L’empatia perduta

di Cinzia Mion

I recenti fatti di cronaca ci portano a fare delle considerazioni desolanti e insieme molto dolorose, indotte da moti di orrore e direi quasi di ripugnanza. La soggiacente formazione pedagogica però mi porta a cercare di piegare tali emozioni all’interno di una riflessione tesa alla ricerca di un riscatto o almeno ad una svolta educativa correttiva. Non posso darmi per vinta. Non posso…
Tra le derive sociali più preoccupanti da tempo noi persone di scuola segnaliamo l’INDIFFERENZA intesa come NON-CURANZA che sta crescendo in modo preoccupante.
Il filosofo lituano di origine ebraica Levinàs trent’anni fa affermava che il “volto dell’altro mi interpella”, volto dell’uomo sofferente e morente, e dove “l’interpellare” aveva un significato profondo e quasi viscerale di richiamarci alla nostra umanità…
Beh oggi il volto dell’altro non solo non ci interpella più con questo significato ma stiamo purtroppo spesso verificando che invece di sollevarci pietà, lascia via libera non alla semplice indifferenza ma addirittura al “sadismo”, alla “crudeltà”, e addirittura alla “perversione”.
Da troppo tempo stiamo assistendo al fenomeno delle baby gang, formate da preadolescenti carichi di rabbia, ma ora ciò che è successo a Pescara da parte di due sedicenni, nei confronti di un altro sedicenne, ha superato di gran lunga i limiti. Non possiamo tutti noi adulti non auto-interrogarci: famiglia e scuola.
Ovviamente questo episodio si collega anche a quello commesso barbaramente nei confronti del bracciante indiano di nome Singh, da parte adulti travolti da una rincorsa avida e immorale al PROFITTO, costi quel che costi, fino appunto ad un omicidio efferato (perché di questo si tratta anche se commesso per mancanza spietata di soccorso!).
In tutti i casi che stanno purtroppo accadendo ai nostri giorni: dai migranti lasciati morire in mare (con le ONG spedite il più lontano possibile per timore che possano salvarne troppi!!!); a tutti i casi provocati da un caporalato “schifoso” e da troppo tempo ignorato coperto dal famigerato “far finta” di non sapere ciò che alligna nei campi da sud a nord, (modalità tipicamente italiana che si accompagna all’altra famigerata modalità che contrassegna gli italiani “brava gente” che si chiama “furbizia tornacontista”); fino all’agghiacciante fatto dei ragazzini …tutti casi in cui è sparita l’E M P A T I A.

E insieme all’empatia la nostra umanità. Nessuno osi obiettare: non possiamo generalizzare…perché c’è sempre chi è pronto a buttare la palla in tribuna per alleggerire la situazione. Questo per me è il peggiore: più in malafede di tutti perché abituato a manipolare e a portare acqua al suo mulino. Possiamo non sapere di quale mulino si tratta ma se scavate lo trovate!!!
Questa assenza pericolosissima di empatia che un po’ alla volta ci ha inaridito riguarda tutte e tutti. Nessuno escluso.

In cosa consiste l’EMPATIA?
Edith Stein (filosofa ebrea morta ad Auschwitz nel 1942) che ha molto approfondito l’argomento, dice che “è un vissuto specifico …perché esperienza di una “non esperienza” che però ha i tratti emotivi-diretti-intuitivi di un vissuto personale ….: si fonda sull’uscire da sé, sull’incontro e l’apertura all’altro, che non è mai fusione affettiva o sconfinamento”, praticamente evita l’identificazione altrimenti ciò che stai provando è una commozione o un “sentire” che riguarda te stesso e non l’ALTRO….

I NEURONI SPECCHIO

Oggi sappiamo che anche attraverso la cosiddetta “prosocialità” assistiamo ad un’attitudine innata, di cui sono portatori/trici tutti i bambini e le bambine, che fa sorgere una predisposizione all’attenzione all’altro che andrebbe curata sì nelle femminucce ma anche nei maschietti….Conosciamo però anche qualcosa di più scientifico che sono gli esiti delle ricerche delle neuroscienze con la scoperta dei NEURONI SPECCHIO (da parte di Gallese e Rizzolatti) che ci hanno reso edotti sull’ INTERSOGGETTIVITA’, cui siamo tutti programmati fin dalla nascita. Grazie a tale mirabolante scoperta noi dovremmo essere perciò portatori, attraverso la “simulazione incarnata” insieme alla cosiddetta “consonanza intenzionale”, di EMPATIA nei confronti dell’altro con cui stiamo INTER-AGENDO!
Allora, come abbiamo fatto a ridurci così?

LO SVILUPPO MORALE

Un altro aspetto importantissimo, messo in luce da HOFFMAN, che analizza il sorgere dell’empatia nei bambini piccoli, consiste nella relazione tra la condivisione empatica e lo SVILUPPO MORALE.
Hoffman infatti fa emergere le radici affettive del comportamento morale e lascia grande spazio all’educazione e alla promozione degli atteggiamenti positivi verso gli altri. Tutto ciò anche nel contrastare l’aggressività e nel promuovere le relazioni sociali di accettazione reciproca, per quanto le situazioni possano apparire difficili.

GENITORI.

E i genitori oggi educano alla COM-PASSIONE?
La compassione che è diversa dalla “pena” perché in quest’ultima la persona se presta aiuto si riconosce come superiore a quella che in quel momento risulta bisognosa; diversamente, nel caso che chiamiamo com-passione ci riconosciamo simili alla persona sofferente, perché potremmo trovarci a vivere analoghe condizioni di sofferenza…
Ricordo che una quindicina di anni fa, (quando ancora i genitori erano consapevoli di avere bisogno di un sostegno alla genitorialità….) mentre stavo tenendo una relazione serale all’interno di un Istituto scolastico ho chiesto a bruciapelo guardandoli negli occhi: Ma voi educate i vostri figli alla compassione?
Rammento come fosse ora lo sguardo che mi hanno restituito: interrogativo e spaesato…come fossi una marziana!
Ho preso allora il coraggio a due mani e ho raccontato: “Io rammento ancora le parole esatte di mia madre (che era del 1896!) quando stavamo affrontando le difficoltà enormi della situazione di sfollati nel 1944, e per caso incontravamo un mendicante per strada: ”Poverino…vedi questo sta peggio di noi. Non ha niente, nemmeno un tetto sulla testa”. Ricordo perfettamente l’intonazione della voce che cercava di attivare appunto compassione….
Sempre cercando di focalizzare il ruolo genitoriale, dopo aver segnalato la probabile attuale assenza di educazione all’empatia, bisogna anche sottolineare la difficoltà di educare all’assunzione dell’etica della RESPONSABILITA’.
La tendenza diffusissima all’iperprotezione dei figli si prefigura infatti come “indulgenza” deresponsabilizzante. Proviamo per esempio a prendere in considerazione le richieste di giustificazione per “compiti non eseguiti” da parte di ragazzini bighelloni che al momento di andare a scuola davanti al piccolo rischio di essere colti in fallo chiedono ai genitori, e magari ottengono, di sottoscrivere una “scusa falsa”. L’etica della responsabilità, aspetto importantissimo che dovrebbe essere assunto sia dalla famiglia che dalla scuola, consiste nell’insegnare all’assunzione delle “conseguenze “delle proprie azioni….
Quale occasione migliore quella che si presenta allora ai genitori in un caso del genere: “No, non firmo il falso, ora vai a scuola e ti assumi la responsabilità delle “conseguenze” di quello che hai fatto o non hai fatto….!”

CONSIDERAZIONI FINALI

Le derive sociali pericolose che stanno intossicando le relazioni interpersonali sono molte. Ne ho affrontato alcune e nella fattispecie la mancanza di EMPATIA, insieme alla INDIFFERENZA diffusa.
Il rischio ineludibile è che tali derive possano ineludibilmente sommergere tutti, anche i docenti che avrebbero il compito, per dettato e competenza professionale comprovata, di intervenire per raddrizzare il tiro ed evitare il peggio.
Spero che questo grido di dolore arrivi allora anche alla scuola e che non sia troppo tardi…




Come fronteggiare le insidie della I.A.

di Cinzia Mion

Progettazione a ritroso e comprensione profonda

Nel panorama delle offerte che si incontrano, nelle pubblicazioni specialistiche, di esempi di progettazione di competenze, spicca per originalità la cosiddetta “progettazione a ritroso”.

Quando ho scoperto Wiggins e i suoi testi a dire il vero sono rimasta molto affascinata. Mi sono detta: ”Ecco l’uovo di Colombo”.
Finalmente gli insegnanti finiranno di sperare che le competenze possano scaturire come per magia alla fine del percorso tradizionale delle conoscenze come da programma. Si tratta in parole povere di rendersi conto che le “competenze” non possono scaturire dalla programmazione lineare delle conoscenze e dall’applicazione pedissequa del libro di testo.
Bisogna progettarle prima.

Ora invece posso affermare che questo tipo di progettazione, che pone il suo focus sulla competenza “profonda e duratura”, è l’unica che è in grado, ovviamente fino ad oggi, di poter essere considerata adatta a fronteggiare le insidie della Intelligenza Artificiale.
Con il mio contributo non intendo demonizzare tale dispositivo e tanto meno analizzarlo perché non ne ho le competenze.

Dal punto di vista di persona di scuola intendo però evitare che possa inaridire o minimamente compromettere la facoltà più fulgida che appartiene al genere umano, che dovrebbe connotarci sempre anche se negli ultimi tempi è venuto un po’ meno: il pensiero autonomo e riflessivo.
La competenza individuata come importante da far raggiungere agli alunni dovrà essere focalizzata all’inizio del percorso, dovranno poi essere identificate le conoscenze e i “saperi” ineludibili (fatti, concetti e principi), le abilità indispensabili (processi, strategie e metodi).
Inoltre andranno pianificate esperienze di apprendimento da far vivere direttamente in applicazione dell’aspetto teorico, per rendere attuabile il raggiungimento della competenza in questione. Bisogna però sottolineare che le pubblicazioni di Wiggins fanno riferimento alla “teoria” e alla “pratica” di un percorso didattico per la “comprensione profonda e significativa”.

