Valutazione formativa, questa sconosciuta

di Cinzia Mion

 Recentemente è stata ripresa con enfasi la discussione intorno alla tematica della valutazione scolastica. Infatti ultimamente il Ministro Valditara ha fatto approvare un emendamento che sta modificando profondamente il “senso” dell’Ordinanza n° 172, datata 4-12-2020, riguardante le Linee Guida per l’applicazione della L. n. 41/2020 che prevedevano alla scuola primaria, e ancora prevedono finché non ne verranno varate di nuove, l’introduzione dei LIVELLI al posto dei voti numerici.

I livelli sono stati modificati con questo intervento in “giudizi sintetici”. Il giudizio “insufficiente” ha soppiantato il raffinato” in via di prima acquisizione”.
Tale operazione ha rievocato dei giudizi chiaramente non solo “sommativi”, perché sommativi erano anche quelli descrittivi, ma i giudizi cosiddetti “sintetici” sono tali per cui non possono non riattivare nella mente dei docenti, ma anche dei genitori, i voti numerici la cui abolizione nel 2020 si era configurata come la vittoria di “un” primo traguardo.

Da parte delle Associazioni professionali che da tempo chiedevano invece a gran voce l’estensione della 172 a tutto il primo ciclo, tale provvedimento di “restaurazione” è stato affrontato e denunciato immediatamente come altamente dannoso per tutti gli allievi, con argomentazioni molto convincenti e condivisibili.

La leggenda metropolitana per cui i voti sono più “chiari”, rispetto ad altri sistemi, ha spadroneggiato dal tempo della riforma Gelmini che con il suo Regolamento li aveva ripristinati al posto dei giudizi. È risaputo invece che un numero, così come un giudizio sintetico, che andrà a soppiantare ora l’espressione dei recenti livelli, è molto più opaco e ciò che trasmette è soltanto la classifica tra gli alunni. Nemmeno gli stessi docenti, ritrovandoselo poi nel registro elettronico, sanno più quali siano i punti di eccellenza o le lacune sottostanti il numero assegnato, se non usando una legenda sotto la verifica. Figuriamoci i genitori.

Fermiamoci però un attimo a considerare il fatto rivoluzionario che a partire dal 1977, per la prima volta con la Legge 517, ha fatto la sua comparsa la valutazione formativa.  A quel tempo abbiamo assistito all’abolizione della pagella con i voti e alla sua sostituzione con una scheda di valutazione con dei giudizi che poi nel tempo hanno assunto diverse conformazioni.

Immediatamente è apparso però un fenomeno destinato a ripetersi: è stata costruita sempre una equazione fittizia tra voti e giudizi stessi, di qualsiasi formulazione essi fossero. Il voto numerico è talmente “imbullonato” nella nostra mente, per averlo noi tutti subito nel tempo scolastico e universitario, che facciamo fatica a superarlo come paradigma di riferimento. Ciò ci richiama alla mente la sperimentazione dei “neuroni specchio”, e la simulazione incarnata di cui parlano i neuro scienziati Rizzolatti e V. Gallese.
Questa osservazione molto importante mi induce a tornare indietro e a tracciare per sommi capi l’evoluzione dell’idea di scuola da cui scaturiscono le modalità valutative.

Cenni storici

 All’interno della cosiddetta scuola elitaria, delineata dalla riforma Gentile del 1923, i voti numerici erano funzionali al carattere selettivo della scuola stessa, (vedi esame di ammissione) idonea a formare i quadri dirigenti. La svolta è avvenuta al tempo del referendum sulla Repubblica, e la Costituzione nel 1948 ha introdotto sia l’articolo n° 3 sull’Uguaglianza di tutti i cittadini che il n° 34 che stabilisce che l’istruzione obbligatoria e gratuita dura 8 anni. Non ci soffermeremo a delineare la trasformazione basilare che è avvenuta, almeno negli intenti, verso un regime repubblicano-democratico.

Diremo soltanto che il primo atto legislativo varato per scolarizzare tutta la popolazione, per almeno 8 anni come dettava l’articolo 34, fu la legge istitutiva della Scuola media unica, del 1962. Si attesta con questa il passaggio dalla scuola elitaria a quella di massa, avviata per tutti i bambini ma soprattutto per i figli degli operai e dei contadini, che generalmente abbandonavano precocemente il percorso di scolarizzazione. Fu verso costoro però che i docenti di allora – non adeguatamente riorientati con un’opportuna formazione al cambio di utenza, precedentemente selezionata dall’esame di ammissione – infierirono con valutazioni negative e bocciature plurime.

Su questa ecatombe scolastica si levò la famosa protesta sociopolitica di don Milani e del Movimento studentesco, che fece a questa da cassa di risonanza, e poi quella successiva docimologico-scientifica che segnalò l’aberrazione della media aritmetica e predicò la differenza tra misurazione e valutazione, giustamente rappresentata dalla necessaria presenza di “criteri”, esplicitati pubblicamente.

La critica docimologica e psicologica

La docimologia (M.Gattullo: Didattica e docimologia, 1968).[1], in quanto scienza della misurazione, ha fatto piazza pulita di alcuni equivoci che cercherò di riassumere.
La “misurazione” precede la “valutazione” e non va confusa con essa, coincidenza invece resa possibile a lungo in Italia dal codice numerico dell’espressione della valutazione. I voti vengono considerati vere e proprie unità di misura di una scala perfetta, con intervalli tra loro perfettamente uguali: aspetto che Gattullo sottolinea essere impossibile. Gli stimoli creati dai docenti per le verifiche quasi sempre sono approssimativi per cui vengono proposte le cosiddette “prove oggettive”. Tale dispositivo però non risolve il problema sollevato da don Milani. Le prove devono essere considerate nel loro valore diagnostico: la cura delle difficoltà emerse sarà affidata all’insegnamento individualizzato.

La valutazione inoltre deve adottare dei criteri espliciti, non confusi tra loro, ed ospitati nel PTOF. Mi soffermerò soltanto a segnalare come il criterio di valutazione che si rifà al giudizio assoluto viene definito da Gattullo illecito (ecco il significato dell’espressione: io non sono un voto!). Criteri accettabili possono essere quelli scaturiti dal confronto con le misurazioni riferite agli altri studenti o ai progressi ottenuti dal soggetto considerato.
Dobbiamo poi aggiungere gli effetti della critica psicologica, che non hanno bisogno di spiegazione, perché o già molto noti o facilmente comprensibili, che sono: l’effetto alone, l’effetto stereotipo e l’effetto Pigmalione, ecc.

Tutte queste critiche sottolineano come la valutazione numerica sia SOGGETTIVA E ARBITRARIA.
Alla fine siamo arrivati alla opportuna critica pedagogica che permise il varo della legge 517/77, come ricordavamo prima, che inaugurò una valutazione completamente innovativa, chiamata appunto formativa. Ora si dà il caso che Le Linee Guida del 2020, nella Introduzione, contengano dei dati salienti riguardo alla psicologia dell’apprendimento, dati che andrebbero considerati una bussola dell’intera operazione, come in genere accade nell’Articolo 1 delle leggi. Il primo articolo infatti traccia sempre la cornice in cui verranno poi iscritte le operazioni successive ed esprime i principi ispiratori.
Il primo di questi principi nelle succitate Linee Guida è proprio la valutazione formativa.
Se Valditara dovesse perciò cancellare anche queste rimane pur sempre il decreto legislativo 62/2017 che continua a sottolineare l’importanza di questo tipo di valutazione.

Il cambio di passo

Il concetto di valutazione formativa, così rivoluzionario fin dal suo apparire, segna oltre che il passaggio alla scuola di massa anche a quella della integrazione, perché la stessa legge, contemporaneamente all’abolizione della pagella con i voti, ha aperto le porte della scuola statale ai soggetti con disabilità. Abbiamo già accennato alla consuetudine invalsa subito, e continuata purtroppo nel tempo, di tramutare d’emblée i voti in giudizi, vanificando così la caratteristica fondamentale e nuova della valutazione. Quello che temiamo adesso è  che questa perda nel tempo il suo smalto innovativo radicale e che si verifichi il medesimo meccanismo semplificatorio e sbrigativo.

Più volte infatti, da allora, il concetto è stato ripreso e citato, in modo prestigioso e autorevole, anche dalle “Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo” del 2012, senza però che nessuno si sia mai preoccupato di vigilare se venisse applicato o se i docenti conoscessero la differenza tra valutazione sommativa e valutazione formativa. L’attenzione si è concentrata subito sulle competenze e i docenti spesso hanno bypassato la premessa e la sua pregnanza, andando a rifugiarsi sulla disciplina di loro competenza.

