indifferenza verso i valori religiosi, ma che, al contrario, rafforza la funzione educativa della scuola, rivolta anche al rispetto delle scelte e all’integrazione di differenti culture.

 

“La Scuola Italiana – si legge nelle Integrazioni alle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione – si avvale della collaborazione della Chiesa cattolica per far conoscere i principi del cattolicesimo a tutti gli studenti che vogliano avvalersi di questa opportunità. L’insegnamento della religione cattolica (Irc), mentre offre una prima conoscenza dei dati storico-positivi della Rivelazione cristiana, favorisce e accompagna lo sviluppo intellettuale e di tutti gli altri aspetti della persona, mediante l’approfondimento critico delle questioni di fondo poste dalla vita. Per tale motivo, come espressione della laicità dello Stato, l’Irc è offerto a tutti in quanto opportunità preziosa per la conoscenza del cristianesimo, come radice di tanta parte della cultura italiana ed europea. Stanti le disposizioni concordatarie, nel rispetto della libertà di coscienza, è data agli studenti la possibilità di avvalersi o meno dell’Irc”.

 

Dal punto di vista pedagogico, dunque, la presenza della Religione cattolica nella scuola va vista come un contributo, in coordinamento con le altre discipline, alla formazione complessiva dell’identità di ciascuno.

 

Ma il significato “laico” dell’insegnamento religioso nella scuola ha anche un fondamento giuridico. Il principio di laicità dello Stato, così come delineato nella giurisprudenza costituzionale, è la sintesi di più disposizioni costituzionali, ossia degli artt. 2-3, 7-8, 19 e 20 Cost., ove assume un ruolo centrale “la salvaguardia della libertà religiosa in regimedi pluralismo religioso e culturale” (Corte cost., sent. n. 203 del 1989).

L’Irc è presente nella scuola italiana in virtù dell’art.7 della Costituzione, sorto dall’accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, per garantire, in regime di pluralismo religioso (art.8), l’insegnamento della cultura religiosa nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. E’ da questa norma  che discende  il fondamentale principio di laicità: lo Stato, senza essere indifferente rispetto alle religioni, deve garantire a tutte pari libertà.

L’Irc si inserisce così, a pieno titolo, “nel quadro delle finalità della scuola”. Lo Stato italiano riconosce “il valore della cultura religiosa”, dichiarando di tener conto del fatto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (art. 9.2). La finalità principale della scuola, che l’Irc assume come propria, non può essere altra da quella desumibile dalla Costituzione e dalla legislazione scolastica, cioè lo sviluppo della persona umana, senza distinzioni di sorta, neanche di carattere religioso (art. 3 Cost.).

 

E, in seguito, con l’Accordo del 1984 viene aggiunto che l’accesso all’Irc avviene sulla base di una libera scelta, che ognuno è chiamato ad operare.

Il principio della libertà di scelta viene richiamato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n°203/1989: “Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene, l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.

 

E, a proposito della non obbligatorietà di seguire corsi alternativi all’insegnamento della religione cattolica, viene puntualizzato nella sentenza della Corte costituzionale n°13/1991: “Alla stregua dell’attuale organizzazione scolastica è innegabile che lo “stato di non-obbligo” può comprendere, tra le altre possibili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall’edificio della scuola”.

 

 

Orbene, alla prima domanda, posta come incipit di questo articolo, ne segue inevitabilmente un’altra. Si può pregare o celebrare atti di culto nelle scuole?

La risposta arriva dal Consiglio di Stato, che, con sentenza n.1388 del 27 marzo 2017, riconosce la possibilità delle benedizioni religiose a scuola in orario extrascolastico. Nel contempo, però, il CdS pone dei limiti ben precisi all’attività di culto nella scuola, conciliando il principio di laicità della scuola con la libertà di partecipazione ad iniziative culturali o di espressione religiosa e garantendo l’autorevolezza dell’esercizio dell’autonomia scolastica.

