Meritocrazia, meritorietà, merito e scuola

di Cinzia Mion

Il sociologo Luca Ricolfi si è rifatto vivo con un libro, ‘La rivoluzione del merito’, in cui riprende le sue vecchie tesi sostenendo “che le politiche egalitarie e iper-inclusive nella scuola abbiano danneggiato i figli dei ceti più poveri, privandoli dell’ opportunità di utilizzare il merito scolastico come strumento di competizione”(Tuttoscuola).
Rispolveriamo allora l’argomento che da un po’ di tempo ha ripreso fiato.
Che il nostro sia il paese delle raccomandazioni, delle clientele, del familismo amorale, delle caste, delle oligarchie, delle corporazioni e della mafie non abbiamo dovuto aspettare Roger Abravanel con il suo famoso saggio “Meritocrazia”, per scoprirlo!
Semmai lui ha rigirato il coltello nella piaga per farci sentire, giustamente, inadeguati, vergognosi e con una gran voglia di riscatto.
Siamo tutti d’accordo finché si invoca in Italia la carenza della valorizzazione del “merito”, al fine di attivare il cambiamento invocando un vero e proprio moto di orgoglio. Tale valorizzazione deve avvenire all’interno dell’economia italiana e deve inoltre far emergere la necessità di produrre leader eccellenti sia nel settore pubblico che in quello privato.
Siamo anche d’accordo che “il circolo vizioso del demerito” ha condotto ad una società basata sulla cooptazione anziché sulle competenze. Osserviamo anche che tale dinamica si fonda su fedeltà amicali e familiari, su vari “cerchi magici” che in cambio di sudditanza garantiscono privilegi, malcostume che come ben sappiamo sta maramaldeggiando dentro a partiti ed ora perfino nelle associazioni professionali .

Possiamo senz’altro essere d’accordo su un’idea di meritocrazia proposta da R. Abravanel per cui ”i migliori vanno avanti in base alle loro capacità e ai loro sforzi, indipendentemente da ceto, famiglia di origine e sesso.”
Non tutti siamo però d’accordo sulla meritocrazia intesa come “il POTERE del merito”, ossia sul principio di una organizzazione sociale che fondi ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito.
Effettivamente il sociologo inglese Michael Young che nel 1958 aveva introdotto per primo il concetto di meritocrazia , nel 2001, preoccupato per la piega pericolosa che stava acquistando il concetto, arrivò a lamentarsi che il suo saggio fosse stato interpretato come un elogio della meritocrazia invece che come denuncia di vero e proprio rischio, per cui l’intenzione da parte sua era stata quella di criticarla radicalmente.
Già comunque il filosofo T.Nagel nel 1993 era intervenuto ponendo dei dubbi sull’accettabilità che alcune competenze scientifiche o elevate di produttività, in altri termini le eccellenze, potessero automaticamente essere usate per richieste di pretese politiche o di potere.
Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, a tale proposito afferma “In buona sostanza il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento- come Aristotele aveva chiaramente intravisto- verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano alla lunga alla eutanasia del principio democratico”

Meritorietà, merito e scuola
Ben diversa è invece l’organizzazione sociale basata sul “CRITERIO del merito” invece che sul “potere del merito”
Non è infatti giusto che tutti vengano trattati egualmente, come detta l’egualitarismo, però è importante che tutti vengano considerati e trattati come eguali.
Ben diversi perciò sono i concetti di “meritorietà e merito” a scuola.
Il principio “dell’uguaglianza delle opportunità”, che dovrebbe dal tempo del Rapporto Faure ispirare la scuola e l’educazione, significa che davanti a diverse linee di partenza per censo, vantaggio o svantaggio socioculturale, contesti educativi di provenienza più o meno stimolanti, i bambini e i ragazzi devono incontrare, soprattutto alla scuola dell’obbligo, un gran numero di opportune occasioni di crescita tanto da annullare il più possibile gli svantaggi iniziali.
Diventa perciò imprescindibile offrire all’interno delle aule scolastiche occasioni in cui tutti possano avere a disposizione percorsi individualizzati e personalizzati, assaporare il piacere di conoscere, acquisire competenze, comprendere profondamente ciò che viene insegnato, imparare a padroneggiare il pensiero per cogliere relazioni e nessi tra i dati anche quando sembrano sconnessi, riuscire ad interrogarsi sui grandi perché del mondo e dell’umanità, scambiare dati, informazioni, pareri, crescere insieme, appartenere al gruppo in cui esiste un “posto” per tutti dove tutti vengano riconosciuti e valorizzati.
Questa è la scuola “MERITORIA”.

E’ ovvio che al suo interno c’è l’allievo che gratifica di più la fatica, ma anche il piacere di insegnare. Questo non deve indurci a fare una classifica all’interno della classe come tanti invece auspicano. La scuola non è un concorso a premi e nemmeno un concorso per esami e titoli per un posto di lavoro.
La scuola è un’istituzione preziosa e delicata, non può essere piegata a degli slogan di moda senza entrare nelle sue viscere e vedere cosa veramente non va più, cosa deve essere profondamente innovato, quali sono gli aspetti di essa fortemente interrelati per cui se ne tocchi uno puoi travolgerne altri, quali invece vanno tenacemente perseguiti a costo di suscitare rimostranze.
Da parecchio tempo io ritengo che la scuola sia diventata un’istituzione senz’anima.
La passione che la pervadeva negli anni precedenti –dagli anni ’70 fino all’inizio del terzo millennio- si è volatilizzata, tutto è diventato terribilmente faticoso, demotivante, troppo burocratico, senza smalto.

