Il tormentone dei voti numerici

di Cinzia Mion

Premessa: gli antefatti della nota “Bruschi”

È da molto tempo che alcune Associazioni professionali, particolarmente sensibili all’idea di scuola inclusiva, sollecitano l’abolizione dei voti numerici, utilizzati dai docenti per la valutazione scolastica dei loro alunni. Ho sottolineato l’aggettivo inclusiva per differenziare l’idea di scuola richiesta oggi dalle norme legislative e dalle Indicazioni Nazionali – note ministeriali orientanti l’operato dei docenti per realizzare tali norme — nei confronti dell’idea precedente che possiamo definire elitaria. Il cammino è stato lungo per arrivare ad auspicare una vera scuola che sappia riconoscere “a tutti e a ciascuno” non solo il diritto allo studio ma anche il diritto alla cultura.
La svolta epocale è avvenuta, come sappiamo tutti, dopo l’approvazione della nostra Costituzione repubblicana, caratterizzata per l’idea di scuola aperta a tutti, dall’articolo 34 e dall’articolo 3, articolo bellissimo che non finisce di emanare suggestioni e orientamento.

Il primo passaggio legislativo determinante è stata l’approvazione della scuola media unica e l’irrompere conseguente della scuola di massa.
È stato qui che la valutazione scolastica numerica, in assenza del ri-orientamento dei docenti, da parte del Ministero, nei confronti di tale cambiamento dell’utenza così radicale ma significativo ed auspicabile, ha cominciato a fare danni.


Non è questa la sede per ricostruire la storia dell’evoluzione della valutazione scolastica, basti ricordare le critiche sociopolitiche, quelle docimologiche, quelle psicologiche fino a quella pedagogica che ha elaborato un interessantissimo concetto di “valutazione formativa”, delineando la differenza con quella tradizionale “sommativa” (B.Vertecchi).
Questa significativa argomentazione psicopedagogica ha indotto il legislatore a varare la legge 517/1977, che aboliva finalmente le pagelle con i voti nella scuola elementare (art. 3) e nella scuola media (art.9), introducendo delle schede valutative che dovevano utilizzare motivati giudizi sul livello globale di maturazione. Si sarebbe dovuta aprire così la strada alla ”VALUTAZIONE FORMATIVA”.
Quello che è successo poi, in concomitanza con l’abolizione del voto numerico sui documenti ufficiali, ma non nella mente dei docenti, è analizzato molto bene da Franca Da Re su www.scuola7, n.200, del 31 agosto.

Perché la valutazione numerica è inadeguata

Innanzitutto per un rilievo della docimologia (scienza della misurazione) per cui il suo utilizzo presuppone che i voti possano essere considerati vere e proprie unità di misura di una scala perfetta, con intervalli tra loro perfettamente uguali (i docenti questa impossibilità la avvertono e si aggiustano usando i “- “, i “+”, i “1/2” ma spesso non auto-interrogandosi oltre).
Ciò determina che l’applicazione della valutazione numerica, per noi su scala decimale, sia assolutamente soggettiva ed arbitraria:
• perché il voto semplifica una operazione complessa come la valutazione e la spinge verso la misurazione (con cui non va assolutamente confusa)
• perché sclerotizza una situazione ed ostacola l’apprezzamento del processo di apprendimento: si pensi alle micidiali medie aritmetiche sollecitate fra l’altro dall’utilizzo del registro elettronico;
• perché, di fatto, finisce con l’attribuire all’alunno il mancato apprendimento, senza che avvenga più di tanto il suo coinvolgimento da parte del docente con l’offerta di una attività individualizzata;
• perché non induce l’autointerrogazione del docente sul proprio insegnamento e non sollecita il suo bisogno formativo (la responsabilità del voto negativo è tutta da attribuire all’allievo);
• perché, soprattutto quando è pesantemente negativo, incide sull’autostima, sull’autoefficacia e sulla motivazione o demotivazione degli alunni aumentando il rischio di dispersione degli stessi;
• perché non aiuta il processo di autovalutazione degli allievi;
• perché non offre informazioni sui punti forti o sulle lacune utilizzabili dall’allievo per il processo di miglioramento; fa emergere solo gli sbagli (e non gli errori che invece si potrebbero recuperare con una modalità diversa dalla stigmatizzazione);
• perché stimola il confronto inutile e dannoso nel gruppo e tra le famiglie che lo usano per ricavarne una classifica;
• perché sollecita un clima di classe competitivo, non positivo e non cooperativo (come sollecitato dalle Indicazioni nazionali vigoskiane) inibendo così l’aiuto reciproco e l’apprendimento tra pari, che poggiano sulla prosocialità.