Strada facendo si chiarirà anche il termine “duratura”, vale a dire inserita nella memoria semantica e non solo episodica, quindi in grado di illuminare di “senso” i contenuti in essa depositati. Un senso che va oltre l’occasionalità ma invece in grado di mettere in connessione altri contenuti successivi anche se apparentemente “sconnessi”.

LE DOMANDE ESSENZIALI

Il docente perciò dovrà farsi delle domande molto pregnanti, acquisendo la mentalità del progettista. Insegnare a partire dalle domande significa chiedere retoricamente “se le conoscenze sono fatte di risposte, allora quali erano le domande che hanno dato vita ai libri di testo o che hanno causato le risposte dell’insegnante e le risposte dei contenuti di queste discipline”?
Oppure le rielaborazioni dell’IA?
Questo tipo di domande è molto diverso da quello che normalmente il docente fa per controllare le conoscenze fattuali, per guidare gli allievi verso le risposte esatte. Dovrà infatti chiedersi innanzitutto: cosa è meritevole e degno di essere compreso in profondità? Si capisce immediatamente che il docente che decide di sperimentare questa interessante progettazione accetta di avere un buon rapporto con la fatica di pensare e con la riflessività che ne consegue. Fa parte di questa intensa riflessività la ricerca all’interno dei vari contenuti di “una grande idea” che dovrà avere un interesse durevole anche oltre l’ambito scolastico.

Se mi chiedessero a bruciapelo quale profilo finale vorrei che la scuola italiana si prefigurasse alla fine del corso di studi dalla scuola dell’infanzia fino all’uscita dalla scuola secondaria, direi subito: vorrei dei ragazzi riflessivi e dei cittadini formati all’etica pubblica. Naturalmente non significa “ignoranti” nelle conoscenze fondamentali delle discipline ma che queste siano state strumentali alla formazione delle caratteristiche suddette.

Vi sembra poco? Ragazzi, e ragazze, naturalmente, in grado di pensare con la propria testa, vale a dire curiosi e “problematizzanti” e desiderosi di autointerrogarsi sulle questioni più vitali del mondo, del futuro, della loro vita e della vita degli altri.
Che hanno sviluppato una intelligenza vivace, fertile, connettiva. Vale a dire ragazzi e ragazze che hanno appreso il valore profondo e duraturo delle idee portanti dei saperi e che inoltre hanno appreso e praticano coerentemente i valori del “cosiddetto Bene Comune”, caposaldo dell’educazione alla cittadinanza, evitando i trabocchetti dati dal famigerato “familismo amorale” che, da moltissimo tempo, contraddistingue il popolo italiano, legittimando i “tornacontismi” e gli incredibili livelli di corruzione e ipocrisia, scambiandoli con “furbizia”, considerata un valore al posto dell’intelligenza.

In altre parole che sono in grado non solo di affrontare con buoni risultati il “problem solving”, su cui può essere di valido aiuto anche l’I.A., ma soprattutto in grado di autointerrogarsi sui dilemmi, le questioni, le difficoltà della realtà, in altre parole l’attitudine al “problem posing”.

COMPRENSIONE PROFONDA E DUREVOLE

Quando Wiggins parla di grande idea il suo riferimento è ad una idea “perno”, essenziale per interpretare la realtà ed essenziale anche per costruire i famosi “compiti di realtà”, funzionali a cogliere quanto la competenza auspicata e realizzata si è incarnata nel repertorio delle acquisizioni degli allievi.
Una volta individuata l’idea perno, risposta desunta da una serie di domande essenziali di “senso”, si procede con il percorso. Una domanda di senso potrebbe essere: quanto questa idea perno può coinvolgere l’alunno dentro al nucleo centrale della competenza e quanto questa idea può essere determinante per fare chiarezza e sciogliere gli equivoci?
Vediamo ora cosa si intende per comprensione profonda. Significa che se una conoscenza o un’abilità non diventa lettura e comprensione della realtà, difficilmente si trasforma in significativa o flessibile o in comprensione profonda. Al contrario è molto probabile che rimanga astratta, disincarnata, scolastica.

I SEI ASPETTI DELLA COMPRENSIONE

Il primo aspetto è “la spiegazione”. L’allievo deve essere in grado di presentare resoconti di fenomeni, fatti e dati. Si tratta di dimostrare di essere in grado di rispondere alle famose cinque domande, tipiche fra l’altro del giornalismo: chi, cosa, dove e quando. Si richiede pertanto non solo la risposta esatta ma la spiegazione, si sollecita il collegamento di fatti specifici e la capacità di sostenere tali collegamenti e le loro conclusioni.

Il secondo aspetto è “l’interpretazione”. Si tratta di affrontare l’argomento attraverso esempi, aneddoti, narrazioni, ecc che possono costituire contenuti di testi, poesie, filmati, ecc. L’allievo deve saper rispondere a domande del tipo: quello che hai letto o scritto cosa significa? Cosa spiega dell’esperienza umana? In che modo ha a che fare con te?(es. i flussi migratori cosa ti rivelano del genere umano?)

Il terzo aspetto è “l’applicazione”. Questa dimensione verifica la possibilità di affrontare i famosi compiti autentici, che , proprio per essere autentici, non devono essere scollegati completamente dalla realtà dell’allievo e dalle sue esperienze, tanto da apparire stravaganti e bizzarri, come qualche volta capita di incontrare. Senz’altro il livello dell’applicazione richiede di usare le conoscenze in nuove situazioni e in vari contesti. Bisognerebbe che l’allievo potesse rispondere alla domanda : In quali modi le persone applicano questa comprensione nel mondo fuori dalla scuola? Come dovrei modificare il mio modo di pensare e il mio agire per rispondere alle esigenze di questa particolare situazione?

Il quarto aspetto è “la prospettiva”. Avere prospettiva prevede la competenza del decentramento e della “lungimiranza” e la capacità di rispondere alla domanda: questo argomento da quale punto di vista è stato affrontato? Capire il punto di vista significa possedere lo spirito critico per riuscire a smascherare assunzioni e conclusioni che non sono state sottoposte a controllo. Le Indicazioni per il curricolo, che hanno sostituito i programmi, chiedono più volte la competenza di essere in grado di cambiare punto di vista, anzi considerano questo obiettivo, in questa società multiculturale e multireligiosa, fondamentale e peculiare dei tempi.
Chissà se l’I.A. è in grado di indurre la flessibilità che richiede il “decentramento del punto di vista” come competenza personale consolidata, non come soluzione ad un quesito del momento. Faccio riferimento alla competenza interculturale e all’assunzione del paradigma della complessità come vera e propria forma mentis.

Il quinto aspetto è “l’empatia”. Questa dimensione viene definita come la capacità di entrare nei sentimenti e nella visione del mondo di un’altra persona. Significa saper mettersi nei panni degli altri, si tratta di sviluppare le intelligenze personali di cui parla Gardner, quella “intrapersonale” ma soprattutto quella “interpersonale”. Oltre che a sviluppare questo importante tipo di intelligenza si tratta anche di correggere la deriva sociale dell’indifferenza o “noncuranza”. L’aspetto più degno di nota dal punto di vista cognitivo è che il mutar d’animo può essere l’inizio del cambiamento di opinione e del superamento di eventuali pregiudizi.
Dubito molto che l’I.A. possa incidere sul “sentire” cosa prova l’altro, avvertirne la portata emotiva, le vibrazioni che ciò comporta. Può essere che io abbia una visione parziale e distorta di questo tipo di intelligenza perché nel mio immaginario la assimilo ad una “macchina pensante” ma non “senziente”!

Il sesto aspetto è “l’autoconoscenza”. Si tratta di riuscire alla fine a cogliere il nostro modo di conoscere, lo stile apprenditivo, quali sono i nostri schemi di pensiero, i nostri meccanismi di difesa che possono compromettere la nostra comprensione. Gli allievi dovrebbero essere in grado di risponder alla domanda “ quali sono i limiti della mia comprensione? Cosa tendo a comprendere erroneamente a causa dei miei pregiudizi, abitudini e stili mentali? “
Ovviamente questo aspetto deve riguardare prima di tutto i docenti sia per quanto attiene la loro “comprensione profonda“ delle conoscenze più significative; dei nuclei fondanti delle discipline che hanno il compito di insegnare, ovviamente dopo averli padroneggiati; del modo più accessibile e chiaro di tradurre tali concetti sostanziali e validati, in una didattica abbordabile e facilitante la comprensione da parte degli allievi. Speriamo così di solleticare la curiosità professionale di molti docenti, stimolati in questo modo all’ “autointerrogazione”: una delle strategie più sane per la Scuola ma anche per la Vita.

E alla fine si tratta di interrogarsi su come utilizzare l’Intelligenza Artificiale, di quali vantaggi può offrire ma soprattutto di quali conseguenze anche negative possono scaturirne e di come poterle minimizzare. Di come, per esempio, riprogettare il proprio lavoro come ho provato a fare io con il presente contributo

 




Cara Giorgia, le scrivo (e le spiego qualcosa sulla “teoria gender”)

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Cinzia Mion

LETTERA APERTA ALLA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, alias GIORGIA.