Nel tempo abbiamo assistito ad un decadimento progressivo, ad una disaffezione diffusa che ha travolto e contaminato moltissimi (troppi) operatori scolastici. Non tutti per fortuna ma quelli che continuano a vivificare la scuola non hanno la forza di contaminare tutti gli altri. Il sistema sta boccheggiando.
Passione e senso di appartenenza all’Istituzione
I problemi e le eventuali soluzioni partono dalla consapevolezza della necessità di ridare passione e “senso di appartenenza” a tutti coloro che abitano questa Istituzione che è la più significativa di un Paese. In secondo luogo appare immediatamente le necessità non solo di implementare l’innovazione ma di accompagnarne adeguatamente il suo incarnarsi ed evolvere.
Una buona legge di riforma deve parlare di innovazione ma non solo organizzativa, pur necessaria, ma quella che avviene all’interno del rapporto “insegnamento-apprendimento”.

Una innovazione pregnante e significativa che oggigiorno deve riguardare contenuti e metodi, che tenga presente che a fronte dell’obsolescenza dei contenuti e la facilità di accedere ad Internet ciò che conta è la “comprensione profonda” (Wiggins) ,non superficiale e meccanica delle conoscenze, conoscenze però accompagnate da schemi di mobilitazione tanto da farle diventare competenze che nella vita serviranno a chiarire una situazione o a “risolvere un problema”. Una innovazione che possa definitivamente confinare al posto marginale che merita la prassi della spiegazione, studio individuale e restituzione della lezione – alla base del cosiddetto PENSIERO ROFLETTENTE – o l’abilità procedurale per giungere alla risposta esatta (ciò che risulta più significativo è invece saper problematizzare) o lo smalto spesso illusorio dell’eccessiva enfasi sulla digitalizzazione se questa aiuta a nascondere l’incapacità della connessione “mentale” offerta invece dal PENSIERO RIFLESSIVO.
Anche Edgar Morin nel suo ultimo pamphlet “Svegliamoci!” parla di CRISI DEL PENSIERO.

Non vi stuzzica questo richiamo ai brividi mentali del saper pensare e comprendere profondamente? Lasciamoci contagiare da questa meritevole passione, che va riscoperta, e trasmettiamola ai nostri ragazzi!
E’ questo il MERITO AUTENTICO di cui ha bisogno la scuola e il PAESE.




Ciao maschio …

di Cinzia Mion

Il recente femminicidio che ha visto come vittima una ragazza di 29 anni incinta di sette mesi, di nome Giulia, ha sconvolto il Paese e non solo. Al di là dell’attenzione morbosa che ha suscitato questo evento, dobbiamo sapere che dopo ne sono successi altri e che le statistiche affermano che per mano di un uomo muore una donna ogni tre giorni.

Il femminicidio è un termine specifico che definisce in maniera non neutra gli omicidi contro le donne, in tutte le loro manifestazioni, per motivi legati al genere. Quasi sempre ad opera dei compagni o da parte soprattutto degli ex. Quante volte abbiamo sentito dire: lei lo lascia e lui l’ammazza!
Il termine “genere” sta ad indicare l’identità di genere su cui sarà necessario dare qualche delucidazione perché su questa definizione sono sorte moltissime deformazioni informative, quasi tutte in malafede. Lasciamo da parte per ora il tema dell’orientamento sessuale e quello della “disforia di genere” altrimenti mettiamo troppa carne al fuoco. Ne riparleremo se vi interessa. E tralasciamo anche il problema orripilante degli stupri che richiede un capitolo a parte.

Simone de Beauvoir aveva detto che “femmine” si nasce e “donne” si diventa, ovviamente anche “maschi” si nasce e “uomini “ si diventa. Il passaggio dall’identità sessuale, biologica, all’identità di genere che è invece culturale è lento e dipende dal contesto socio-storico-culturale di appartenenza. Tutti noi sappiamo infatti che per una donna è diversa l’identità di genere in un paese occidentale o, per esempio, in Arabia Saudita.
E’ un’identità che matura, processo che va costruito e accompagnato, al fine di raggiungere delle identità il più possibile rinnovate e lontane dai vecchi stereotipi ma anche critiche nei confronti dei modelli offerti dai media che rischiosamente vengono assorbiti acriticamente dai bambini e dalle bambine se non ci sono i filtri offerti dai genitori o dalla scuola.

Le discriminazioni di genere e gli stereotipi sessisti sono duri a morire anche se l’emancipazione femminile, cominciata lentamente in Italia negli anni sessanta ad opera del movimento femminista, ha permesso di fare notevolissimi passi avanti.
Il fenomeno del maschilismo rimane però ancora fortemente sullo sfondo.

