Comunità dis-educante

di Cinzia Mion

Appare sulla stampa locale in questi giorni una notizia che mi ha sconvolto.
Si tratta di una ragazzina di 12 anni bullizzata in una scuola media di Treviso dalle compagne di classe e pure dai compagni, uno in particolare: il suo compagno di banco.
Il tutto per il suo aspetto fisico: troppo grassa secondo i simpatici “bulli” e secondo i canoni delle anoressiche ragazzine alla moda. Le minacce ingiuriose arrivavano perfino a suggerirle il suicidio.
Sappiamo tutti quali siano le dinamiche del bullismo e i diversi attori (tra cui quelli che sanno e tacciono: colpevoli come gli attori dei comportamenti vigliacchi!) e sappiamo pure quali siano le “paturnie “ oggi delle preadolescenti in crescita, in riferimento all’aspetto del corpo che si sta trasformando. Non intendo parlare di questo e nemmeno di ciò che sta circolando nel web rispetto a certe pratiche criminali e sadiche di istigazione al suicidio che dovrebbero essere stroncate da chi controlla (o dovrebbe controllare) ciò che circola appunto in Internet e che è a disposizione, senza filtri opportuni, anche ai soggetti più fragili.

Intendo parlare della “comunità educante”, di cui molti si riempiono la bocca, senza rendersi conto che questa comunità da molto tempo è diventata, come sottolinea Vertecchi, DIS-EDUCANTE.

Si tratta delle cosiddette “derive sociali” che da almeno dieci anni stanno rendendo preoccupanti le relazioni sociali e lentamente ci stanno contaminando tutti senza limiti o argini. Finché qualche comportamento fuori dalle righe interviene, sperando che questa comunità ormai dis-educante si svegli dal torpore e cerchi dei rimedi.
Non so se questo avverrà, lo spero.


Le derive sociali dell’indifferenza diffusa, della mancanza della categoria “dell’altro”, della totale assenza ormai dell’EMPATIA (come nel caso che stiamo esaminando), del narcisismo dilagante, dell’aumento del razzismo e dell’omofobia, del deficit di ETICA PUBBLICA, del prevalere dell’”avere” sull’ “essere” per cui ciò che conta è solo il profitto, delle aspettative genitoriale a livello soprattutto delle prestazioni e alla competitività piuttosto che alla cooperazione,ecc .hanno ridotto la convivenza sociale nel territorio spesse volte arida e caratterizzata dal più gretto egoismo
Ricordo che quando venivo chiamata a fare formazione al sostegno della genitorialità presso le scuole e durante gli incontri, in riferimento a queste derive sociali su cui famiglia e scuola devono intervenire per correggere l’andazzo, chiedevo ai genitori se educavano i loro figli alla “COMPASSIONE” (patire con l’altro)… Beh: mi guardavano come una marziana….
IO ricordo invece ancora benissimo le parole che usava mia madre quando incontravamo qualche mendicante che stava peggio di noi (era difficile perché c’era la guerra e noi eravamo sfollati; eppure lei mi diceva “poverino” vedi quello, non ha nemmeno un tetto sulla testa…). Il tono delle sua parole e la mimica del suo viso mi commuovevano ed io ho capito presto il significato di “senzatetto”.

Ritornando al compito degli adulti educatori, ammesso e non concesso che i genitori oggi desiderino solo far felici i loro figli per cui rattristarli sulla condizione altrui non passa nemmeno per la loro testa (salvo come sempre le felici eccezioni) credo che il compito rimanga alla scuola in cui i docenti hanno il compito professionale, istituzionale e continuativo di educare i loro allievi e, nel caso dei giorni nostri, correggere le derive sociali summenzionate, portandoli alla “consapevolezza e alla responsabilità”.
Ovviamente consapevolezza e responsabilità che avranno molta più forza E INCISIVITA’ se passeranno attraverso un’ALFABETIZZAZIONE EMOTIVA, all’interno della quale riuscire a farli “mettere nei panni degli altri”, far loro avvertire la paura, la tristezza, il dolore, la rabbia ma anche la gioia. E finalmente attraverso l’empatia avvertire la profondità della com-passione.




L’alternanza Scuola-lavoro e il binomio Capire/Riuscire

di Cinzia Mion

Rispetto alla problematica che sta focalizzando l’attenzione delle scuole secondarie di secondo grado in questi ultimi tempi, io penso che- per capire fino in fondo l’opportunità di sostenere, con i dovuti aggiustamenti da ambo le parti, l’autentica connessione tra scuola e lavoro- bisogna rendere plasticamente accessibile il CAPIRE  insieme al RIUSCIRE, intrecciando perciò sempre queste due dimensioni, rendendole quasi simultanee o comunque “contemporanee”.

Per poter tentare di rendere più chiaro il mio pensiero devo fare riferimento all’intelligenza connettiva, termine coniato da Derrick de Kerchove. Il  noto pensatore allude con questa espressione alla connessione digitale di vari soggetti che pensano, si esprimono e condividono insieme un sapere diffuso. Essi mantengono le varie individualità ed anche le differenze, essendo però in grado di costruire una comunità di conoscenza. De Kerchove però non prende in considerazione la declinazione di Gardner delle intelligenze personali, che si articolano in interpersonale ma anche in intrapersonale: egli focalizza infatti soltanto quella interpersonale tanto è vero che, secondo Nicholas Carr, sottovaluta l’influenza negativa della digitalizzazione sulla nostra intelligenza connettiva intrapersonale. Carr infatti lamenta che la digitalizzazione depotenzia il pensiero critico e riflessivo, che ci permette di creare autonomamente le connessioni mentali, in cambio di un click che “connette” al posto nostro.

Io allora intendo fare riferimento con questo mio contributo proprio alle connessioni mentali non soltanto interpersonali ma anche intrapersonali, che si mettono in moto quando un soggetto cerca di creare legami, correlazioni  tra i dati a disposizione, anche se a prima vista questi possono apparire sconnessi.

