A proposito del ’68, lettera aperta a Paola Mastrocola

di Cinzia Mion

Gentile professoressa, la seguo da tempo, soprattutto per il suo pensiero critico-compulsivo, rivolto quasi sempre nei confronti del Movimento del ’68.
Mi soffermerò però più tardi su questo aspetto, affrontato ancora una volta in una recente intervista rilasciata al Sole 24 ore.

Parto invece dalle condivisioni : è vero che i giovani oggi sono educati sul principio del “piacere” e non su quello di “realtà” (Freud) e non c’è dubbio che tale deriva dipenda dall’educazione genitoriale, oggi molto in affanno. Secondo me ha ragione Recalcati quando afferma che una delle cause di questa difficoltà dei genitori dipende dal fatto, non solo che i figli sono sempre più “unici” ma che, soprattutto oggi, “sono i genitori a temere di non essere amati abbastanza dai figli” e non il contrario….

E’ vero inoltre che nessuno pone loro dei confini, dei limiti…i giovani padri ben volentieri sanno prendersi “cura” dei cuccioli ma non riescono a fare da “guida”, fanno fatica ad assumere il “no”; molto più semplice accondiscendere ai primi capricci del bambino che così comincerà a non “satellizzarsi” nei confronti dell’adulto….Ho detto fanno fatica: ecco il “busillis”.
Trent’anni di neo-liberismo sempre più spinto (leggi pure berlusconismo), supino solo alla legge del mercato, ha implementato una deriva di individualismo e rinuncia a qualsiasi impegno o passione! (cfr. E.Pulcini”L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale”).
Deriva pericolosa che corre il rischio di sommergere tutti. Anche i genitori. La parola d’ordine è : chi me lo fa fare? Che “profitto” ne traggo io?
Ecco cara Mastrocola, l’inizio della fine dell’autorevolezza da parte degli adulti, sia genitori che docenti.

L’autorevolezza non viene “data”, va “conquistata” con l’ascolto, l’attenzione, la possibile rinuncia alla partita di calcio, oppure alla soap preferita, o all’uso dello smartphone, va conquistata come la capacità di discernere il rischio che appare all’orizzonte se tuo figlio si rende conto che chi dovrebbe proteggerlo è più debole di lui perché manipolabile.
Faticoso? Sì, certamente . Ma tu genitore devi aver raggiunto l’adultità, essere un adulto autonomo, non un “adultescente” come dice giustamente M.Ammanniti….Diventare genitori è facile, “fare”i genitori NO.
E nemmeno fare i “docenti” è facile, nel senso di educatori in grado di appassionare i ragazzi al SAPERE e alla propria CRESCITA come uomini e donne, NO non è una “passeggiata”.  Richiede dedizione, consapevolezza, fatica, come dicevo.

NON C’ENTRA IL ’68.
No, cara Mastrocola, lo dico a lei e anche a chi, ancora come lei, continua con questa “manfrina”…
Non ha niente a che fare il ’68 con queste derive molto più recenti.
Per capire ciò che vi ostinate a non voler capire dobbiamo risalire al gennaio 1948 e alla svolta data, dopo il Referendum che ha cambiato la storia del nostro Paese, alla Costituzione. Costituzione che ha affermato con forza che la Scuola è aperta a TUTTI, E CHE L’ISTRUZIONE INFERIORE , IMPARTITA PER ALMENO 8 ANNI, è OBBLIGATORIA E GRATUITA.
La riforma della scuola media unica nel 1962, con l’abolizione dell’esame di ammissione, primo segnale dell’applicazione del dettato costituzionale, ha segnato l’irrompere della scuola “di massa”. L’inadeguatezza del corpo docente, calibrato ancora su una scuola elitaria, (dove siete ancora fermi voi!) ha comportato il fenomeno della bocciatura “di massa”…che ancora una volta voi state invocando…
Non credete di aver sbagliato secolo?
A quel tempo nessuno si è preoccupato di “ri-orientare” i docenti, facendo loro capire la trasformazione epocale di una Scuola che doveva adattarsi a diventare democratica, mantenendo le promesse che la Costituzione aveva fatto!
A tentare di fermare questa ingiustificata ecatombe di allievi è intervenuta nel 1967 la “Lettera a una professoressa” di don Milani che affermò ad un certo momento che la “Scuola non poteva esser come un Ospedale che accettava i sani e respingeva gli ammalati”….

A far da cassa di risonanza alla lettera (non “recapitata” a tutti i docenti di allora e di adesso…a proposito, lei l’ha ricevuta?) è intervenuto il famoso Movimento Studentesco del Sessantotto, con lo slogan “LA VALUTAZIONE SCOLASTICA E’ SOLO UNA SELEZIONE E UNA EMARGINAZIONE!”