La vicenda vede protagonista il Consiglio di Istituto di un I.C. di Bologna che, nel febbraio del 2015, concedeva i locali scolastici a tre parroci per le benedizioni pasquali in orario extrascolastico. L’iniziativa era rivolta agli alunni, i quali liberamente potevano parteciparvi, accompagnati da un adulto per la vigilanza.  La parte ricorrente adduceva che tale misura non preservava la laicità della scuola pubblica.

Il Tar accoglieva il ricorso facendo leva sul “principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato”, e dell’ “equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose”. Si legge nella sentenza del Tar: “Non v’è spazio per riti religiosi riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati, mentre ben possono esservi occasioni di incontro che su temi anche religiosi consentano confronti e riflessioni in ordine a questioni di rilevanza sociale, culturale e civile, idonei a favorire lo sviluppo delle capacità intellettuali e morali della popolazione, soprattutto scolastica, senza al contempo sacrificare la libertà religiosa o limitare le relative scelte”.

Il primo Giudice affermava, inoltre, che “un’invalicabile linea di confine sia a tali fini costituita dalla circostanza che si tratti o meno di un atto di culto religioso”, e che nel caso in esame, al contrario, sarebbe stato «autorizzato un vero e proprio rito religioso da compiersi nei locali della scuola e alla presenza della comunità scolastica, sì che non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 96, comma 4, del d.lgs. n. 297 del 1994, e neppure quella di cui al successivo comma 6, riferito al ben diverso ambito di iniziative di socializzazione e stimolo della maturazione degli studenti per “fronteggiare il rischio di coinvolgimento dei minori in attività criminose”.

Il Consiglio di Stato, invece, riformando la sentenza di primo grado, precisa nel dispositivo che “tale rito – avvenuto a scuola ma in orario non scolastico – va accolto al pari di un’attività parascolastica e che la natura religiosa dell’evento non può ritenersi un elemento discriminatorio”.

Si riporta il passaggio conclusivo della sentenza del CdS, la cui pronuncia assumeva ormai carattere soltanto morale, il cui unico effetto, ora per allora, avrebbe potuto avere il solo effetto di costituire anche un precedente.

“Com’è noto, la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi.

Il fine di tale rito, per chi ne condivida l’intimo significato e ne accetti la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano.

Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.

Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove; e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento, non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.

Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale” nelle scuole non possa in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.

  1. È appena il caso di rilevare che non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.

Ed ancora, c’è da chiedersi come sia possibile che un (minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie attività scolastiche, sia del tutto legittimo o tollerabile se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti ad attività “parascolastiche” diverse da quella di cui trattasi, ad esempio di natura culturale o sportiva, o anche semplicemente ricreativa, mentre si trasformi, invece, in un non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori dell’orario scolastico.

Va aggiunto che, per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un’attività, una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima.

Del resto, la stessa Costituzione, all’art. 20, nello stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…) per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività», pone un divieto di un trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali.

Ovviamente, la partecipazione ad una qualsiasi manifestazione o rito religiosi (sia nella scuola che altrove) non può che essere facoltativa e libera, non potendo non godere, solo perché tale, di minori spazi di libertà e di minore rispetto di quelli che sono riconosciuti a manifestazioni di altro genere, nonché tollerante nei confronti di chi esprime sentimenti e fedi diverse, ovvero di chi non esprime o manifesta alcuna fede.

Negli atti impugnati i parametri ora indicati sono tutti rigorosamente rispettati, essendo garantita la libertà di partecipare all’evento in orario non scolastico, senz’alcuna forma di contrapposizione con altri credo religiosi o con qualsivoglia diversa ideologia.

  1. Resta da verificare se i provvedimenti impugnati siano espressione di una determinata potestà, riconducibile ad una categoria rispondente al normale principio di tipicità degli atti amministrativi.

Al riguardo può richiamarsi l’art. 96, quarto comma, del D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, secondo cui gli edifici scolastici possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile.

Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del servizio scolastico e previa delibera dell’organo competente, ai sensi del precedente art.10 del D.Lgs. del 1994, n. 297 cit., ivi indicato nel Consiglio di Circolo o di Istituto.