Stereotipi sessisti

Maschio: razionalità, iniziativa, responsabilità, protagonismo, decisionalità, forza (non solo fisica: sesso forte, non aver paura), competitività, machismo, ecc
Femmina: sentimento, emotività, dolcezza, adattamento, accettazione, sensibilità, sottomissione, arrendevolezza, acquiescenza, angelo del focolare, ecc

Questi stereotipi di genere vengono assunti inconsapevolmente fin dalla nascita. Le pratiche di accudimento, i giochi e i giocattoli messi a disposizione, i primi divieti e i permessi, le emozioni legittimate e quelle tacitamente interdette, sono tutte variabili intrise di stereotipi.
Ci sono delle frasi che un tempo, ma secondo me qualche volta anche adesso, vengono pronunciate in famiglia e che vengono recepite dai soggetti in crescita come vere e proprie “ingiunzioni”:
– non piangere, non sei una femminuccia…
– non devi aver paura, solo le femmine hanno paura (in un colpo solo così si svaluta il genere femminile e si costruisce una “gabbia” per quello maschile)…
– gli uomini non chiedono mai…
– eppoi tutta la retorica sulle “brave bambine” che non si arrabbiano e non pestano i piedi…

Oggi i ruoli sociali sono però cambiati: la donna uscendo di casa e andando a lavorare ha scoperto la sua capacità di assumere responsabilità, prendere decisioni, essere protagonista della propria vita, ecc.
In altre parole ha legittimato la sua parte “maschile”.
Ovviamente ora ci aspettiamo che anche l’uomo accetti e legittimi la sua parte “femminile”.

La via, per ora, della nuova virilità è quella della nuova paternità, con la legittimazione della parte tenera.
I nuovi padri, infatti, stanno rifiutando il ruolo storico del padre “autoritario” e punitivo, desiderano assumere il ruolo fin da quando il figlio è neonato: hanno così imparato a prendersi cura di lui e il contatto con il corpo tenero del “cucciolo” fa emergere la loro tenerezza, nascosta da anni all’interno dello stereotipo della “rudezza”.

L’identità di genere e la preadolescenza.

Le ragazzine hanno oggi accanto una madre che comunque rappresenta di fatto un’emancipazione rispetto agli stereotipi storici, sono molto sicure di sé.
A volte forse anche un po’ troppo…
I ragazzini invece, messi in crisi i vecchi stereotipi, appaiono spaesati e disorientati…

Spesso si chiedono: – Sono un vero uomo?
Cosa significa oggi essere veri uomini?
Per non restare nel disagio e nella paura di essere inadeguati alcuni intraprendono la strada del bullismo (in questa tipologia rientrano anche gli stupri di gruppo ostentati nei social) perché la prepotenza dà loro l’illusione di contare, di essere protagonisti, di essere considerati.
Inoltre il tono muscolare contratto, indotto dalla violenza e dalla rabbia, dà loro la sensazione di controllare e dominare la “paura” soggiacente.
Ma i nostri preadolescenti non possono aspettare di diventare padri…allora sono i giovani uomini (25-45 anni) che devono fare delle riflessioni sulla nuova identità maschile, come abbiamo fatto noi mezzo secolo fa (o anche più), ed offrirle come esempi e riferimenti ai ragazzini che stanno crescendo.

A dire il vero l’identità maschile è più difficile da sempre da realizzare.
Infatti Stoller, per affermare questa convinzione, poggia le sue argomentazioni sulla “protofemminilità”.
Questo concetto sottolinea come l’ovulo fecondato, che inizia il suo percorso verso la maturazione biologica, se è XY, quindi destinato ad evolvere verso la mascolinità, per 5/6 settimane risulta però essere femminile. Poi subentrerà l’ormone del testosterone a deviare la formazione delle gonadi embrionali da ovaie a testicoli. In altre parole l’identità femminile è un binario diritto, quello maschile invece “deviato”. Inoltre nato da un grembo femminile, cullato da una voce femminile, impregnato perciò da una gestalt femminile ad un certo momento avverte e ascolta la spinta a differenziarsi. Quasi sempre per caratteristiche declinate però al negativo…non devi, non puoi perché tu sei un maschio, ecc
Inoltre le statistiche dicono che su 10 aborti naturali 7 sono maschili e 3 femminili. Tutte queste considerazioni sostengono perciò la tesi, come dicevo, che l’identità maschile è biologicamente più fragile.

Le donne invece incontrano più difficoltà durante il corso dell’esistenza: doppio lavoro, (in casa e fuori casa), donne storicamente destinate al lavoro di cura; la ricerca dell’occupazione; la maternità e il mantenimento del posto di lavoro; dover sopportare spesso molestie nel lavoro; “soffitto di cristallo” sulla la propria testa – sopra il quale camminano gli uomini – rendendo difficile per le donne stesse raggiungere posizioni apicali!