La delusione del decreto 62/2017

Gli appelli per l’abolizione del voto sono stati numerosi e ben argomentati.
Anche la Commissione incaricata dal MIUR di approfondire la questione, in vista del nuovo decreto legislativo, oggetto di una delle deleghe derivanti dalla L. 107/2015, aveva consegnato al Governo una relazione in cui offriva delle alternative al voto, considerato anche da essa inadeguato. Sembrava che ormai avessimo raggiunto l’obiettivo ma la domanda cruciale da parte di un membro del Governo ha bloccato l’iniziativa.
”Ma i genitori cosa preferiscono?” (sic!).
La risposta “I voti naturalmente…!” ha annullato ogni ricerca e determinato la decisione: “E allora voti siano!”
Non posso fare a meno di sottolineare il grave costume politico ormai consolidato di prendere le decisioni più sull’onda della ricerca del facile consenso che sull’opportunità, psicopedagogica in questo caso, di un sistema di valutazione adatto all’idea di scuola cambiata nel tempo.
C’è da rilevare però il contrasto con il dettato della delega che chiedeva fosse dato “rilievo alla funzione formativa e di orientamento della valutazione stessa”, cosa che questa decisione onestamente troppo frettolosa e stridente non fa.
A dire il vero il termine “formativa” compare anche nell’articolo 1 del decreto ma si capisce subito che il valore semantico di questo termine, che per gli addetti ai lavori connota in modo molto preciso e inequivocabile un tipo di valutazione che non può poggiare sui voti, è stato usato dal legislatore con un significato generico.

Si riaprono i giochi

Tra gli effetti del coronavirus e il conseguente lockdown, l’interruzione inaspettata della scuola, la devastante clausura dei bambini e la chiacchieratissima DAD – con il risultato doloroso della inequivocabile emarginazione dei soggetti più deboli, spesso senza possibilità di connessione per svariati motivi – è scaturita la necessità di porre mano anche alla valutazione. Nel frattempo si sono moltiplicate le petizioni da parte di Associazioni professionali e sindacali allo scopo di approfittare di questo spiraglio legislativo per correggere il tiro, rispetto al recente decreto n.62, che aveva invece inaspettatamente confermato i voti numerici.

La Legge n.41 del 6 giugno 2020, che ha convertito il Decreto Legge n.22 dell’8 aprile 2020, emanato in situazione di emergenza, ha recepito infatti un emendamento votato in Parlamento e presentato da una rappresentante della maggioranza.
Questo emendamento recita: “In deroga all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 13 aprile 2017,n.62, dall’anno 2020/2021, la valutazione finale (ndr. neretto mio) degli apprendimenti degli alunni delle classi della scuola primaria, per ciascuna delle discipline di studio previste dalle Indicazioni nazionali per il curricolo, è espressa attraverso un giudizio descrittivo riportato nel documento di valutazione e riferito a differenti livelli di apprendimento, secondo termini e modalità definiti con ordinanza del Ministro dell’istruzione”.

A dire il vero questa era sembrata ai più una vittoria a metà in quanto ci sembrava che il vero passo avanti ci sarebbe stato se tutta la scuola dell’obbligo, o almeno il primo ciclo, avesse potuto usufruire di tale cambiamento e non solo in sede di valutazione finale. Ci siamo però accontentati.

La doccia fredda

Una nota del Ministero dell’Istruzione del 1 settembre a firma M.Bruschi (già noto al mondo della scuola per essere stato il consigliere del ministro Gelmini che aveva ripristinato i voti nel 2008) interviene però a gamba tesa ad interrompere la soddisfazione per il risultato ottenuto, sia pure parziale. La nota infatti non ammette per il primo quadrimestre della scuola primaria la valutazione attraverso l’uso di giudizi descrittivi e ripristina invece i voti, mentre rimangono i giudizi solo nel risultato finale.
Bruschi, recentemente promosso dalla Ministra Azzolina al posto della dott.ssa Palumbo, tornata a dirigere l’USR del Veneto, applicando una analisi prettamente letterale dell’emendamento, invece di cercare di cogliere lo spirito della legge, ha fatto uscire dallo sfondo il termine finale nell’emendamento ed ha così stravolto la probabile intenzione di chi l’emendamento l’ha steso e di chi l’ha votato al Parlamento.
Come è possibile pensare e poi sostenere che nel primo quadrimestre si utilizzino i voti e nella valutazione finale i giudizi? Dal punto di vista logico, ma non politico, semmai potrebbe essere sostenuto solo il contrario. Il dottor Bruschi, una volta fatta questa analisi “occhiuta”, e nello stesso miope, dell’emendamento, secondo me doveva segnalarlo alla Ministra che doveva provvedere in tempi brevi, sollecitando quelle modifiche che potranno intervenire in sede legislativa, come si evince dalla nota stessa, non allarmare i Dirigenti presi in questo momento dai problemi seri della Scuola.

Le proteste

Non ha fatto infatti un buon servizio alla Scuola stessa questa nota che è deflagrata proprio alla vigilia della sua riapertura, con docenti, dirigenti, genitori, amministratori locali e cittadinanza tutta in fibrillazione per la sicurezza. Non ha fatto un buon servizio alla ministra Azzolina da tempo nell’occhio del ciclone… Sono subito infatti partite le proteste da parte della Associazioni professionali e sindacali. L’A.N.DI.S., l’Associazione Nazionale dei Dirigenti Scolastici, ha emanato un comunicato stampa in cui manifesta il suo stupore insieme al disappunto.
Il Movimento di Cooperazione Educativa — conoscendo i tempi burocratici e non solo – oltre alla protesta si spinge opportunamente a dare suggerimenti alle Istituzioni scolastiche perché provvedano autonomamente in qualche modo a correggere questo paradosso increscioso. Dario Missaglia, presidente di Proteo Fare Sapere, definisce “grave e sconcertante” la nota di Bruschi, che “riduce l’atto del parlamento a una questione burocratica”.