Ovviamente si è trattato di una critica “sociopolitica”. Non aveva nessuna pretesa di essere un’affermazione “pedagogica”…ma non tutti l’hanno capito. O FANNO FINTA DI NON CAPIRLO.
Intendeva affermare: SE LA VALUTAZIONE SCOLASTICA EMARGINA LE FASCE PIU’ DEBOLI (ossia i figli degli operai e dei contadini) FASCE PER CUI LA COSTITUZIONE INVOCAVA IL DIRITTO ALLO STUDIO, ALLORA E’ MEGLIO NON VALUTARE…
Ecco le conseguenze sociopolitiche: voto unico o sei politico…
Abbiamo dovuto aspettare, per correggere il tiro, la critica pedagogica che ha permesso il varo nel 1977 della Legge 517 che ha introdotto il concetto di VALUTAZIONE FORMATIVA che ascrive la responsabilità del mancato “apprendimento” degli allievi “all’insegnamento” dei docenti e alla loro eventuale didattica, rimasta vecchia e trasmissiva come quella della riforma Gentile…come la sua, deduco!
Capito, cara prof. Mastrocola ?
Dubito ma non ci sono esami di riparazione.
Bocciata in tronco!
D’altro canto, non è vero che non si boccia più…ma i docenti che lo fanno non hanno capito che bocciano se stessi. Perché insegnare con passione è molto molto faticoso…
Richiederebbe un maggiore riconoscimento sia sociale che economico. Ma questo è un altro discorso….




Comunità educante o dis-educante?

di Cinzia Mion

A proposito del concetto di “comunità educante” é apparso con forza, intendo con intenzione persuasiva, nell’ultimo contratto nazionale del comparto scuola, all’articolo 24, che qui mi permetto di riportare: “La scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”.

Il secondo comma sottolinea: “ Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs.n.297/1994

Credo risulti evidente a tutti l’eccessiva enfasi con cui è stato steso tale articolo che avrebbe dovuto essere, secondo me, più che una asserzione così convinta, un auspicio.
Ciò che infatti penso sia sotto gli occhi di tutti oggi (ma improvvisamente mi viene un dubbio: sotto gli occhi di tutti?) sono le “derive sociali”, a dir poco nefaste che, nella migliore delle ipotesi, gli educatori, docenti, genitori e tutti quelli che il contratto elenca come appartenenti alla cosiddetta comunità educante, dovrebbero darsi da fare soprattutto per contrastarle, non per confermarle! Naturalmente se sono ancora in grado di riconoscerle come derive diseducative e pericolose, vale a dire se non sono ancora stati sommersi da esse anche loro….

Derive sociali.

La prima, devastante, è l’indifferenza diffusa, chiamata anche noncuranza, ovvero mancanza di cura. Immagino che non serva descriverla, è sufficiente rievocare qualche atto di violenza consumato in presenza di passanti che osservano appunto indifferenti, senza sentirsi chiamati in causa.
Trent’anni di neoliberismo sempre più spinto hanno rinforzato lindividualismo come ha affermato la filosofa fiorentina Elena Pulcini[1], mancata per covid recentemente.
A questa deriva si collegano immediatamente l’affievolirsi dell’ empatia e la mancanza di com-passione. Diventa molto difficile farci una ragione di tale fenomeno soprattutto da quando la scoperta dei neuroni specchio ha rivelato che siamo tutti programmati dalla nascita per l’intersoggettività, quindi per rispondere l’uno all’altro del reciproco sentire.
Mi sovviene a questo punto l’immagine di Lévinas: “il volto dell’altro mi interpella…”[2].
Il volto dell’altro uomo sofferente e morente al quale però oggi ci siamo tutti assuefatti, tanto che non ci risuona più dentro, a livello viscerale , come intendeva dire questo filosofo lituano, di origine ebraica, quando si è espresso così. Assuefazione dovuta allora alla sovraesposizione mediatica? Pensiamoci…
Credo che direttamente collegata a queste derive possiamo mettere la progressiva e sempre più accentuata difficoltà all’ascolto dell’altro.

Marianella Sclavi[3] ha affrontato molto bene tale problematica, legata alla necessità di uscire dalle proprie cornici di riferimento, delle quali non siamo consapevoli, per riuscire a decentrare il nostro punto di vista ma soprattutto direi oggi più semplicemente di allentare il nostro egocentrismo per sintonizzarci autenticamente all’ascolto.

Passiamo ora al narcisismo dilagante, su cui non è necessario soffermarci tanto è lampante la sua diffusione.
Direttamente però collegata a questo effetto dirompente risulta essere la voglia di apparire (e mostrarsi) al posto di essere. Non si tratta più soltanto della voglia tracimante da parte di certe ragazze di avere una comparsata in TV sculettando davanti a un rapper ma , molto più grave, il riferimento va oggi  ai recenti fatti di cronaca che ci hanno rivelato, attraverso i canali di Youtube l’esistenza di gruppi deliranti come The Borderline, che nella più completa insensatezza hanno provocato un mortale incidente stradale in cui ha perso la vita un bambino di 5 anni.