Nel lontano 1977 il corpo docente non è stato formato a questo cambio di passo e così è avvenuto dopo il 2012. Non ci siamo chiesti se fosse possibile, senza adeguata formazione, cogliere e poi applicare questa modalità nuova di valutazione. Ma allora – come se fosse un giallo – in che cosa consiste questa auspicata e tanto nominata modalità di valutare gli alunni e liquidata troppo spesso da tutti anche da formatori eccezionali? Cominciamo intanto con alcune citazioni indispensabili. Nell’anno 1967 uno psicologo americano M.[2] Scriven aveva pubblicato un articolo dal titolo “Differenza tra valutazione sommativa e valutazione formativa”, ripreso poi da B.Vertecchi in Italia nel 1976 all’interno del suo testo La valutazione formativa[3]. Non è un caso che appena un anno dopo fu varata la Legge 517, successivamente alla sua critica pedagogica che denunciava una scuola che perpetuava stratificazioni sociali di massa.

La valutazione formativa

Per capire profondamente questa espressione bisogna innanzitutto comprendere senza ombra di dubbio che l’aggettivo formativa, posto accanto al sostantivo valutazione  (es: il valore “formativo” della valutazione) non è un abbellimento, una sfumatura che smorza l’eventuale durezza che può connotare il concetto di valutazione tradizionale. No, “valutazione formativa”consiste in una valutazione vera e propria, complessa, che coniuga la attenta considerazione del livello di insegnamento con quello di apprendimento.

Da allora sarebbe dovuto risultare chiaro che la valutazione sommativa, considerata per eccellenza quella tradizionale, generalmente ascrive la responsabilità del  mancato apprendimento all’allievo (poco studioso, per niente diligente, carente intellettualmente, svogliato, indisciplinato e poco attento, ecc) . Quella formativa, invece, dovrebbe attivare un cambiamento di prospettiva di 180 gradi. Ascrive infatti la responsabilità del mancato apprendimento o dell’insuccesso formativo, all’insegnante e alle sue pratiche didattiche. Dal punto di vista operativo significa che il docente allora, all’interno di questa nuova ottica, innanzi tutto dovrebbe attivare la propria osservazione, professionale e curante, durante il processo dell’insegnamento-apprendimento e non precipitarsi sul prodotto-risultato come succederebbe con quella tradizionale. Attraverso molte microverifiche informali, soprattutto utilizzando il linguaggio del corpo, le interazioni verbali tra gli allievi – opportunamente sollecitate – e le espressioni libere tra loro, si renderà conto subito della lacune, delle smagliature che i bambini più fragili rivelano e cercherà in tempo reale, di modificare la propria strategia didattica, visto che quella utilizzata non ha dato i risultati sperati. Oggi infatti la scuola, anche per dettato esplicito, è diventata inclusiva perciò, parafrasando il bellissimo titolo di un film cinese “Non uno di meno”, nessuno può essere lasciato indietro. Questo cambio di strategia, sicuramente più laboratoriale, più operativa, ascrivibile spesso alla didattica del fare individualizzato, richiede al docente l’umiltà di una autointerrogazione: ho io a disposizione una strategia adatta? Cui seguirà l’autovalutazione che si concretizzerà nella risposta positiva oppure nella ricerca di una soluzione adeguata, per una opportuna autoregolazione.

Si tratterà di rivolgersi prima di tutto ai colleghi, all’interno della “comunità professionale di docenti”, poi di fare una ricognizione su Internet, o nelle librerie specializzate. Richiedere formazione specifica al proprio DS, e poi al collegio per l’approvazione, potrebbe essere una soluzione valida per tutti.

E pensare che addirittura nei programmi del 1985, quindi all’interno del testo legislativo, emanato dopo la Legge 517, all’ultimo capoverso del paragrafo intitolato “Valutazione” si trova scritto: “L’attività di programmazione e verifica deve consentire agli insegnanti di valutare l’approfondimento della loro preparazione psicologica, culturale e didattica anche nella prospettiva della formazione continua.” Il riferimento alla formazione continua sfonderebbe una porta aperta se qualcuno inevitabilmente ogni volta non si mettesse di traverso.  

Processi non solo prodotti

Per poter affrontare la questione in modo efficace bisogna imparare ovviamente a focalizzare il processo per cogliere i passaggi cruciali, senza il superamento dei quali l’insuccesso diventa purtroppo inevitabile. Si è reso possibile questo cambio di prospettiva perché – crediamo sia opportuno ricordarlo – durante gli anni 60/70 in America il neo-comportamentismo skinneriano era stato soppiantato dal cognitivismo, il cui padre simbolico era stato Bruner. Il cognitivismo aveva posto il focus delle sue ricerche sui processi cognitivi.

Insieme alla ricerca sui processi cognitivi e metacognitivi, sarebbe molto utile anche dare un’occhiata agli stili di apprendimento, ugualmente citati nelle Linee Guida. Gli stili di apprendimento sono diversi da quelli cognitivi, ascrivibili anche a tratti di personalità, che consistono in modalità diverse di categorizzare la realtà.

Gli stili di apprendimento invece sono delle tecniche preferite o prevalenti di funzionamento della nostra mente quando si trova ad affrontare nuove informazioni per nuovi apprendimenti. Ci possono offrire delle indicazioni utili perché esistono stili più visivi o più uditivi oppure cinestetici. Mi pare degna di nota questa ultima modalità perché offre spunti interessanti in quanto ci informa che chi è portatore di questo stile ha bisogno di “toccare“ oggetti e di muoversi, modalità attuabili con attività strategiche laboratoriali. Lo stile potrebbe includere modalità alternate o comunque multiple. Per garantire l’aspetto inclusivo della didattica bisognerebbe scoprire di quale stile di apprendimento sono portatori i soggetti più fragili ed inserire nella propria prassi dei sussidi adeguati.

Speriamo che prima o poi si riesca nell’impresa di realizzare un vero e proprio apprendimento trasformativo da parte di tutti i docenti della scuola primaria, augurandoci poi che questi possano contaminare tutti gli altri.

Chi riuscirà però a far accettare dalla mente dei docenti che una valutazione negativa, comunque, per quanto attiene il primo termine del binomio insegnamento-apprendimento, è da ascrivere alla propria responsabilità? Per come imposto la didattica; per quanto stempero le difficoltà per renderle affrontabili; per quanto mi sono formato sentendomi sempre moderatamente inadeguato ed ho quindi apprezzato la zona  dello sviluppo prossimale di vigotskiana memoria, applicandola sempre quando possibile; per quanto coinvolgo i ragazzi attraverso una relazione suggestiva con il sapere; per quanto io docente possiedo una motivazione alla “padronanza” nel mio lavoro e non solo alla “prestazione” per cui, dopo aver fatto le mie ore di lezione non mi sento a posto ma desidero sempre migliorare.
Per quanto attiene poi l’apprendimento dell’allievo è ovvio che emergono anche le sue responsabilità e le sue motivazioni e nello sfondo quelle della famiglia.
In altri termini, come si fa a non capire che la professione dell’insegnante, in quanto formatore, è una professione che non può smettere mai di mettersi in discussione e di adottare per questo una raffinata continua riflessività?

Ultima raccomandazione ai docenti della scuola secondaria

I voti numerici assegnati in calce alle varie verifiche, scritte od orali, vengono ricevuti dagli allievi ed utilizzati subito per anticipare quella famigerata “media aritmetica”, con cui viene prevista da parte loro la promozione o la bocciatura. La consuetudine di applicare questo tipo di media da parte dei docenti, dal punto di vista docimologico, è un obbrobrio. D’altro canto l’esperienza registra che di conseguenza nessuna attenzione viene riservata dagli allievi all’azione importante e basilare del recupero dell’errore. L’argomento del recupero dell’errore introduce la differenza tra “sbaglio” ed “errore” e la rispettiva differenza tra “esercizio” e “problema”.

Questa tematica apre il fronte interessantissimo, anticipato da H. Gardner[4] e ripreso più recentemente da Wiggins, della necessità urgente che la scuola abbandoni la strada della ricerca affannosa solo delle risposte esatte (comode per l’assegnazione dei voti numerici), ma astratta, disincarnata, scolastica, fine a se stessa, ed intraprenda quella della comprensione profonda considerata da Wiggins[5] la “competenza essenziale”.

Egli infatti dice: “Se una conoscenza o un’abilità non diventa lettura e comprensione della realtà, difficilmente si trasformerà in significativa o flessibile o in comprensione profonda. Per comprensione si intende una conoscenza pregnante, posseduta ed integrata in modo da poter essere facilmente utilizzata in contesti diversi, nei quali essa serva a chiarire una situazione o un problema.”
A tale proposito già H. Gardner aveva affermato”La scuola invece persegue il compromesso delle risposte esatte ed usa i voti come moneta falsa, come il denaro dei Monopoli!”
Se i “giudizi sintetici” possono essere facilmente assimilabili ai voti credo che la deduzione sia già pronta e scodellata.

Un’ultima ma utile raccomandazione: qualunque sia la decisione finale del Ministro Valditara e dei suoi consiglieri, carissimi docenti della scuola dell’obbligo, ricordatevi che l’unica àncora di salvezza è la valutazione formativa, giustificata per legge, invocata dalla psicologia dell’apprendimento di matrice socioculturale vigotskiana, utilizzata per sostenere e incoraggiare tutti gli alunni.
Come atto “intermedio” e “finale” concedete pure il contentino del giudizio sintetico.

Intanto però la scuola autenticamente inclusiva è salva.