Ed è appena il caso di ricordare che, nella prassi oggi invalsa, le competenze di tali organi scolastici sono intese in senso non certamente restrittivo, bensì estensivo o comunque elastico e flessibile, quanto alla tipologia ed alla natura delle attività “parascolastiche”, “extrascolastiche”, o comunque “complementari”, che gli stessi organi possono liberamente ed autonomamente programmare o autorizzare.

Del resto, il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 (regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59), all’art. 4, relativo all’autonomia didattica, dispone: «Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali organi, ed ammettendo esplicitamente, con l’espressione «riconoscono e valorizzano le diversità», tutte quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione”.

 

 

 

 

Nelle aule di giustizia è stata affrontata anche un’altra questione assai controversa: l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è in contrasto con il principio di laicità?

Secondo la Suprema Corte di Cassazione, l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo, non crea divisioni o contrapposizioni ma è espressione di un sentire comune e simbolo di una tradizione culturale millenaria. Alla luce di questa epocale sentenza, si coglie appieno il senso delle parole del segretario generale della Cei: “È innegabile che quell’uomo sofferente sulla croce non possa che essere simbolo di dialogo perché nessuna esperienza è più universale della compassione verso il prossimo e della speranza di salvezza. Il cristianesimo di cui è permeata la nostra cultura, anche laica, ha contribuito a costruire e ad accrescere nel corso dei secoli una serie di valori condivisi che si esplicitano nell’accoglienza, nella cura, nell’inclusione, nell’aspirazione alla fraternità”.

Una funzione di indirizzo morale, che richiama valori civilmente rilevanti. E’ questa la chiave di lettura che si desume anche dalla sentenza n°556 del 2006, in cui il Consiglio di Stato chiarisce il senso del simbolo religioso nella scuola: “È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è posto. In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana.  In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni. Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana.  Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i “Principi fondamentali” e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato italiano.  Il richiamo, attraverso il crocifisso dell’origine religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia (non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica “laicità”, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato italiano. Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere “laicamente” sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza alla religione che li ha ispirati e propugnati. Come ad ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere imposti o attribuiti significati diversi e contrastanti, oppure ne può venire negato il valore simbolico per trasformarlo in suppellettile, che può al massimo presentare un valore artistico. Non si può però pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato. Nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare un altro simbolo, in verità, che si presti, più di esso, a farlo(…). La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano”.




Il regime di incompatibilità per il personale scolastico

di Antonella Mongiardo e Ferdinando Rotolo

La questione delle incompatibilità e del cumulo di impieghi per il personale della scuola è
alquanto complessa, perché si inquadra in una disciplina normativa frastagliata e in
continua evoluzione, caratterizzata da leggi, decreti, sentenze e circolari.
L’istituzione scolastica, come ogni amministrazione pubblica, è soggetta al principio di
esclusività del rapporto di lavoro, sancito dalla Costituzione a tutela del buon andamento
della P.A.
Pertanto, il personale della scuola, docente e ATA, ha il dovere di prestare il proprio lavoro
ad esclusivo servizio dell’amministrazione scolastica. Ne conseguehttps://www.gessetticolorati.it/dibattito/wp-content/uploads/2021/10/INCOMPATIBILITA.pdf che, al momento
dell’assunzione, il personale scolastico deve essere libero da ogni altra occupazione
lavorativa e, in caso di eventuale rapporto esistente, pubblico o privato che sia, questo deve
immediatamente cessare.

L’ampio saggio di Antonella Mongiardo è disponibile in allegato 




Dall’alternanza scuola lavoro ai PCTO – Un ricco vademecum

di Antonella Mongiardo

Con la legge 107/2015, l’alternanza scuola-lavoro non è più occasionale, ma diventa strutturale e obbligatoria per gli studenti frequentanti il secondo biennio e l’ultimo anno di tutti gli istituti secondari di secondo grado.
La normativa prevede che per gli ultimi tre anni della scuola superiore debba essere previsto nel Ptof un percorso “per lo sviluppo di competenze trasversali e per l’orientamento”, che può essere svolto in un’azienda, in un ente pubblico, in un strutture di tipo culturale, come musei e biblioteche, e anche all’estero.
Il progetto o i progetti di alternanza inseriti nel Ptof vengono declinati e attuati dai singoli Consigli di Classe, che dovranno predisporre i singoli percorsi formativi personalizzati tenendo conto dei loro interessi e delle loro attitudini.