Sullo sfondo si intravede uno dei  padri adultescenti,( cfr M.Ammaniti) non in grado di fare da guida genitoriale valida, perché eternamente teenager.
Oltre ad un rapporto difficile con l’alterità, già esaminato, appare sempre più rinforzata una difficoltà a considerare in modo adeguato la diversità, aspetto che lascia trasparire un aumento del razzismo e della omofobia, evidentissimo attraverso l’analisi del voto recente di moltissimi italiani che non si professano razzisti o omofobi ma hanno premiato partiti che lo sono. Vorrà dire qualcosa!!!.
Non possiamo trascurare l’importanza sempre più evidente data all’avere, rappresentata dalla valorizzazione crescente del profitto, a scapito dell’essere. Ne è dimostrazione evidente la crescente disparità e forbice nel Paese tra ricchi e poveri (in preoccupante aumento).
Alla fine, ma non per importanza, possiamo annoverare, non senza un grande rammarico da parte mia, il crescente deficit di Etica Pubblica, rivelando il soggiacente familismo amorale[4], intriso di volgare “tornacontismo”, sdoganato recentemente ai massimi livelli, ecc,ecc. Potrei continuare…

Voi capite che prima di aver la forza e la competenza per contrastare tali derive bisogna averne consapevolezza e sapersi interrogare e autovalutare rispetto alla propria adeguatezza in proposito. In altre parole saper chiamare con il loro vero nome i fenomeni intorno a noi. Amici miei allora questa che ci circonda, ma che soprattutto circonda i nostri ragazzi in crescita, non è una “comunità educante” ma una COMUNITA’ DIS-EDUCANTE. O partiamo da questa consapevolezza o ci troveremo sempre peggio con una famiglia e una scuola devastate. E non ditemi che sono pessimista.

 

 

[1] Pulcini E. L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, 2001.

[2] Lévinas E., Totalità e infinito.Joca Book, 1961.

[3] Sclavi M.,L’arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano-Pescara,2002.

[4] Banfield E.,Le basi morali di una società arretrata.,Il Mulino, 1976, Bologna.




Lettera aperta alla maestra “dell’Ave Maria in classe”

di Cinzia Mion

Cara Marisa Francescangeli, maestra della scuola primaria di San Vero Milis (Oristano), mi chiamo Cinzia Mion e mi permetto, da anziana Dirigente scolastica in pensione , di inviarle una lettera aperta per spiegarle alcune “cosette” che evidentemente lei ignora.
Lo si capisce dalle notizie di stampa, comprese le varie interviste da lei rilasciate a destra e a manca. Cosette che lei ignora pur avendo il dovere di conoscerle in quanto ricopre un posto importante all’interno dell’Istituzione Scuola.
Posso perdonare che i diversi “salvini” di turno non ne siano a conoscenza: lo Stato non affida loro la formazione iniziale dei piccoli cittadini italiani in crescita, come viene fatto invece nei suoi confronti.
Ma lei no. Lei le deve conoscere e tenere presenti.

L’aria garrula e superficiale, invece, con cui le affronta non solo mi fa capire che non ne è a conoscenza (ha superato un esame di concorso per ricoprire il posto assegnato?) ma mi fa anche capire che sta prendendo sottogamba quello che lei crede di valorizzare sia pur minimizzandolo, perché si stupisce della sanzione ricevuta. Lasciamo perdere il problema della correttezza giuridico-amministrativa della sanzione stessa (su questo aspetto, sui social, sono intervenuti anche rappresentanti dell’Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici ).
Mi riferisco alle conseguenze della revisione del Concordato (1985) e al fatto che da allora nella scuola ha diritto di cittadinanza la “cultura” religiosa ma non al contrario gli atti di “culto”.


Questi ultimi sono: il segno della croce, le preghiere prima delle lezioni, (o addirittura durante come ha fatto lei) le benedizioni a Natale o a Pasqua o comunque durante le cerimonie civili, le messe durante l’orario scolastico, le cosiddette visite pastorali, ecc. “Unzioni” varie come sembra aver fatto lei non sono nemmeno contemplate tanto sono anacronistiche e direi onestamente strambe, non essendo lei deputata a somministrare olii più o meno santi….
La preghiera, è stato chiaramente spiegato, poteva essere analizzata, verso per verso, ma non recitata ma anche questo con l’insegnante di religione o durante le ore ad essa deputate. Se recitata, infatti, automaticamente diventa un atto di culto.
Da notare comunque che anche durante la lezione facoltativa di religione cattolica (quindi in presenza di alunni che hanno scelto tutti di frequentare questa attività) valgono le stesse regole!
Ma veniamo ora all’aspetto che più mi interessa perché mi pare che finora nessuno l’abbia rilevato, nemmeno chi si sbraccia a difenderla.
Mi riferisco all’aria scanzonata con cui si vanta di far recitare le preghiere così, come si recita una poesia o una filastrocca a memoria. Ma non si rende conto che è lei a “desacralizzare” le preghiere, togliendo loro con disinvoltura l’aspetto che le rende pregnanti : il Sacro e il Simbolico?
E per di più se lo fa ricordare da una persona non credente ma che ha sempre rispettato questi valori tanto da scandalizzarsi nel notare la leggerezza con cui lei affronta queste tematiche.
Mi fa tornare in mente quella volta che in Umbria una docente di religione valdese ha fatto ricorso al Tar per mancanza di rispetto del dettato del Nuovo Concordato, da parte delle autorità religiose cattoliche. Era stata infatti impartita una benedizione religiosa durante l’orario scolastico, che la dirigente scolastica aveva permesso, facendosi scudo di una semplice “noterella “(invalidata poi dal Tar Emilia Romagna, Sentenza 250/1993) del ministro di turno che affermava che, se il Consiglio di Istituto era d’accordo, si sarebbe potuto fare, e il TAR dell’Umbria ha dato ragione al Vescovo affermando che : udite udite “ Le benedizioni durano poco e non lasciano tracce!!!”. Ha pensato anche lei così come il Tar dell’Umbria di quel tempo (sentenza 677/2005!)?
Quello che mi ha fatto rabbrividire allora non è stato tanto il giudice amministrativo, chiaramente ammanigliato, ma il Vescovo che pur di averla vinta ha accettato che si calpestasse , dal suo punto di vista, la sacralità del RITO e il significato SIMBOLICO della religione. Se a quest’ultima togli il rito e il simbolo, cosa resta? Lo spauracchio sulla povera gente.
Ricordiamoci chi parlava dell’”Oppio dei popoli”…