Da tempo volevo scriverLe, Onorevole Presidente, ma ora penso che sia arrivato il momento in cui non posso veramente più stare zitta. Anche perché non mi si addice!
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la Sua dichiarazione “urlata” al congresso organizzato a Madrid recentemente da Vox, alla presenza di tutti i rappresentanti della destra estrema, prossimi al voto europeo.
Dichiarazione da Lei urlata in spagnolo (chissà perché quando deve parlare spagnolo Le scappa sempre di urlare…forse ha interpretato “vox” in questo modo?) in cui dichiara, tra le altre boutade ad effetto, anche che, in osservanza delle radici cristiane, Lei non accetterà mai che nelle scuole si parli della “teoria gender”.

Ora mettiamo le cose in chiaro, carissima Presidente, non si faccia cogliere “in castagna” pure lei come gli altri “gaffeurs” del suo governo che in genere, a dire il vero, si stanno dimostrando spesso piuttosto claudicanti, rispetto alla competenza culturale ma anche politico-amministrativa che sarebbe giustamente loro richiesta.
Dia l’esempio Lei, Presidente, e prima di aprire bocca si informi bene, come si conviene alla leader del Governo, i cui membri in teoria dovrebbero amministrare la “cosa pubblica” verso il BENE COMUNE e non verso la ricerca di facile consenso popolare, come sta invece accadendo nel caso di specie.

Mi spiego meglio : in questa circostanza ovviamente si tratta di “lisciare il pelo” a tutti quegli “integralisti” più o meno religiosi, più o meno oscurantisti, ma spesso soltanto ignoranti, nel senso che ignorano, alcune idee essenziali riferite alle tematiche in oggetto.
Di seguito ecco allora qualche spiegazione facilmente fruibile ma soprattutto alcuni riferimenti legislativi ineludibili, soprattutto da parte di chi ci sta governando. Si tratta del comma 16 della L.107/15 e dell’importantissimo “Trattato di Istanbul” (2011 ratificato in Italia nel 2013) da cui discende l’obbligatorietà del comma stesso.
Se li faccia tirar fuori, cara Presidente, e ne prenda atto. L’identità di genere, maturata oltre gli stereotipi verso le Pari Opportunità, non è il demonio e riveda le Sue posizioni così avventatamente urlate, a meno che Lei non voglia imitare il fondamentalista islamico Erdogan che, dopo aver ospitato la Commissione che ha steso il Trattato, recentemente l’ha rinnegato.
Cominciamo allora con l’abicì.

IDENTITA’ PSICOSESSUALE

Bisogna partire con calma ad affrontare l’evolversi dell’identità psicosessuale.
L’identità sessuale viene definita alla nascita come:

1) “IDENTITA’BIOLOGICA”
, attraverso l’osservazione del sesso anatomico (genitali esterni), generalmente con certezza, tranne nei casi di ermafroditismo chiamato oggi intersessualità.
Spendiamo due parole per chiarire questa definizione: si tratta di soggetti, per fortuna non frequentissimi, che si presentano alla nascita con una non chiara distinzione degli organi genitali esterni ed interni, per cui alla vecchia denominazione di “ermafroditismo”, un po’ criptica per chi è digiuno di nozioni biologiche, oggi si preferisce il termine “intersessuale”. Praticamente si tratta di combinazione ambigua tra gli organi. Un tempo si procedeva alla nascita ad una modalità di intervento cruento, decidendo così per un sesso o per l’ altro, il più delle volte affidato alla scelta genitoriale, su cui è meglio sorvolare perché foriera di grandi sofferenze da parte dei soggetti durante la loro crescita, come è facile immaginare..

Poi subentra:
2)”L’IDENTITA’ PSICOLOGICA” che consiste nell’accettazione della propria identità biologica sessuale, durante il processo di crescita;
– in caso contrario può sorgere una forte “DISFORIA DI GENERE”, consistente in uno stato d’animo angosciato, relativo al fatto di sentirsi prigionieri di un corpo sessuato non riconosciuto come ”proprio”;
– in conseguenza di tale disforia è possibile che nel soggetto crescendo appaia il TRANSGENDERISMO (in assenza o con rifiuto di intervento) oppure il TRENSESSUALISMO (in presenza di intervento) .
Il transessualismo deve essere tenuto distinto dall’orientamento sessuale.

Alla fine appare:
3) “L’ORIENTAMENTO SESSUALE” che può essere :
– eterosessuale,
– omosessuale,
– bisessuale.
– asessuale.

Queste distinzioni valgono anche per i transessuali.

IDENTITA’ DI GENERE
Se è vero, parafrasando Simone de Beauvoir, che maschi e femmine si nasce ma uomini o donne si diventa, questa maturazione è un processo che va accompagnato verso un’ottica di parità che valorizzi però le differenze. Dovrebbero perciò scaturire da questo processo delle identità il più possibile rinnovate dalla cultura e dalla riflessività e libere il più possibile dai vecchi stereotipi, che segnano spesso la sopraffazione del maschile sul femminile. A questo proposito una particolare vigilanza viene raccomandata nei confronti dei modelli offerti dai MEDIA che rischiano di essere assorbiti dai soggetti in crescita a-criticamente.
La scuola è molto importante in questa fase della maturazione delle identità perché al suo interno gli alliev* hanno due compiti: “apprendere e crescere”. Crescere verso le PPOO è un compito dicevamo non semplicemente biologico ma “educativo”, auspicabile ovviamente che avvenga all’interno di una Istituzione deputata a far superare stereotipi e pregiudizi e ad aprire le menti, a fronte della famiglia di per sé “conservatrice”.
Tale maturazione culturale, che si sviluppa dalla identità sessuale biologica, si chiama appunto, come dicevamo, “identità di genere”.
Per le osservazioni esplicitate precedentemente risulta chiaro che in presenza di ”disforia di genere”, e non accettazione della identità biologica, i soggetti TRANS rivendichino in modo più o meno esplicito una identità di genere diversa da quella biologica assegnata dalla natura.

CONCLUSIONI
Spero ardentemente che Lei capisca, come altrettanto capisca la Ministra Roccella, che immagino la segua in questa miope rivendicazione soltanto ideologica, nel senso più retrivo del termine, che cercare disperatamente di affermare la propria autenticità psicosessuale, in presenza come dicevamo di una “disforia” molto dolorosa, non sia una passeggiata ma un percorso di grande sofferenza, interna , psicologica e anche fisica. In altre parole, NON E’ UN CAPRICCIO!!!
Lo dica anche a Luca Ricolfi, che penso vicino alle sue posizioni, anche se ieri sul Gazzettino si sia sforzato di essere equidistante, tra il “pro e il contro” nascondendo però una trappola. La trappola deducibile dal titolo molto ambiguo ”Sono le donne le vere vittime della teoria gender”…
Il riferimento “era a soggetti MtF (da maschio a femmina) che senza ancora transizione chirurgica, come atleti maschi, pretendono di gareggiare nelle competizioni femminili, sbaragliando le atlete biologicamente donne; oppure ugualmente detenuti biologicamente maschi che pretendono di essere ospitati in carceri femminili (con numerosi casi di stupro)”….
Che dire? Mi sono vergognata per lui…




Revisione Indicazioni Nazionali: l’assalto alla diligenza di Galli Della Loggia & C.

di Cinzia Mion

Operatori scolastici vi prego : state tutti con le orecchie alzate! Sono una vecchia dirigente scolastica in pensione e mi permetto di allarmarvi.

Il  Ministro Valditara e il suo entourage stanno per sferrare un attacco alle “Indicazioni nazionali per il curricolo per la scuola dell’infanzia e del il primo ciclo”, testo che ha visto la sua prima stesura nel 2007, con il Ministro Fioroni.

Presidente della commissione che allora ha steso la prima versione del documento è stato Mauro Ceruti, allievo del grande Edgar Morin,  ancora prolifico nonostante la veneranda età.
Alla presentazione ufficiale  delle Indicazioni era stato invitato anche Morin stesso ed io mi sono “fiondata” a Roma, a quel tempo potevo permettermelo(!), per ascoltare e vedere da vicino il grande saggio di cui avevo letto uno scritto all’interno di una  raccolta di altre dissertazioni dal titolo “La sfida della complessità” (1985) a cura appunto di Bocchi e Ceruti, che mi aveva affascinato! Era presente tutto il Gotha (compreso Cerini) della scuola e non solo.

Sono tornata a casa gasatissima. Eppure ero già in pensione ma non avevo smesso il mio lavoro di formazione.
Nel 2011, presso una scuola dove ero stata dirigente, ho partecipato a Treviso ad un focus group organizzato da Cerini sulla rivisitazione delle Indicazioni per la scuola dell’infanzia, ricavandone ulteriore entusiasmo.
Nel 2012 ha avuto l’imprimatur la nuova edizione delle “Indicazioni nazionali”, a cura appunto di Giancarlo Cerini, spesosi sempre in nodo molto illuminato per la Scuola , soprattutto dei più piccoli, mancato di recente e che ci mancherà sempre.

Il “paradigma culturale della complessità” ha intriso di sé tutto il documento delle Indicazioni, rendendolo adeguato ai tempi per poter  affrontare da parte delle nuove generazioni, che abiteranno ancora più la complessità, la difficoltà della coniugazione delle logiche anche contrapposte (Morin) facendo in modo di tenere insieme, per esempio, “l’uguaglianza e la differenza” (cfr:”La scuola raccoglie con successo una sfida universale, di apertura verso il mondo, di pratica dell’uguaglianza nel riconoscimento delle differenze”da : Premessa Indicazioni, primo paragrafo,Cultura, Scuola, Persona”)

Questo paradigma doveva in parte soppiantare quello precedente della “linearità” che obbediva alla logica binaria caratterizzata dalla “o” escludente: o bianco o nero, o vero o falso, ecc.
Nel caso preso in considerazione, alla luce delle dichiarazioni del Ministro:” italianità“ o ”non italianità”.