Il virilismo

Sandro Bellassai, il fondatore del sito www.maschileplurale.it, afferma che il genere maschile non ha ancora però elaborato fino in fondo il lutto per il potere perduto, di quel potere trionfale, indiscusso.
“In qualche modo siamo rimasti in mezzo al guado. Dobbiamo fare i conti con un mondo che è cambiato”.
Afferma però anche che nello stesso tempo non c’è ancora una vera uguaglianza, una vera parità, perché quelle ragioni che spingevano gli uomini a difendere la gerarchia, il dominio, il piedistallo del potere nei confronti della donne, sono ancora tutte lì….
E riguardano la paura maschile delle donne, l’incapacità di pensarsi in un ordine “repubblicano e non monarchico
Per questo ogni tanto la frustrazione, l’angoscia, la paura maschile, buttate fuori dalla porta rientrano dalla finestra. E pare che l’uomo si senta rassicurato solo se riconosciuto superiore!
In tutti questi anni di emancipazione lenta ma costante le donne infatti hanno acquistato consapevolezza di sé, del loro valore, attraverso anche l’autorealizzazione. Gli uomini, protetti dal patriarcato invece non hanno lavorato su di sé, sulla loro posizione identitaria. Sono vissuti di rendita.
Ad un certo momento però è come se si fossero svegliati, abbiano preso coscienza della crescita femminile e sono entrati in crisi.
L’esperienza della crisi, mai sperimentata prima, ha disorientato e in alcuni di loro ha fatto aumentare l’arroganza per farvi fronte.
Recalcati dice, a proposito dell’uomo femminicida: “la sua fatica è data dalla difficoltà a riconoscere la libertà della donna…Si tratta di eliminare una esistenza differente, eccedente, irriducibile al potere fallico della ragione maschile”.

Elisabeth Badinter

Badinter si è interessata dell’”identità maschile” (XY L’identità Maschile) con la casa editrice Longanesi nei primi anni 90! E’ abbastanza singolare ma significativo che abbia affrontato questa tematica per prima una donna.
Alla fine del suo intrigante saggio la Badinter scrive: “Fino a quando le donne partoriranno gli uomini, e XY si svilupperà in seno a XX, sarà sempre più lungo e un po’ più difficile fare un uomo che fare una donna. Per convincersene, basta pensare all’ipotesi inversa: se le donne nascessero da un grembo maschile, cosa sarebbe del destino femminile?
Quando gli uomini presero coscienza di questo svantaggio naturale, crearono un palliativo culturale e di grande portata: il sistema patriarcale.
Oggi, costretti a dire addio al patriarca, devono reinventare il padre e la virilità che ne consegue.
Le donne, che osservano questi mutanti con tenerezza, trattengono il respiro….”




A proposito di whisky facile e taxi gratis …

di Cinzia Mion 

Senza scomodare Platone e il rapporto tra Etica e Politica – aspetto che fin da giovane ho vagheggiato e anche creduto come possibile – non pensavo però che si arrivasse alla spudoratezza di emanare provvedimenti così dis-educativi e pericolosi per la salute come l’ultimo partorito da Salvini, che non ha nemmeno la scusante dell’insolazione….

Si tratta, come avrete già capito, del taxi gratis per i ragazzi reduci dalla discoteca, qualcuno direbbe alticci, ma diciamo pure ubriachi. Alticci potrebbe essere stato prima di questo strampalato, o meglio farneticante, provvedimento. Ora qualche sprovveduto, e intemperante soggetto, sentendosi autorizzato e nello stesso tempo coperto rispetto al rischio di incorrere in qualche incidente stradale, senz’altro alzerà di più il gomito….
La filosofia del male minore non solo è miope ma pericolosa.
Già i nostri giovani spesso sono affetti da quella che viene chiamata dis-regolazione emotiva; mettici accanto una educazione ricevuta il più delle volte troppo permissiva da parte di genitori che non sanno più gestire il “no”, fin da quando i figli sono piccolissimi, perché temono in questo modo di non essere più amati dai figli stessi, (quando un tempo succedeva il contrario); aggiungi il fatto che di fronte alle frustrazioni o alle difficoltà troppo spesso ricorrono alle droghe perché nessuno ha loro insegnato che nella vita bisogna imparare ad affrontare gli ostacoli non ad evitarli, e arriva sempre prima o poi la necessità di stringere i denti; e la politica come finale emana un provvedimento del genere?
Pardon …non la Politica !
Diciamo un politicante alla ricerca spasmodica di visibilità! Il fatto è che siamo diventati tutti così indifferenti, e pure acritici, che invece di inalberarci di fronte a tale inaudito “editto” ci limitiamo al massimo a farci sopra dei frizzi.

Io sono veneta e so come l’alcool sia dannoso per la salute e vedo all’ora dell’aperitivo “quanto” i giovani bevano e come l’età dell’iniziazione si stia abbassando sempre più.
Tale provvedimento è già scattato nel recente fine settimana a Jesolo (Ve) all’uscita della famosa discoteca “Il muretto”…

Caro Salvini, prima di uscirtene ancora con una trovata del genere, pensa ai tuoi figli, che nomini sempre, e chiedi al tuo medico di fiducia quali sono i danni dell’alcool , informandoti anche sul numero dei ricoveri di giovanissimi/e al Pronto Soccorso per abuso di alcool.
Se avrai la fortuna della resipiscenza affrettati almeno a correggere questa castroneria.
Per es. il taxi può essere lì, (servizio) se il ragazzo/a non se la sente allora viene portato a casa ma… paga la famiglia!
Oppure : il taxi è lì, (servizio) bisogna però passare al test alcoolico in uscita dalla discoteca con conseguente intervento ma…il servizio diventa obbligatorio per le discoteche.
In tutti e due i modi si potranno evitare eventuali incidenti. Con l’aggiunta che entrambe le soluzioni dovrebbero risultare deterrenti perché né la famiglia né il gestore saranno felici di rimetterci.
Se lo farai saremo così contenti per i nostri giovani – che così dovranno piuttosto imparare ad auto-contenersi che ad aspettare le “toppe” dagli adulti – che non ti chiederemo nemmeno di scusarti.