Auspichiamo una resipiscenza ed un esempio

Sarebbe auspicabile che, all’interno della rivisitazione delle modifiche in via legislativa, accadesse una resipiscenza a livello politico-ministeriale e che, magari per risarcire la Scuola per questo disagio in più – non previsto e nemmeno prevedibile – si raggiungesse l’auspicato risultato di eliminare la valutazione su scala numerica decimale da tutta la scuola, almeno del primo ciclo. Le ragioni sono state espresse: basterebbe accettare la fatica di riflettere e di innovare. Non è questo forse che da tempo i vari Ministri dell’Istruzione raccomandano a gran voce? Il pensiero riflessivo ed innovativo sono le bussole anche dei testi della Indicazioni nazionali. Facciamo in modo di dare l’esempio: che le prediche diventino anche le pratiche. Prendiamo due piccioni con una fava: iniziamo l’insegnamento dell’educazione civica con un bell’esempio di ETICA PUBBLICA all’interno della P.A, operando perché il dichiarato diventi l’effettivo.




Ma la Homeschool non è una cosa seria

di Cinzia Mion

Correva l’anno 2013, al tempo della ministra Carrozza , che aveva appena emanato delle “Linee guida per l’educazione alla sessualità e all’affettività” e ricordo l’alzata di scudi delle forze più oltranziste, per non dire talebane, che si sono subito organizzate per fare un fronte comune…
Si temeva che tale formazione …sdoganasse l’omosessualità! La parola incriminata era “gender” o meglio identità di genere….

Per farla breve schiere di madri “sciamannate” hanno invaso, senz’altro in Veneto –  ma credo anche in altre regioni, anche se non così famose come il Veneto per essere stata la patria della cosiddetta “balena bianca”- dicevo hanno invaso le Presidenze scolastiche per diffidare i Dirigenti dall’organizzare non solo corsi di formazione su queste linee guida ma addirittura corsi contro il bullismo.
Nell’immaginario genitoriale senz’altro era meglio un figlio bullo che a rischio di diventare (anche se per la verità gay si “è” non si diventa) omosessuale.
Sono sorte allora, un po’ come i funghi, le minacce-proposta di farsi la scuola personale-privata-casalinga-genitoriale.

Ci sarebbe da ridere se non fossimo in grado di capire fino in fondo quali sono le pulsioni soggiacenti a simili fantasie.
“Il figlio è mio e lo faccio diventare quello che desidero io”.
Lasciamo perdere la valutazione sulla tipologia di madre ma il bello è che, rispetto all’orientamento sessuale – perché di questo si trattava – non c’è niente, ma proprio niente da fare, perché esso non risponde ai dettati delle madri (o dei padri)!

Naturalmente stessa sceneggiata si ripresenta quando con la legge 107/15, il comma 16 riparla della necessità di educare bambini e bambine “ai principi di pari opportunità, alla parità tra i sessi, e alla prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni…”CAPIRAI….!
L’ASPETTO PIU’ GRAVE invece della  “HOMESCHOOL” secondo me,  è quello che scaturisce dall’inevitabile INDOTTRINAMENTO, sia che sia intenzionale sia che sia automatico e inconsapevole, da parte della famiglia sui propri figli.
Per chiarire meglio cosa intendo dire riporto un piccolo ma significativo capoverso –  del testo degli ex Nuovi programmi  per la scuola elementare , datati 1985 – che recitava a proposito dei rapporti Scuola, Famiglia e Partecipazione : ”La scuola, rispettando le scelte educative della famiglia, costituisce un momento di RIFLESSIONE APERTA, ove si incontrano ESPERIENZE DIVERSE : essa aiuta il fanciullo a superare i PUNTI DI VISTA EGOCENTRICI E SOGGETTIVI, così come ogni  giudizio sommario che PRIVILEGI IN MANIERA ESCLUSIVA  UN PUNTO DI VISTA E UN GRUPPO SOCIALE A SCAPITO D’ALTRI” (il maiuscolo è mio!)

Io credo che queste parole così sagge inquadrino perfettamente il rischio che –  in questi tempi molto più complessi dovuti  alla società multiculturale, multietnica, multireligiosa in cui l’educazione al CONFRONTO deve essere preponderante rispetto a quella connotata solo dal CONSENSO-  la “homeschool” sia veramente pericolosa.
Naturalmente non sono a conoscenza di quante scuole genitoriali  siano state avviate per ragioni del primo tipo oppure per ragioni strettamente ideologiche del secondo tipo.

Desidero però aggiungere che in entrambi i casi non sono stati rispettati i cosiddetti PERMESSI di cui parla Eric Berne, il fondatore dell’Analisi Transazionale.  Berne infatti pone come presupposto di una sana educazione l’emissione in primis da parte dei genitori –  e degli educatori poi, compresi i docenti – di alcuni fondamentali PERMESSI, che vengono attivati il più delle volte attraverso il linguaggio del corpo e spesso rimangono impliciti ma fanno parte dell’atteggiamento CORRETTO di porsi di un buon educatore.

Si tratta del permesso DI ESSERE SE STESSI e del permesso di PENSARE (con la propria testa). Sembrano atteggiamenti scontati ma scontati non sono se i genitori stessi , che si presume vogliano il bene per i loro figli , li sconfessano così platealmente, considerando i figli come i loro prolungamenti.