L’applicazione del paradigma della complessità richiede un “pensiero riflessivo”, molto impegnativo, che supera di gran lunga quello “riflettente” di semplice restituzione dei contenuti dei libri di testo o della lezione frontale, tanto cari a quelli che si stanno attrezzando oggi per attaccare le “Indicazioni”, e che è stato anche esaltato sempre da Galli della Loggia e dalla sua cerchia.
Insieme alla riflessività, che attraversa tutto il testo del documento, si rintraccia anche la l’importanza della competenza del “decentramento” del proprio punto di vista che risulta essere un altro filo rosso a partire dalla scuola dell’infanzia!
Il compito di monitorare l’applicazione delle Nuove Indicazioni è stato affidato a Italo Fiorin che ha curato molto bene e accuratamente, anche come Coordinatore del Comitato Scientifico Nazionale per le Indicazioni, il più recente testo (2018) “Indicazioni Nazionali e nuovi scenari”, su sollecitazione sia delle spinte dell’attualità, sempre più digitale,  sia della’Agenda 2030 che ha fatto uscire dallo sfondo il tema della “sostenibilità”.

Accanto a queste tematiche stavano anche emergendo problematiche derivanti dalle migrazioni e dalle difficoltà a fare interagire culture diverse, aspetto che spesso invece di essere agevolato da modalità corrette di “interculturalità” è stato cavalcato nel frattempo da alcune forze politiche al fine di creare scontri e sollevare rifiuti nei confronti delle “diversità” etniche, culturali e religiose.
Il nuovo testo ha affrontato questi scenari al fine di modernizzare il testo delle N.I. del 2012.

State “in campana” ragazzi (posso chiamarvi così?) perché stanno per scipparci una bussola fondamentale per la nostra scuola, bussola che ci indica la strada maestra per quella “riflessività” che potrà salvare noi e i nostri giovani futuri dal rischio di subire manipolazioni e farci trovare spiazzati e indifesi rispetto a tutte le complessità che abitano oggi il mondo. Tra le quali oggi compare “l’Intelligenza artificiale” che potrebbe aiutare la funzione del “problem solving” ma non di sicuro quella del “problem posing”. Essere in grado di problematizzare la realtà e i suoi eventi è una competenza che affonda le sue radici nella riflessività sofisticata tipica solo della mente umana ben coltivata.

Anche Edgar Morin recentemente ha fatto sentire la sua voce con un agile  pamphlet dal titolo emblematico “Svegliamoci” con cui intende salvare il PENSIERO che è a forte rischio di inaridimento.




Valutazione formativa, questa sconosciuta

di Cinzia Mion

 Recentemente è stata ripresa con enfasi la discussione intorno alla tematica della valutazione scolastica. Infatti ultimamente il Ministro Valditara ha fatto approvare un emendamento che sta modificando profondamente il “senso” dell’Ordinanza n° 172, datata 4-12-2020, riguardante le Linee Guida per l’applicazione della L. n. 41/2020 che prevedevano alla scuola primaria, e ancora prevedono finché non ne verranno varate di nuove, l’introduzione dei LIVELLI al posto dei voti numerici.

I livelli sono stati modificati con questo intervento in “giudizi sintetici”. Il giudizio “insufficiente” ha soppiantato il raffinato” in via di prima acquisizione”.
Tale operazione ha rievocato dei giudizi chiaramente non solo “sommativi”, perché sommativi erano anche quelli descrittivi, ma i giudizi cosiddetti “sintetici” sono tali per cui non possono non riattivare nella mente dei docenti, ma anche dei genitori, i voti numerici la cui abolizione nel 2020 si era configurata come la vittoria di “un” primo traguardo.

Da parte delle Associazioni professionali che da tempo chiedevano invece a gran voce l’estensione della 172 a tutto il primo ciclo, tale provvedimento di “restaurazione” è stato affrontato e denunciato immediatamente come altamente dannoso per tutti gli allievi, con argomentazioni molto convincenti e condivisibili.

La leggenda metropolitana per cui i voti sono più “chiari”, rispetto ad altri sistemi, ha spadroneggiato dal tempo della riforma Gelmini che con il suo Regolamento li aveva ripristinati al posto dei giudizi. È risaputo invece che un numero, così come un giudizio sintetico, che andrà a soppiantare ora l’espressione dei recenti livelli, è molto più opaco e ciò che trasmette è soltanto la classifica tra gli alunni. Nemmeno gli stessi docenti, ritrovandoselo poi nel registro elettronico, sanno più quali siano i punti di eccellenza o le lacune sottostanti il numero assegnato, se non usando una legenda sotto la verifica. Figuriamoci i genitori.

Fermiamoci però un attimo a considerare il fatto rivoluzionario che a partire dal 1977, per la prima volta con la Legge 517, ha fatto la sua comparsa la valutazione formativa.  A quel tempo abbiamo assistito all’abolizione della pagella con i voti e alla sua sostituzione con una scheda di valutazione con dei giudizi che poi nel tempo hanno assunto diverse conformazioni.

Immediatamente è apparso però un fenomeno destinato a ripetersi: è stata costruita sempre una equazione fittizia tra voti e giudizi stessi, di qualsiasi formulazione essi fossero. Il voto numerico è talmente “imbullonato” nella nostra mente, per averlo noi tutti subito nel tempo scolastico e universitario, che facciamo fatica a superarlo come paradigma di riferimento. Ciò ci richiama alla mente la sperimentazione dei “neuroni specchio”, e la simulazione incarnata di cui parlano i neuro scienziati Rizzolatti e V. Gallese.
Questa osservazione molto importante mi induce a tornare indietro e a tracciare per sommi capi l’evoluzione dell’idea di scuola da cui scaturiscono le modalità valutative.

Cenni storici

 All’interno della cosiddetta scuola elitaria, delineata dalla riforma Gentile del 1923, i voti numerici erano funzionali al carattere selettivo della scuola stessa, (vedi esame di ammissione) idonea a formare i quadri dirigenti. La svolta è avvenuta al tempo del referendum sulla Repubblica, e la Costituzione nel 1948 ha introdotto sia l’articolo n° 3 sull’Uguaglianza di tutti i cittadini che il n° 34 che stabilisce che l’istruzione obbligatoria e gratuita dura 8 anni. Non ci soffermeremo a delineare la trasformazione basilare che è avvenuta, almeno negli intenti, verso un regime repubblicano-democratico.

Diremo soltanto che il primo atto legislativo varato per scolarizzare tutta la popolazione, per almeno 8 anni come dettava l’articolo 34, fu la legge istitutiva della Scuola media unica, del 1962. Si attesta con questa il passaggio dalla scuola elitaria a quella di massa, avviata per tutti i bambini ma soprattutto per i figli degli operai e dei contadini, che generalmente abbandonavano precocemente il percorso di scolarizzazione. Fu verso costoro però che i docenti di allora – non adeguatamente riorientati con un’opportuna formazione al cambio di utenza, precedentemente selezionata dall’esame di ammissione – infierirono con valutazioni negative e bocciature plurime.

Su questa ecatombe scolastica si levò la famosa protesta sociopolitica di don Milani e del Movimento studentesco, che fece a questa da cassa di risonanza, e poi quella successiva docimologico-scientifica che segnalò l’aberrazione della media aritmetica e predicò la differenza tra misurazione e valutazione, giustamente rappresentata dalla necessaria presenza di “criteri”, esplicitati pubblicamente.

La critica docimologica e psicologica

La docimologia (M.Gattullo: Didattica e docimologia, 1968).[1], in quanto scienza della misurazione, ha fatto piazza pulita di alcuni equivoci che cercherò di riassumere.
La “misurazione” precede la “valutazione” e non va confusa con essa, coincidenza invece resa possibile a lungo in Italia dal codice numerico dell’espressione della valutazione. I voti vengono considerati vere e proprie unità di misura di una scala perfetta, con intervalli tra loro perfettamente uguali: aspetto che Gattullo sottolinea essere impossibile. Gli stimoli creati dai docenti per le verifiche quasi sempre sono approssimativi per cui vengono proposte le cosiddette “prove oggettive”. Tale dispositivo però non risolve il problema sollevato da don Milani. Le prove devono essere considerate nel loro valore diagnostico: la cura delle difficoltà emerse sarà affidata all’insegnamento individualizzato.

La valutazione inoltre deve adottare dei criteri espliciti, non confusi tra loro, ed ospitati nel PTOF. Mi soffermerò soltanto a segnalare come il criterio di valutazione che si rifà al giudizio assoluto viene definito da Gattullo illecito (ecco il significato dell’espressione: io non sono un voto!). Criteri accettabili possono essere quelli scaturiti dal confronto con le misurazioni riferite agli altri studenti o ai progressi ottenuti dal soggetto considerato.
Dobbiamo poi aggiungere gli effetti della critica psicologica, che non hanno bisogno di spiegazione, perché o già molto noti o facilmente comprensibili, che sono: l’effetto alone, l’effetto stereotipo e l’effetto Pigmalione, ecc.

Tutte queste critiche sottolineano come la valutazione numerica sia SOGGETTIVA E ARBITRARIA.
Alla fine siamo arrivati alla opportuna critica pedagogica che permise il varo della legge 517/77, come ricordavamo prima, che inaugurò una valutazione completamente innovativa, chiamata appunto formativa. Ora si dà il caso che Le Linee Guida del 2020, nella Introduzione, contengano dei dati salienti riguardo alla psicologia dell’apprendimento, dati che andrebbero considerati una bussola dell’intera operazione, come in genere accade nell’Articolo 1 delle leggi. Il primo articolo infatti traccia sempre la cornice in cui verranno poi iscritte le operazioni successive ed esprime i principi ispiratori.
Il primo di questi principi nelle succitate Linee Guida è proprio la valutazione formativa.
Se Valditara dovesse perciò cancellare anche queste rimane pur sempre il decreto legislativo 62/2017 che continua a sottolineare l’importanza di questo tipo di valutazione.