L’intelligenza connettiva, sia personale che collettiva, allora, si sviluppa perché il nostro cervello funziona organizzando il sapere attraverso la ricerca di analogie e differenze, sviluppando competenze essenziali di elaborazione e riflessività. Il pensare autentico consiste in fondo nel creare nessi e relazioni tra i dati, gli elementi, le esperienze, vale a dire la pratica illuminata dalla teoria, e la teoria dalla pratica, per ricondurre il discorso al tema di apertura.                                                                                                                                                  Il filo rosso allora che intendo afferrare è quello dato dal binomio Capire/Riuscire, e viceversa, partendo da alcune riflessioni dei grandi pensatori del secolo scorso. Se Piaget infatti aveva superinvestito il termine capire di energia speculativa, tanto da pretendere che nel capire fosse inclusa la competenza dello spiegare, Bruner invece connotava il capire da una forza conoscitiva tesa al comprendere profondamente. Per questo motivo egli avrebbe suggerito a Piaget di sollecitare la “verbalizzazione durante l’azione” in riferimento, per esempio, ai suoi esperimenti sulla conservazione, individuando nel linguaggio, che “narra” l’azione, la chiave di volta per catturare il processo mentale congruente. Riassumendo: l’azione riconducibile al RIUSCIRE, descritta attraverso la narrazione, fa scaturire la mentalizzazione del CAPIRE.                            Bruner azzarda che in questo modo gli esiti degli esperimenti piagetiani sarebbero stati ben diversi.

D’altro canto il paradigma culturale della complessità, come ci insegna Edgar Morin, ci induce a coniugare logiche diverse, anche contrapposte. Siamo noi, con le nostre radici culturali immerse nel paradigma della linearità, che obbedisce alla logica binaria (o vero o falso, o capire o riuscire,ecc.) che facciamo fatica ad attivare l’operazione logica della “coniugazione”. Teniamo però presente che i ragazzi che occupano le nostre aule oggi  abiteranno domani una cultura ancora più complessa.

Anche il metodo “dell’apprendistato cognitivo”, impregnato di didattica vigotskiana, descritto molto bene nella raccolta “I contesti sociali dell’apprendimento” a cura di C.Pontecorvo, A.M.Ajello, C.Zucchermaglio, offre un esempio incomparabile di riuscire-capendo ma anche di capire-riuscendo. Il riferimento, per quanto attiene la competenza della comprensione del testo scritto, trasversale ed essenziale per ogni disciplina, è  alle ricerche di  Brown e Palincsar che utilizzano l’insegnamento reciproco insieme all’espediente di pensare a voce alta. La strategia infatti descritta dagli autori suddetti utilizza le quattro fasi vigotskiane dell’apprendistato tradizionale (modellamento, assistenza, sostegno, progressiva diminuzione dell’aiuto) ma le  rielabora ponendo l’enfasi sui processi cognitivi e metacognitivi che, attraverso appunto la funzione del pensiero a voce alta, non rimangono taciti e nascosti nella mente del docente, dotato di expertise, ma vengono messi a disposizione dell’allievo apprendista.

Scorrendo l’indice del testo in questione troviamo inoltre il saggio interessante della Resnick “Imparare dentro e fuori alla scuola”. Dice la Resnick: Ho identificato quattro tipi generali di discontinuità tra l’apprendimento a scuola e la natura dell’attività cognitiva fuori della scuola. In breve, la scuola si concentra sulla prestazione individuale, mentre il lavoro mentale all’esterno è spesso condiviso socialmente. La scuola è finalizzata a incoraggiare il pensiero privo di supporti, mentre il lavoro mentale fuori della scuola include abitualmente strumenti cognitivi. La scuola coltiva il pensiero simbolico, laddove l’attività mentale fuori della scuola è direttamente coinvolta con oggetti e situazioni. Infine la scuola ha il fine di insegnare capacità e conoscenze generali, mentre all’esterno dominano le competenze specifiche per la situazione”.

La prima osservazione da fare è che se la scuola utilizzasse più spesso attività laboratoriali e progettasse, insegnasse e valutasse “competenze”, e non solo conoscenze generali e capacità, già si avvicinerebbe a colmare il  gap tra apprendimento a scuola e fuori dalla scuola.

Se poi, come affermavo più sopra, a scuola si utilizzassero metodi come l’apprendistato cognitivo, allora si può pensare che la preparazione a trarre beneficio mentale ed operativo dall’alternanza scuola-lavoro, diventerebbe più accessibile ed efficace. Nell’apprendistato cognitivo infatti l’autoefficacia che sperimenta l’allievo nel cimentarsi attraverso l’imitazione nel compito sollecitato, dopo aver assimilato i processi riportati, corrisponde al passaggio dialettico tra CAPIRE/RIUSCIRE.  Bisognerebbe che anche nell’esperienza  lavorativa gli studenti venissero accompagnati da un tutor, formato ad hoc, vale a dire in grado di sollecitare la riflessione sull’esperienza, man mano che questa viene affrontata, rielaborata, ne viene colto il senso, viene collegata con i saperi già acquisiti e con altri di cui eventualmente si avverta la necessità di approfondimento.

Anche nell’acquisizione della competenza le Indicazioni per la scuola dell’infanzia chiedono “la riflessione sull’esperienza” come modalità paradigmatica dell’avviamento di tutte le competenze in genere, su cui poi dovrà avvenire l’attività dell’allenamento. Che cos’è questo se non riuscire/capire?

Il nostro sistema scolastico è sempre stato caratterizzato da una grave scissione: da una parte la scuola del capire, i licei, dall’altra quella del riuscire, gli istituti tecnici e quelli professionali. Secondo me l’obbligo di organizzare l’alternanza scuola-lavoro in tutti gli ordini di scuola secondaria di secondo grado va nella direzione di attenuare questa scissione a tutto vantaggio dell’apprendimento e della formazione delle nuove generazioni e della sfida che si sta parando davanti alla scuola. Sfida che il nostro sistema scuola, organizzato intorno alle conoscenze ed alla lezione trasmissiva, fa fatica ad accettare, rischiando di non tenere il passo con i tempi e di non assumere in debita considerazione i nuovi bisogni formativi dei nostri giovani.

Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?,Cortina, 2011
De Kerckhove DerricK, La rete ci renderà stupidi?, Castelvecchi, 2016
Pontecorvo C.,Ajello A.M.,Zucchermaglio C.(a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento,LED, Milano, 1995




Docente esperto: proviamo a prendere il toro per le corna

di Cinzia Mion

Proviamo a prendere il “toro per le corna”. Con questo intendo solo anticipare che dirò la “mia”, opinione personale quindi senza nessuna pretesa di essere un oracolo…
Il riferimento è alla tanto discussa e famigerata questione del “docente esperto”.
Vorrei essere succinta e salto a piè pari le ragioni per cui questa proposta è da respingere al mittente. Molti più titolati di me l’hanno già fatto argomentando più che a sufficienza. Chiarisco subito, la proposta è da respingere e non per la questione della vetusta e semplicistica faccenda dell’egualitarismo, di cocciuta matrice sindacale. Nessuno ci crede, tutti sanno che non corrisponde al vero ma affermarlo sembra voglia dire bestemmiare. Ecco uno dei vantaggi di invecchiare è proprio questo: infischiarsene!
Proverò allora a dipanare il mio pensiero capovolgendo la prospettiva.
Allora iniziamo: la Scuola esiste perché esistono gli alunni.
I docenti esistono non perché rappresentano un posto di lavoro qualsiasi ma perché esistono gli alunni e anche una Costituzione che prevede una scuola dell’obbligo fino ai 14 anni (oggi 16!).
Ergo sono importanti:
– gli allievi, indispensabili;
– una Istituzione chiamata Scuola pubblica, altrettanto indispensabile (per non tornare al precettore privato, ed oggi con la scuola “parentale” siamo lìlì);
– e un articolo della Costituzione che suggerisce, o meglio pretenderebbe, l’idea di una Scuola inclusiva, (art.3) quindi “EFFICACE” al fine di mantenere in asse la Democrazia del Paese, attraverso non solo l’alfabetizzazione strumentale ma anche disciplinare, finalizzate al maggior successo formativo per tutti , (compresa la comprensione del SENSO di ciò che si legge!)
Parlavamo dei docenti che sono importantissimi ma devono essere TUTTI all’altezza del compito : “BEN FORMATI“ e di conseguenza “BEN REMUNERATI” e consapevoli che dal loro lavoro dipende il FUTURO dei giovani e quindi del Paese

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Il maggiore riconoscimento sociale ed economico di questa professione potrebbe farla ridiventare appetibile anche ai maschi, la cui carenza si avverte moltissimo soprattutto per la rilevanza che hanno in funzione della realizzazione dell’identità di genere, cui servono modelli sia di identificazione che di differenziazione.
Ovviamente il compito oggi del docente è indirizzato, attraverso i nuclei fondanti delle discipline e il loro valore epistemologico, verso la padronanza di fondamentali competenze che vanno PROGETTATE perché non scaturiscono per magia dalle sia pur importanti “conoscenze”.
In primis oggi troviamo il saper PENSARE , ovviamente con la propria testa, competenza chiamata anche ERMENEUTICA, applicata a tutti i sistemi simbolico culturali che la scuola offre, utile però ad orientarsi nel mondo con consapevolezza critica.
Accanto a questa competenza fondamentale, nell’epoca dei click, (sufficienti ad ottenere una risposta esatta), dobbiamo ricordare la competenza della Cittadinanza intesa anche , forse soprattutto, come osservanza dell’ETICA PUBBLICA e del BENE COMUNE, per la cui realizzazione dobbiamo saper RINUNCIARE tutti a qualcosa (magari assumendo la “parzialità” del proprio punto di vista).
Fin dall’inizio, all’entrata nell’Istituzione scolastica, alla base del rapporto docente-alunno, ma anche nella “comunità professionale dei docenti”, troviamo però la competenza socio-relazionale , visto che ci viene richiesto di interagire solidaristicamente fra noi, utilizzando quella “naturale “ INTERSOGGETTIVITA’, cui siamo programmati fin dalla nascita , come ci illustrano bene le neuroscienze. Competenza che ogni docente deve padroneggiare per gestire in modo accettabile una classe quasi sempre ormai multietnica e multiculturale, ma alla cui padronanza deve educare anche i soggetti affidati, attraverso didattiche cooperative ed interculturali.
E qui arriviamo al cuore del problema. Per diventare “docenti” in grado di affrontare la loro professione in modo adeguato a queste aspettative bisogna frequentare la SCUOLA DI ALTA FORMAZIONE?
Ma soprattutto una scuola per pochi eletti e alla fine, se si è valutati positivamente , ricevere un premio in denaro?
Non sarebbe “cosa buona e giusta” che tutti quelli che “aspirano” a diventare docenti ricevessero una formazione iniziale, e poi una formazione in servizio costante ed obbligatoria, idonee per una professione così impegnativa dal punto di vista professionale ed etico?
Una formazione universitaria che preveda innanzitutto, nel piano di studi, che ci sia la “Psicologia dell’apprendimento”(come risultava all’interno della laurea in Pedagogia anteriore al sistema 3+2, ma su questo ho argomentato più volte inutilmente, probabilmente disturbando anche qualcuno….). Vi ricordate la figura “dell’Operatore psicopedagogico” istituito dall’Ordinanza 282 del 1989? Eh l’età permette di recuperare anche queste vecchie note ministeriali, che però sono indicative di una sensibilità particolare che è stata persa. Quella però era una “figura intermedia” che aveva funzioni specifiche, soprattutto per i casi difficili e serviva a tutto intero l’Istituto. Ai docenti però della scuola primaria non era ancora richiesta la laurea. Una formazione in psicologia dell’apprendimento permette di acquisire chiavi di lettura importantissime per capire dove va a parare il nostro INSEGNAMENTO, finalizzato appunto all’APPRENDIMENTO. Possiamo dire che costituisce i FONDAMENTALI. (permettetemi una divagazione con un esempio antidiluviano ma che rende l’idea: voi riuscite ad immaginarvi un artigiano che realizza calzature a mano ma che non sappia riconoscere la differenza tra il cuoio, la pelle, la plastica o il cartone???)
Il riferimento alle figure intermedie mi permette invece di recuperare alcune riflessioni che potrebbero giustificare un richiamo alla carriera dei docenti.
Alla luce infatti delle esperienze in atto , alcune nuove “figure professionali di sistema” ( il cosiddetto middle management) dovrebbero essere riconosciute sia professionalmente (previa formazione adeguata) che finanziariamente per collocarsi proficuamente nell’attuale processo di trasformazione del sistema scolastico.
Mi riferisco particolarmente all’attuazione “vera” dell’Autonomia, alla complessità della gestione degli Istituti scolastici decisamente troppo numerosi e spesso ospitanti più indirizzi e alle tipologie di utenza, sempre più complesse, all’interno di una società che sta assumendo caratteristiche , come dice oggigiorno Vertecchi, di società “dis-educante”.
La via del middle management è il passaggio intermedio per arrivare poi al grado di “dirigente scolastico”, cui comunque si accede per concorso, ma con punteggio privilegiato. Da rilevare che in questo modo un ex-docente, con suddetta formazione psicopedagogica, diventerà sicuramente un LEADER PER L’APPRENDIMENTO, connotazione oggi carente se non mancante del tutto.