Il capitale sociale al tempo del Coronavirus

di Cinzia Mion

La Scuola sta vivendo in questo frangente, caratterizzato dagli esiti della pandemia non ancora risolta, un momento molto difficile e problematico. Mai come ora infatti ci siamo resi conto di quanto sia importante questa istituzione non solo per la crescita culturale e civica delle nuove generazioni ma anche per il loro benessere psicologico. Le aspettative nei suoi confronti sono perciò altissime ma la sua riapertura sta mettendo a dura prova le forze del Paese che si muovono nella sua orbita.

La Scuola, caratterizzata da vent’anni di Autonomia, avrebbe dovuto, nel tempo , depotenziare i legami gerarchici e verticali che la facevano dipendere direttamente in tutto e per tutto dal Ministero, ed avrebbe dovuto richiedere invece l’attivazione di una “responsabilità circolare” riferita al territorio di riferimento. L’enfasi oggi allora dovrebbe essere posta sulla comunità di appartenenza, all’interno della quale invitare a coltivare appunto la corresponsabilità educativa tra tutti gli attori che gravitano intorno alla comunità.


Assistiamo invece ad una Scuola autonoma che oggi è in una estrema difficoltà e non riesce a rappresentarsi ancora, per il prossimo anno scolastico, un modo accettabile di ripartire. La difficoltà si concentra soprattutto dal punto di vista della sicurezza sanitaria. Rimane sullo sfondo la necessità di aprirsi ai suoi naturali abitanti che sono i ragazzi, sfrattati un brutto giorno senza preavviso. Il prossimo futuro appare ancora infatti confuso, sfocato e per qualche verso improponibile, alla luce di ventilate soluzioni centrali o regionali, a volte in contrasto fra loro ed invocate a gran voce come salvifiche. Dicevamo che gli abitanti naturali sono i bambini e i ragazzi dimenticati, spariti, evaporati, chiusi in casa ma che a settembre dovrebbero ri-materializzarsi nelle aule…. Con quali dispositivi?
E’ tutto un pullulare di indicazioni, piani e “ripartenze”regionali e ministeriali. La Scuola è chiamata ad attrezzarsi per tempo e i Dirigenti Scolastici, che si ritrovano ad essere ridotti oggi a “geometri”, che misurano, calcolano e poi rimisurano, sono in fibrillazione…
Da sola però la scuola non ce la fa.
Ci viene allora in aiuto James Coleman con il suo concetto di Capitale sociale.
Il “capitale sociale” è per Coleman l’insieme delle risorse contenute nelle relazioni fiduciarie, all’interno di una comunità territoriale, che risultano essere appunto una “ricchezza”, utile per lo sviluppo cognitivo e sociale dei soggetti in evoluzione.
Le relazioni fiduciarie tra le forze del territorio favoriscono infatti i partecipanti alle relazioni stesse, alimentando la capacità di riconoscersi, di intendersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente, di COOPERARE ai fini comuni, di creare PATTI PEDAGOGICI ma anche di veri e propri PATTI TERRITORIALI.
Il tutto oggi per affrontare l’emergenza dettata dalla pandemia. Il problema sarà di mantenere la bussola del “primato pedagogico” per tutte le soluzioni che saranno prese e ciò potrebbe risultare difficile o problematico se, come sta succedendo, il livello di ansia sarà spostato tutto sugli aspetti organizzativi.
La diffusione del capitale sociale esercita effetti positivi sul tenore della vita sociale e promuove “l’inclusività”, attraverso la creazione di “legami” (bonding) e “’integrazione” attraverso la creazione di “ponti”(bridging). Deve esserci qualcuno però che si attiva per COORDINARE queste forze del territorio , per mantenere la rotta e la VISION..
In questo modo si può intervenire correttamente sul rischio dello sfaldamento o sbandamento di chi brancola e fa fatica ad organizzare a livello centrale soluzioni che sappiano coniugare (come si addice ad operazioni che abitano il paradigma della complessità) sia i bisogni a lungo trascurati e dimenticati di bambini e adolescenti – definiti dalla pedagogia e psicologia dell’apprendimento – sia la sicurezza sanitaria. Sembra che questa ultima preoccupazione stia assorbendo in modo ossessivo tutte le energie degli attori coinvolti svelando, implicitamente, la soggiacente preoccupazione di AUTOTUTELA piuttosto che il desiderio di riattivare il cuore pulsante di una Istituzione troppo a lungo mortificata e imbavagliata. Non intendo dire che questa preoccupazione non sia sacrosanta ma che non deve diventare totalmente assorbente e paralizzante sull’altro versante.
Ritornando a Coleman è compito dei Dirigenti scolastici allora assumere il mandato di COORDINARE il gruppo per mantenere il primato PEDAGOGICO, intessere le reti collaborative tra la Scuola (attraverso tutto il suo personale) e tutte le forze del territorio, in primis le Famiglie, poi gli Enti Locali, (Comuni e Province), l’Azienda sanitaria, le aziende responsabili dei trasporti locali, le parrocchie, le forze del terzo settore, (le Associazioni culturali, ricreative, sportive, artistiche, le Cooperative, le Organizzazioni di volontariato,ecc.) .
In questo modo si agevola l’intesa e la co-responsabilità delle Istituzioni e della forze sane del territorio, attraverso la fiducia reciproca, la condivisione delle aspettative e i valori, il rispetto delle norme e si ridà autorevolezza e credibilità a tutte le Istituzioni e le Associazioni che in un certo modo si occupano dell’educazione e dello sviluppo delle giovani generazioni. Oggi, a fronte del gravoso ed impellente problema di ripartire con le attività didattiche in presenza a settembre, devono avvenire INCONTRI RAVVICINATI frequenti, all’interno dei quali suddividere i compiti diversificati a seconda delle competenze riconosciute. Intendo dire che non sono i Dirigenti o i loro collaboratori che dovranno fare i geometri.
Esiste un Ufficio tecnico del Comune o della Provincia, utile a reperire gli spazi necessari (scuole dismesse, spazi non utilizzati e lasciati deperire che devono essere subito individuati e riattivati, attraverso pareti abbattute o alzate, creazione di eventuali pareti mobili con effetto di spazi modulari a seconda delle esigenze, reperimento nelle parrocchie di aule usate per il catechismo ed utilizzabili provvisoriamente per attività scolastiche, ecc)
Prima dell’esplodere del coronavirus stavamo assistendo ad un impoverimento del capitale sociale, ad una contrazione della vita associativa, ad una diminuzione dell’impegno civico dei cittadini per un pericoloso radicarsi di forme individualistiche.
Da più parti si sta auspicando oggi che, dopo la pandemia che ha scosso i corpi e le coscienze, si possa provare a ritrovare la bussola con l’aiuto di tutti e la regia delle Istituzioni scolastiche, deputate all’orientamento e alla co-costruzione, SISTEMATICA E INTENZIONALE, della crescita culturale e della maturazione educativa di tutte le nuove generazioni del Paese