Ritorna la manfrina dei dati Invalsi

di Cinzia Mion

Premetto subito che non sono tra i detrattori delle prove Invalsi. Anzi. Ho sempre preso sul serio il grido di allarme inoltrato a suo tempo dal linguista Tullio De Mauro sul cosiddetto “analfabetismo funzionale” del 70 % degli italiani adulti, ripreso poi sistematicamente appunto dalle Prove Invalsi, rispetto ai ragazzi a scuola.
Il riferimento è al fatto che i ragazzi a scuola leggono (competenza strumentale) ma fanno fatica a capire il “senso” di ciò che leggono.
Le cause secondo me sono molteplici. Non intendo però affrontare qui l’annoso problema della formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria, carentissima soprattutto in “psicopedagogia o psicologia dell’apprendimento scolastico”, dopo la soppressione delle SSIS. Mancano inoltre da morire tutti i laboratori, i tirocini, all’interno dei quali sollecitare proprio la formazione professionale del docente ad uscire dalla propria auto-referenzialità. Stupisce che non sia l’Università stessa a richiedere, se fosse in grado per prima di “autovalutare se stessa”, una revisione adeguata dei propri piani di studio finalizzati a rivedere le carenze che sono ormai sotto gli occhi di tutti.

L’affondo che intendo portare avanti ora è nei confronti della sottovalutazione, anche da parte dei detrattori delle Prove Invalsi, di un atteggiamento che dovrebbe essere la spina dorsale della professionalità docente: la consuetudine all’”autovalutazione” che ogni insegnante dovrebbe mantenere sempre vigile. Un’autovalutazione che dovrebbe seguire sempre una semplice ma salutare autointerrogazione: cosa ho trascurato nella mia progettazione, ed attivazione poi della didattica, nei confronti dei processi cognitivi e metacognitivi dei “miei” ragazzi se non sono in grado di affrontare questa prova? Come mai questi sono in difficoltà rispetto alla “comprensione del senso”?

E se i docenti non trovano la risposta bisogna andare subito nel sito Invalsi e cercare nei “Quaderni di approfondimento” la risposta a questa domanda. Ovviamente poi però urge aggiustarsi cercando di adeguare la propria didattica, attraverso, per esempio, una salutare “formazione in servizio” (che non è un’idea blasfema!) in grado di affrontare tale problematica.

Se vogliamo essere più precisi diventa indispensabile rispolverare anche il concetto di “valutazione formativa”-  spesso citato a vanvera, giusto per far vedere che non è dimenticato, sorvolando però sul cuore stesso dello stesso – nel senso che la responsabilità del mancato successo formativo dei ragazzi, da ascriversi in primis alla didattica del docente, deve far scaturire in quest’ultimo uno stringente autofeedback  formativo. Da questa visione della valutazione scopriremo essenziale il sorgere di una “trasformazione adeguata e ineludibile,” pressante e disincantata, scevra da meccanismi di difesa. Una trasformazione salutare a 180 gradi.
Ci si fionda invece sull’attivazione del senso di responsabilità “dell’educando” invitato e sollecitato lui da più parti all’autovalutazione. Intendiamoci: sacrosanta ma… “vivaddio” verrà sempre dopo di quella del docente…O no?

Come fa un docente ad educare al “recupero dell’errore” se lui stesso non lo sa fare su di sé? Che  esempio può dare? Tutti noi sappiamo che si insegna in modo più pregnante con il nostro modo di essere che  penetra più profondamente  di qualsiasi altra sollecitazione verbalistica.

Torniamo a noi: i miei allievi non sono in grado di affrontare una delle prove Invalsi?
E’ la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo, che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, ci sono dei saggi fondamentali che possono essere utilizzati: i testi di Wiggins sulla “teoria” e sulla “pratica” per l’acquisizione della competenza della comprensione significativa e profonda .
A proposito di ciò sottolineo come all’interno della tassonomia indicata da Wiggins spicchi in modo molto forte il passaggio “all’autoconoscenza”, altro modo per sollecitare l’autovalutazione di cui sopra!
Nella fattispecie poi, lungo la linea più pragmatica, segnalo il meno recente saggio dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio .
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” (A.Collins,J.Brown,S.E.Newman) e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per insegnare a cogliere e capire il SENSO di ciò che si legge! (Palincsar-Brown: La comprensione del testo scritto, all’interno “dell’Insegnamento reciproco della lettura”)

Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se  qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al Dito.




A proposito del ’68, lettera aperta a Paola Mastrocola

di Cinzia Mion

Gentile professoressa, la seguo da tempo, soprattutto per il suo pensiero critico-compulsivo, rivolto quasi sempre nei confronti del Movimento del ’68.
Mi soffermerò però più tardi su questo aspetto, affrontato ancora una volta in una recente intervista rilasciata al Sole 24 ore.