La luna e il dito (lettera aperta ai ministri Bianchi e Messa)

di Cinzia Mion

Recentemente è scoppiata una grande polemica a proposito di dati divulgati da “Save the children” intorno alla percentuale dei ragazzini che alle prove Invalsi, e non solo, risulta non siano in grado di comprendere il senso di quello che leggono.
Sembra si tratti di una notizia falsa, gonfiata nei numeri. La polemica all’inizio è divampata su queste presunte fake news.
Poi, più giustamente, si è sviluppata intorno alle conseguenze che potrebbero avere queste notizie se rapportate alla interpretazione conseguente: se da tempo la scuola pubblica non riesce a colmare queste lacune che, ai fini del raggiungimento del senso completo di “cittadinanza” sono basilari, allora bisogna sostenerla dall’esterno…
Se la causa è la cosiddetta “povertà educativa” ecco pronto a farsi avanti il terzo settore, visto che ci sono in vista degli stanziamenti considerevoli del PNRR . La vecchia volpe di Andreotti diceva “a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca…!”

Un ottimo pezzo di Missaglia nel sito di Proteo illumina questa possibile deriva insistendo giustamente sul fatto che non si tratta di “povertà educativa” ma si tratta di necessario ed impellente cambiamento della scuola ma non “aggiungendo” qualcosa dall’esterno bensì “costruendo ponti e alleanze virtuose con chi è interessato davvero al cambiamento della scuola e soprattutto modificando in profondità l’assetto, il funzionamento, l’organizzazione e i contenuti della didattica”
Allora io aggiungo: carissimo Dario Missaglia , carissimi Ministri dell’Istruzione Bianchi e dell’Università e della Ricerca M.C. Messa, cominciamo dalla base. A me hanno insegnato che se qualcosa non va, il percorso va rivisto dall’inizio.

a) Sappiamo tutti che il sistema universitario frettolosamente definito “3+2” non funziona.
Interrogati singolarmente i docenti universitari lo ammettono, salvo poi ammutolire come pesci di fronte al rischio di un cambiamento “che non si sa mai se può comportare qualche rischio che non vogliono correre”.
Il primo modulo dei tre anni per la cosiddetta laurea breve fa acqua da tutte le parti. I corsi universitari con la denominazione infelice di “numeri ascrivibili a crediti” ( sarò vecchia ma questa terminologia mi fa rabbrividire) hanno ridotto le università ad esamifici. Diciamolo una volta per tutte fuori dai denti. Le dispense su cui si studia e le tesine con cui ci si laurea sono ridicole. Sono i ragazzi stessi e i loro genitori ad ammetterlo. Cosa aspettiamo a riformare questo scempio?

b)  Cosa aspettiamo ad includere nel corso di studi per la formazione iniziale la vecchia psicopedagogia, chiamata oggi “ Psicologia dell’apprendimento”, che è l’unica fonte scientifica che ci offre la padronanza della metodologia e della didattica che userò perché mi permette di acquisire le chiavi di lettura per interpretarne l’incisività, rispetto alla finalità che intendo raggiungere: è la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, c’è un saggio fondamentale di tale disciplina più recente dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio. Vi dicono qualcosa questi nomi, ascrivibili al periodo che Dario Missaglia nomina come ricco di “energia sociale” , quello degli anni 70? (anche se il saggio in questione è del 1995).
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per capire il SENSO di ciò che si legge!

c) Moltiplichiamo perciò al più presto le cattedre di psicologia dell’apprendimento prima che perdiamo “il testimone” e riformuliamo i piani di studio. Apriamo il cantiere della formazione iniziale per tutti i docenti: solo così possiamo sperare di salvare la scuola. Credo che una volta assaporato il vero “senso” di cosa significa l’insegnamento, per poter sollecitare l’apprendimento autentico per “tutti”, non sarà necessario escogitare premi e specchietti per le allodole per sollecitare il bisogno di formazione. Saranno i docenti a chiederla e senza voler essere remunerati per questo, (naturalmente potendo allora godere di uno stipendio adeguato e non di uno residuale tipico di un lavoro di seconda scelta) recuperando così la dignità della loro professione.
Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al DITO!