In allegato un ampio e dettagliato vademecum sull’argomento

 




Una risorsa in tempo di DaD, la valutazione per competenze

di Antonella Mongiardo 

Perché valutare per competenze

Nell’attuale momento storico, che vede stravolgersi completamente il modo di fare scuola, si sta riscoprendo l’importanza della didattica per competenze.

Dopo aver risolto le problematiche tecniche e organizzative legate all’avvio della Dad, le scuole si trovano, ora, dinanzi ad una nuova sfida: valutare a distanza.

Come si sa, l’attività valutativa attiene all’autonomia delle istituzioni scolastiche ed è una competenza del Collegio dei docenti, che definisce modalità e criteri per assicurare oggettività, equità, omogeneità e trasparenza alla valutazione, nel rispetto della libertà di insegnamento.
Oggi, però, si deve affrontare un problema nuovo, ossia ridefinire criteri e modalità per assicurare una valutazione seria in regime di didattica in remoto.

Gli insegnanti, in questo periodo, sono alle prese con lo stesso tipo di dubbi: come valutare gli studenti alla fine dell’anno scolastico? Come somministrare le prove? Che attendibilità possono avere delle verifiche fatte a distanza?

Ed ecco che la Dad si rivela come una cartina al tornasole che mette in luce il valore e l’utilità della valutazione per competenze. Rompere gli schemi tradizionali della didattica ci ha fatto comprendere che, in questo particolare frangente, è il momento di rimodulare anche la logica della valutazione, spostando l’attenzione dal piano strettamente dei contenuti a quello delle competenze. La domanda, dunque, diventa: quali competenze valutare e come valutarle?
Già da molti anni la didattica per competenze ha fatto il suo ingresso nella scuola italiana, anche se nella pratica scolastica si tende, talvolta, a ritenerla un adempimento conclusivo, una mera integrazione formale del documento di valutazione degli apprendimenti e del comportamento.

Ma oggi ci rendiamo conto che non può essere così. L’emergenza sanitaria, rendendo necessario il ricorso alla Dad e catapultando studenti, docenti e dirigenti in una dimensione digitale, ci ha fatto toccare con mano come nella società attuale, sempre più complessa e tecnologicamente avanzata, caratterizzata da continue e veloci trasformazioni, il principale compito della scuola non sia quello di trasmettere contenuti.

In una realtà caratterizzata da una pluralità di informazioni e da una molteplicità di stimoli culturali, la scuola deve, soprattutto, insegnare ai giovani la capacità di apprendere, interagire con gli altri, selezionare le informazioni, organizzare materiali, utilizzare risorse per risolvere problemi; saper criticare, scegliere, decidere. In altre parole, deve sviluppare competenze.

Un concetto complesso, quello di competenza, utilizzato con valenze e sfumature diverse a seconda del contesto, interessante da esplorare anche dal punto di vista del suo percorso storico e normativo.

Breve excursus storico e normativo sulla “competenza”

La parola “competenza” nasce nel mondo del lavoro, come la capacità personale di eseguire con successo un compito, una mansione o una prestazione.  La letteratura, da Tyler a Perreneaud, Da Le Boterf a Rivoltella, ne offre varie definizioni.

Dai diversi enunciati si coglie ciò che è l’essenza del concetto di competenza, la quale non risiede in una conoscenza, in un sapere, in un’abilità, in un ruolo, ma si compone di tutte queste cose insieme e si estrinseca proprio nella mobilitazione stessa delle risorse, nella loro messa in opera in un determinato contesto.

In Italia, la “competenza” si affaccia nel mondo dell’istruzione e della formazione, quando inizia a maturare l’idea della necessità di avvicinare la scuola al mondo del lavoro.