[1] Gattullo M.,Didattica e docimologia-misurazione e valutazione nella scuola,Armando Armando editore,Roma,1968
[2] M.S.,The Methodology of Evaluation, in R.Tyler,R.Gagnè,M.Scriven,Perspedtives of curriculum Evaluation, Chicago,Rand McNally & Co.,1967
[3] Vertecchi B.,Valutazione formativa,Loescher,Torino,1976
[4] Gardner H. Educare al comprendere, Feltrinelli,2002, Milano
[5] Wiggins G.,McTighe J., Fare progettazione. La teoria di un percorso per la comprensione significativa.LAS-Roma,2004




Ma esiste ancora la laicità della scuola?


di Cinzia Mion

Il testo che segue non è recente, anzi è datato. L’aspetto sconvolgente però è che è ancora di estrema attualità.
Non ho cambiato una virgola. Potrebbe essere stato scritto stamattina dopo i fatti di Pioltello o di Altavilla (messa pasquale in orario scolastico) in cui ancora una volta è sotto assedio un dirigente scolastico che cerca solo di far rispettare la Legge.

 

 

 

Diceva Guido Calogero, in tempi non sospetti, e precisamente nel 1955, che la fondamentale legittimità della difesa della laicità della scuola consiste nel fatto che un’educazione condotta, comunque, in base a certi orientamenti dottrinali presupposti come indiscussi, o discussi in maniera insufficiente, crea uomini moralmente e civicamente meno solidi di un’educazione la quale non presupponga alcun tabù ed alleni continuamente i giovani all’attenta e rispettosa discussione di qualunque idea e fede, propria ed altrui. D’altro, canto aggiunge sempre Calogero, il laicismo (parola che non ha un’accezione dispregiativa come si vuol far credere ultimamente) consiste nel fatto di non accettare mai, in nessun caso, l’organizzazione e l’esercizio di strumenti di pressione religiosa o politica o sociale o morale o economica o finanziaria al fine della diffusione di certe idee, e di procurare invece, sempre più, l’equilibrio della loro possibilità di dialogo individuale (G.Calogero “Che cosa vuol dire scuola laica?,in “Mondo”, dicembre 1955).

Calogero, noto come il filosofo del dialogo, fondatore con Aldo Capitini del movimento liberal-socialista è stato tra i protagonisti della cultura laica nel dopoguerra. Norberto Bobbio lo ha ricordato poco tempo prima di morire come suo maestro su la “Stampa” (21 dicembre 2001).

Oggi il laico, che voglia intraprendere tale dialogo con le gerarchie ecclesiastiche, si accorge subito che non è possibile perché queste si professano attualmente i custodi dell’ortodossia della ragione non solo filosofica, come è stato per secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali.
Scrive Gustavo Zagrebelsky, a tal proposito, che il dialogo tra la Chiesa e un non cattolico è impossibile perché quest’ultimo interlocutore, per le gerarchie, è “uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno” (da Repubblica 10 gennaio 2007: G.Zagrebelsky , Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?)

Di tale convinzione potrei portare testimonianza personale attraverso alcuni aneddoti significativi, che non è però il caso di trattare in questa sede, ma in cui espressamente mi è stato detto che una persona che crede ”vale” di più di una che non crede. L’altro giorno il vescovo di Terni ha affermato che un cattolico “è un laico con una marcia in più”!

Di fronte poi al sempre più accentuato e diretto atteggiamento interventista della Chiesa nelle vicende politiche italiane, tanto da far scrivere a Miriam Mafai, sei anni prima della sua scomparsa, un articolo allarmato dal titolo” L’assedio allo stato laico”(in Repubblica, 6 gennaio 2006): “…si sta offrendo da parte di politici particolarmente sensibili alla laicità (non ne sono rimasti molti per la verità) la questione se siano ancora presenti le condizioni concrete di vigenza del Concordato, minato nelle sue basi di legittimità”

La revisione infatti di quest’ultimo, correva l’anno 1984, ricordava solennemente nel preambolo, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla Costituzione (tra cui la laicità dello Stato), e da parte della Santa Sede le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti tra la Chiesa e la comunità politica.

Scrive Zagrebelsky che un mutamento d’identità dell’uno o dell’altro contraente, contro la Costituzione o contro la dottrina del Concilio, travolgerebbe il Concordato, corrodendone le basi di legittimità.

Laicità della scuola statale

Per chi dovesse nutrire ancora dei dubbi sulla laicità dello stato, e di conseguenza della scuola statale, ricordo la sentenza della Corte Costituzionale del ’11 e 12 aprile 1989 che, interrogata proprio in materia scolastica, si pronuncia in modo incontrovertibile affermando: “I valori richiamati (att.2, 3, 19) concorrono con altri ( art.7, 8, 20 della Costituzione) a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma dello Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica.

Nessuno pensa o afferma che la Chiesa non possa pronunciarsi in qualsiasi materia per enunciare i suoi principi cristiani ma queste pronunce sono destinate alla coscienza dei credenti. Allorquando queste abbiano la pretesa di condizionare i comportamenti dei politici dello Stato italiano siamo di fronte ad una ingerenza che viola i principi del Concordato. C’è da chiedersi semmai di quale tempra siano quei politici che ostentando opportunismo sono pronti ad asservirsi, facendo finta di non rendersi conto che insieme ai molti privilegi riconosciuti dal Concordato alla Chiesa, si permette a questa una ingerenza arrogante anche all’interno della scuola..

Da parte infatti delle gerarchie ecclesiastiche viene richiesto l’appoggio politico per tali comportamenti, approfittando della sudditanza morale di alcuni nostri rappresentanti che non sanno più riconoscere l’orgoglio della cittadinanza e da tempo non assaporano la fierezza che dona il “tener la schiena dritta”.  Quasi sempre tale prassi si accompagna alla strumentalizzazione dei genitori che ignorano la normativa e ci si scandalizza di fronte alla resistenza di qualche dirigente scolastico che non si lascia manipolare e si oppone alle ingerenze.

Mi riferisco ai recenti fatti accaduti in Italia su cui la stampa si è fiondata, dimostrando una ignoranza colpevole, a proposito della richiesta di alcuni parroci o vescovi di venire in orario scolastico nelle nostre classi ad elargire atti di culto (benedizioni, recitazione di preghiere, messe d’inizio anno o di fine anno, visite pastorali camuffate da incontri neutri, ecc)

Ora noi persone di scuola sappiamo benissimo, ed ancora meglio lo sanno i Vicari Diocesani, che però ci mettono alla prova per saggiare la nostra tempra, che con la revisione del Concordato questi atti di culto sono stati banditi dalla scuola che invece ospita le famose ore facoltative di “cultura religiosa”.
Io penso che sia grave violare una legge pattizia.
Penso anche che se viene fatto, cercando di circuire le persone dotate di un fragile senso dello Stato o di una indifferenza che privilegia il quieto vivere, come minimo ciò deve avere un prezzo.

Si vuole non riconoscere più il Concordato? Lo si faccia, tanto è ormai svuotato del suo significato da ambo le parti. Il mio timore è che con l’aria che tira possa venire legittimata ancora di più la cosiddetta potestas indirecta del tempo della Controriforma, introdotta dall’allora cardinale Bellarmino, che rendeva lecita l’ingerenza della Chiesa sulla competenza dello Stato, ogni volta che questa ravvisasse una ragione religiosa .

Mi sbaglio o queste affermazioni le abbiamo ri-sentite di recente?
Riuscirà il nuovo papa, già noto per il suo anticonformismo, ad invertire la rotta?

L’etica del limite

Io credo che alcuni dei conflitti di tipo politico-religioso, oppure scaturenti da contrapposizione tra schieramenti politici, caratterizzati oggi da alcuni rigurgiti volgari e chiaramente esorbitanti dalla comune modalità di un dialogo civile, anche se acceso, siano tutte situazioni che continuano ad avvitarsi su se stesse perchè è venuta a mancare l’etica del limite.
L’etica del limite intesa nel senso sia dell’autocontenimento ma anche della categoria dei confini.

 Il neonato evolve verso il riconoscimento di sé nella misura in cui impara a separarsi dalla madre. Nella misura in cui, attraverso un processo di separazione-individuazione, comincia a percepire se stesso ed i suoi confini, che all’inizio saranno solo corporei, poi un po’ alla volta saranno sempre più riconducibili al sé vero e proprio, tale perché diverso dall’altro da sé.

Tutte le relazioni interpersonali dovranno poi, pena il rischio della simbiosi, deleteria e minacciosa per il sè, essere contraddistinte da questi famosi confini tra sé e l’altro.
Confini che non dovranno essere impermeabili o troppo rigidi altrimenti è in agguato una qualche forma di autismo o l’indifferenza verso l’altro oppure, speciale malattia dei nostri tempi, il narcisismo patologico.

Mi riferisco al sé grandioso che si autoesalta e perde di vista non solo l’altro ma anche la realtà (come sta accadendo a livello apicale della politica…)
Siamo di fronte pur sempre ad un problema di mancanza di confini o di assenza di limiti.
Questo per quanto attiene l’aspetto soggettivo, individuale.