La “potenza” della psicologia dell’apprendimento per la professionalità docente

di Cinzia Mion

Più volte ho raccontato che la mia salvezza professionale come docente la devo all’incontro con il Movimento di Cooperazione Educativa al mio secondo anno di ruolo.
Non intendo ora riprendere l’elogio delle tecniche Freinet ma sottolineare il fascino incredibile che ha esercitato su di me l’approccio con la PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO (o dell’educazione che dir si voglia) che sarebbe la riformulazione della vecchia PSICOPEDAGOGIA. Non va confusa con la Psicologia dello sviluppo (chiamata un tempo “psicologia dell’età evolutiva) e nemmeno con la Pedagogia. Sono stata iniziata a questa avvincente avventura cognitiva da Lydia Tornatore. Sulla scia poi ho continuato con la prof.ssa Metelli di Lallo, all’università di Padova, poi con Piero Boscolo che è subentrato dopo di lei , e via via con Clotilde Pontecorvo , Anna Maria Ajello, e il loro gruppo fino al recente Wiggins con la sua intrigante progettazione finalizzata alla COMPRENSIONE PROFONDA E DURATURA.
Naturalmente la strada era stata aperta dal grande Bruner cui mi sono abbeverata fino alla fine delle sue produzioni. Il pensiero che “va oltre l’informazione data (! )” e “le idee strutturali delle discipline”, definite più recentemente come “impianti epistemologico disciplinari”, sono stati i suoi pilastri, insieme alle “motivazioni intrinseche “ verso l’apprendimento, che nessun altro come lui ha saputo rendere più coinvolgenti. Ecco, credo che quelli che altre volte ho definito “brividi mentali” io li abbia provati anche alla lettura di Bruner , dopo aver capito che ciò che da allora mi ha contraddistinto è stata una motivazione fortissima alla CURIOSITA’ EPISTEMICA che, come una febbre benigna e stimolante , non mi ha più lasciato.

Ho colto subito che queste ricerche mi permettevano di rendermi conto che la didattica non è mai neutra. Risponde ad un modello soggiacente di psicologia dell’apprendimento che privilegia o sottovaluta o addirittura esclude quel fenomeno magico che coincide con la funzione mentale della “COMPRENSIONE”.
Quella comprensione che va oltre alla risposta esatta e che qualche volta addirittura viene deviata dall’immediatezza di tale risposta che potrebbe essere un automatismo, perché noi sappiamo che si apprende anche per “stimolo/risposta/rinforzo”: un apprendimento automatico, spesso per imitazione, indispensabile per la sopravvivenza, ma non illuminato dalla luce della mente che produce quella meraviglia che si chiama PENSIERO RIFLESSIVO.
E’ per questa serie di ragioni, che ho cercato qui di riassumere che, leggendo il DECRETO-LEGGE N°36 all’articolo 44, dove si affronta l’argomento della formazione iniziale e continua dei docenti della scuola secondaria (ma questo che andrò a dire vale anche per la primaria!) sono rimasta prima basita, poi delusa alla fine arrabbiata. Al secondo capoverso , lettera a) (dove si enumerano le competenze indispensabili per una formazione iniziale dei docenti) si elencano quelle: culturali, disciplinari, pedagogiche, didattiche e metodologiche, specie quelle dell’inclusione, rispetto ai nuclei basilari dei saperi e ai traguardi di competenza fissati per gli studenti….
Non si accenna minimamente alla PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO.
Ma come è possibile che si possa pensare di formare un professionista dell’INSEGNAMENTO, consapevole e RIFLESSIVO (come si auspica da tempo) se non gli si forniscono gli strumenti, le chiavi di lettura, per cogliere l’incisività o meno degli stimoli che va a proporre agli studenti attraverso la sua didattica, al fine o meno di sollecitare quelle che VYGOTSKIJ chiamava le funzioni mentali superiori? Perché è questo che la scuola deve sollecitare, altrimenti diventa un APPRENDISTATO banale e poco significativo. Queste chiavi di lettura le può dare solo la PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO.
Prima di preoccuparmi della carriera dei docenti (argomento sia pure interessantissimo ed urgente ) io mi preoccuperei dei fondamentali del futuro docente vero professionista, della sua motivazione a scegliere questa professione, di quanto risulta contagiato (per poter a sua volta contagiare gli studenti) dalle “motivazioni intrinseche” ( della CURIOSITA’ EPISTEMICA e del DESIDERIO DI COMPETENZA) oppure impermeabile alle stesse, per cui per continuare a formarsi ha bisogno di essere pagato!!!
La formazione continua non dovrebbe nemmeno essere definita “obbligatoria”, dovrebbe essere un BISOGNO VITALE. Ve lo immaginate un medico che non si aggiorna? un paziente può rimetterci la vita. Nel nostro caso avviene quella che un tempo chiamavamo la MORTALITA’ SCOLASTICA…. (oggi declassata alla più mite , ma non meno deleteria, DISPERSIONE SCOLASTICA ; oppure alla consapevolezza dello scadimento della competenza degli studenti a” comprendere” ciò che leggono….)
I docenti italiani hanno diritto tutti ad uno stipendio decoroso, non come quello percepito ora, ma VANNO FORMATI MEGLIO INIZIALMENTE E IN ITINERE E SCELTI CON PIU’ ATTENZIONE . La Scuola non è una agenzia di collocamento. Non mi stancherò di dirlo. Deve essere una prima scelta (vedi anche Tuttoscuola).
La Scuola ha bisogno dei migliori e di quelli motivati, se vuole recuperare i problemi che si stanno verificando.
Dobbiamo superare, caro Ministro, quel patto scellerato al tempo della DC per cui il messaggio implicito fu ”Ti pago poco, ma ti chiedo poco”. (è stato allora che i docenti maschi hanno disertato la scuola, con grave ripercussione sulla maturazione dell’identità di genere sia di maschietti che di femminucce: l’identità infatti è il frutto di dinamiche sia di identificazione che di differenziazione!).
Ora i docenti vengono pagati poco ma si chiede loro molto sul piano dell’ arida ed ingombrante burocrazia, come a riempire un vuoto di “senso”. Burocrazia che depotenzia ogni eventuale passione residuale!
Ci vuole un atto di coraggio! Ora o mai più….
Raccomando inoltre alle varie lobby che esistono all’interno delle Università di lasciar perdere interessi di categoria. Qui è in ballo non solo la Scuola ma il Paese.
E se viene indicata la LUNA, vi prego non fermatevi al DITO. Se succede significa che siete miopi o non avete chiavi di lettura per “distinguerla”….