Parto invece dalle condivisioni : è vero che i giovani oggi sono educati sul principio del “piacere” e non su quello di “realtà” (Freud) e non c’è dubbio che tale deriva dipenda dall’educazione genitoriale, oggi molto in affanno. Secondo me ha ragione Recalcati quando afferma che una delle cause di questa difficoltà dei genitori dipende dal fatto, non solo che i figli sono sempre più “unici” ma che, soprattutto oggi, “sono i genitori a temere di non essere amati abbastanza dai figli” e non il contrario….

E’ vero inoltre che nessuno pone loro dei confini, dei limiti…i giovani padri ben volentieri sanno prendersi “cura” dei cuccioli ma non riescono a fare da “guida”, fanno fatica ad assumere il “no”; molto più semplice accondiscendere ai primi capricci del bambino che così comincerà a non “satellizzarsi” nei confronti dell’adulto….Ho detto fanno fatica: ecco il “busillis”.
Trent’anni di neo-liberismo sempre più spinto (leggi pure berlusconismo), supino solo alla legge del mercato, ha implementato una deriva di individualismo e rinuncia a qualsiasi impegno o passione! (cfr. E.Pulcini”L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale”).
Deriva pericolosa che corre il rischio di sommergere tutti. Anche i genitori. La parola d’ordine è : chi me lo fa fare? Che “profitto” ne traggo io?
Ecco cara Mastrocola, l’inizio della fine dell’autorevolezza da parte degli adulti, sia genitori che docenti.

L’autorevolezza non viene “data”, va “conquistata” con l’ascolto, l’attenzione, la possibile rinuncia alla partita di calcio, oppure alla soap preferita, o all’uso dello smartphone, va conquistata come la capacità di discernere il rischio che appare all’orizzonte se tuo figlio si rende conto che chi dovrebbe proteggerlo è più debole di lui perché manipolabile.
Faticoso? Sì, certamente . Ma tu genitore devi aver raggiunto l’adultità, essere un adulto autonomo, non un “adultescente” come dice giustamente M.Ammanniti….Diventare genitori è facile, “fare”i genitori NO.
E nemmeno fare i “docenti” è facile, nel senso di educatori in grado di appassionare i ragazzi al SAPERE e alla propria CRESCITA come uomini e donne, NO non è una “passeggiata”.  Richiede dedizione, consapevolezza, fatica, come dicevo.

NON C’ENTRA IL ’68.
No, cara Mastrocola, lo dico a lei e anche a chi, ancora come lei, continua con questa “manfrina”…
Non ha niente a che fare il ’68 con queste derive molto più recenti.
Per capire ciò che vi ostinate a non voler capire dobbiamo risalire al gennaio 1948 e alla svolta data, dopo il Referendum che ha cambiato la storia del nostro Paese, alla Costituzione. Costituzione che ha affermato con forza che la Scuola è aperta a TUTTI, E CHE L’ISTRUZIONE INFERIORE , IMPARTITA PER ALMENO 8 ANNI, è OBBLIGATORIA E GRATUITA.
La riforma della scuola media unica nel 1962, con l’abolizione dell’esame di ammissione, primo segnale dell’applicazione del dettato costituzionale, ha segnato l’irrompere della scuola “di massa”. L’inadeguatezza del corpo docente, calibrato ancora su una scuola elitaria, (dove siete ancora fermi voi!) ha comportato il fenomeno della bocciatura “di massa”…che ancora una volta voi state invocando…
Non credete di aver sbagliato secolo?
A quel tempo nessuno si è preoccupato di “ri-orientare” i docenti, facendo loro capire la trasformazione epocale di una Scuola che doveva adattarsi a diventare democratica, mantenendo le promesse che la Costituzione aveva fatto!
A tentare di fermare questa ingiustificata ecatombe di allievi è intervenuta nel 1967 la “Lettera a una professoressa” di don Milani che affermò ad un certo momento che la “Scuola non poteva esser come un Ospedale che accettava i sani e respingeva gli ammalati”….

A far da cassa di risonanza alla lettera (non “recapitata” a tutti i docenti di allora e di adesso…a proposito, lei l’ha ricevuta?) è intervenuto il famoso Movimento Studentesco del Sessantotto, con lo slogan “LA VALUTAZIONE SCOLASTICA E’ SOLO UNA SELEZIONE E UNA EMARGINAZIONE!”

Ovviamente si è trattato di una critica “sociopolitica”. Non aveva nessuna pretesa di essere un’affermazione “pedagogica”…ma non tutti l’hanno capito. O FANNO FINTA DI NON CAPIRLO.
Intendeva affermare: SE LA VALUTAZIONE SCOLASTICA EMARGINA LE FASCE PIU’ DEBOLI (ossia i figli degli operai e dei contadini) FASCE PER CUI LA COSTITUZIONE INVOCAVA IL DIRITTO ALLO STUDIO, ALLORA E’ MEGLIO NON VALUTARE…
Ecco le conseguenze sociopolitiche: voto unico o sei politico…
Abbiamo dovuto aspettare, per correggere il tiro, la critica pedagogica che ha permesso il varo nel 1977 della Legge 517 che ha introdotto il concetto di VALUTAZIONE FORMATIVA che ascrive la responsabilità del mancato “apprendimento” degli allievi “all’insegnamento” dei docenti e alla loro eventuale didattica, rimasta vecchia e trasmissiva come quella della riforma Gentile…come la sua, deduco!
Capito, cara prof. Mastrocola ?
Dubito ma non ci sono esami di riparazione.
Bocciata in tronco!
D’altro canto, non è vero che non si boccia più…ma i docenti che lo fanno non hanno capito che bocciano se stessi. Perché insegnare con passione è molto molto faticoso…
Richiederebbe un maggiore riconoscimento sia sociale che economico. Ma questo è un altro discorso….