Accennavo prima all’ autocontenimento, mi riferisco a quello mentale.
Per esempio anche  l’adolescente che non rileva i limiti della  sua trasgressione, (quale trasgressione può essere accettabile quale invece va oltre i limiti) non è in grado di attivare un autocontenimento mentale il più delle volte perché i genitori, a loro volta, non lo hanno contenuto mentalmente quando, nella fase dell’opposizione (dai 18 mesi in poi) , incapaci di offrire un solido e valido contenimento mentale alla rabbia del piccolo sono andati in tilt  temendo il conflitto con un bambino di meno di due anni.

Oggi i protagonisti dei conflitti alla ribalta sono però tutti adulti, vaccinati e responsabili più della gente comune perché quasi sempre ricoprono cariche pubbliche.
Il problema, come dicevamo, è anche quello che osserviamo nello scenario della politica dove le gerarchie ecclesiastiche  esorbitano  dai loro confini, non con messaggi spirituali, sempre ben accetti,  ma come ingerenza vera e propria,  condizionando le decisioni  politico-civili,  forzando le scelte attraverso lo spauracchio della sottrazione del consenso (problema questo, ahimè, che denota un tasto debole oggi della democrazia), e  scendendo  in campo invadendo i confini dettati dalle norme concordatarie che  regolano l’espressione della religione nelle istituzioni pubbliche.

Come già ripreso all’inizio del presente contributo, mi riferisco soprattutto alla scuola e alle polemiche sull’ora di religione, sui crocifissi, sulle funzioni religiose e benedizioni in orario scolastico, ecc.
La via che si segue è quella della strumentalizzazione del senso comune della gente che può non sapere che la Costituzione ha trasformato uno stato confessionale in una Repubblica democratica laica- e la Scuola è una istituzione della Repubblica- che può non sapere che la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa ha rivisto le norme che regolano la religione a scuola, che può non sapere quali sono i confini tra religioso e culturale, tra sacro e non sacro, tra tradizione e consuetudine, tra innovazione e cambiamento.

 C’è però chi questa distinzione la conosce e sono i soggetti che ricoprono una carica pubblica (altrimenti chi ha permesso loro di accedere a ricoprirla?) e se queste persone non intervengono a spiegare ai portatori di “senso comune “ – che non sono tenute ad avere le idee chiare,  ma hanno il diritto ad  avere qualcuno che gliele chiarisca – quale confine esista tra i termini del problema, significa che manca l’etica pubblica in generale,  in questo caso l’etica del limite.

L’etica del limite che dovrebbe impedire che si strombazzino tali macroscopiche falsità,  (Mario Pirani  parla della “Perdita della verità”) che si sobilli impunemente la gente, che si permetta, anzi si faccia in modo, che questa  rimanga nell’ignoranza (nel senso dell’ignorare) pur di cavalcare umori discutibili,  che si attivino trasmissioni televisive nell’orario di maggiore ascolto,  come il primo pomeriggio della domenica (sia tv pubblica che privata…) invitando i più sciamannati (incrocio tra sciamano e scalmanato…!)  che in questo momento si rendono disponibili a parlare (pardon ad urlare) a favore, per esempio del crocifisso, con un pubblico che accompagna il tutto con un tifo da stadio.

La questione che ancora qualche sindaco leghista sta cavalcando, nell’ignoranza generale purtroppo, anzi nell’indifferenza generale, è quella appunto del crocefisso.

Non si ascoltano i teologi che si affannano a spiegare che il crocifisso non può essere definito semplice simbolo culturale ma che per la religione cristiana (la croce) e per la religione cattolica (il Cristo in croce) non sono solo simbolo religioso ma la quintessenza delle religioni cristiane.
Questi sono i confini che andrebbero rispettati se si avesse l’etica del limite.

Ha ragione U.Galimberti  che afferma che oggi  abbiamo de-sacralizzato il sacro?
E che dire delle stesse gerarchie ecclesiastiche che permettono, e qualche volta si fanno veicolo, di questa de-sacralizzazione come quando appoggiano chi dice, a proposito della benedizione a scuola, che in fondo “dura solitamente pochissimi minuti e non richiede particolari preparativi, né lascia tracce visibili”? (vedi sentenza del TAR Umbria 677 del 30 dicembre 2005).
Se si toglie alla religione il senso del “rito” e del “simbolo” cosa rimane di essa?

Il problema è proprio questo: che pur di “marcare” il territorio, pur di farne una questione di potere (anche qui varcare i confini per affermare se stessi attraverso un simbolo usato spesso come una vera e propria  clava) molti sono disponibili a declassare il crocifisso a simbolo culturale o peggio ad annoverarlo tra gli arredi oppure ad affermare “c’è sempre stato, che male c’è, svalutando talmente la sua presenza tanto da non farlo emergere dallo sfondo: geroglifico sul muro ormai dimenticato.
Mi chiedo se chi crede veramente sia così disponibile a tollerare tutta questa pesante strumentalizzazione in nome del crocifisso, senza sentirsi dolorosamente un po’ ferito come quell’uomo in croce.
Cosa dovrà ancora succedere in nome del potere e del consenso, carpito sulla buona fede della gente semplice, perché possa farsi sentire con voce forte l’etica del limite?

Differenza tra identità e identificazione

La cultura religiosa, che viene collocata nell’ambito della scuola, si presume che venga patrocinata per realizzare unidentità forte e coesa ispirata ai valori religiosi della religione della maggioranza del Paese.
Per quanto attiene tale obiettivo bisogna però individuare la differenza tra “identificazione” ed “Identità” facendo ricorso alla psicologia che individua l’identificazione come un percorso che sostiene il primo nucleo della crescita personale che poggia sulla somiglianza, ed un secondo momento che poggia invece sulla differenza, ineludibile per il passaggio autentico all’identità.
Anche l’identità sessuale obbedisce a questo processo: identificazione con lo stesso sesso e differenziazione dal sesso opposto.

E.Erikson afferma che l’acquisizione di un’identità, sia sociale che psicologica, sia un processo complesso che comporta una definizione per somiglianza con certuni e per differenza con altri.
L’identificazione è invece un processo più debole perché dettato dalla dipendenza e dalla ricerca dell’assimilazione; l’identità invece implica una maturazione più solida e consapevole, in grado di argomentare i motivi della posizione assunta.
Vogliamo un risultato solido, in grado di reggere agli urti della cultura post-moderna oppure una assimilazione identificatoria, prodotto inconsapevole dell’etnocentrismo culturale?
Se questa è la base della maturazione dell’identità nessuno dovrebbe opporsi alla inclusione, tra le materie obbligatorie per tutti, di una disciplina che solleciti la conoscenza delle principali religioni (le tre grandi monoteiste ma anche quelle principali del mondo indiano e cinese) che potrebbe andare sotto la denominazione di “conoscenza dei fatti religiosi”, come aveva previsto in un primo tempo la commissione incaricata di realizzare i Nuovi Programmi per la scuola elementare (1982-84), ma che dopo la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” ha dovuto, a maggioranza, cedere il passo a ”religione” ineludibilmente solo cattolica, con i conflitti successivi che tutti conosciamo.
La nostra ignoranza per quanto attiene le altre religioni è abissale ed in una società multietnica, multiculturale e multi religiosa, sottovalutare questo aspetto è colpevole oltreché stupido, perché sottrae occasioni di autentico confronto riducendo tutto soltanto alla sollecitazione del consenso.

Questo depotenziamento delle occasioni di dialogo interreligioso appare inoltre rischioso nei confronti della creazione di un terreno facilmente occupabile da vecchi e nuovi fondamentalismi.
Soltanto chi persegue il proselitismo può temere il confronto ma allora non si parli di identità ma soltanto di identificazione.
Questa posizione è anche di chi crede di essere aperto e democratico se propone l’ora di religione musulmana, fra l’altro garantendo in questo modo che non venga toccato il peso che ha oggi la religione cattolica nella scuola italiana.

Orario della lezione di religione

Sulla questione dell’orario è presto detto: come si fa a sostenere che una disciplina facoltativa, i cui programmi sono realizzati non dallo Stato italiano, ma dalla Cei, che quindi non riguarda, come tutti i programmi scolastici, l’ambito della conoscenza, ma quello delle scelte confessionali, e quindi attiene ai dati sensibili, venga lasciata dentro all’orario obbligatorio delle lezioni?
Non mi si venga a dire che si tratta solo di cultura religiosa aconfessionale (perché allora i docenti devono avere l’approvazione del vicario diocesano?)
Nessuno si è posto la questione della disparità di trattamento nei confronti di chi non si avvale?

E non mi si venga a dire che ci sono le attività alternative, attività quasi subito svalorizzate, ridotte a qualcosa di insignificante o addirittura sparite senza che nessuno invochi più la par condicio come è avvenuto, nel senso contrario però  all’inizio (vedi la circolare ministeriale che negli anni successivi alla revisione del concordato diffidava dall’assegnare queste attività a docenti della classe per timore che gli studenti che le sceglievano venissero avvantaggiati rispetto a quelli che avevano invece optato per la religione cattolica, dimenticando che alla scuola elementare spesso erano gli stessi insegnanti di classe che con il benestare della Curia potevano farlo, senza che nessuno gridasse che non c’era par condicio!!!)