Negli anni ‘90 la parola competenza fa il suo ingresso nei documenti scolastici e nei “patti” per lo sviluppo e l’occupazione. Di competenza si sentirà parlare soprattutto in seguito all’impegno assunto dagli stati membri dell’U.E. di definire entro il 2006 un quadro unico europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF).

Edith Cresson, uno dei leader culturali dell’U.E., nel Libro Bianco su “Istruzione e formazione -Insegnare e apprendere” (1995) sottolinea l’importanza della cultura per lo sviluppo della persona, oltre che della produttività: “Nel nostro tempo la ‘mission’ fondamentale dell’istruzione è aiutare ogni individuo a sviluppare tutto il suo potenziale e a diventare un essere umano completo, e non uno strumento per l’economia; l’acquisizione delle conoscenze e competenze dev’essere accompagnata da un’educazione del carattere, da un’apertura culturale e da interessamento alla responsabilità sociale”.

E’ in questo contesto culturale che la competenza inizia il suo ingresso normativo nel mondo dell’istruzione e della formazione. E dalla normativa giungono spunti di riflessione e sistematizzazioni.

Il 18 dicembre 2006 il Consiglio e il Parlamento dell’Unione Europea varano una raccomandazione ai paesi membri sulle competenze chiave che devono essere garantite al termine del percorso scolastico obbligatorio. Sono otto le competenze chiave europee, quattro disciplinari (comunicazione nella madre lingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenze matematiche di base; competenze digitali) e quattro interdisciplinari (imparare a imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale).

Dall’Europa arriva anche la prima definizione organica del concetto di competenza, identificata come la comprovata capacità di utilizzare, in situazioni di lavoro o di studio, un insieme strutturato di conoscenze e di abilità acquisite nei contesti di apprendimento formale, non formale o informale.

La raccomandazione viene recepita dall’Italia. Il sistema italiano, la cui principale necessità è elevare il livello medio d’istruzione e contrastare la dispersione scolastica, si pone il problema di quali debbano essere gli obiettivi formativi da garantire al termine dell’obbligo scolastico e della scuola secondaria di secondo grado.
Un importante contributo, in tal senso, viene dato dal documento tecnico allegato al regolamento della legge 296/2006 (che introduce l’innalzamento dell’obbligo scolastico da otto a dieci anni), che definisce tali obietti formativi in termini di competenze. Il documento fa riferimento, in particolare, a quattro assi disciplinari (dei linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale) e a otto competenze chiave di cittadinanza: imparare a imparare, progettare, comunicare, comunicare e collaborare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire e interpretare l’informazione.

La competenza diviene, così, un elemento fondamentale della progettazione scolastica, dalla scuola dell’infanzia al secondo ciclo di istruzione. Lo stesso Pecup, che rappresenta il punto di riferimento per la scuola secondaria di secondo grado, punto di convergenza dell’intera azione educativa della scuola, è centrato non sui contenuti disciplinari, ma sulla persona dello studente; esso esplicita, infatti, sia le competenze disciplinari sia le competenze trasversali che attengono all’autonomia, alla capacità di lavorare in gruppo, allo spirito di iniziativa, al senso civico e di responsabilità.

La legge 92 del 2012 valorizza le competenze acquisite in qualsiasi contesto, formale, non formale e informale, al fine di promuovere il percorso di crescita culturale e professionale della persona in tutta la sua storia di studio, di vita e di lavoro. Il regolamento attuativo della legge Fornero stabilisce i livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti formali, non formali e informali, ai fini della loro individuazione e validazione in termini di crediti formativi.

Come valutare le competenze

La scuola moderna, dunque, è, la scuola delle competenze, che devono essere certificate al termine della scuola primaria, in uscita dal primo ciclo d’istruzione, all’assolvimento dell’obbligo scolastico e al superamento dell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo.

Nel primo ciclo, la certificazione delle competenze, riferite alle otto competenze chiave europee, serve a dare alla famiglia e alla scuola del ciclo successivo informazioni qualitative sulla capacità acquisita dall’alunno di risolvere compiti e problemi, nuovi e complessi, in contesti reali o simulati.