Comunità educante o dis-educante?

di Cinzia Mion

A proposito del concetto di “comunità educante” é apparso con forza, intendo con intenzione persuasiva, nell’ultimo contratto nazionale del comparto scuola, all’articolo 24, che qui mi permetto di riportare: “La scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”.

Il secondo comma sottolinea: “ Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs.n.297/1994

Credo risulti evidente a tutti l’eccessiva enfasi con cui è stato steso tale articolo che avrebbe dovuto essere, secondo me, più che una asserzione così convinta, un auspicio.
Ciò che infatti penso sia sotto gli occhi di tutti oggi (ma improvvisamente mi viene un dubbio: sotto gli occhi di tutti?) sono le “derive sociali”, a dir poco nefaste che, nella migliore delle ipotesi, gli educatori, docenti, genitori e tutti quelli che il contratto elenca come appartenenti alla cosiddetta comunità educante, dovrebbero darsi da fare soprattutto per contrastarle, non per confermarle! Naturalmente se sono ancora in grado di riconoscerle come derive diseducative e pericolose, vale a dire se non sono ancora stati sommersi da esse anche loro….

Derive sociali.

La prima, devastante, è l’indifferenza diffusa, chiamata anche noncuranza, ovvero mancanza di cura. Immagino che non serva descriverla, è sufficiente rievocare qualche atto di violenza consumato in presenza di passanti che osservano appunto indifferenti, senza sentirsi chiamati in causa.
Trent’anni di neoliberismo sempre più spinto hanno rinforzato lindividualismo come ha affermato la filosofa fiorentina Elena Pulcini[1], mancata per covid recentemente.
A questa deriva si collegano immediatamente l’affievolirsi dell’ empatia e la mancanza di com-passione. Diventa molto difficile farci una ragione di tale fenomeno soprattutto da quando la scoperta dei neuroni specchio ha rivelato che siamo tutti programmati dalla nascita per l’intersoggettività, quindi per rispondere l’uno all’altro del reciproco sentire.
Mi sovviene a questo punto l’immagine di Lévinas: “il volto dell’altro mi interpella…”[2].
Il volto dell’altro uomo sofferente e morente al quale però oggi ci siamo tutti assuefatti, tanto che non ci risuona più dentro, a livello viscerale , come intendeva dire questo filosofo lituano, di origine ebraica, quando si è espresso così. Assuefazione dovuta allora alla sovraesposizione mediatica? Pensiamoci…
Credo che direttamente collegata a queste derive possiamo mettere la progressiva e sempre più accentuata difficoltà all’ascolto dell’altro.

Marianella Sclavi[3] ha affrontato molto bene tale problematica, legata alla necessità di uscire dalle proprie cornici di riferimento, delle quali non siamo consapevoli, per riuscire a decentrare il nostro punto di vista ma soprattutto direi oggi più semplicemente di allentare il nostro egocentrismo per sintonizzarci autenticamente all’ascolto.

Passiamo ora al narcisismo dilagante, su cui non è necessario soffermarci tanto è lampante la sua diffusione.
Direttamente però collegata a questo effetto dirompente risulta essere la voglia di apparire (e mostrarsi) al posto di essere. Non si tratta più soltanto della voglia tracimante da parte di certe ragazze di avere una comparsata in TV sculettando davanti a un rapper ma , molto più grave, il riferimento va oggi  ai recenti fatti di cronaca che ci hanno rivelato, attraverso i canali di Youtube l’esistenza di gruppi deliranti come The Borderline, che nella più completa insensatezza hanno provocato un mortale incidente stradale in cui ha perso la vita un bambino di 5 anni.

Sullo sfondo si intravede uno dei  padri adultescenti,( cfr M.Ammaniti) non in grado di fare da guida genitoriale valida, perché eternamente teenager.
Oltre ad un rapporto difficile con l’alterità, già esaminato, appare sempre più rinforzata una difficoltà a considerare in modo adeguato la diversità, aspetto che lascia trasparire un aumento del razzismo e della omofobia, evidentissimo attraverso l’analisi del voto recente di moltissimi italiani che non si professano razzisti o omofobi ma hanno premiato partiti che lo sono. Vorrà dire qualcosa!!!.
Non possiamo trascurare l’importanza sempre più evidente data all’avere, rappresentata dalla valorizzazione crescente del profitto, a scapito dell’essere. Ne è dimostrazione evidente la crescente disparità e forbice nel Paese tra ricchi e poveri (in preoccupante aumento).
Alla fine, ma non per importanza, possiamo annoverare, non senza un grande rammarico da parte mia, il crescente deficit di Etica Pubblica, rivelando il soggiacente familismo amorale[4], intriso di volgare “tornacontismo”, sdoganato recentemente ai massimi livelli, ecc,ecc. Potrei continuare…

Voi capite che prima di aver la forza e la competenza per contrastare tali derive bisogna averne consapevolezza e sapersi interrogare e autovalutare rispetto alla propria adeguatezza in proposito. In altre parole saper chiamare con il loro vero nome i fenomeni intorno a noi. Amici miei allora questa che ci circonda, ma che soprattutto circonda i nostri ragazzi in crescita, non è una “comunità educante” ma una COMUNITA’ DIS-EDUCANTE. O partiamo da questa consapevolezza o ci troveremo sempre peggio con una famiglia e una scuola devastate. E non ditemi che sono pessimista.