Il problema notevole consiste nel fatto che è stato addirittura il Consiglio di Stato, con una decisione come spesso avviene prona ai voleri del governo di turno, a sua volta timoroso del Vaticano, (nessuno si salva!), a legittimare la scelta di tenere dentro all’orario obbligatorio questa disciplina facoltativa. Secondo me sta qui il bubbone ma si capisce che ciò tocca interessi macroscopici di potere economico e di consenso politico.

Se fin dall’inizio si fosse presa la decisione onesta: conoscenza dei fatti religiosi, obbligatoria per tutti nell’orario curricolare, e scelta invece facoltativa sui relativi programmi confessionali fuori dall’orario obbligatorio, oggi potremmo parlare con più serenità dell’opportunità o meno di garantire anche altre confessioni religiose, all’interno della scuola pubblica statale.
Ricordiamo che la garanzia di mantenere l’opportunità dell’insegnamento della religione cattolica,  facoltativa  nelle scuole statali italiane è nei Patti Lateranensi, revisionati nel 1984,  dove però non si parla di collocazione oraria..

L’ultima riflessione riguarda l’alibi dell’integrazione.
Chi, per avvalorare la bontà di creare un’ulteriore separatezza a scuola (cattolici da una parte, musulmani da un’altra, agnostici o altre religioni nei corridoi), invoca l’integrazione o è in malafede oppure ignora appunto cosa avviene a scuola. Noi sappiamo che l’integrazione avviene solo attraverso l’interazione (v.Premessa Nuove Indicazioni) che offre l’opportunità della conoscenza reciproca per mezzo del confronto, che rivela aspetti che accomunano e aspetti che differenziano.
Solo la conoscenza dissipa il pregiudizio e il timore: i veri nemici dell’integrazione.

Se, invece di far capire all’interno della comunità di apprendimento che la spinta religiosa accomuna l’uomo nel tempo e nello spazio,  sia pur approdando a fedi diverse oppure ad agnosticismi diversi, si separano i ragazzi togliendo loro tutte le opportunità di interazione in questo campo-  che sembra ancora una volta nel mondo il maggiore argomento di inconciliabile divisione e scontro- che avvenire prepariamo ai nostri ragazzi che abiteranno un futuro, che almeno io auspico,  diverso e migliore del nostro?




Col senno di poi, ovvero Santa Franca (Falcucci)

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Cinzia Mion

A bocce ferme, dopo il tormentone dell’emendamento del governo che prevede alla scuola primaria, dall’anno scolastico prossimo, il cambiamento dei giudizi descrittivi e il ripristino di quelli sintetici (da insufficiente a ottimo) di fatto annullando le Linee Guida del 2020, mi ritrovo a fare alcune considerazioni.
Con la prima desidero ricordare come l’unica riforma che abbia rispettato un primo periodo di applicazione facoltativa sperimentale, con successiva raccolta dei dati e delle osservazioni critiche per poterla aggiustare in itinere, sia stata la famosa L.148/90, meglio nota come la “riforma dei moduli”, firmata dalla Ministra Falcucci! ( con il senno di poi molto rimpianta, com’ è fra l’altro in un certo senso avvenuto con la sua circolare famosa n° 227 del 1975 che ha anticipato i contenuti della L.517 ben due anni prima!)

Io allora ero Direttrice Didattica a Conegliano, 2° circolo e rammento il fermento innovativo e il desiderio di mettersi in gioco di insegnanti che hanno contagiato gli altri di fronte alla sfida di superare la figura del maestro unico!
Ricordo pure che dopo 2 anni sono passati gli ispettori tecnici per intervistare i docenti e raccogliere punti di forza e punti debolezza della riforma che soltanto l’anno successivo è stata resa obbligatoria con i debiti aggiustamenti.
Come mai questa prassi non è più stata ripresa e soprattutto non è stata applicata rispetto al dispositivo di cui stiamo parlando? Forse, con il senno di poi, si sarebbero potute snellire nel tempo certe modalità troppo burocratizzate e vincolanti che hanno affaticato inutilmente gli insegnanti strada facendo, in qualche caso irritandoli. Ho trovato a volte anche da parte nostra, di teorici della scuola e dell’insegnamento, un po’ supponente considerare certi segnali di insofferenza senza dare loro credito. E’ come se, galleggiando sopra ai problemi, in preda all’enfasi scaturita dall’abolizione sacrosanta dei voti numerici, qualche volta pontificassimo evitando di dare dei colpi di sonda dentro alla realtà in sofferenza del corpo docente. Mi metto tra questi con grande rammarico …

Come mai al Ministero non solo non si mette più in atto ma pare che non si conosca nemmeno il termine “sperimentale”, con quel che avrebbe dovuto comportare?
In questo caso poi Le linee guida sono uscite a dicembre e l’applicazione obbligatoria per tutti i docenti della primaria è stata a partire dal primo quadrimestre!!!

La seconda considerazione, direttamente conseguenza della prima è: ma come si fa ad avviare una riforma della valutazione dopo che dal 1977 ad oggi non riesco nemmeno a contare quanti siano stati gli interventi legislativi su questo argomento, senza ottenere mai un radicale cambiamento nella mente dei docenti perché non si tiene conto che nel loro “cervello” sono imbullonati i voti numerici difficili da estirpare, se non con una formazione “trasformativa” e non semplicemente addestrativa. Il riferimento non contiene un cenno offensivo nei confronti dei docenti ma soltanto un richiamo ai “neuroni specchio” che nel corso degli anni hanno  contraddistinto l’esperienza valutativa subita durante tutta la loro esperienza scolastica e universitaria. E’ successo a tutti noi, nessuno escluso. E non solo per la valutazione ma anche, purtroppo, per la didattica trasmissiva!

La terza considerazione riguarda la “valutazione formativa”, l’unica che potrebbe  estirpare questa consuetudine del voto soggiacente ad ogni tipologia di valutazione illusoriamente innovativa.
La domanda essenziale allora che dovremmo farci espressamente è: perché , a partire dalla formazione iniziale dei docenti, tranne qualche volta in quella per la scuola primaria per ragioni comprensibili ma che qui non è il caso di affrontare, non si provvede ad attivare in loro la competenza all’autointerrogazione  e all’autovalutazione? Aspetti questi fondamentali per arrivare ad applicare la valutazione formativa consistente nell’autoaggiustamento del docente della propria strategia metodologico-didattica, in presenza di difficoltà di comprensione e apprendimento dell’allievo. Ovviamente, in un gioco di specchi, ci viene da rispondere che nemmeno l’Università è in grado ( o si rifiuta di farlo?) in questo momento storico di “autovalutare” il proprio lavoro formativo in funzione della  professionalità docente. Da quando è stata chiusa la SSIS chi si cura oggi di offrire ai futuri insegnanti, oltre alle competenze disciplinariste, i fondamentali della psicopedagogia che permetteranno di cogliere la tipologia e la significatività del loro insegnamento in rapporto al tipo di apprendimento sollecitato? Chi si cura di far corrispondere all’apprendimento desiderato le strategie didattiche adeguate? Presso la formazione iniziale dei docenti della secondaria dove sono le attività di tirocinio, i laboratori e le esercitazioni pratiche, all’interno del percorso formativo, che dovrebbero permettere ai docenti universitari di comprendere se le conoscenze apprese dalle “dispense teoriche“, su cui hanno valutato già gli studenti, si sono effettivamente incarnate in competenze? Solo chi  sa applicare su di sé l’autovalutazione potrà insegnare a farlo fare agli altri perché padroneggia le competenze autoriflessive e metacognitive necessarie e le può quindi rendere esplicite attraverso un “apprendistato cognitivo” realizzato allo scopo (metodologia neovigotskiana).

E’ per questo motivo che io sono convinta che prima di sollecitare l’autovalutazione dell’allievo, con dei giustissimi feedback formativi, l’insegnante deve imparare ad autovalutare se stesso ma deve incontrare una Università che glielo insegna.