Il cambio di passo

Il concetto di valutazione formativa, così rivoluzionario fin dal suo apparire, segna oltre che il passaggio alla scuola di massa anche a quella della integrazione, perché la stessa legge, contemporaneamente all’abolizione della pagella con i voti, ha aperto le porte della scuola statale ai soggetti con disabilità. Abbiamo già accennato alla consuetudine invalsa subito, e continuata purtroppo nel tempo, di tramutare d’emblée i voti in giudizi, vanificando così la caratteristica fondamentale e nuova della valutazione. Quello che temiamo adesso è  che questa perda nel tempo il suo smalto innovativo radicale e che si verifichi il medesimo meccanismo semplificatorio e sbrigativo.

Più volte infatti, da allora, il concetto è stato ripreso e citato, in modo prestigioso e autorevole, anche dalle “Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo” del 2012, senza però che nessuno si sia mai preoccupato di vigilare se venisse applicato o se i docenti conoscessero la differenza tra valutazione sommativa e valutazione formativa. L’attenzione si è concentrata subito sulle competenze e i docenti spesso hanno bypassato la premessa e la sua pregnanza, andando a rifugiarsi sulla disciplina di loro competenza.

Nel lontano 1977 il corpo docente non è stato formato a questo cambio di passo e così è avvenuto dopo il 2012. Non ci siamo chiesti se fosse possibile, senza adeguata formazione, cogliere e poi applicare questa modalità nuova di valutazione. Ma allora – come se fosse un giallo – in che cosa consiste questa auspicata e tanto nominata modalità di valutare gli alunni e liquidata troppo spesso da tutti anche da formatori eccezionali? Cominciamo intanto con alcune citazioni indispensabili. Nell’anno 1967 uno psicologo americano M.[2] Scriven aveva pubblicato un articolo dal titolo “Differenza tra valutazione sommativa e valutazione formativa”, ripreso poi da B.Vertecchi in Italia nel 1976 all’interno del suo testo La valutazione formativa[3]. Non è un caso che appena un anno dopo fu varata la Legge 517, successivamente alla sua critica pedagogica che denunciava una scuola che perpetuava stratificazioni sociali di massa.

La valutazione formativa

Per capire profondamente questa espressione bisogna innanzitutto comprendere senza ombra di dubbio che l’aggettivo formativa, posto accanto al sostantivo valutazione  (es: il valore “formativo” della valutazione) non è un abbellimento, una sfumatura che smorza l’eventuale durezza che può connotare il concetto di valutazione tradizionale. No, “valutazione formativa”consiste in una valutazione vera e propria, complessa, che coniuga la attenta considerazione del livello di insegnamento con quello di apprendimento.

Da allora sarebbe dovuto risultare chiaro che la valutazione sommativa, considerata per eccellenza quella tradizionale, generalmente ascrive la responsabilità del  mancato apprendimento all’allievo (poco studioso, per niente diligente, carente intellettualmente, svogliato, indisciplinato e poco attento, ecc) . Quella formativa, invece, dovrebbe attivare un cambiamento di prospettiva di 180 gradi. Ascrive infatti la responsabilità del mancato apprendimento o dell’insuccesso formativo, all’insegnante e alle sue pratiche didattiche. Dal punto di vista operativo significa che il docente allora, all’interno di questa nuova ottica, innanzi tutto dovrebbe attivare la propria osservazione, professionale e curante, durante il processo dell’insegnamento-apprendimento e non precipitarsi sul prodotto-risultato come succederebbe con quella tradizionale. Attraverso molte microverifiche informali, soprattutto utilizzando il linguaggio del corpo, le interazioni verbali tra gli allievi – opportunamente sollecitate – e le espressioni libere tra loro, si renderà conto subito della lacune, delle smagliature che i bambini più fragili rivelano e cercherà in tempo reale, di modificare la propria strategia didattica, visto che quella utilizzata non ha dato i risultati sperati. Oggi infatti la scuola, anche per dettato esplicito, è diventata inclusiva perciò, parafrasando il bellissimo titolo di un film cinese “Non uno di meno”, nessuno può essere lasciato indietro. Questo cambio di strategia, sicuramente più laboratoriale, più operativa, ascrivibile spesso alla didattica del fare individualizzato, richiede al docente l’umiltà di una autointerrogazione: ho io a disposizione una strategia adatta? Cui seguirà l’autovalutazione che si concretizzerà nella risposta positiva oppure nella ricerca di una soluzione adeguata, per una opportuna autoregolazione.

Si tratterà di rivolgersi prima di tutto ai colleghi, all’interno della “comunità professionale di docenti”, poi di fare una ricognizione su Internet, o nelle librerie specializzate. Richiedere formazione specifica al proprio DS, e poi al collegio per l’approvazione, potrebbe essere una soluzione valida per tutti.

E pensare che addirittura nei programmi del 1985, quindi all’interno del testo legislativo, emanato dopo la Legge 517, all’ultimo capoverso del paragrafo intitolato “Valutazione” si trova scritto: “L’attività di programmazione e verifica deve consentire agli insegnanti di valutare l’approfondimento della loro preparazione psicologica, culturale e didattica anche nella prospettiva della formazione continua.” Il riferimento alla formazione continua sfonderebbe una porta aperta se qualcuno inevitabilmente ogni volta non si mettesse di traverso.  

Processi non solo prodotti

Per poter affrontare la questione in modo efficace bisogna imparare ovviamente a focalizzare il processo per cogliere i passaggi cruciali, senza il superamento dei quali l’insuccesso diventa purtroppo inevitabile. Si è reso possibile questo cambio di prospettiva perché – crediamo sia opportuno ricordarlo – durante gli anni 60/70 in America il neo-comportamentismo skinneriano era stato soppiantato dal cognitivismo, il cui padre simbolico era stato Bruner. Il cognitivismo aveva posto il focus delle sue ricerche sui processi cognitivi.

Insieme alla ricerca sui processi cognitivi e metacognitivi, sarebbe molto utile anche dare un’occhiata agli stili di apprendimento, ugualmente citati nelle Linee Guida. Gli stili di apprendimento sono diversi da quelli cognitivi, ascrivibili anche a tratti di personalità, che consistono in modalità diverse di categorizzare la realtà.

Gli stili di apprendimento invece sono delle tecniche preferite o prevalenti di funzionamento della nostra mente quando si trova ad affrontare nuove informazioni per nuovi apprendimenti. Ci possono offrire delle indicazioni utili perché esistono stili più visivi o più uditivi oppure cinestetici. Mi pare degna di nota questa ultima modalità perché offre spunti interessanti in quanto ci informa che chi è portatore di questo stile ha bisogno di “toccare“ oggetti e di muoversi, modalità attuabili con attività strategiche laboratoriali. Lo stile potrebbe includere modalità alternate o comunque multiple. Per garantire l’aspetto inclusivo della didattica bisognerebbe scoprire di quale stile di apprendimento sono portatori i soggetti più fragili ed inserire nella propria prassi dei sussidi adeguati.

Speriamo che prima o poi si riesca nell’impresa di realizzare un vero e proprio apprendimento trasformativo da parte di tutti i docenti della scuola primaria, augurandoci poi che questi possano contaminare tutti gli altri.

Chi riuscirà però a far accettare dalla mente dei docenti che una valutazione negativa, comunque, per quanto attiene il primo termine del binomio insegnamento-apprendimento, è da ascrivere alla propria responsabilità? Per come imposto la didattica; per quanto stempero le difficoltà per renderle affrontabili; per quanto mi sono formato sentendomi sempre moderatamente inadeguato ed ho quindi apprezzato la zona  dello sviluppo prossimale di vigotskiana memoria, applicandola sempre quando possibile; per quanto coinvolgo i ragazzi attraverso una relazione suggestiva con il sapere; per quanto io docente possiedo una motivazione alla “padronanza” nel mio lavoro e non solo alla “prestazione” per cui, dopo aver fatto le mie ore di lezione non mi sento a posto ma desidero sempre migliorare.
Per quanto attiene poi l’apprendimento dell’allievo è ovvio che emergono anche le sue responsabilità e le sue motivazioni e nello sfondo quelle della famiglia.
In altri termini, come si fa a non capire che la professione dell’insegnante, in quanto formatore, è una professione che non può smettere mai di mettersi in discussione e di adottare per questo una raffinata continua riflessività?

Ultima raccomandazione ai docenti della scuola secondaria

I voti numerici assegnati in calce alle varie verifiche, scritte od orali, vengono ricevuti dagli allievi ed utilizzati subito per anticipare quella famigerata “media aritmetica”, con cui viene prevista da parte loro la promozione o la bocciatura. La consuetudine di applicare questo tipo di media da parte dei docenti, dal punto di vista docimologico, è un obbrobrio. D’altro canto l’esperienza registra che di conseguenza nessuna attenzione viene riservata dagli allievi all’azione importante e basilare del recupero dell’errore. L’argomento del recupero dell’errore introduce la differenza tra “sbaglio” ed “errore” e la rispettiva differenza tra “esercizio” e “problema”.

Questa tematica apre il fronte interessantissimo, anticipato da H. Gardner[4] e ripreso più recentemente da Wiggins, della necessità urgente che la scuola abbandoni la strada della ricerca affannosa solo delle risposte esatte (comode per l’assegnazione dei voti numerici), ma astratta, disincarnata, scolastica, fine a se stessa, ed intraprenda quella della comprensione profonda considerata da Wiggins[5] la “competenza essenziale”.

Egli infatti dice: “Se una conoscenza o un’abilità non diventa lettura e comprensione della realtà, difficilmente si trasformerà in significativa o flessibile o in comprensione profonda. Per comprensione si intende una conoscenza pregnante, posseduta ed integrata in modo da poter essere facilmente utilizzata in contesti diversi, nei quali essa serva a chiarire una situazione o un problema.”
A tale proposito già H. Gardner aveva affermato”La scuola invece persegue il compromesso delle risposte esatte ed usa i voti come moneta falsa, come il denaro dei Monopoli!”
Se i “giudizi sintetici” possono essere facilmente assimilabili ai voti credo che la deduzione sia già pronta e scodellata.