Nel secondo ciclo, le competenze sono riferite ai quattro assi disciplinari e alle otto competenze chiave di cittadinanza, parametrizzate secondo una scala articolata su tre livelli: base, intermedio, avanzato.

Per essere certificate, però, le competenze devono prima essere valutate. La valutazione delle competenze è un processo complesso, non circoscritto ad un atto finale ma prolungato nel tempo, attraverso l’osservazione sistematica degli alunni dinanzi a varie situazioni da affrontare.

La valutazione, pertanto, non può essere affidata alle modalità tradizionali usate per valutare gli apprendimenti (compiti scritti, verifiche orali, test strutturati o semi-strutturati), ma si avvale di altri strumenti, come l’osservazione sistematica, le autobiografie cognitive, le prove autentiche, i compiti di realtà, le Uda.

L’osservazione sistematica permette agli insegnanti di rilevare il processo, cioè l’insieme delle operazioni che l’alunno compie per interpretare e risolvere il problema, per selezionare informazioni, per individuare collegamenti, per valorizzare risorse (libri, documenti, tecnologie, etc.)

L’autobiografica cognitiva è il racconto che l’alunno fa di se stesso o di una propria esperienza di apprendimento. La narrazione mette in luce aspetti che talvolta restano nascosti nell’apprendimento. Il racconto di sé consente all’allievo di auto-valutarsi e al docente di valutarlo, rimodulando eventualmente la propria azione didattica in funzione delle esigenze specifiche dell’allievo.

Il compito autentico è un problema complesso da risolvere o un prodotto, materiale o immateriale, che gli alunni possono realizzare utilizzando le conoscenze e le abilità acquisite. Per essere davvero autentica una prova di questo tipo deve essere interdisciplinare; l’insegnante deve essere un coach, un mediatore, e devono essere solo gli studenti a predisporla e organizzarla.

Il compito di realtà è la richiesta che viene somministrata agli allievi di risolvere una situazione problematica, il più possibile rispondente ad una situazione reale, impiegando le conoscenze e le abilità acquisite.

Per valutare un compito autentico o di realtà si utilizzano le rubriche valutative.

Una rubrica valutativa è un insieme di criteri associati ai diversi livelli di una scala di voti o giudizi.
Per costruire una rubrica valutativa, si associano degli obiettivi o prestazioni alla competenza che si intende valutare e si sceglie una scala di punteggi, ad esempio su base 20 o 30, che deve essere messa in corrispondenza con i tre livelli di competenza. Ad ognuno degli obiettivi/prestazioni in cui viene declinata la competenza si associa una scala di voti, articolata in genere su 4, 5, o 6 livelli.  Ad ogni prestazione viene assegnato un voto e il punteggio complessivo misura il grado di sviluppo di quella competenza.

Un altro strumento moderno e efficace per valutare le competenze è l’Unità didattica di apprendimento.
L’Uda è un’esperienza di apprendimento che consente agli studenti di entrare a contatto con diversi ambiti del sapere. Per progettare un’Uda si sceglie un argomento e lo si sviluppa in modo interdisciplinare. Ciò consente agli studenti di utilizzare conoscenze e abilità afferenti a diversi ambiti disciplinari per sviluppare competenze trasversali che saranno valutate e certificate al termine del percorso.

Per realizzare l’Uda si deve aver cura di organizzare momenti di apprendimento che vadano al di là della semplice lezione frontale e che prevedano, ad esempio, ricerche individuali, esperienze laboratoriali, lavori di gruppo, creando così un ambiente di apprendimento più coinvolgente e stimolante per gli studenti ed una valutazione più in linea con quanto richiesto a livello europeo.

Proposta per una rubrica valutativa

La seguente rubrica valutativa è stata impostata su tre competenze chiave di cittadinanza: imparare a imparare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile.