Conclusioni

E’ dal 1977 che la normativa sollecita la “valutazione formativa” in tutte le salse senza però avere l’opportunità di  riconoscerne l’applicazione nella scuola reale.
Quale migliore occasione allora di ripartire da questa (su cui perciò non esiste purtroppo nessun rischio di implementazione da “neurone-specchio”perché difficilmente ha visto la luce!) per poi individuare il miglior modo più efficace, per l’apprendimento dell’allievo, dell’inevitabile  successiva valutazione sommativa. Quest’ultima è ovvio e naturale che rifiuterà i voti numerici docimologicamente inaccettabili (la formazione universitaria adeguata porterà a queste conclusioni) e suggerirà invece delle modalità agili, comprensibili a tutti ma soprattutto utili all’allievo per migliorarsi. Le modalità terranno in considerazione i progressi avvenuti, quindi il punto di partenza: “criterio” questo che differenzia qualsiasi osservazione “misurativa” dalla vera e propria attività “valutativa” che deve contenere sempre, come esplicita il termine, il risultato di una riflessione ad hoc. Mai quindi  essere un atto solo “riflettente”. Il tutto si accompagnerà con un costante “processo di incoraggiamento”, facendo leva sulle motivazioni intrinseche per incentivare il soggetto a migliorarsi, senza mortificazioni inutili e dannose. A tale proposito ricordiamo la forza trainante “dell’autoefficacia” che avremo cura di far provare a tutti gli alunni attraverso didattiche dapprima individualizzate, per il raggiungimento delle competenze di base, e poi personalizzate.   Ricordiamoci sempre che solo a ridosso delle scadenze delle valutazioni formali (intermedia e finale) saremo costretti a lasciar perdere, nostro malgrado, le sollecitazioni nella “zona di sviluppo potenziale”, per sostenere (scaffolding) l’allievo al livello successivo di competenza, visto che è in procinto di arrivarci.
Per riprendere tale prassi appena possibile. E’ questo il fascino gratificante per tutti, allievi e docenti, della “valutazione formativa”, questa  sconosciuta! Anche se citatissima nei testi legislativi ma trascurata, fraintesa e qualche volta pure presa in giro nella prassi!

E’ questo il cuore pulsante dell’insegnamento in una scuola che aspiri e desideri definirsi “inclusiva”.




Meritocrazia, meritorietà, merito e scuola

di Cinzia Mion

Il sociologo Luca Ricolfi si è rifatto vivo con un libro, ‘La rivoluzione del merito’, in cui riprende le sue vecchie tesi sostenendo “che le politiche egalitarie e iper-inclusive nella scuola abbiano danneggiato i figli dei ceti più poveri, privandoli dell’ opportunità di utilizzare il merito scolastico come strumento di competizione”(Tuttoscuola).
Rispolveriamo allora l’argomento che da un po’ di tempo ha ripreso fiato.
Che il nostro sia il paese delle raccomandazioni, delle clientele, del familismo amorale, delle caste, delle oligarchie, delle corporazioni e della mafie non abbiamo dovuto aspettare Roger Abravanel con il suo famoso saggio “Meritocrazia”, per scoprirlo!
Semmai lui ha rigirato il coltello nella piaga per farci sentire, giustamente, inadeguati, vergognosi e con una gran voglia di riscatto.
Siamo tutti d’accordo finché si invoca in Italia la carenza della valorizzazione del “merito”, al fine di attivare il cambiamento invocando un vero e proprio moto di orgoglio. Tale valorizzazione deve avvenire all’interno dell’economia italiana e deve inoltre far emergere la necessità di produrre leader eccellenti sia nel settore pubblico che in quello privato.
Siamo anche d’accordo che “il circolo vizioso del demerito” ha condotto ad una società basata sulla cooptazione anziché sulle competenze. Osserviamo anche che tale dinamica si fonda su fedeltà amicali e familiari, su vari “cerchi magici” che in cambio di sudditanza garantiscono privilegi, malcostume che come ben sappiamo sta maramaldeggiando dentro a partiti ed ora perfino nelle associazioni professionali .

Possiamo senz’altro essere d’accordo su un’idea di meritocrazia proposta da R. Abravanel per cui ”i migliori vanno avanti in base alle loro capacità e ai loro sforzi, indipendentemente da ceto, famiglia di origine e sesso.”
Non tutti siamo però d’accordo sulla meritocrazia intesa come “il POTERE del merito”, ossia sul principio di una organizzazione sociale che fondi ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito.
Effettivamente il sociologo inglese Michael Young che nel 1958 aveva introdotto per primo il concetto di meritocrazia , nel 2001, preoccupato per la piega pericolosa che stava acquistando il concetto, arrivò a lamentarsi che il suo saggio fosse stato interpretato come un elogio della meritocrazia invece che come denuncia di vero e proprio rischio, per cui l’intenzione da parte sua era stata quella di criticarla radicalmente.
Già comunque il filosofo T.Nagel nel 1993 era intervenuto ponendo dei dubbi sull’accettabilità che alcune competenze scientifiche o elevate di produttività, in altri termini le eccellenze, potessero automaticamente essere usate per richieste di pretese politiche o di potere.
Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, a tale proposito afferma “In buona sostanza il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento- come Aristotele aveva chiaramente intravisto- verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano alla lunga alla eutanasia del principio democratico”

Meritorietà, merito e scuola
Ben diversa è invece l’organizzazione sociale basata sul “CRITERIO del merito” invece che sul “potere del merito”
Non è infatti giusto che tutti vengano trattati egualmente, come detta l’egualitarismo, però è importante che tutti vengano considerati e trattati come eguali.
Ben diversi perciò sono i concetti di “meritorietà e merito” a scuola.
Il principio “dell’uguaglianza delle opportunità”, che dovrebbe dal tempo del Rapporto Faure ispirare la scuola e l’educazione, significa che davanti a diverse linee di partenza per censo, vantaggio o svantaggio socioculturale, contesti educativi di provenienza più o meno stimolanti, i bambini e i ragazzi devono incontrare, soprattutto alla scuola dell’obbligo, un gran numero di opportune occasioni di crescita tanto da annullare il più possibile gli svantaggi iniziali.
Diventa perciò imprescindibile offrire all’interno delle aule scolastiche occasioni in cui tutti possano avere a disposizione percorsi individualizzati e personalizzati, assaporare il piacere di conoscere, acquisire competenze, comprendere profondamente ciò che viene insegnato, imparare a padroneggiare il pensiero per cogliere relazioni e nessi tra i dati anche quando sembrano sconnessi, riuscire ad interrogarsi sui grandi perché del mondo e dell’umanità, scambiare dati, informazioni, pareri, crescere insieme, appartenere al gruppo in cui esiste un “posto” per tutti dove tutti vengano riconosciuti e valorizzati.
Questa è la scuola “MERITORIA”.

E’ ovvio che al suo interno c’è l’allievo che gratifica di più la fatica, ma anche il piacere di insegnare. Questo non deve indurci a fare una classifica all’interno della classe come tanti invece auspicano. La scuola non è un concorso a premi e nemmeno un concorso per esami e titoli per un posto di lavoro.
La scuola è un’istituzione preziosa e delicata, non può essere piegata a degli slogan di moda senza entrare nelle sue viscere e vedere cosa veramente non va più, cosa deve essere profondamente innovato, quali sono gli aspetti di essa fortemente interrelati per cui se ne tocchi uno puoi travolgerne altri, quali invece vanno tenacemente perseguiti a costo di suscitare rimostranze.
Da parecchio tempo io ritengo che la scuola sia diventata un’istituzione senz’anima.
La passione che la pervadeva negli anni precedenti –dagli anni ’70 fino all’inizio del terzo millennio- si è volatilizzata, tutto è diventato terribilmente faticoso, demotivante, troppo burocratico, senza smalto.

Nel tempo abbiamo assistito ad un decadimento progressivo, ad una disaffezione diffusa che ha travolto e contaminato moltissimi (troppi) operatori scolastici. Non tutti per fortuna ma quelli che continuano a vivificare la scuola non hanno la forza di contaminare tutti gli altri. Il sistema sta boccheggiando.
Passione e senso di appartenenza all’Istituzione
I problemi e le eventuali soluzioni partono dalla consapevolezza della necessità di ridare passione e “senso di appartenenza” a tutti coloro che abitano questa Istituzione che è la più significativa di un Paese. In secondo luogo appare immediatamente le necessità non solo di implementare l’innovazione ma di accompagnarne adeguatamente il suo incarnarsi ed evolvere.
Una buona legge di riforma deve parlare di innovazione ma non solo organizzativa, pur necessaria, ma quella che avviene all’interno del rapporto “insegnamento-apprendimento”.

Una innovazione pregnante e significativa che oggigiorno deve riguardare contenuti e metodi, che tenga presente che a fronte dell’obsolescenza dei contenuti e la facilità di accedere ad Internet ciò che conta è la “comprensione profonda” (Wiggins) ,non superficiale e meccanica delle conoscenze, conoscenze però accompagnate da schemi di mobilitazione tanto da farle diventare competenze che nella vita serviranno a chiarire una situazione o a “risolvere un problema”. Una innovazione che possa definitivamente confinare al posto marginale che merita la prassi della spiegazione, studio individuale e restituzione della lezione – alla base del cosiddetto PENSIERO ROFLETTENTE – o l’abilità procedurale per giungere alla risposta esatta (ciò che risulta più significativo è invece saper problematizzare) o lo smalto spesso illusorio dell’eccessiva enfasi sulla digitalizzazione se questa aiuta a nascondere l’incapacità della connessione “mentale” offerta invece dal PENSIERO RIFLESSIVO.
Anche Edgar Morin nel suo ultimo pamphlet “Svegliamoci!” parla di CRISI DEL PENSIERO.

Non vi stuzzica questo richiamo ai brividi mentali del saper pensare e comprendere profondamente? Lasciamoci contagiare da questa meritevole passione, che va riscoperta, e trasmettiamola ai nostri ragazzi!
E’ questo il MERITO AUTENTICO di cui ha bisogno la scuola e il PAESE.