Comunità dis-educante

di Cinzia Mion

Appare sulla stampa locale in questi giorni una notizia che mi ha sconvolto.
Si tratta di una ragazzina di 12 anni bullizzata in una scuola media di Treviso dalle compagne di classe e pure dai compagni, uno in particolare: il suo compagno di banco.
Il tutto per il suo aspetto fisico: troppo grassa secondo i simpatici “bulli” e secondo i canoni delle anoressiche ragazzine alla moda. Le minacce ingiuriose arrivavano perfino a suggerirle il suicidio.
Sappiamo tutti quali siano le dinamiche del bullismo e i diversi attori (tra cui quelli che sanno e tacciono: colpevoli come gli attori dei comportamenti vigliacchi!) e sappiamo pure quali siano le “paturnie “ oggi delle preadolescenti in crescita, in riferimento all’aspetto del corpo che si sta trasformando. Non intendo parlare di questo e nemmeno di ciò che sta circolando nel web rispetto a certe pratiche criminali e sadiche di istigazione al suicidio che dovrebbero essere stroncate da chi controlla (o dovrebbe controllare) ciò che circola appunto in Internet e che è a disposizione, senza filtri opportuni, anche ai soggetti più fragili.

Intendo parlare della “comunità educante”, di cui molti si riempiono la bocca, senza rendersi conto che questa comunità da molto tempo è diventata, come sottolinea Vertecchi, DIS-EDUCANTE.

Si tratta delle cosiddette “derive sociali” che da almeno dieci anni stanno rendendo preoccupanti le relazioni sociali e lentamente ci stanno contaminando tutti senza limiti o argini. Finché qualche comportamento fuori dalle righe interviene, sperando che questa comunità ormai dis-educante si svegli dal torpore e cerchi dei rimedi.
Non so se questo avverrà, lo spero.


Le derive sociali dell’indifferenza diffusa, della mancanza della categoria “dell’altro”, della totale assenza ormai dell’EMPATIA (come nel caso che stiamo esaminando), del narcisismo dilagante, dell’aumento del razzismo e dell’omofobia, del deficit di ETICA PUBBLICA, del prevalere dell’”avere” sull’ “essere” per cui ciò che conta è solo il profitto, delle aspettative genitoriale a livello soprattutto delle prestazioni e alla competitività piuttosto che alla cooperazione,ecc .hanno ridotto la convivenza sociale nel territorio spesse volte arida e caratterizzata dal più gretto egoismo
Ricordo che quando venivo chiamata a fare formazione al sostegno della genitorialità presso le scuole e durante gli incontri, in riferimento a queste derive sociali su cui famiglia e scuola devono intervenire per correggere l’andazzo, chiedevo ai genitori se educavano i loro figli alla “COMPASSIONE” (patire con l’altro)… Beh: mi guardavano come una marziana….
IO ricordo invece ancora benissimo le parole che usava mia madre quando incontravamo qualche mendicante che stava peggio di noi (era difficile perché c’era la guerra e noi eravamo sfollati; eppure lei mi diceva “poverino” vedi quello, non ha nemmeno un tetto sulla testa…). Il tono delle sua parole e la mimica del suo viso mi commuovevano ed io ho capito presto il significato di “senzatetto”.