Un’ultima ma utile raccomandazione: qualunque sia la decisione finale del Ministro Valditara e dei suoi consiglieri, carissimi docenti della scuola dell’obbligo, ricordatevi che l’unica àncora di salvezza è la valutazione formativa, giustificata per legge, invocata dalla psicologia dell’apprendimento di matrice socioculturale vigotskiana, utilizzata per sostenere e incoraggiare tutti gli alunni.
Come atto “intermedio” e “finale” concedete pure il contentino del giudizio sintetico.

Intanto però la scuola autenticamente inclusiva è salva.

[1] Gattullo M.,Didattica e docimologia-misurazione e valutazione nella scuola,Armando Armando editore,Roma,1968
[2] M.S.,The Methodology of Evaluation, in R.Tyler,R.Gagnè,M.Scriven,Perspedtives of curriculum Evaluation, Chicago,Rand McNally & Co.,1967
[3] Vertecchi B.,Valutazione formativa,Loescher,Torino,1976
[4] Gardner H. Educare al comprendere, Feltrinelli,2002, Milano
[5] Wiggins G.,McTighe J., Fare progettazione. La teoria di un percorso per la comprensione significativa.LAS-Roma,2004




Ma esiste ancora la laicità della scuola?


di Cinzia Mion

Il testo che segue non è recente, anzi è datato. L’aspetto sconvolgente però è che è ancora di estrema attualità.
Non ho cambiato una virgola. Potrebbe essere stato scritto stamattina dopo i fatti di Pioltello o di Altavilla (messa pasquale in orario scolastico) in cui ancora una volta è sotto assedio un dirigente scolastico che cerca solo di far rispettare la Legge.

 

 

 

Diceva Guido Calogero, in tempi non sospetti, e precisamente nel 1955, che la fondamentale legittimità della difesa della laicità della scuola consiste nel fatto che un’educazione condotta, comunque, in base a certi orientamenti dottrinali presupposti come indiscussi, o discussi in maniera insufficiente, crea uomini moralmente e civicamente meno solidi di un’educazione la quale non presupponga alcun tabù ed alleni continuamente i giovani all’attenta e rispettosa discussione di qualunque idea e fede, propria ed altrui. D’altro, canto aggiunge sempre Calogero, il laicismo (parola che non ha un’accezione dispregiativa come si vuol far credere ultimamente) consiste nel fatto di non accettare mai, in nessun caso, l’organizzazione e l’esercizio di strumenti di pressione religiosa o politica o sociale o morale o economica o finanziaria al fine della diffusione di certe idee, e di procurare invece, sempre più, l’equilibrio della loro possibilità di dialogo individuale (G.Calogero “Che cosa vuol dire scuola laica?,in “Mondo”, dicembre 1955).

Calogero, noto come il filosofo del dialogo, fondatore con Aldo Capitini del movimento liberal-socialista è stato tra i protagonisti della cultura laica nel dopoguerra. Norberto Bobbio lo ha ricordato poco tempo prima di morire come suo maestro su la “Stampa” (21 dicembre 2001).

Oggi il laico, che voglia intraprendere tale dialogo con le gerarchie ecclesiastiche, si accorge subito che non è possibile perché queste si professano attualmente i custodi dell’ortodossia della ragione non solo filosofica, come è stato per secoli, ma anche della ragione scientifica, cioè della ragione applicata alle scienze naturali.
Scrive Gustavo Zagrebelsky, a tal proposito, che il dialogo tra la Chiesa e un non cattolico è impossibile perché quest’ultimo interlocutore, per le gerarchie, è “uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno” (da Repubblica 10 gennaio 2007: G.Zagrebelsky , Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?)

Di tale convinzione potrei portare testimonianza personale attraverso alcuni aneddoti significativi, che non è però il caso di trattare in questa sede, ma in cui espressamente mi è stato detto che una persona che crede ”vale” di più di una che non crede. L’altro giorno il vescovo di Terni ha affermato che un cattolico “è un laico con una marcia in più”!

Di fronte poi al sempre più accentuato e diretto atteggiamento interventista della Chiesa nelle vicende politiche italiane, tanto da far scrivere a Miriam Mafai, sei anni prima della sua scomparsa, un articolo allarmato dal titolo” L’assedio allo stato laico”(in Repubblica, 6 gennaio 2006): “…si sta offrendo da parte di politici particolarmente sensibili alla laicità (non ne sono rimasti molti per la verità) la questione se siano ancora presenti le condizioni concrete di vigenza del Concordato, minato nelle sue basi di legittimità”

La revisione infatti di quest’ultimo, correva l’anno 1984, ricordava solennemente nel preambolo, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla Costituzione (tra cui la laicità dello Stato), e da parte della Santa Sede le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti tra la Chiesa e la comunità politica.

Scrive Zagrebelsky che un mutamento d’identità dell’uno o dell’altro contraente, contro la Costituzione o contro la dottrina del Concilio, travolgerebbe il Concordato, corrodendone le basi di legittimità.

Laicità della scuola statale

Per chi dovesse nutrire ancora dei dubbi sulla laicità dello stato, e di conseguenza della scuola statale, ricordo la sentenza della Corte Costituzionale del ’11 e 12 aprile 1989 che, interrogata proprio in materia scolastica, si pronuncia in modo incontrovertibile affermando: “I valori richiamati (att.2, 3, 19) concorrono con altri ( art.7, 8, 20 della Costituzione) a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma dello Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica.

Nessuno pensa o afferma che la Chiesa non possa pronunciarsi in qualsiasi materia per enunciare i suoi principi cristiani ma queste pronunce sono destinate alla coscienza dei credenti. Allorquando queste abbiano la pretesa di condizionare i comportamenti dei politici dello Stato italiano siamo di fronte ad una ingerenza che viola i principi del Concordato. C’è da chiedersi semmai di quale tempra siano quei politici che ostentando opportunismo sono pronti ad asservirsi, facendo finta di non rendersi conto che insieme ai molti privilegi riconosciuti dal Concordato alla Chiesa, si permette a questa una ingerenza arrogante anche all’interno della scuola..

Da parte infatti delle gerarchie ecclesiastiche viene richiesto l’appoggio politico per tali comportamenti, approfittando della sudditanza morale di alcuni nostri rappresentanti che non sanno più riconoscere l’orgoglio della cittadinanza e da tempo non assaporano la fierezza che dona il “tener la schiena dritta”.  Quasi sempre tale prassi si accompagna alla strumentalizzazione dei genitori che ignorano la normativa e ci si scandalizza di fronte alla resistenza di qualche dirigente scolastico che non si lascia manipolare e si oppone alle ingerenze.

Mi riferisco ai recenti fatti accaduti in Italia su cui la stampa si è fiondata, dimostrando una ignoranza colpevole, a proposito della richiesta di alcuni parroci o vescovi di venire in orario scolastico nelle nostre classi ad elargire atti di culto (benedizioni, recitazione di preghiere, messe d’inizio anno o di fine anno, visite pastorali camuffate da incontri neutri, ecc)

Ora noi persone di scuola sappiamo benissimo, ed ancora meglio lo sanno i Vicari Diocesani, che però ci mettono alla prova per saggiare la nostra tempra, che con la revisione del Concordato questi atti di culto sono stati banditi dalla scuola che invece ospita le famose ore facoltative di “cultura religiosa”.
Io penso che sia grave violare una legge pattizia.
Penso anche che se viene fatto, cercando di circuire le persone dotate di un fragile senso dello Stato o di una indifferenza che privilegia il quieto vivere, come minimo ciò deve avere un prezzo.

Si vuole non riconoscere più il Concordato? Lo si faccia, tanto è ormai svuotato del suo significato da ambo le parti. Il mio timore è che con l’aria che tira possa venire legittimata ancora di più la cosiddetta potestas indirecta del tempo della Controriforma, introdotta dall’allora cardinale Bellarmino, che rendeva lecita l’ingerenza della Chiesa sulla competenza dello Stato, ogni volta che questa ravvisasse una ragione religiosa .

Mi sbaglio o queste affermazioni le abbiamo ri-sentite di recente?
Riuscirà il nuovo papa, già noto per il suo anticonformismo, ad invertire la rotta?

L’etica del limite

Io credo che alcuni dei conflitti di tipo politico-religioso, oppure scaturenti da contrapposizione tra schieramenti politici, caratterizzati oggi da alcuni rigurgiti volgari e chiaramente esorbitanti dalla comune modalità di un dialogo civile, anche se acceso, siano tutte situazioni che continuano ad avvitarsi su se stesse perchè è venuta a mancare l’etica del limite.
L’etica del limite intesa nel senso sia dell’autocontenimento ma anche della categoria dei confini.

 Il neonato evolve verso il riconoscimento di sé nella misura in cui impara a separarsi dalla madre. Nella misura in cui, attraverso un processo di separazione-individuazione, comincia a percepire se stesso ed i suoi confini, che all’inizio saranno solo corporei, poi un po’ alla volta saranno sempre più riconducibili al sé vero e proprio, tale perché diverso dall’altro da sé.

Tutte le relazioni interpersonali dovranno poi, pena il rischio della simbiosi, deleteria e minacciosa per il sè, essere contraddistinte da questi famosi confini tra sé e l’altro.
Confini che non dovranno essere impermeabili o troppo rigidi altrimenti è in agguato una qualche forma di autismo o l’indifferenza verso l’altro oppure, speciale malattia dei nostri tempi, il narcisismo patologico.