Ciao maschio …

di Cinzia Mion

Il recente femminicidio che ha visto come vittima una ragazza di 29 anni incinta di sette mesi, di nome Giulia, ha sconvolto il Paese e non solo. Al di là dell’attenzione morbosa che ha suscitato questo evento, dobbiamo sapere che dopo ne sono successi altri e che le statistiche affermano che per mano di un uomo muore una donna ogni tre giorni.

Il femminicidio è un termine specifico che definisce in maniera non neutra gli omicidi contro le donne, in tutte le loro manifestazioni, per motivi legati al genere. Quasi sempre ad opera dei compagni o da parte soprattutto degli ex. Quante volte abbiamo sentito dire: lei lo lascia e lui l’ammazza!
Il termine “genere” sta ad indicare l’identità di genere su cui sarà necessario dare qualche delucidazione perché su questa definizione sono sorte moltissime deformazioni informative, quasi tutte in malafede. Lasciamo da parte per ora il tema dell’orientamento sessuale e quello della “disforia di genere” altrimenti mettiamo troppa carne al fuoco. Ne riparleremo se vi interessa. E tralasciamo anche il problema orripilante degli stupri che richiede un capitolo a parte.

Simone de Beauvoir aveva detto che “femmine” si nasce e “donne” si diventa, ovviamente anche “maschi” si nasce e “uomini “ si diventa. Il passaggio dall’identità sessuale, biologica, all’identità di genere che è invece culturale è lento e dipende dal contesto socio-storico-culturale di appartenenza. Tutti noi sappiamo infatti che per una donna è diversa l’identità di genere in un paese occidentale o, per esempio, in Arabia Saudita.
E’ un’identità che matura, processo che va costruito e accompagnato, al fine di raggiungere delle identità il più possibile rinnovate e lontane dai vecchi stereotipi ma anche critiche nei confronti dei modelli offerti dai media che rischiosamente vengono assorbiti acriticamente dai bambini e dalle bambine se non ci sono i filtri offerti dai genitori o dalla scuola.

Le discriminazioni di genere e gli stereotipi sessisti sono duri a morire anche se l’emancipazione femminile, cominciata lentamente in Italia negli anni sessanta ad opera del movimento femminista, ha permesso di fare notevolissimi passi avanti.
Il fenomeno del maschilismo rimane però ancora fortemente sullo sfondo.

Stereotipi sessisti

Maschio: razionalità, iniziativa, responsabilità, protagonismo, decisionalità, forza (non solo fisica: sesso forte, non aver paura), competitività, machismo, ecc
Femmina: sentimento, emotività, dolcezza, adattamento, accettazione, sensibilità, sottomissione, arrendevolezza, acquiescenza, angelo del focolare, ecc

Questi stereotipi di genere vengono assunti inconsapevolmente fin dalla nascita. Le pratiche di accudimento, i giochi e i giocattoli messi a disposizione, i primi divieti e i permessi, le emozioni legittimate e quelle tacitamente interdette, sono tutte variabili intrise di stereotipi.
Ci sono delle frasi che un tempo, ma secondo me qualche volta anche adesso, vengono pronunciate in famiglia e che vengono recepite dai soggetti in crescita come vere e proprie “ingiunzioni”:
– non piangere, non sei una femminuccia…
– non devi aver paura, solo le femmine hanno paura (in un colpo solo così si svaluta il genere femminile e si costruisce una “gabbia” per quello maschile)…
– gli uomini non chiedono mai…
– eppoi tutta la retorica sulle “brave bambine” che non si arrabbiano e non pestano i piedi…

Oggi i ruoli sociali sono però cambiati: la donna uscendo di casa e andando a lavorare ha scoperto la sua capacità di assumere responsabilità, prendere decisioni, essere protagonista della propria vita, ecc.
In altre parole ha legittimato la sua parte “maschile”.
Ovviamente ora ci aspettiamo che anche l’uomo accetti e legittimi la sua parte “femminile”.

La via, per ora, della nuova virilità è quella della nuova paternità, con la legittimazione della parte tenera.
I nuovi padri, infatti, stanno rifiutando il ruolo storico del padre “autoritario” e punitivo, desiderano assumere il ruolo fin da quando il figlio è neonato: hanno così imparato a prendersi cura di lui e il contatto con il corpo tenero del “cucciolo” fa emergere la loro tenerezza, nascosta da anni all’interno dello stereotipo della “rudezza”.

L’identità di genere e la preadolescenza.

Le ragazzine hanno oggi accanto una madre che comunque rappresenta di fatto un’emancipazione rispetto agli stereotipi storici, sono molto sicure di sé.
A volte forse anche un po’ troppo…
I ragazzini invece, messi in crisi i vecchi stereotipi, appaiono spaesati e disorientati…

Spesso si chiedono: – Sono un vero uomo?
Cosa significa oggi essere veri uomini?
Per non restare nel disagio e nella paura di essere inadeguati alcuni intraprendono la strada del bullismo (in questa tipologia rientrano anche gli stupri di gruppo ostentati nei social) perché la prepotenza dà loro l’illusione di contare, di essere protagonisti, di essere considerati.
Inoltre il tono muscolare contratto, indotto dalla violenza e dalla rabbia, dà loro la sensazione di controllare e dominare la “paura” soggiacente.
Ma i nostri preadolescenti non possono aspettare di diventare padri…allora sono i giovani uomini (25-45 anni) che devono fare delle riflessioni sulla nuova identità maschile, come abbiamo fatto noi mezzo secolo fa (o anche più), ed offrirle come esempi e riferimenti ai ragazzini che stanno crescendo.

A dire il vero l’identità maschile è più difficile da sempre da realizzare.
Infatti Stoller, per affermare questa convinzione, poggia le sue argomentazioni sulla “protofemminilità”.
Questo concetto sottolinea come l’ovulo fecondato, che inizia il suo percorso verso la maturazione biologica, se è XY, quindi destinato ad evolvere verso la mascolinità, per 5/6 settimane risulta però essere femminile. Poi subentrerà l’ormone del testosterone a deviare la formazione delle gonadi embrionali da ovaie a testicoli. In altre parole l’identità femminile è un binario diritto, quello maschile invece “deviato”. Inoltre nato da un grembo femminile, cullato da una voce femminile, impregnato perciò da una gestalt femminile ad un certo momento avverte e ascolta la spinta a differenziarsi. Quasi sempre per caratteristiche declinate però al negativo…non devi, non puoi perché tu sei un maschio, ecc
Inoltre le statistiche dicono che su 10 aborti naturali 7 sono maschili e 3 femminili. Tutte queste considerazioni sostengono perciò la tesi, come dicevo, che l’identità maschile è biologicamente più fragile.

Le donne invece incontrano più difficoltà durante il corso dell’esistenza: doppio lavoro, (in casa e fuori casa), donne storicamente destinate al lavoro di cura; la ricerca dell’occupazione; la maternità e il mantenimento del posto di lavoro; dover sopportare spesso molestie nel lavoro; “soffitto di cristallo” sulla la propria testa – sopra il quale camminano gli uomini – rendendo difficile per le donne stesse raggiungere posizioni apicali!

Il virilismo

Sandro Bellassai, il fondatore del sito www.maschileplurale.it, afferma che il genere maschile non ha ancora però elaborato fino in fondo il lutto per il potere perduto, di quel potere trionfale, indiscusso.
“In qualche modo siamo rimasti in mezzo al guado. Dobbiamo fare i conti con un mondo che è cambiato”.
Afferma però anche che nello stesso tempo non c’è ancora una vera uguaglianza, una vera parità, perché quelle ragioni che spingevano gli uomini a difendere la gerarchia, il dominio, il piedistallo del potere nei confronti della donne, sono ancora tutte lì….
E riguardano la paura maschile delle donne, l’incapacità di pensarsi in un ordine “repubblicano e non monarchico
Per questo ogni tanto la frustrazione, l’angoscia, la paura maschile, buttate fuori dalla porta rientrano dalla finestra. E pare che l’uomo si senta rassicurato solo se riconosciuto superiore!
In tutti questi anni di emancipazione lenta ma costante le donne infatti hanno acquistato consapevolezza di sé, del loro valore, attraverso anche l’autorealizzazione. Gli uomini, protetti dal patriarcato invece non hanno lavorato su di sé, sulla loro posizione identitaria. Sono vissuti di rendita.
Ad un certo momento però è come se si fossero svegliati, abbiano preso coscienza della crescita femminile e sono entrati in crisi.
L’esperienza della crisi, mai sperimentata prima, ha disorientato e in alcuni di loro ha fatto aumentare l’arroganza per farvi fronte.
Recalcati dice, a proposito dell’uomo femminicida: “la sua fatica è data dalla difficoltà a riconoscere la libertà della donna…Si tratta di eliminare una esistenza differente, eccedente, irriducibile al potere fallico della ragione maschile”.