Ritornando al compito degli adulti educatori, ammesso e non concesso che i genitori oggi desiderino solo far felici i loro figli per cui rattristarli sulla condizione altrui non passa nemmeno per la loro testa (salvo come sempre le felici eccezioni) credo che il compito rimanga alla scuola in cui i docenti hanno il compito professionale, istituzionale e continuativo di educare i loro allievi e, nel caso dei giorni nostri, correggere le derive sociali summenzionate, portandoli alla “consapevolezza e alla responsabilità”.
Ovviamente consapevolezza e responsabilità che avranno molta più forza E INCISIVITA’ se passeranno attraverso un’ALFABETIZZAZIONE EMOTIVA, all’interno della quale riuscire a farli “mettere nei panni degli altri”, far loro avvertire la paura, la tristezza, il dolore, la rabbia ma anche la gioia. E finalmente attraverso l’empatia avvertire la profondità della com-passione.




L’alternanza Scuola-lavoro e il binomio Capire/Riuscire

di Cinzia Mion

Rispetto alla problematica che sta focalizzando l’attenzione delle scuole secondarie di secondo grado in questi ultimi tempi, io penso che- per capire fino in fondo l’opportunità di sostenere, con i dovuti aggiustamenti da ambo le parti, l’autentica connessione tra scuola e lavoro- bisogna rendere plasticamente accessibile il CAPIRE  insieme al RIUSCIRE, intrecciando perciò sempre queste due dimensioni, rendendole quasi simultanee o comunque “contemporanee”.

Per poter tentare di rendere più chiaro il mio pensiero devo fare riferimento all’intelligenza connettiva, termine coniato da Derrick de Kerchove. Il  noto pensatore allude con questa espressione alla connessione digitale di vari soggetti che pensano, si esprimono e condividono insieme un sapere diffuso. Essi mantengono le varie individualità ed anche le differenze, essendo però in grado di costruire una comunità di conoscenza. De Kerchove però non prende in considerazione la declinazione di Gardner delle intelligenze personali, che si articolano in interpersonale ma anche in intrapersonale: egli focalizza infatti soltanto quella interpersonale tanto è vero che, secondo Nicholas Carr, sottovaluta l’influenza negativa della digitalizzazione sulla nostra intelligenza connettiva intrapersonale. Carr infatti lamenta che la digitalizzazione depotenzia il pensiero critico e riflessivo, che ci permette di creare autonomamente le connessioni mentali, in cambio di un click che “connette” al posto nostro.

Io allora intendo fare riferimento con questo mio contributo proprio alle connessioni mentali non soltanto interpersonali ma anche intrapersonali, che si mettono in moto quando un soggetto cerca di creare legami, correlazioni  tra i dati a disposizione, anche se a prima vista questi possono apparire sconnessi.

L’intelligenza connettiva, sia personale che collettiva, allora, si sviluppa perché il nostro cervello funziona organizzando il sapere attraverso la ricerca di analogie e differenze, sviluppando competenze essenziali di elaborazione e riflessività. Il pensare autentico consiste in fondo nel creare nessi e relazioni tra i dati, gli elementi, le esperienze, vale a dire la pratica illuminata dalla teoria, e la teoria dalla pratica, per ricondurre il discorso al tema di apertura.                                                                                                                                                  Il filo rosso allora che intendo afferrare è quello dato dal binomio Capire/Riuscire, e viceversa, partendo da alcune riflessioni dei grandi pensatori del secolo scorso. Se Piaget infatti aveva superinvestito il termine capire di energia speculativa, tanto da pretendere che nel capire fosse inclusa la competenza dello spiegare, Bruner invece connotava il capire da una forza conoscitiva tesa al comprendere profondamente. Per questo motivo egli avrebbe suggerito a Piaget di sollecitare la “verbalizzazione durante l’azione” in riferimento, per esempio, ai suoi esperimenti sulla conservazione, individuando nel linguaggio, che “narra” l’azione, la chiave di volta per catturare il processo mentale congruente. Riassumendo: l’azione riconducibile al RIUSCIRE, descritta attraverso la narrazione, fa scaturire la mentalizzazione del CAPIRE.                            Bruner azzarda che in questo modo gli esiti degli esperimenti piagetiani sarebbero stati ben diversi.

D’altro canto il paradigma culturale della complessità, come ci insegna Edgar Morin, ci induce a coniugare logiche diverse, anche contrapposte. Siamo noi, con le nostre radici culturali immerse nel paradigma della linearità, che obbedisce alla logica binaria (o vero o falso, o capire o riuscire,ecc.) che facciamo fatica ad attivare l’operazione logica della “coniugazione”. Teniamo però presente che i ragazzi che occupano le nostre aule oggi  abiteranno domani una cultura ancora più complessa.

Anche il metodo “dell’apprendistato cognitivo”, impregnato di didattica vigotskiana, descritto molto bene nella raccolta “I contesti sociali dell’apprendimento” a cura di C.Pontecorvo, A.M.Ajello, C.Zucchermaglio, offre un esempio incomparabile di riuscire-capendo ma anche di capire-riuscendo. Il riferimento, per quanto attiene la competenza della comprensione del testo scritto, trasversale ed essenziale per ogni disciplina, è  alle ricerche di  Brown e Palincsar che utilizzano l’insegnamento reciproco insieme all’espediente di pensare a voce alta. La strategia infatti descritta dagli autori suddetti utilizza le quattro fasi vigotskiane dell’apprendistato tradizionale (modellamento, assistenza, sostegno, progressiva diminuzione dell’aiuto) ma le  rielabora ponendo l’enfasi sui processi cognitivi e metacognitivi che, attraverso appunto la funzione del pensiero a voce alta, non rimangono taciti e nascosti nella mente del docente, dotato di expertise, ma vengono messi a disposizione dell’allievo apprendista.