 

 

[1] Pulcini E. L’individuo senza passione. Individualismo e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, 2001.

[2] Lévinas E., Totalità e infinito.Joca Book, 1961.

[3] Sclavi M.,L’arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano-Pescara,2002.

[4] Banfield E.,Le basi morali di una società arretrata.,Il Mulino, 1976, Bologna.




Lettera aperta alla maestra “dell’Ave Maria in classe”

di Cinzia Mion

Cara Marisa Francescangeli, maestra della scuola primaria di San Vero Milis (Oristano), mi chiamo Cinzia Mion e mi permetto, da anziana Dirigente scolastica in pensione , di inviarle una lettera aperta per spiegarle alcune “cosette” che evidentemente lei ignora.
Lo si capisce dalle notizie di stampa, comprese le varie interviste da lei rilasciate a destra e a manca. Cosette che lei ignora pur avendo il dovere di conoscerle in quanto ricopre un posto importante all’interno dell’Istituzione Scuola.
Posso perdonare che i diversi “salvini” di turno non ne siano a conoscenza: lo Stato non affida loro la formazione iniziale dei piccoli cittadini italiani in crescita, come viene fatto invece nei suoi confronti.
Ma lei no. Lei le deve conoscere e tenere presenti.

L’aria garrula e superficiale, invece, con cui le affronta non solo mi fa capire che non ne è a conoscenza (ha superato un esame di concorso per ricoprire il posto assegnato?) ma mi fa anche capire che sta prendendo sottogamba quello che lei crede di valorizzare sia pur minimizzandolo, perché si stupisce della sanzione ricevuta. Lasciamo perdere il problema della correttezza giuridico-amministrativa della sanzione stessa (su questo aspetto, sui social, sono intervenuti anche rappresentanti dell’Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici ).
Mi riferisco alle conseguenze della revisione del Concordato (1985) e al fatto che da allora nella scuola ha diritto di cittadinanza la “cultura” religiosa ma non al contrario gli atti di “culto”.


Questi ultimi sono: il segno della croce, le preghiere prima delle lezioni, (o addirittura durante come ha fatto lei) le benedizioni a Natale o a Pasqua o comunque durante le cerimonie civili, le messe durante l’orario scolastico, le cosiddette visite pastorali, ecc. “Unzioni” varie come sembra aver fatto lei non sono nemmeno contemplate tanto sono anacronistiche e direi onestamente strambe, non essendo lei deputata a somministrare olii più o meno santi….
La preghiera, è stato chiaramente spiegato, poteva essere analizzata, verso per verso, ma non recitata ma anche questo con l’insegnante di religione o durante le ore ad essa deputate. Se recitata, infatti, automaticamente diventa un atto di culto.
Da notare comunque che anche durante la lezione facoltativa di religione cattolica (quindi in presenza di alunni che hanno scelto tutti di frequentare questa attività) valgono le stesse regole!
Ma veniamo ora all’aspetto che più mi interessa perché mi pare che finora nessuno l’abbia rilevato, nemmeno chi si sbraccia a difenderla.
Mi riferisco all’aria scanzonata con cui si vanta di far recitare le preghiere così, come si recita una poesia o una filastrocca a memoria. Ma non si rende conto che è lei a “desacralizzare” le preghiere, togliendo loro con disinvoltura l’aspetto che le rende pregnanti : il Sacro e il Simbolico?
E per di più se lo fa ricordare da una persona non credente ma che ha sempre rispettato questi valori tanto da scandalizzarsi nel notare la leggerezza con cui lei affronta queste tematiche.
Mi fa tornare in mente quella volta che in Umbria una docente di religione valdese ha fatto ricorso al Tar per mancanza di rispetto del dettato del Nuovo Concordato, da parte delle autorità religiose cattoliche. Era stata infatti impartita una benedizione religiosa durante l’orario scolastico, che la dirigente scolastica aveva permesso, facendosi scudo di una semplice “noterella “(invalidata poi dal Tar Emilia Romagna, Sentenza 250/1993) del ministro di turno che affermava che, se il Consiglio di Istituto era d’accordo, si sarebbe potuto fare, e il TAR dell’Umbria ha dato ragione al Vescovo affermando che : udite udite “ Le benedizioni durano poco e non lasciano tracce!!!”. Ha pensato anche lei così come il Tar dell’Umbria di quel tempo (sentenza 677/2005!)?
Quello che mi ha fatto rabbrividire allora non è stato tanto il giudice amministrativo, chiaramente ammanigliato, ma il Vescovo che pur di averla vinta ha accettato che si calpestasse , dal suo punto di vista, la sacralità del RITO e il significato SIMBOLICO della religione. Se a quest’ultima togli il rito e il simbolo, cosa resta? Lo spauracchio sulla povera gente.
Ricordiamoci chi parlava dell’”Oppio dei popoli”…