Il voto, il sapore ammuffito della valutazione di altri tempi

arcobalenodi Cinzia Mion

Onorevole Ministra, sono una dirigente scolastica in quiescenza ma non quiescente, molto anziana , diciamo a forte rischio di coronavirus ma non così lenta nei riflessi da non aver colto, in una sua recente intervista alla stampa, delle frasi che mi hanno riportato il sapore molto antico e quasi ammuffito di una concezione della valutazione scolastica veramente d’altri tempi.
Naturalmente sono convinta che le parole in questione le siano sfuggite, sappiamo cosa succede quando siamo pressati dai giornalisti…
Le frasi sono quelle che si riferiscono alla promozione per tutti ma alle pagelle che saranno” vere: se lo studente “merita” 8 avrà 8, se merita 5 avrà 5.. alla fine tutti avranno un voto.
Chi risulta insufficiente recupererà l’anno prossimo…(qualcuno riferisce anche se un allievo non è stato presente potrebbe prendere anche 4, ma io non l’ho sentito, spero non sia vero)

Credo fermamente che nella confusione della pandemia le sia sfuggito che già la docimologia (scienza della misurazione) negli anni 60/70 aveva stabilito che i voti numerici su scala decimale sono soggettivi ed arbitrari perché applicati come se fossero unità di una scala perfetta, con differenze tra un voto ed un altro di una misura perfettamente uguale…., e noi sappiamo tutti che non è così, inoltre li applichiamo come se stessimo misurando e non valutando. Discorsi scontati. Scontati?

Ma non voglio riprendere la vecchia tiritera, ormai, della lotta al voto per tutti i sacrosanti motivi che ormai tutte le persone di scuola conoscono bene (quante volte l’abbiamo predicato, recentemente un webinar con 3.000 partecipanti) ma le disposizioni legislative continuano a richiederlo almeno come risultato quadrimestrale e finale, e moltissimi docenti continuano ad applicarlo per inerzia, sottomissione, rigidità, incapacità ad usare altre modalità, mancanza del cosiddetto carisma professionale, uso del voto come spauracchio, non conoscenza della valutazione formativa, rifiuto della fatica di osservare, annotare, sfrucugliare dentro al processo di insegnamento-apprendimento dove si annidano le lacune, di quale tipologia sono, (strutturali o elementari?)…Figuriamoci se non si è capito finora….se si capirà ora…
Ma invece questa è forse la volta buona ed allora insieme a Lei , mi perdoni, desidero fare un ragionamento semplice semplice: ”Se si ammette all’anno successivo, in altri termini “si promuove” , un ragazzino – uno studente come dice lei – che riporta un voto insufficiente, quando si deve riprendere a settembre, ed attivare il recupero delle lacune (il docente titolare oppure un altro docente, perché sappiamo tutti che la continuità non può essere garantita) cosa si è venuti a sapere o a ricordare rispetto a quali sono le smagliature che devono essere rimagliate? Se davanti si para un numero che al massimo offre la possibilità di attivare una “classifica” tra tutti gli appartenenti alla classe – che così non viene più considerata una “comunità di apprendimento”, allora diventa difficile avviare un recupero puntuale, significativo, azzeccato e tempestivo .
La classifica è inutile sempre perché non siamo ad un concorso, e ridicola al tempo del coronavirus che almeno in questo potrebbe comportare un ridimensionamento delle competizioni inutili e dannose, e rimettere un po’ a posto i valori che contano, mettendo in ombra quelli che possiamo tralasciare.