Scorrendo l’indice del testo in questione troviamo inoltre il saggio interessante della Resnick “Imparare dentro e fuori alla scuola”. Dice la Resnick: Ho identificato quattro tipi generali di discontinuità tra l’apprendimento a scuola e la natura dell’attività cognitiva fuori della scuola. In breve, la scuola si concentra sulla prestazione individuale, mentre il lavoro mentale all’esterno è spesso condiviso socialmente. La scuola è finalizzata a incoraggiare il pensiero privo di supporti, mentre il lavoro mentale fuori della scuola include abitualmente strumenti cognitivi. La scuola coltiva il pensiero simbolico, laddove l’attività mentale fuori della scuola è direttamente coinvolta con oggetti e situazioni. Infine la scuola ha il fine di insegnare capacità e conoscenze generali, mentre all’esterno dominano le competenze specifiche per la situazione”.

La prima osservazione da fare è che se la scuola utilizzasse più spesso attività laboratoriali e progettasse, insegnasse e valutasse “competenze”, e non solo conoscenze generali e capacità, già si avvicinerebbe a colmare il  gap tra apprendimento a scuola e fuori dalla scuola.

Se poi, come affermavo più sopra, a scuola si utilizzassero metodi come l’apprendistato cognitivo, allora si può pensare che la preparazione a trarre beneficio mentale ed operativo dall’alternanza scuola-lavoro, diventerebbe più accessibile ed efficace. Nell’apprendistato cognitivo infatti l’autoefficacia che sperimenta l’allievo nel cimentarsi attraverso l’imitazione nel compito sollecitato, dopo aver assimilato i processi riportati, corrisponde al passaggio dialettico tra CAPIRE/RIUSCIRE.  Bisognerebbe che anche nell’esperienza  lavorativa gli studenti venissero accompagnati da un tutor, formato ad hoc, vale a dire in grado di sollecitare la riflessione sull’esperienza, man mano che questa viene affrontata, rielaborata, ne viene colto il senso, viene collegata con i saperi già acquisiti e con altri di cui eventualmente si avverta la necessità di approfondimento.

Anche nell’acquisizione della competenza le Indicazioni per la scuola dell’infanzia chiedono “la riflessione sull’esperienza” come modalità paradigmatica dell’avviamento di tutte le competenze in genere, su cui poi dovrà avvenire l’attività dell’allenamento. Che cos’è questo se non riuscire/capire?

Il nostro sistema scolastico è sempre stato caratterizzato da una grave scissione: da una parte la scuola del capire, i licei, dall’altra quella del riuscire, gli istituti tecnici e quelli professionali. Secondo me l’obbligo di organizzare l’alternanza scuola-lavoro in tutti gli ordini di scuola secondaria di secondo grado va nella direzione di attenuare questa scissione a tutto vantaggio dell’apprendimento e della formazione delle nuove generazioni e della sfida che si sta parando davanti alla scuola. Sfida che il nostro sistema scuola, organizzato intorno alle conoscenze ed alla lezione trasmissiva, fa fatica ad accettare, rischiando di non tenere il passo con i tempi e di non assumere in debita considerazione i nuovi bisogni formativi dei nostri giovani.

Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?,Cortina, 2011
De Kerckhove DerricK, La rete ci renderà stupidi?, Castelvecchi, 2016
Pontecorvo C.,Ajello A.M.,Zucchermaglio C.(a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento,LED, Milano, 1995




Docente esperto: proviamo a prendere il toro per le corna

di Cinzia Mion

Proviamo a prendere il “toro per le corna”. Con questo intendo solo anticipare che dirò la “mia”, opinione personale quindi senza nessuna pretesa di essere un oracolo…
Il riferimento è alla tanto discussa e famigerata questione del “docente esperto”.
Vorrei essere succinta e salto a piè pari le ragioni per cui questa proposta è da respingere al mittente. Molti più titolati di me l’hanno già fatto argomentando più che a sufficienza. Chiarisco subito, la proposta è da respingere e non per la questione della vetusta e semplicistica faccenda dell’egualitarismo, di cocciuta matrice sindacale. Nessuno ci crede, tutti sanno che non corrisponde al vero ma affermarlo sembra voglia dire bestemmiare. Ecco uno dei vantaggi di invecchiare è proprio questo: infischiarsene!
Proverò allora a dipanare il mio pensiero capovolgendo la prospettiva.
Allora iniziamo: la Scuola esiste perché esistono gli alunni.
I docenti esistono non perché rappresentano un posto di lavoro qualsiasi ma perché esistono gli alunni e anche una Costituzione che prevede una scuola dell’obbligo fino ai 14 anni (oggi 16!).
Ergo sono importanti:
– gli allievi, indispensabili;
– una Istituzione chiamata Scuola pubblica, altrettanto indispensabile (per non tornare al precettore privato, ed oggi con la scuola “parentale” siamo lìlì);
– e un articolo della Costituzione che suggerisce, o meglio pretenderebbe, l’idea di una Scuola inclusiva, (art.3) quindi “EFFICACE” al fine di mantenere in asse la Democrazia del Paese, attraverso non solo l’alfabetizzazione strumentale ma anche disciplinare, finalizzate al maggior successo formativo per tutti , (compresa la comprensione del SENSO di ciò che si legge!)
Parlavamo dei docenti che sono importantissimi ma devono essere TUTTI all’altezza del compito : “BEN FORMATI“ e di conseguenza “BEN REMUNERATI” e consapevoli che dal loro lavoro dipende il FUTURO dei giovani e quindi del Paese