Mi riferisco al sé grandioso che si autoesalta e perde di vista non solo l’altro ma anche la realtà (come sta accadendo a livello apicale della politica…)
Siamo di fronte pur sempre ad un problema di mancanza di confini o di assenza di limiti.
Questo per quanto attiene l’aspetto soggettivo, individuale.

Accennavo prima all’ autocontenimento, mi riferisco a quello mentale.
Per esempio anche  l’adolescente che non rileva i limiti della  sua trasgressione, (quale trasgressione può essere accettabile quale invece va oltre i limiti) non è in grado di attivare un autocontenimento mentale il più delle volte perché i genitori, a loro volta, non lo hanno contenuto mentalmente quando, nella fase dell’opposizione (dai 18 mesi in poi) , incapaci di offrire un solido e valido contenimento mentale alla rabbia del piccolo sono andati in tilt  temendo il conflitto con un bambino di meno di due anni.

Oggi i protagonisti dei conflitti alla ribalta sono però tutti adulti, vaccinati e responsabili più della gente comune perché quasi sempre ricoprono cariche pubbliche.
Il problema, come dicevamo, è anche quello che osserviamo nello scenario della politica dove le gerarchie ecclesiastiche  esorbitano  dai loro confini, non con messaggi spirituali, sempre ben accetti,  ma come ingerenza vera e propria,  condizionando le decisioni  politico-civili,  forzando le scelte attraverso lo spauracchio della sottrazione del consenso (problema questo, ahimè, che denota un tasto debole oggi della democrazia), e  scendendo  in campo invadendo i confini dettati dalle norme concordatarie che  regolano l’espressione della religione nelle istituzioni pubbliche.

Come già ripreso all’inizio del presente contributo, mi riferisco soprattutto alla scuola e alle polemiche sull’ora di religione, sui crocifissi, sulle funzioni religiose e benedizioni in orario scolastico, ecc.
La via che si segue è quella della strumentalizzazione del senso comune della gente che può non sapere che la Costituzione ha trasformato uno stato confessionale in una Repubblica democratica laica- e la Scuola è una istituzione della Repubblica- che può non sapere che la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa ha rivisto le norme che regolano la religione a scuola, che può non sapere quali sono i confini tra religioso e culturale, tra sacro e non sacro, tra tradizione e consuetudine, tra innovazione e cambiamento.

 C’è però chi questa distinzione la conosce e sono i soggetti che ricoprono una carica pubblica (altrimenti chi ha permesso loro di accedere a ricoprirla?) e se queste persone non intervengono a spiegare ai portatori di “senso comune “ – che non sono tenute ad avere le idee chiare,  ma hanno il diritto ad  avere qualcuno che gliele chiarisca – quale confine esista tra i termini del problema, significa che manca l’etica pubblica in generale,  in questo caso l’etica del limite.

L’etica del limite che dovrebbe impedire che si strombazzino tali macroscopiche falsità,  (Mario Pirani  parla della “Perdita della verità”) che si sobilli impunemente la gente, che si permetta, anzi si faccia in modo, che questa  rimanga nell’ignoranza (nel senso dell’ignorare) pur di cavalcare umori discutibili,  che si attivino trasmissioni televisive nell’orario di maggiore ascolto,  come il primo pomeriggio della domenica (sia tv pubblica che privata…) invitando i più sciamannati (incrocio tra sciamano e scalmanato…!)  che in questo momento si rendono disponibili a parlare (pardon ad urlare) a favore, per esempio del crocifisso, con un pubblico che accompagna il tutto con un tifo da stadio.

La questione che ancora qualche sindaco leghista sta cavalcando, nell’ignoranza generale purtroppo, anzi nell’indifferenza generale, è quella appunto del crocefisso.

Non si ascoltano i teologi che si affannano a spiegare che il crocifisso non può essere definito semplice simbolo culturale ma che per la religione cristiana (la croce) e per la religione cattolica (il Cristo in croce) non sono solo simbolo religioso ma la quintessenza delle religioni cristiane.
Questi sono i confini che andrebbero rispettati se si avesse l’etica del limite.

Ha ragione U.Galimberti  che afferma che oggi  abbiamo de-sacralizzato il sacro?
E che dire delle stesse gerarchie ecclesiastiche che permettono, e qualche volta si fanno veicolo, di questa de-sacralizzazione come quando appoggiano chi dice, a proposito della benedizione a scuola, che in fondo “dura solitamente pochissimi minuti e non richiede particolari preparativi, né lascia tracce visibili”? (vedi sentenza del TAR Umbria 677 del 30 dicembre 2005).
Se si toglie alla religione il senso del “rito” e del “simbolo” cosa rimane di essa?

Il problema è proprio questo: che pur di “marcare” il territorio, pur di farne una questione di potere (anche qui varcare i confini per affermare se stessi attraverso un simbolo usato spesso come una vera e propria  clava) molti sono disponibili a declassare il crocifisso a simbolo culturale o peggio ad annoverarlo tra gli arredi oppure ad affermare “c’è sempre stato, che male c’è, svalutando talmente la sua presenza tanto da non farlo emergere dallo sfondo: geroglifico sul muro ormai dimenticato.
Mi chiedo se chi crede veramente sia così disponibile a tollerare tutta questa pesante strumentalizzazione in nome del crocifisso, senza sentirsi dolorosamente un po’ ferito come quell’uomo in croce.
Cosa dovrà ancora succedere in nome del potere e del consenso, carpito sulla buona fede della gente semplice, perché possa farsi sentire con voce forte l’etica del limite?

Differenza tra identità e identificazione

La cultura religiosa, che viene collocata nell’ambito della scuola, si presume che venga patrocinata per realizzare unidentità forte e coesa ispirata ai valori religiosi della religione della maggioranza del Paese.
Per quanto attiene tale obiettivo bisogna però individuare la differenza tra “identificazione” ed “Identità” facendo ricorso alla psicologia che individua l’identificazione come un percorso che sostiene il primo nucleo della crescita personale che poggia sulla somiglianza, ed un secondo momento che poggia invece sulla differenza, ineludibile per il passaggio autentico all’identità.
Anche l’identità sessuale obbedisce a questo processo: identificazione con lo stesso sesso e differenziazione dal sesso opposto.

E.Erikson afferma che l’acquisizione di un’identità, sia sociale che psicologica, sia un processo complesso che comporta una definizione per somiglianza con certuni e per differenza con altri.
L’identificazione è invece un processo più debole perché dettato dalla dipendenza e dalla ricerca dell’assimilazione; l’identità invece implica una maturazione più solida e consapevole, in grado di argomentare i motivi della posizione assunta.
Vogliamo un risultato solido, in grado di reggere agli urti della cultura post-moderna oppure una assimilazione identificatoria, prodotto inconsapevole dell’etnocentrismo culturale?
Se questa è la base della maturazione dell’identità nessuno dovrebbe opporsi alla inclusione, tra le materie obbligatorie per tutti, di una disciplina che solleciti la conoscenza delle principali religioni (le tre grandi monoteiste ma anche quelle principali del mondo indiano e cinese) che potrebbe andare sotto la denominazione di “conoscenza dei fatti religiosi”, come aveva previsto in un primo tempo la commissione incaricata di realizzare i Nuovi Programmi per la scuola elementare (1982-84), ma che dopo la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” ha dovuto, a maggioranza, cedere il passo a ”religione” ineludibilmente solo cattolica, con i conflitti successivi che tutti conosciamo.
La nostra ignoranza per quanto attiene le altre religioni è abissale ed in una società multietnica, multiculturale e multi religiosa, sottovalutare questo aspetto è colpevole oltreché stupido, perché sottrae occasioni di autentico confronto riducendo tutto soltanto alla sollecitazione del consenso.

Questo depotenziamento delle occasioni di dialogo interreligioso appare inoltre rischioso nei confronti della creazione di un terreno facilmente occupabile da vecchi e nuovi fondamentalismi.
Soltanto chi persegue il proselitismo può temere il confronto ma allora non si parli di identità ma soltanto di identificazione.
Questa posizione è anche di chi crede di essere aperto e democratico se propone l’ora di religione musulmana, fra l’altro garantendo in questo modo che non venga toccato il peso che ha oggi la religione cattolica nella scuola italiana.

Orario della lezione di religione

Sulla questione dell’orario è presto detto: come si fa a sostenere che una disciplina facoltativa, i cui programmi sono realizzati non dallo Stato italiano, ma dalla Cei, che quindi non riguarda, come tutti i programmi scolastici, l’ambito della conoscenza, ma quello delle scelte confessionali, e quindi attiene ai dati sensibili, venga lasciata dentro all’orario obbligatorio delle lezioni?
Non mi si venga a dire che si tratta solo di cultura religiosa aconfessionale (perché allora i docenti devono avere l’approvazione del vicario diocesano?)
Nessuno si è posto la questione della disparità di trattamento nei confronti di chi non si avvale?

E non mi si venga a dire che ci sono le attività alternative, attività quasi subito svalorizzate, ridotte a qualcosa di insignificante o addirittura sparite senza che nessuno invochi più la par condicio come è avvenuto, nel senso contrario però  all’inizio (vedi la circolare ministeriale che negli anni successivi alla revisione del concordato diffidava dall’assegnare queste attività a docenti della classe per timore che gli studenti che le sceglievano venissero avvantaggiati rispetto a quelli che avevano invece optato per la religione cattolica, dimenticando che alla scuola elementare spesso erano gli stessi insegnanti di classe che con il benestare della Curia potevano farlo, senza che nessuno gridasse che non c’era par condicio!!!)

Il problema notevole consiste nel fatto che è stato addirittura il Consiglio di Stato, con una decisione come spesso avviene prona ai voleri del governo di turno, a sua volta timoroso del Vaticano, (nessuno si salva!), a legittimare la scelta di tenere dentro all’orario obbligatorio questa disciplina facoltativa. Secondo me sta qui il bubbone ma si capisce che ciò tocca interessi macroscopici di potere economico e di consenso politico.