La classifica aveva un senso quando si scremavano le eccellenze, ai tempi della scuola elitaria, cara Ministra, che discendeva dalla riforma Gentile, ma poi , come senz’altro saprà, abbiamo avuto la scuola di massa (1962 ,con la scuola media unica), poi la scuola dell’integrazione (L517/77 che ha introdotto la famosa Valutazione formativa, ahimè negletta e trascurata) che Lei , onorevole Ministra, sponsorizzando il voto , aiuta a svalutare e mettere in ombra. Naturalmente sono certa che lo fa in buona fede. Lei conosce la realtà dei voti e di questi parla…
Ma non ho finito, oggi la scuola è diventata dell’inclusione, dove ogni docente, Dirigente, personale non docente, genitore, EELL, Associazione professionale del territorio deve costruire reti di relazioni fiduciarie per far raggiungere il “successo formativo” a tutti i soggetti (regolamento Autonomia).
Qui il discorso diventerebbe troppo tecnico e lungo e penso che Lei sia presa da compiti urgenti e difficilissimi da gestire per cui chiudo, sperando però che abbia colto il significato di questa lettera semplice ed accorata, di una vecchia, ma non ammuffita , persona di scuola e che non sottovaluti il rischio di aumentare il numero già alto dei dispersi (caduti fuori dal contenitore scuola), alla vista di un voto negativo, secco, coma una scudisciata.

Con fiducia




A proposito del “6 politico”

rete_numeridi Cinzia Mion

C’è un po’ di confusione oggi intorno al “6 politico”.
Allora ecco due righe per fare chiarezza.
Io c’ero. C’ero quando è stata varata la Costituzione (1948) e nella Costituzione, l’articolo 3 e l’articolo 34 sancivano “l’uguaglianza di tutti cittadini” e “la scuola è aperta a tutti..ed è impartita per almeno 8 anni, obbligatoria e gratuita”.
L’Italia diventa (finalmente) un Paese democratico.
L’articolo 3 consta di un principio formale e di un principio sostanziale: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…).
Cioè, la Scuola è una Istituzione della Repubblica e suo compito è rimuovere l’ignoranza che impedisce la libertà e l’uguaglianza di tutti i cittadini, soprattutto in questo periodo storico, dei figli dei contadini e degli operai che precedentemente accedevano solo ai primi anni della scolarizzazione.


La riforma della scuola media unica (1962) con l’abolizione dell’esame di ammissione, con l’irrompere della scuola di massa, segna l’inizio di questo tentativo nobile di democratizzare la Scuola per democratizzare il Paese.
Il Ministero però non ha ri-orientato i docenti nel passaggio da una scuola elitaria ad una di massa. Sappiamo com’è andata. Sappiamo della Lettera ad una professoressa di don Milani, sappiamo che a fare da “cassa di risonanza” a don Milani si è diffusa la critica del Movimento Studentesco del ’68.
Come don Milani aveva affermato che “la scuola non può essere un ospedale che accoglie i sani e respinge gli ammalati” così il ’68 ha adottato lo slogan “La valutazione scolastica seleziona ed emargina attraverso i meccanismi di una valutazione tradizionale sommativa, calibrata per scremare le eccellenze come la Riforma Gentile” Allora è meglio che non valuti perché così tradisce la Costituzione”. Io c’ero.
Da questa “critica sociopolitica” ha origine l’atteggiamento “a-valutativo” del movimento studentesco che onestamente non aveva nessun compito di offrire proposte pedagogiche e nemmeno incoraggiare la rilassatezza dei costumi degli studenti (fra parentesi i sessantottini studiavano dalla mattina alla sera, magari i testi non ortodossi secondo la scuola tradizionale!!!).
Abbiamo dovuto aspettare la critica docimologica, quelle varie psicologiche, per arrivare alla critica veramente pedagogica (L.517/77) che ha (avrebbe voluto) rivoluzionare la valutazione scolastica introducendo quella formativa, questa sconosciuta.
Io c’ero e ancora ci sono. A predicare a vuoto.




Contro il voto: preoccupiamoci di insegnare, non di valutare

io_noidi Cinzia Mion

Questa non è un’invettiva (e non c’entra con la pandemia)
Mi accingo a ritornare brevemente sulla faccenda del voto numerico a scuola solo per chiarire che ciò che la scuola deve fare bene è insegnare (quindi adottare delle didattiche adeguate). 

La valutazione è intrinseca ad ogni processo di educazione ed insegnamento perché, nel rapporto asimmetrico di chi insegna, rispetto a chi impara, deve avvenire un’autoregolazione rispetto a ciò che sta succedendo (chi, quanto, cosa, come, se ha imparato e capito, oppure chi quando, come, cosa, perché non ha imparato o capito, per mettere in atto altre didattiche alternative, più laboratoriali, ecc).
Su questa autentica, e professionalmente impostata, valutazione del docente (che diventa autovalutazione nell’autoaggiustamento di una didattica alternativa) dovrebbe inserirsi l’insegnamento individualizzato, per il recupero delle lacune emerse. Contemporaneamente l’allievo deve essere avviato all’autovalutazione attraverso una legenda che lo aiuta a prendere atto degli errori commessi. Subito, appena traspaiono, senza aspettare che si incancreniscano. I docenti della primaria si incaponiscono in genere di più nel recuperare i più fragili, (ce l’hanno nel DNA questa benefica testardaggine che deriva dall’aver integrato dal tempo della legge Casati il concetto della scuola dell’obbligo) gli altri spesso, non sempre per fortuna, conservano un residuo di “scuola elitaria” (scremare le eccellenze per orientarle al liceo…!) e più velocemente “dimettono mentalmente” quelli che non tengono il passo.