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Il maggiore riconoscimento sociale ed economico di questa professione potrebbe farla ridiventare appetibile anche ai maschi, la cui carenza si avverte moltissimo soprattutto per la rilevanza che hanno in funzione della realizzazione dell’identità di genere, cui servono modelli sia di identificazione che di differenziazione.
Ovviamente il compito oggi del docente è indirizzato, attraverso i nuclei fondanti delle discipline e il loro valore epistemologico, verso la padronanza di fondamentali competenze che vanno PROGETTATE perché non scaturiscono per magia dalle sia pur importanti “conoscenze”.
In primis oggi troviamo il saper PENSARE , ovviamente con la propria testa, competenza chiamata anche ERMENEUTICA, applicata a tutti i sistemi simbolico culturali che la scuola offre, utile però ad orientarsi nel mondo con consapevolezza critica.
Accanto a questa competenza fondamentale, nell’epoca dei click, (sufficienti ad ottenere una risposta esatta), dobbiamo ricordare la competenza della Cittadinanza intesa anche , forse soprattutto, come osservanza dell’ETICA PUBBLICA e del BENE COMUNE, per la cui realizzazione dobbiamo saper RINUNCIARE tutti a qualcosa (magari assumendo la “parzialità” del proprio punto di vista).
Fin dall’inizio, all’entrata nell’Istituzione scolastica, alla base del rapporto docente-alunno, ma anche nella “comunità professionale dei docenti”, troviamo però la competenza socio-relazionale , visto che ci viene richiesto di interagire solidaristicamente fra noi, utilizzando quella “naturale “ INTERSOGGETTIVITA’, cui siamo programmati fin dalla nascita , come ci illustrano bene le neuroscienze. Competenza che ogni docente deve padroneggiare per gestire in modo accettabile una classe quasi sempre ormai multietnica e multiculturale, ma alla cui padronanza deve educare anche i soggetti affidati, attraverso didattiche cooperative ed interculturali.
E qui arriviamo al cuore del problema. Per diventare “docenti” in grado di affrontare la loro professione in modo adeguato a queste aspettative bisogna frequentare la SCUOLA DI ALTA FORMAZIONE?
Ma soprattutto una scuola per pochi eletti e alla fine, se si è valutati positivamente , ricevere un premio in denaro?
Non sarebbe “cosa buona e giusta” che tutti quelli che “aspirano” a diventare docenti ricevessero una formazione iniziale, e poi una formazione in servizio costante ed obbligatoria, idonee per una professione così impegnativa dal punto di vista professionale ed etico?
Una formazione universitaria che preveda innanzitutto, nel piano di studi, che ci sia la “Psicologia dell’apprendimento”(come risultava all’interno della laurea in Pedagogia anteriore al sistema 3+2, ma su questo ho argomentato più volte inutilmente, probabilmente disturbando anche qualcuno….). Vi ricordate la figura “dell’Operatore psicopedagogico” istituito dall’Ordinanza 282 del 1989? Eh l’età permette di recuperare anche queste vecchie note ministeriali, che però sono indicative di una sensibilità particolare che è stata persa. Quella però era una “figura intermedia” che aveva funzioni specifiche, soprattutto per i casi difficili e serviva a tutto intero l’Istituto. Ai docenti però della scuola primaria non era ancora richiesta la laurea. Una formazione in psicologia dell’apprendimento permette di acquisire chiavi di lettura importantissime per capire dove va a parare il nostro INSEGNAMENTO, finalizzato appunto all’APPRENDIMENTO. Possiamo dire che costituisce i FONDAMENTALI. (permettetemi una divagazione con un esempio antidiluviano ma che rende l’idea: voi riuscite ad immaginarvi un artigiano che realizza calzature a mano ma che non sappia riconoscere la differenza tra il cuoio, la pelle, la plastica o il cartone???)
Il riferimento alle figure intermedie mi permette invece di recuperare alcune riflessioni che potrebbero giustificare un richiamo alla carriera dei docenti.
Alla luce infatti delle esperienze in atto , alcune nuove “figure professionali di sistema” ( il cosiddetto middle management) dovrebbero essere riconosciute sia professionalmente (previa formazione adeguata) che finanziariamente per collocarsi proficuamente nell’attuale processo di trasformazione del sistema scolastico.
Mi riferisco particolarmente all’attuazione “vera” dell’Autonomia, alla complessità della gestione degli Istituti scolastici decisamente troppo numerosi e spesso ospitanti più indirizzi e alle tipologie di utenza, sempre più complesse, all’interno di una società che sta assumendo caratteristiche , come dice oggigiorno Vertecchi, di società “dis-educante”.
La via del middle management è il passaggio intermedio per arrivare poi al grado di “dirigente scolastico”, cui comunque si accede per concorso, ma con punteggio privilegiato. Da rilevare che in questo modo un ex-docente, con suddetta formazione psicopedagogica, diventerà sicuramente un LEADER PER L’APPRENDIMENTO, connotazione oggi carente se non mancante del tutto.