Ma da dove arrivano i consulenti ministeriali che propongono un concorso così strampalato?

di Cinzia Mion

Caro Ministro, cerchi di soprassedere a questo “caro” così confidenziale, mi consideri una vecchia zia , dirigente scolastica in pensione, un po’ fissata con la Scuola. A dire il vero l’ho amata molto e continuo ad amarla, questa povera e bistrattata Scuola… Per questo oggi provo a parlarLe per esprimere ciò che sto provando.

Stiamo assistendo all’espletamento di un concorso ordinario per docenti della scuola secondaria. Concorso atteso da anni in presenza di una scuola sguarnita di docenti ed estremamente in difficoltà. Non solo per la mancanza di questi ultimi (ecco perché i concorsi vanno fatti regolarmente, costi quel che costi, e non vanno messi nel dimenticatoio, altrimenti rispuntano le vecchie abitudine dissennate delle sanatorie dei precari, inaugurate ancora dal governo Malfatti, ed allora buonanotte al secchio) ma soprattutto per la mancanza atavica della volontà autentica di innovarla.
Volontà di innovarla profondamente non darle una spolveratina di digitalizzazione e lasciarla nelle didattica e metodologia ferma a trent’anni fa. Trent’anni fa? Ma trent’anni fa c’era già stato Bruner, il cognitivismo, il socio culturalismo di Vygotskij.
Nei primi anni del 2000 sono apparsi poi Wiggins e McTighe con la loro rivoluzionaria “progettazione a ritroso” ma soprattutto con l’accento forte e vigoroso per cui, visto che nell’epoca dei social e di Internet una semplice risposta esatta si becca in tempo reale con un click, la Scuola deve lavorare per la COMPRENSIONE PROFONDA E SIGNIFICATIVA ….ripeto “comprensione profonda significativa”, nonché duratura, non effimera…

Non ce l’ho con Lei Signor Ministro, Lei è il Capo che deve pensare ad altro in questo momento, ce l’ho con i collaboratori che Le stanno accanto. Ma dove li ha pescati? Nelle retrovie degli anni 50, quando la scuola lavorava sull’onda del comportamentismo, prima che arrivasse Bruner (anni 60) a spazzare via con le sue intuizioni sui “processi conoscitivi” la psicologia precedente che affermava che della mente non si può sapere niente perché è una “scatola nera” per cui si possono osservare solo i comportamenti, le “risposte agli stimoli”?…Le ricorda qualcosa? Lasciamo perdere Pavlov, che era uno scienziato con i fiocchi o Skinner con il suo esperimento del topo affamato che impara per “prove ed errori”…

Ma non mi aspettavo di trovare rispolverato il neocomportamentismo così d’emblée nelle prove concorsuali anche se qualche avvisaglia allarmistica l’avevo avvertita in una recente norma che riproponeva “comportamenti osservabili”.
Sa, Ministro, alla mia età ci sono delle antennine che vibrano al minimo accenno se nella propria vita professionale, cominciata proprio nel 1962, si è combattuto subito per il rinnovamento della scuola, criticando insieme al primo Bruner proprio il comportamentismo. Questa corrente ha avuto poi in Italia, non in America dov’era nata ma dove era stata abbandonata dagli anni 50, una recrudescenza al tempo della programmazione curricolare, a metà degli anni 70, per cui si è fatta una sbornia di Mager e dei suoi obiettivi.

Per fortuna però i docenti più sgrezzati, come quelli del Movimento di Cooperazione Educativa (cui appartengo dal 1963) o delle altre Associazioni professionali come il CIDI o l’Aimc, hanno controbattuto contro la visione opaca e miope del neo-comportamentismo, vedendo con piacere il sorgere delle tassonomie (Bloom, Guilford,ecc) che, per fortuna mitigavano la stretta osservanza di tale modello di psicologia dell’apprendimento sostituendo agli obiettivi nudi e crudi , riassumibili in “saper emettere una determinata risposta ad una domanda stimolo”, degli obiettivi definiti cognitivi, sociali, psicomotori e declinandoli attraverso attività di pensiero.
Facciamola breve : a questo tipo di programmazione curricolare – lineare, costruita a tavolino, che partiva dai prerequisiti e poi attraverso una gerarchia di sotto obiettivi, dal più specifico al più generale, arrivava attraverso la stessa strada a far percorrere a tutti il medesimo percorso – si sostituì la PROGETTAZIONE RETICOLARE.
Progettazione che doveva partire da una problematizzazione del sapere, quindi da una motivazione intrinseca dovuta alla CURIOSITA EPISTEMICA per il sapere e non da una semplice trasmissione, e il comportamentismo , nei suoi aspetti più triti fu abbandonato anche in Italia.
I nuovi programmi del 1979 per la scuola media e quelli del 1985 per la scuola elementare sono ispirati dal pensiero di Bruner e Vygotskij, implementato in Italia da quella grande studiosa della psicologia dell’apprendimento che è Clotilde Pontecorvo, seguita da Annamaria Ajello e Pietro Boscolo.
Dopo l’Autonomia tutte le Indicazioni e le Linee Guida sono ispirate a questi modelli socio-culturali interattivi, su cui recentemente c’è stato il riconoscimento scientifico dovuto alla scoperta dei neuroni specchio e la conseguente Intersoggettività precoce, che ci caratterizza tutti dalla nascita.
E improvvisamente scopriamo che per selezionare i nuovi docenti , quelli che dovranno svecchiare la Scuola nel terzo millennio, riuscendo il più possibile a sollecitare il PENSIERO RIFLESSIVO nelle nuove generazioni, (non soltanto lo scontatissimo ”pensiero riflettente” di ripetizione delle idee degli altri), cercando soprattutto di far approdare alla COMPRENSIONE SIGNIFICATIVA E PROFONDA LE IDEE PORTANTI delle diverse branche del sapere, noi usiamo i test a risposta multipla ispirati al più bieco nozionismo? Aggiungiamo il fatto che la formazione iniziale universitaria per i docenti della scuola secondaria è molto carente da quando è stata abolita la SSIS…e in più che la formazione in servizio, da quando inopinatamente è stato abolito l’obbligo, è completamente evaporata.
Non ci potevo credere quando sono venuta a conoscenza dell’impostazione delle prove concorsuali . Ed ora sono qui a scriverLe.
All’inizio ero scandalizzata ed ora sono molto molto amareggiata. Perché? Perché il correttivo che metterete a questo obbrobrio, per cui troppi docenti sono rimasti esclusi, sarà la soluzione che accontenta tutti: farete todos caballeros.
Contenti i docenti graziati, contenti i sindacati che aspettano questo da tempo, contento il Suo sottosegretario che perora questa soluzione . L’unica scontenta è la Scuola , quella vera, autentica, quella che dovrebbe salvare il Paese.
E scontenta sarò ovviamente io, ma poco male. Non solo sono l’ultima ruota del carro ma di un carro…. che ben presto verrà demolito. Dura lex ( naturale), sed lex.