Il tutto in una classe in cui, con il metodo tradizionale, conosciuto perché subìto, si insegna a tutti nello stesso tempo e nello stesso modo. La valutazione a scuola non è finalizzata a creare una classifica, per cui più lo strumento mi aiuta a misurare le microdifferenze con il bilancino, meglio è.
La classifica serve in un concorso per cui un millesimo di differenza può essere un posto di lavoro.

Torniamo alla classe: chi può sostenere che agli alunni serve la classifica? Chi è più bravo e chi lo è meno?

1) Alla classe come “comunità di apprendimento” questo non serve, anzi è deleterio perché introduce dinamiche di competitività (al posto della cooperazione interattiva vigotskiana) e non crea le condizioni per l’insegnamento reciproco, previsto anche dalle Indicazioni

2) La classifica serve al genitore che si accontenta di sapere se il proprio figlio è nella fascia superiore, allora si inorgoglisce narcisisticamente, oppure in quella inferiore, allora si preoccuperà: non gli può fregar di meno sapere “cosa” suo figlio conosce e soprattutto cosa ha veramente capito (comprensione profonda e duratura)

3) La classifica serve a dimostrare al docente? … bella domanda. A cosa serve? Chiedo a chi difende i voti, o a chi continua a sostenere che un modo di valutare vale un altro, di spiegare questa strenua difesa del voto….

4) Chiedete ad un allievo qualsiasi, cosa ha sbagliato se ha meritato un voto inferiore al 10….
Farete una brutta scoperta, tranne rarissime eccezioni, non ve lo saprà dire (addio al sacrosanto recupero dell’errore dispositivo così importante per l’apprendimento) perché quello che diventa interessante in una scuola “così” è il voto non l’apprendimento. Fate voi….




Qualche considerazione su valutazione e didattica a distanza

computerdi Cinzia Mion

La prima osservazione che mi sgorga subito, dopo aver cominciato a leggere il testo di Bruschi, che ho conosciuto al tempo della ministra Gelmini, ma che fra l’altro trovo molto migliorato(!), è l’espressione “comunità educante” che non molto tempo fa è stata inserita in uno specifico articolo dell’ultimo contratto della scuola e che mi ha provocato un moto di stupore. Sì, perché certe espressioni quando vengono partorite la prima volta in un dato contesto, con un certo significato e nel tempo sono rilanciate, a livello culturale, sempre nello stesso modo, secondo me non si possono d’emblèe offrire con un significato altro.
Mi riferisco al concetto nato all’interno del personalismo cattolico nella prima metà del secolo scorso, in un tempo in cui la monocultura connotava il comune sentire in Italia e quindi all’interno delle varie comunità civili intorno alla scuola. Tutti allora siamo stati educati al CONSENSO. In famiglia, in parrocchia, a scuola,ecc. I Valori erano comuni.

Società multiculturale e confronto

La situazione però oggi è fortemente cambiata. La società è diventata multiculturale, multietnica e multireligiosa. Non è più possibile pensare alla comunità educante come ad un dato già costituito. E insieme al consenso, riferito alle norme di civile convivenza, la scuola dovrebbe saper anche educare, in modo particolarmente significativo, al Confronto.
Le “Indicazioni” suggeriscono infatti che insieme al pensiero riflessivo si solleciti anche l’insegnamento del decentramento del proprio punto di vista.
E’ per questo che il consenso non basta più, bisogna insegnare la competenza del confronto, attraverso prima di tutto l’arte di ascoltare.

Solo la Scuola può in modo intenzionale e sistematico insegnare la competenza dell’argomentare e controargomentare, indispensabili per sapersi confrontare.
Bisogna vedere quanta energia i docenti attuali mettono in campo per educare al “pensiero riflessivo”, richiesto da questa competenza, oppure se preferiscono la tradizionale triade: lezione, studio, interrogazione e verifica , come restituzione che avviene in genere inesorabilmente attraverso il pensiero riflettente.
Sembra che Bruschi questo l’abbia capito bene perché raccomanda che non si cada nella trappola della “mera assegnazione di compiti…”
A proposto del riferimento consolidato al senso della comunità educante, riflettente spesso le ideologie di appartenenza della famiglie, amo ricordare un passo addirittura dei programmi per la scuola elementare del 1985 che recitava, a proposto dei rapporti tra scuola e famiglia: ”La scuola, rispettando le scelte educative della famiglia, costituisce un momento di riflessione aperta, ove si incontrano esperienze diverse: essa aiuta a superare i punti di vista egocentrici e soggettivi, così come ogni giudizio sommario che privilegi in maniera esclusiva un punto di vista e un gruppo sociale a scapito d’altri”

Capitale Sociale

Sarebbe meglio utilizzare allora il concetto di “Capitale sociale” (anche se non mi esalta la definizione di capitale al posto di ricchezza sociale) coniato da James Coleman. Si tratta anche qui di co-costruire , perché questa ricchezza sociale si attiva solo attraverso l’interazione sociale, le reti sociali e la fiducia. Consiste nell’insieme delle risorse contenute nelle relazioni familiari e sociali della comunità, comprese le Associazioni professionali e gli EELL, che risultano utili per lo sviluppo cognitivo e sociale dei bambini/e o ragazzi/e. Le relazioni fiduciarie alimentano la capacità di riconoscersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente, di creare legami (bonding) e gettare ponti (bridging).
Ho voluto rendere chiara qual è la differenza tra il concetto classico di “comunità educante”e quello più dinamico e attuale di “capitale sociale”, nella consapevolezza grosso modo della pseudocoincidenza del riferimento e del fatto inconfutabile che queste relazioni fiduciarie vanno sollecitate e monitorate. Il principale attore dovrebbe essere qui il Dirigente Scolastico .