Se fin dall’inizio si fosse presa la decisione onesta: conoscenza dei fatti religiosi, obbligatoria per tutti nell’orario curricolare, e scelta invece facoltativa sui relativi programmi confessionali fuori dall’orario obbligatorio, oggi potremmo parlare con più serenità dell’opportunità o meno di garantire anche altre confessioni religiose, all’interno della scuola pubblica statale.
Ricordiamo che la garanzia di mantenere l’opportunità dell’insegnamento della religione cattolica,  facoltativa  nelle scuole statali italiane è nei Patti Lateranensi, revisionati nel 1984,  dove però non si parla di collocazione oraria..

L’ultima riflessione riguarda l’alibi dell’integrazione.
Chi, per avvalorare la bontà di creare un’ulteriore separatezza a scuola (cattolici da una parte, musulmani da un’altra, agnostici o altre religioni nei corridoi), invoca l’integrazione o è in malafede oppure ignora appunto cosa avviene a scuola. Noi sappiamo che l’integrazione avviene solo attraverso l’interazione (v.Premessa Nuove Indicazioni) che offre l’opportunità della conoscenza reciproca per mezzo del confronto, che rivela aspetti che accomunano e aspetti che differenziano.
Solo la conoscenza dissipa il pregiudizio e il timore: i veri nemici dell’integrazione.

Se, invece di far capire all’interno della comunità di apprendimento che la spinta religiosa accomuna l’uomo nel tempo e nello spazio,  sia pur approdando a fedi diverse oppure ad agnosticismi diversi, si separano i ragazzi togliendo loro tutte le opportunità di interazione in questo campo-  che sembra ancora una volta nel mondo il maggiore argomento di inconciliabile divisione e scontro- che avvenire prepariamo ai nostri ragazzi che abiteranno un futuro, che almeno io auspico,  diverso e migliore del nostro?




Col senno di poi, ovvero Santa Franca (Falcucci)

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Cinzia Mion

A bocce ferme, dopo il tormentone dell’emendamento del governo che prevede alla scuola primaria, dall’anno scolastico prossimo, il cambiamento dei giudizi descrittivi e il ripristino di quelli sintetici (da insufficiente a ottimo) di fatto annullando le Linee Guida del 2020, mi ritrovo a fare alcune considerazioni.
Con la prima desidero ricordare come l’unica riforma che abbia rispettato un primo periodo di applicazione facoltativa sperimentale, con successiva raccolta dei dati e delle osservazioni critiche per poterla aggiustare in itinere, sia stata la famosa L.148/90, meglio nota come la “riforma dei moduli”, firmata dalla Ministra Falcucci! ( con il senno di poi molto rimpianta, com’ è fra l’altro in un certo senso avvenuto con la sua circolare famosa n° 227 del 1975 che ha anticipato i contenuti della L.517 ben due anni prima!)

Io allora ero Direttrice Didattica a Conegliano, 2° circolo e rammento il fermento innovativo e il desiderio di mettersi in gioco di insegnanti che hanno contagiato gli altri di fronte alla sfida di superare la figura del maestro unico!
Ricordo pure che dopo 2 anni sono passati gli ispettori tecnici per intervistare i docenti e raccogliere punti di forza e punti debolezza della riforma che soltanto l’anno successivo è stata resa obbligatoria con i debiti aggiustamenti.
Come mai questa prassi non è più stata ripresa e soprattutto non è stata applicata rispetto al dispositivo di cui stiamo parlando? Forse, con il senno di poi, si sarebbero potute snellire nel tempo certe modalità troppo burocratizzate e vincolanti che hanno affaticato inutilmente gli insegnanti strada facendo, in qualche caso irritandoli. Ho trovato a volte anche da parte nostra, di teorici della scuola e dell’insegnamento, un po’ supponente considerare certi segnali di insofferenza senza dare loro credito. E’ come se, galleggiando sopra ai problemi, in preda all’enfasi scaturita dall’abolizione sacrosanta dei voti numerici, qualche volta pontificassimo evitando di dare dei colpi di sonda dentro alla realtà in sofferenza del corpo docente. Mi metto tra questi con grande rammarico …

Come mai al Ministero non solo non si mette più in atto ma pare che non si conosca nemmeno il termine “sperimentale”, con quel che avrebbe dovuto comportare?
In questo caso poi Le linee guida sono uscite a dicembre e l’applicazione obbligatoria per tutti i docenti della primaria è stata a partire dal primo quadrimestre!!!

La seconda considerazione, direttamente conseguenza della prima è: ma come si fa ad avviare una riforma della valutazione dopo che dal 1977 ad oggi non riesco nemmeno a contare quanti siano stati gli interventi legislativi su questo argomento, senza ottenere mai un radicale cambiamento nella mente dei docenti perché non si tiene conto che nel loro “cervello” sono imbullonati i voti numerici difficili da estirpare, se non con una formazione “trasformativa” e non semplicemente addestrativa. Il riferimento non contiene un cenno offensivo nei confronti dei docenti ma soltanto un richiamo ai “neuroni specchio” che nel corso degli anni hanno  contraddistinto l’esperienza valutativa subita durante tutta la loro esperienza scolastica e universitaria. E’ successo a tutti noi, nessuno escluso. E non solo per la valutazione ma anche, purtroppo, per la didattica trasmissiva!

La terza considerazione riguarda la “valutazione formativa”, l’unica che potrebbe  estirpare questa consuetudine del voto soggiacente ad ogni tipologia di valutazione illusoriamente innovativa.
La domanda essenziale allora che dovremmo farci espressamente è: perché , a partire dalla formazione iniziale dei docenti, tranne qualche volta in quella per la scuola primaria per ragioni comprensibili ma che qui non è il caso di affrontare, non si provvede ad attivare in loro la competenza all’autointerrogazione  e all’autovalutazione? Aspetti questi fondamentali per arrivare ad applicare la valutazione formativa consistente nell’autoaggiustamento del docente della propria strategia metodologico-didattica, in presenza di difficoltà di comprensione e apprendimento dell’allievo. Ovviamente, in un gioco di specchi, ci viene da rispondere che nemmeno l’Università è in grado ( o si rifiuta di farlo?) in questo momento storico di “autovalutare” il proprio lavoro formativo in funzione della  professionalità docente. Da quando è stata chiusa la SSIS chi si cura oggi di offrire ai futuri insegnanti, oltre alle competenze disciplinariste, i fondamentali della psicopedagogia che permetteranno di cogliere la tipologia e la significatività del loro insegnamento in rapporto al tipo di apprendimento sollecitato? Chi si cura di far corrispondere all’apprendimento desiderato le strategie didattiche adeguate? Presso la formazione iniziale dei docenti della secondaria dove sono le attività di tirocinio, i laboratori e le esercitazioni pratiche, all’interno del percorso formativo, che dovrebbero permettere ai docenti universitari di comprendere se le conoscenze apprese dalle “dispense teoriche“, su cui hanno valutato già gli studenti, si sono effettivamente incarnate in competenze? Solo chi  sa applicare su di sé l’autovalutazione potrà insegnare a farlo fare agli altri perché padroneggia le competenze autoriflessive e metacognitive necessarie e le può quindi rendere esplicite attraverso un “apprendistato cognitivo” realizzato allo scopo (metodologia neovigotskiana).

E’ per questo motivo che io sono convinta che prima di sollecitare l’autovalutazione dell’allievo, con dei giustissimi feedback formativi, l’insegnante deve imparare ad autovalutare se stesso ma deve incontrare una Università che glielo insegna.

Conclusioni

E’ dal 1977 che la normativa sollecita la “valutazione formativa” in tutte le salse senza però avere l’opportunità di  riconoscerne l’applicazione nella scuola reale.
Quale migliore occasione allora di ripartire da questa (su cui perciò non esiste purtroppo nessun rischio di implementazione da “neurone-specchio”perché difficilmente ha visto la luce!) per poi individuare il miglior modo più efficace, per l’apprendimento dell’allievo, dell’inevitabile  successiva valutazione sommativa. Quest’ultima è ovvio e naturale che rifiuterà i voti numerici docimologicamente inaccettabili (la formazione universitaria adeguata porterà a queste conclusioni) e suggerirà invece delle modalità agili, comprensibili a tutti ma soprattutto utili all’allievo per migliorarsi. Le modalità terranno in considerazione i progressi avvenuti, quindi il punto di partenza: “criterio” questo che differenzia qualsiasi osservazione “misurativa” dalla vera e propria attività “valutativa” che deve contenere sempre, come esplicita il termine, il risultato di una riflessione ad hoc. Mai quindi  essere un atto solo “riflettente”. Il tutto si accompagnerà con un costante “processo di incoraggiamento”, facendo leva sulle motivazioni intrinseche per incentivare il soggetto a migliorarsi, senza mortificazioni inutili e dannose. A tale proposito ricordiamo la forza trainante “dell’autoefficacia” che avremo cura di far provare a tutti gli alunni attraverso didattiche dapprima individualizzate, per il raggiungimento delle competenze di base, e poi personalizzate.   Ricordiamoci sempre che solo a ridosso delle scadenze delle valutazioni formali (intermedia e finale) saremo costretti a lasciar perdere, nostro malgrado, le sollecitazioni nella “zona di sviluppo potenziale”, per sostenere (scaffolding) l’allievo al livello successivo di competenza, visto che è in procinto di arrivarci.
Per riprendere tale prassi appena possibile. E’ questo il fascino gratificante per tutti, allievi e docenti, della “valutazione formativa”, questa  sconosciuta! Anche se citatissima nei testi legislativi ma trascurata, fraintesa e qualche volta pure presa in giro nella prassi!

E’ questo il cuore pulsante dell’insegnamento in una scuola che aspiri e desideri definirsi “inclusiva”.