Inclusione e dintorni, a 30 anni dalla legge 104

di Cinzia Mion

Il mio caro amico Reginaldo Palermo, direttore di PavoneRisorse, mi ha posto una domanda cruciale e difficile, cui vorrei provare a rispondere. Mi ha chiesto : come mai in Italia con una storia dell’inclusione che arriva da lontano – con la L.118/1971, ma soprattutto nel 1977 con la famosa L.517 eppoi con la L.104/92 e successive ‘manutenzioni’ – oggi la situazione sta peggiorando invece di migliorare?
La domanda mi sollecita ricordi professionali a bizzeffe ma mi trattengo dal dare loro la stura e cerco di soffermarmi sull’essenziale .
Ricordo degli anni 70 il fervore ideale e l’entusiasmo fermentativo intorno alle grandi discussioni, tra cui la dialettica tra il concetto di normalità/diversità che approderà, nel mondo civile, alla famosa Legge 180/1978, chiamata legge Basaglia, che ha destrutturato l’ospedale psichiatrico di Trieste. Riporto, per chi non avesse vissuto quegli anni , le innovazioni scolastiche che cercheranno di realizzare i dettati costituzionali: in primis l’articolo 3 sull’uguaglianza, stella polare per ogni impegno politico/istituzionale ma nel nostro caso per la Scuola.
Riassumo : la scuola media unica (1962), la legge 820/1971, istitutiva del Tempo Pieno contro lo svantaggio socio-culturale, la legge istitutiva della scuola materna statale (L.444/1968).
La pubblicazione di Lettera a una professoressa di don Milani aprì poi la critica sociopolitica alla ‘valutazione scolastica sommativa tradizionale’ e il Movimento studentesco del ’68 fece da cassa di risonanza a tale critica sottolineando che, se la valutazione scolastica emarginava ed escludeva le fasce più deboli (figli dei contadini e degli operai ), fasce per cui la Costituzione aveva creato il Diritto allo Studio, allora era meglio che non valutasse….
Fu la Legge 517/77 che affrontò sia il problema della valutazione, offrendo l’idea rivoluzionaria della Valutazione formativa, (puntualmente sconfessata fino quasi ai giorni nostri, ma questa è un’altra storia!) sia l’attenzione ai più fragili, con il dettato legislativo che parla non più solo di inserimento nelle classi comuni della scuola dell’obbligo – come fa la L.118/1971 che si riferisce ai soggetti con invalidità lieve, invalidi o mutilati civili, senza però accennare alla didattica speciale – ma si parla di vera e propria attività di integrazione degli alunni con forme di handicap (art.2) abolendo nel frattempo le classi differenziali.

Dall’integrazione all’inclusione.

La legge 517, con l’individuazione di modelli didattici flessibili, l’auspicio delle classi aperte e soprattutto l’arruolamento degli insegnanti specializzati, ha permesso l’affacciarsi lentamente di un progressivo cambiamento dal semplice inserimento all’integrazione. A quel tempo l’integrazione dei soggetti portatori di handicap (definiti successivamente ’diversamente abili’, ora ‘persone con disabilità’) ha costituito un miglioramento rispetto a tutti i bambini, per quanto attiene la formazione dei docenti nei confronti degli aspetti psicopedagogici e didattici. Uno di questi è stata l’attenzione agli stadi di sviluppo piagetiani, precedentemente solo incontrati nei libri, utilizzata per decodificare i dati delle diagnosi. Un altro aspetto è stato l’attivazione dell’attività psicomotoria, precedentemente destinata solo ai bambini disabili, estesa invece in alcuni istituti a tutti i bambini. Questo è avvenuto per esempio nelle scuole del secondo circolo di Conegliano, nel cui territorio sorgeva l’Istituto ‘La nostra Famiglia’, circolo di cui dall’anno 1974 all’anno 1994 sono stata direttrice didattica.


L’integrazione è una parola ‘grossa’ ed impegnativa che ha impiegato molto tempo per realizzarsi. Ha ricevuto pieno riconoscimento dalla L.104/1992 la quale ha promosso l’integrazione per tutti e per ogni ciclo, compresa l’Università. E’ stata questa legge a far intravedere la diversità come valore – a dire il vero già i Nuovi Programmi per la scuola elementare del 1985 avevano sottolineato che le ‘diversità andavano valorizzate, a patto che non fossero a rischio di ‘disuguaglianza’- ed inoltre aveva anche fatto la sua comparsa la necessità che ogni soggetto con disabilità diventasse protagonista della propria vita.