Comunità professionale di docenti

Rileggiamo però ora il dettato di Bruschi”La didattica a distanza…da un lato sollecita l’intera comunità educante, nel novero delle responsabilità professionali e prima ancora, etiche di ciascuno, a continuare a perseguire il compito sociale e formativo del “fare scuola”, ma “non a scuola”e del fare, per l’appunto, “comunità”…(il corsivo è mio)
E’ evidente allora che Bruschi sta facendo riferimento alla “comunità professionale dei docenti” altrimenti chiamata “comunità di pratica”, quando parla di comunità educante. Esiste infatti già a livello istituzionale questa espressione, già inaugurata ufficialmente dalle Indicazioni Nazionali”(2012) , su cui poggiano già ricerche e approfondimenti.

Andiamo però per gradi.

Innanzitutto chiariamo che la scuola attuale usa il termine “comunità”, attraverso sempre i suoi testi ufficiali, ricavandolo dall’approccio socioculturale interattivo vigotskiano. Tale termine infatti sta ad indicare in primis la classe come comunità che apprende, ossia un contesto ricco di risorse multiple e dislocate, che vengono attivate dal docente e messe a disposizione di tutti. Analogamente dovrebbe avvenire per la comunità professionale dei docenti, all’interno della quale le azioni socialmente orientate sono: la consultazione reciproca, la richiesta di aiuto, lo scambio di informazioni e di saperi, il porre questioni, l’avanzare domande, la discussione, il confronto sulla prassi che richiede la de-privatizzazione delle pratiche didattiche, la negoziazione di significati condivisi. Il problema è che, per fare in modo che la suddetta comunità professionale possa esplicare bene il suo lavoro, devono essere ritagliati all’interno dell’orario di lavoro dei docenti dei “tempi adeguati” per dialoghi di riflessione.
La scuola primaria ha già a disposizione due ore alla settimana , gli altri ordini di scuola invece non ne dispongono. La mia sollecitazione allora è rivolta sia a Bruschi, e quindi al Ministero dell’Istruzione, che alle OOSS affinché nel prossimo contratto chiamino con il vero nome la comunità professionale di docenti distinguendola dalla comunità scolastica più in generale e cerchino di prevedere per tutti gli ordini di scuola i tempi per avviare quel confronto fermentativo che permette di crescere insieme. Tutti gli ordini professionali hanno le loro “comunità di pratica”, a maggior ragione i docenti dovrebbero avere la possibilità reale di farla funzionare. Quei docenti che sono i professionisti della scuola, cui è assegnato un compito nobile e di importanza essenziale perché sono alla base della formazione di tutti cittadini del Paese.

La valutazione delle attività didattiche a distanza.

In merito al tema della valutazione ritengo che Bruschi sia stato nella sua nota più innovativo di certi docenti abbarbicati al “voto”. Ripropongo infatti le sue parole che non arrivano a parlare di “valutazione formativa” ma per tale denominazione manca veramente poco…”Se l’alunno non è subito informato che ha sbagliato, cosa ha sbagliato e perché ha sbagliato , la valutazione si trasforma in un rito sanzionatorio..ma la valutazione ha sempre un ruolo di valorizzazione, di indicazioni di procedere con approfondimenti, con recuperi, consolidamenti, ricerche…Si tratta di affermare il dovere alla valutazione… come elemento indispensabile di verifica dell’attività svolta, di restituzione, di chiarimento, di individuazione di eventuali lacune (io aggiungo:tutti aspetti formativi se il docente se ne fa carico…modificando la sua strategia didattica ed aggiustando il tiro) all’interno di criteri stabiliti da ogni autonomia scolastica, ma assicurando la necessaria flessibilità”.
A dire il vero non so se Bruschi abbia avuto veramente l’intenzione di alludere un po’ alla valutazione formativa e differenziare, sollecitando l’uso del termine criteri, la misurazione dalla valutazione.
Sta di fatto che questa lettura è possibile, comunque augurabile.
La sovrapposizione delle due operazione infatti è l’errore più macroscopico che viene commesso dai docenti, se sono sprovvisti di una sufficiente cultura docimologica che richiede l’esplicitazione dei veri e propri criteri di valutazione. Il PTOF ne pretende la dichiarazione.
Chissà poi se il riferimento alla flessibilità intende mettere in guardia rispetto all’uso sconsiderato del registro elettronico quando suggerisce medie aritmetiche…
Spero ardentemente che non scorgere nessun riferimento al termine VOTO costituisca un invito esplicito a non usarlo, almeno in questa emergenza, provando così a prendere atto che è possibile, anzi migliora il processo di insegnamento-apprendimento.
Provare per credere!

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