 

 

IMPARARE A IMPARARE

 

COLLABORARE E PARTECIPARE

 

AGIRE IN MODO AUTONOMO E RESPONSABILE

 

 

 

 

 

 

 

IN CLASSE

Rielabora i concetti, utilizza le informazioni per risolvere i problemi

 

1  è disattento alle spiegazioni, lo svolgimento delle consegne è inadeguato, non riesce ad orientarsi per volgere semplici compiti.

2  si distrae di frequente, ha difficoltà a comprendere  le consegne.

3  se sollecitato, comprende semplici richieste, nello svolgimento manifesta incertezze.

4  comprende le consegne e le svolge in modo adeguato.

5  analizza con sicurezza le conoscenze a disposizione per utilizzarle nell’espletamento delle consegne in modo efficace e costruttivo.

 

Partecipa alle attività didattiche, collabora con i compagni e con l’insegnante

 

1  non partecipa quasi mai alle attività didattiche

2  partecipa alle attività in modo discontinuo ed è poco collaborativo.

3 se sollecitato, partecipa alle attività didattiche ed interagisce con i compagni, anche se in modo non sempre adeguato.

4  partecipa alle attività didattiche regolarmente e interagisce in modo costruttivo con i compagni e l’insegnante.

5 partecipa attivamente alle attività didattiche collaborando in modo efficace e costruttivo con l’insegnante e i compagni di classe.

 

Rispetta gli impegni assunti, sa organizzare il proprio tempo studio.

 

1  non rispetta le consegne, non sempre si sottopone alle verifiche.

2  non è puntuale nel rispettare i tempi delle consegne, ha bisogno di essere sollecitato nel sottoporsi alle verifiche

3  rispetta le consegne e si sottopone alle verifiche, ma non è sempre costante.

è autonomo nell’organizzare lo studio, è puntuale nelle consegne e si sottopone sempre alle verifiche.

5 è autonomo nell’organizzare lo studio, è puntuale nelle consegne, è sempre disponibile a sottoporsi alle verifiche, anche in modo volontario, e a trasferire le proprie conoscenze al gruppo classe.

 

 

 

 

 

 

IN DAD

1  non rispetta quasi mai le consegne.

2  ha difficoltà a comprendere semplici consegne,  utilizza in modo superficiale e discontinuo le risorse a disposizione.

3  se orientato comprende le consegne, nello svolgimento manifesta qualche incertezza, utilizza le risorse in modo parziale e disorganico.

4  comprende le consegne e sa svolgerle in modo adeguato, utilizza le risorse a disposizione in modo efficace.

5  analizza con sicurezza e padronanza le informazioni acquisite per utilizzarle nell’espletamento delle consegne in modo critico ed efficace.

1  non interagisce quasi mai con l’insegnante

2  interagisce poco e in modo discontinuo l’insegnante.

3  se sollecitato interagisce con l’insegnante anche se in modo non sempre adeguato.

4  partecipa alle attività a distanza regolarmente e interagisce in modo costruttivo con l’insegnante e i compagni di classe.

5  partecipa attivamente alle attività a distanza collaborando in modo efficace e costruttivo con l’insegnante e i compagni di classe.

 

1  non rispetta le consegne e non effettua interazioni, né sincrone né asincrone.

2  non è costante nelle consegne e ha bisogno di frequenti sollecitazioni per effettuare le interazioni sincrone e/o asincrone.

3  rispetta, in genere, le consegne e ed effettua l’interazione sincrona e/o asincrona, ma in modo non sempre costante.

4  è autonomo nell’organizzare i materiali di studio, è puntuale nelle consegne ed effettua  regolarmente l’interazione sincrona e/o asincrona.

5  è autonomo nell’organizzare i materiali di studio, è puntuale nelle consegne, effettua regolarmente l’interazione sincrona e/o asincrona ed è disponibile ad aiutare il gruppo classe nella risoluzione di problemi organizzativi e/o didattici.

Punteggio e livello competenza

/30                /10          livelli competenza
< 14             4                livello base non raggiunto
14 – 15         5                base
16 – 19         6
20 – 22         7               intermedio
23 – 26         8
27 – 28         9                avanzato
29 – 30       10