L’INCLUSIONE

La grande novità però è avvenuta con le ‘Linee guida’ sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (4/8/2009). Compare qui infatti il termine INCLUSIONE. Si afferma, a proposito del ruolo del dirigente scolastico, che la riorganizzazione del sistema in funzione di tale finalità rappresenti un’occasione di crescita per ‘tutti’. L’inclusione diventa perciò un valore fondativo, un nuovo assunto culturale. Tralasciamo quelle che sono state le sollecitazioni che sono scaturite da tale importante documento (ICF, progetto di vita, coinvolgimento di tutta la scuola non solo dell’’insegnante di sostegno, ecc) da cui sono scaturite a cascata le altre disposizioni legislative successive(L.170, BES, formazione referente BES, attivazione PAI, ecc).
Il senso profondo del processo di ‘inclusione’ ha fatto man mano però fatica ad affermarsi secondo le intenzioni del legislatore.
Affinchè i processi di tale aspetto valoriale diventassero modalità in grado coinvolgere tutta la comunità educativa del contesto, definita da Coleman ‘capitale sociale’ (famiglie, EELL, associazioni culturali del territorio, ecc) dovevano essere presenti alcune condizioni che vedremo un po’ alla volta invece evaporare.
Si pensava infatti che i processi di inclusione autentica, caratterizzati da una didattica considerata terreno fertile, in grado di far crescere uno spazio di vera e propria educazione alle differenze, valorizzazione solidale e incentivo al raggiungimento delle pari opportunità in tutti i sensi, potesse trasformare, attraverso cerchi concentrici, tutti gli altri sistemi sociali a partire dal sistema scuola (Brofenbrenner). [1]
Proprio qui invece il sistema ha dovuto incontrare molte difficoltà.
Non mi soffermo sull’aumento abnorme delle certificazioni e dei posti di sostegno, sulla progressiva medicalizzazione delle difficoltà di apprendimento di cui molti si sono già occupati in modo egregio. Desidero affrontare il problema delle ‘derive sociali’ che hanno cominciato a depotenziare la spinta verso l’inclusione ed anzi hanno dato il via a strategie di stampo furbesco, diseducative e, direi, soprattutto regressive.

L’individuo senza passioni

Così recita un famoso testo di Elena Pulcini [2] ,la filosofa fiorentina mancata prematuramente, portata via dal Covid. Una delle derive sociali, cui facevo riferimento, è infatti un diffuso individualismo regalatoci inopinatamente da una sbornia di neoliberismo che ci sta affiggendo da quasi trent’anni. Naturalmente questo sfacciato individualismo, accompagnato da altrettanta dilatata indifferenza verso l’altro, non può che portare a ripiegarsi su se stessi, attraverso un autocompiacimento definito narcisismo, come hanno dichiarato recentemente sia Canevaro che Iosa. Per non parlare dell’aumento dell’intolleranza, del razzismo e dell’omofobia. Ce n’è abbastanza per connotare una società di cui tutto possiamo dire tranne che sia benevola, solidale e in grado di stemperare le disuguaglianze, portandoci verso quella che ci stavamo augurando fosse la direzione di una sana inclusione.
Pensavamo che la scuola potesse diffondere all’esterno i suoi valori costituzionali e sta avvenendo invece il contrario. Le derive sociali stanno permeando la scuola che non è più in grado di frapporre una diga, dei filtri, per depennare la responsabilità educativa degli adulti tutti, chiamati in causa senza scusanti . Tutti : genitori e docenti, dirigenti scolastici e tecnici. La responsabilità è di tutti. A partire dai vertici che procedono come se in periferia la situazione corrispondesse alle norme varate. Poi di chi avrebbe il compito ‘istituzionale ed intenzionale’ di educare le giovani generazioni ai valori costituzionali (magari sono gli stessi che in classe predicano l’educazione civica!).
Nessuno può far finta di non sapere che, alla faccia dell’inclusione, sono tornate le classi di serie A e di serie B (per le quali negli anni 60/70 ci siamo battuti tanto!). E non ditemi che non è vero: Dirigenti che si vantano che nei loro Istituti non frequentano né stranieri né disabili! Tutti sanno che la scuola ormai è ritornata una scuola di classe [3] e non solo a partire dall’Orientamento. A partire dall’Inclusione tradita.
Troppo difficile? Certamente. Nessuno ha mai promesso e certificato che fare l’insegnante oggi sia una professione facile. E’ una professione molto difficile ma vivificante. Chi la intraprende deve saperlo. Alcuni tutor universitari, che seguono i docenti per la formazione al sostegno, garantiscono che questi escono preparati a puntino per lavorare per l’Inclusione….Sono gli altri che, contrariamente a quello che ci si aspetta da anni, non hanno ricevuto la formazione iniziale ed in servizio adeguata ad accompagnare questa innovazione .
Che accade infatti? Si afferma che Il sistema si pone come uno schiacciasassi che rimane inesorabilmente impermeabile. Tranne qualche eccezione che per fortuna esiste e che però fatica a poter perseverare ..
Dario Janes, che da sempre si interessa di inclusione, afferma che bisognerebbe rompere gli schemi: del curriculum a tutti i costi, dell’orario, dei ruoli, delle aule…Nemmeno con l’autonomia didattica, approvata nel 2000, calata nella realtà di un sistema scuola con scarsa presenza della cultura progettuale e senza una seria formazione di tutti i docenti, è cambiato molto. L’inclusione dei disabili rimane una cosa separata. Il PAI è accanto al PTOF. La normativa è rimasta solo illusoriamente inclusiva, nei fatti è rimasto un sistema duale, nel quale convivono il modello di scuola per tutti e quello ‘in perenne sperimentazione’ per gli alunni con disabilità. Avere una quantità di risorse dedicate ai disabili, non sempre aiuta l’inclusione, perché, aggiunge Janes, “spesso è proprio l’insegnante di sostegno che si autoesclude dalla classe”. Qualche volta per sopravvivere.

[1] Brofenbrenner U.,(1979)Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino.
[2] Pulcini E., (2001)L’individuo senza passioni. Individualismo moderno
[3] Romito M., (2016)Una scuola di classe. Orientamento e disuguaglianze nelle transizioni scolastiche,Guerini Scientifiche.