La luna e il dito (lettera aperta ai ministri Bianchi e Messa)

di Cinzia Mion

Recentemente è scoppiata una grande polemica a proposito di dati divulgati da “Save the children” intorno alla percentuale dei ragazzini che alle prove Invalsi, e non solo, risulta non siano in grado di comprendere il senso di quello che leggono.
Sembra si tratti di una notizia falsa, gonfiata nei numeri. La polemica all’inizio è divampata su queste presunte fake news.
Poi, più giustamente, si è sviluppata intorno alle conseguenze che potrebbero avere queste notizie se rapportate alla interpretazione conseguente: se da tempo la scuola pubblica non riesce a colmare queste lacune che, ai fini del raggiungimento del senso completo di “cittadinanza” sono basilari, allora bisogna sostenerla dall’esterno…
Se la causa è la cosiddetta “povertà educativa” ecco pronto a farsi avanti il terzo settore, visto che ci sono in vista degli stanziamenti considerevoli del PNRR . La vecchia volpe di Andreotti diceva “a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca…!”

Un ottimo pezzo di Missaglia nel sito di Proteo illumina questa possibile deriva insistendo giustamente sul fatto che non si tratta di “povertà educativa” ma si tratta di necessario ed impellente cambiamento della scuola ma non “aggiungendo” qualcosa dall’esterno bensì “costruendo ponti e alleanze virtuose con chi è interessato davvero al cambiamento della scuola e soprattutto modificando in profondità l’assetto, il funzionamento, l’organizzazione e i contenuti della didattica”
Allora io aggiungo: carissimo Dario Missaglia , carissimi Ministri dell’Istruzione Bianchi e dell’Università e della Ricerca M.C. Messa, cominciamo dalla base. A me hanno insegnato che se qualcosa non va, il percorso va rivisto dall’inizio.

a) Sappiamo tutti che il sistema universitario frettolosamente definito “3+2” non funziona.
Interrogati singolarmente i docenti universitari lo ammettono, salvo poi ammutolire come pesci di fronte al rischio di un cambiamento “che non si sa mai se può comportare qualche rischio che non vogliono correre”.
Il primo modulo dei tre anni per la cosiddetta laurea breve fa acqua da tutte le parti. I corsi universitari con la denominazione infelice di “numeri ascrivibili a crediti” ( sarò vecchia ma questa terminologia mi fa rabbrividire) hanno ridotto le università ad esamifici. Diciamolo una volta per tutte fuori dai denti. Le dispense su cui si studia e le tesine con cui ci si laurea sono ridicole. Sono i ragazzi stessi e i loro genitori ad ammetterlo. Cosa aspettiamo a riformare questo scempio?

b)  Cosa aspettiamo ad includere nel corso di studi per la formazione iniziale la vecchia psicopedagogia, chiamata oggi “ Psicologia dell’apprendimento”, che è l’unica fonte scientifica che ci offre la padronanza della metodologia e della didattica che userò perché mi permette di acquisire le chiavi di lettura per interpretarne l’incisività, rispetto alla finalità che intendo raggiungere: è la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, c’è un saggio fondamentale di tale disciplina più recente dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio. Vi dicono qualcosa questi nomi, ascrivibili al periodo che Dario Missaglia nomina come ricco di “energia sociale” , quello degli anni 70? (anche se il saggio in questione è del 1995).
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per capire il SENSO di ciò che si legge!

c) Moltiplichiamo perciò al più presto le cattedre di psicologia dell’apprendimento prima che perdiamo “il testimone” e riformuliamo i piani di studio. Apriamo il cantiere della formazione iniziale per tutti i docenti: solo così possiamo sperare di salvare la scuola. Credo che una volta assaporato il vero “senso” di cosa significa l’insegnamento, per poter sollecitare l’apprendimento autentico per “tutti”, non sarà necessario escogitare premi e specchietti per le allodole per sollecitare il bisogno di formazione. Saranno i docenti a chiederla e senza voler essere remunerati per questo, (naturalmente potendo allora godere di uno stipendio adeguato e non di uno residuale tipico di un lavoro di seconda scelta) recuperando così la dignità della loro professione.
Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al DITO!