Elisabeth Badinter

Badinter si è interessata dell’”identità maschile” (XY L’identità Maschile) con la casa editrice Longanesi nei primi anni 90! E’ abbastanza singolare ma significativo che abbia affrontato questa tematica per prima una donna.
Alla fine del suo intrigante saggio la Badinter scrive: “Fino a quando le donne partoriranno gli uomini, e XY si svilupperà in seno a XX, sarà sempre più lungo e un po’ più difficile fare un uomo che fare una donna. Per convincersene, basta pensare all’ipotesi inversa: se le donne nascessero da un grembo maschile, cosa sarebbe del destino femminile?
Quando gli uomini presero coscienza di questo svantaggio naturale, crearono un palliativo culturale e di grande portata: il sistema patriarcale.
Oggi, costretti a dire addio al patriarca, devono reinventare il padre e la virilità che ne consegue.
Le donne, che osservano questi mutanti con tenerezza, trattengono il respiro….”




A proposito di whisky facile e taxi gratis …

di Cinzia Mion 

Senza scomodare Platone e il rapporto tra Etica e Politica – aspetto che fin da giovane ho vagheggiato e anche creduto come possibile – non pensavo però che si arrivasse alla spudoratezza di emanare provvedimenti così dis-educativi e pericolosi per la salute come l’ultimo partorito da Salvini, che non ha nemmeno la scusante dell’insolazione….

Si tratta, come avrete già capito, del taxi gratis per i ragazzi reduci dalla discoteca, qualcuno direbbe alticci, ma diciamo pure ubriachi. Alticci potrebbe essere stato prima di questo strampalato, o meglio farneticante, provvedimento. Ora qualche sprovveduto, e intemperante soggetto, sentendosi autorizzato e nello stesso tempo coperto rispetto al rischio di incorrere in qualche incidente stradale, senz’altro alzerà di più il gomito….
La filosofia del male minore non solo è miope ma pericolosa.
Già i nostri giovani spesso sono affetti da quella che viene chiamata dis-regolazione emotiva; mettici accanto una educazione ricevuta il più delle volte troppo permissiva da parte di genitori che non sanno più gestire il “no”, fin da quando i figli sono piccolissimi, perché temono in questo modo di non essere più amati dai figli stessi, (quando un tempo succedeva il contrario); aggiungi il fatto che di fronte alle frustrazioni o alle difficoltà troppo spesso ricorrono alle droghe perché nessuno ha loro insegnato che nella vita bisogna imparare ad affrontare gli ostacoli non ad evitarli, e arriva sempre prima o poi la necessità di stringere i denti; e la politica come finale emana un provvedimento del genere?
Pardon …non la Politica !
Diciamo un politicante alla ricerca spasmodica di visibilità! Il fatto è che siamo diventati tutti così indifferenti, e pure acritici, che invece di inalberarci di fronte a tale inaudito “editto” ci limitiamo al massimo a farci sopra dei frizzi.

Io sono veneta e so come l’alcool sia dannoso per la salute e vedo all’ora dell’aperitivo “quanto” i giovani bevano e come l’età dell’iniziazione si stia abbassando sempre più.
Tale provvedimento è già scattato nel recente fine settimana a Jesolo (Ve) all’uscita della famosa discoteca “Il muretto”…

Caro Salvini, prima di uscirtene ancora con una trovata del genere, pensa ai tuoi figli, che nomini sempre, e chiedi al tuo medico di fiducia quali sono i danni dell’alcool , informandoti anche sul numero dei ricoveri di giovanissimi/e al Pronto Soccorso per abuso di alcool.
Se avrai la fortuna della resipiscenza affrettati almeno a correggere questa castroneria.
Per es. il taxi può essere lì, (servizio) se il ragazzo/a non se la sente allora viene portato a casa ma… paga la famiglia!
Oppure : il taxi è lì, (servizio) bisogna però passare al test alcoolico in uscita dalla discoteca con conseguente intervento ma…il servizio diventa obbligatorio per le discoteche.
In tutti e due i modi si potranno evitare eventuali incidenti. Con l’aggiunta che entrambe le soluzioni dovrebbero risultare deterrenti perché né la famiglia né il gestore saranno felici di rimetterci.
Se lo farai saremo così contenti per i nostri giovani – che così dovranno piuttosto imparare ad auto-contenersi che ad aspettare le “toppe” dagli adulti – che non ti chiederemo nemmeno di scusarti.




Ritorna la manfrina dei dati Invalsi

di Cinzia Mion

Premetto subito che non sono tra i detrattori delle prove Invalsi. Anzi. Ho sempre preso sul serio il grido di allarme inoltrato a suo tempo dal linguista Tullio De Mauro sul cosiddetto “analfabetismo funzionale” del 70 % degli italiani adulti, ripreso poi sistematicamente appunto dalle Prove Invalsi, rispetto ai ragazzi a scuola.
Il riferimento è al fatto che i ragazzi a scuola leggono (competenza strumentale) ma fanno fatica a capire il “senso” di ciò che leggono.
Le cause secondo me sono molteplici. Non intendo però affrontare qui l’annoso problema della formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria, carentissima soprattutto in “psicopedagogia o psicologia dell’apprendimento scolastico”, dopo la soppressione delle SSIS. Mancano inoltre da morire tutti i laboratori, i tirocini, all’interno dei quali sollecitare proprio la formazione professionale del docente ad uscire dalla propria auto-referenzialità. Stupisce che non sia l’Università stessa a richiedere, se fosse in grado per prima di “autovalutare se stessa”, una revisione adeguata dei propri piani di studio finalizzati a rivedere le carenze che sono ormai sotto gli occhi di tutti.

L’affondo che intendo portare avanti ora è nei confronti della sottovalutazione, anche da parte dei detrattori delle Prove Invalsi, di un atteggiamento che dovrebbe essere la spina dorsale della professionalità docente: la consuetudine all’”autovalutazione” che ogni insegnante dovrebbe mantenere sempre vigile. Un’autovalutazione che dovrebbe seguire sempre una semplice ma salutare autointerrogazione: cosa ho trascurato nella mia progettazione, ed attivazione poi della didattica, nei confronti dei processi cognitivi e metacognitivi dei “miei” ragazzi se non sono in grado di affrontare questa prova? Come mai questi sono in difficoltà rispetto alla “comprensione del senso”?

E se i docenti non trovano la risposta bisogna andare subito nel sito Invalsi e cercare nei “Quaderni di approfondimento” la risposta a questa domanda. Ovviamente poi però urge aggiustarsi cercando di adeguare la propria didattica, attraverso, per esempio, una salutare “formazione in servizio” (che non è un’idea blasfema!) in grado di affrontare tale problematica.

Se vogliamo essere più precisi diventa indispensabile rispolverare anche il concetto di “valutazione formativa”-  spesso citato a vanvera, giusto per far vedere che non è dimenticato, sorvolando però sul cuore stesso dello stesso – nel senso che la responsabilità del mancato successo formativo dei ragazzi, da ascriversi in primis alla didattica del docente, deve far scaturire in quest’ultimo uno stringente autofeedback  formativo. Da questa visione della valutazione scopriremo essenziale il sorgere di una “trasformazione adeguata e ineludibile,” pressante e disincantata, scevra da meccanismi di difesa. Una trasformazione salutare a 180 gradi.
Ci si fionda invece sull’attivazione del senso di responsabilità “dell’educando” invitato e sollecitato lui da più parti all’autovalutazione. Intendiamoci: sacrosanta ma… “vivaddio” verrà sempre dopo di quella del docente…O no?

Come fa un docente ad educare al “recupero dell’errore” se lui stesso non lo sa fare su di sé? Che  esempio può dare? Tutti noi sappiamo che si insegna in modo più pregnante con il nostro modo di essere che  penetra più profondamente  di qualsiasi altra sollecitazione verbalistica.

Torniamo a noi: i miei allievi non sono in grado di affrontare una delle prove Invalsi?
E’ la risposta esatta o la comprensione profonda, compreso il ”senso” di quello che leggo, che mi interessano?
Nel caso che stiamo prendendo in esame, tra i vari manuali serissimi e già datati, ci sono dei saggi fondamentali che possono essere utilizzati: i testi di Wiggins sulla “teoria” e sulla “pratica” per l’acquisizione della competenza della comprensione significativa e profonda .
A proposito di ciò sottolineo come all’interno della tassonomia indicata da Wiggins spicchi in modo molto forte il passaggio “all’autoconoscenza”, altro modo per sollecitare l’autovalutazione di cui sopra!
Nella fattispecie poi, lungo la linea più pragmatica, segnalo il meno recente saggio dal titolo “I Contesti sociali dell’apprendimento” a cura di Clotilde Pontecorvo, Anna Maria Ajello, Cristina Zucchermaglio .
Ricominciamo da lì!!! In questo testo si insegna cosa è per esempio “l’ Apprendistato cognitivo” (A.Collins,J.Brown,S.E.Newman) e come si può utilizzare questa metodologia neovigotskiana proprio per sviluppare i processi cognitivi e metacognitivi così importanti per insegnare a cogliere e capire il SENSO di ciò che si legge! (Palincsar-Brown: La comprensione del testo scritto, all’interno “dell’Insegnamento reciproco della lettura”)

Tutto il resto sono pannicelli caldi.
Eppoi ragazzi, per favore, se  qualcuno vi indica la LUNA, non fermatevi al Dito.