L’avvelenata scolastica. Ballata per trombone e ocarina

di Mario Maviglia

Facciamola finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false
che avete spesso fatto del qualunquismo un’arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese.
(F. Guccini, Cirano)

Avvertenza per il lettore: questo intervento è fazioso, politicamente scorretto e a tratti irriverente. Il titolo richiama esplicitamente L’avvelenata di Guccini, anche se i contenuti, almeno in parte, sono più affini al suo Cirano. Si può decidere di chiuderla qui e non andare oltre nella lettura. Nessun problema, ma vi precludete la possibilità di sapere chi sia il trombone e chi l’ocarina…

In questi giorni abbiamo sentito molti personaggi pubblici, commentatori e soprattutto uomini politici indignarsi per le condizioni in cui versa la scuola italiana. E in effetti la vicenda del coronavirus ha portato alla ribalta una situazione tutt’altro che rosea (leggasi vergognosa) della scuola, sia sul piano delle strutture che su quello del livello di qualità della didattica.

Riguardo al primo punto si è scoperto (udite, udite!) che le scuole non hanno spazi sufficienti per fare lavori di gruppo (e infatti la pratica del lavoro di gruppo nella scuola italiana è tanto diffusa quanto la polidattilia tra la popolazione) e dunque le istituzioni scolastiche si sono trovate in gravi difficoltà ad organizzare il servizio scolastico durante la pandemia. Ricorderete che recentemente si è parlato di utilizzare altri spazi pubblici come aule scolastiche (musei, teatri, giardini pubblici ecc.), ma per far svolgere le ultime elezioni amministrative del 20-21 settembre 2020 si è fatto ricorso, come sempre, ai locali scolastici. Troppo impegnativo trovare soluzioni alternative e poi un giorno in più o in meno di scuola non cambia molto (leggasi chi se ne frega della scuola).

È emerso un altro dato incredibile per la scuola italiana: esistono ancora le cosiddette classi pollaio! E questo elemento ha fatto gridare allo scandalo ai nostri preoccupati osservatori, in quanto i requisiti del distanziamento sociale, richiesti dalle misure preventive contro il coronavirus, non possono essere rispettati se vi è un numero eccessivo di alunni per classe. Eppure è da anni che dirigenti scolastici e docenti denunciano questa situazione Addirittura in piena pandemia sono state costituite classi con più di 30 alunni in non poche scuole superiori.

Ma è l’insieme del patrimonio edilizio scolastico e delle relative infrastrutture che hanno mostrato non poche défaillance (leggasi problemi indecenti), peraltro noti da tempo agli addetti ai lavori: edifici squallidi e inadeguati a svolgere un’attività didattica inclusiva e attrattiva; infrastrutture tecnologiche inadatte; rete telematica inefficiente e sottodimensionata a reggere il flusso di dati mobilitato dalla didattica a distanza. A ciò si aggiunga una scarsa dotazione informatica da parte di molte famiglie e una preparazione dei docenti non sempre in grado di utilizzare al meglio la didattica a distanza. Tutti problemi noti da tempo, ma i soloni nostrani sono stati illuminati sulla via di Wuhan.

C’è da chiedersi dove fossero tutti questi personaggi (e soprattutto i politici) quando hanno consentito (o addirittura promosso) i tagli selvaggi alla scuola. Nel periodo 2011-2013 (ministra Gelmini) vi è stato un taglio di 81.120 cattedre e 44.500 Ata, ossia quei docenti e Ata reclamati oggi a gran voci dalle stesse forze politiche che con solerzia ragionieristica si sono prodigate a tagliarli all’epoca. Inutile dire che queste unità di personale in più oggi avrebbero potuto gestire in modo molto più incisivo la drammatica situazione che si è determinata. Complessivamente sono stati tagliati 125.620 posti, con un risparmio di spesa di otto miliardi di euro[1], in un Paese che già destinava meno risorse all’istruzione rispetto ad altri Paesi, come dirò tra poco.

Se poi si considera più in generale il periodo dal 2009 al 2016 (governi Berlusconi IV, Monti, Letta, Renzi) si scopre che la spesa complessiva per l’istruzione in Italia è passata dal 9,21% della spesa pubblica al 7,81%. Certo, le giustificazioni non mancano: la crisi economica del 2000 che ha investito tutto il mondo industrializzato; il particolare debito pubblico italiano che non ha eguali negli altri Paesi avanzati; però non si comprende come mai in altri Paesi, come la Germania, nello stesso periodo la spesa per l’istruzione sia passata dal 10,19% al 10,93 e in ogni caso la media europea si assesta intorno al 10%[2]. In sostanza, anche nei periodi di crisi, altri Paesi non hanno toccato le risorse destinate all’istruzione, a differenza di quanto ha fatto l’Italia.

Probabilmente le ragioni di questo disinvestimento sulla scuola e sull’istruzione sono altre e sono da ricercare in primo luogo nel considerare l’istruzione una spesa più che un investimento e ciò porta a sottovalutare la funzione propulsiva che l’istruzione può svolgere anche per lo sviluppo economico del Paese[3]. Ci si dimentica che l’Italia non ha grandi materie prime, se non il suo patrimonio archeologico, artistico, paesaggistico e culturale. Eppure anche questo patrimonio, per essere convertito in ricchezza (leggasi per attirare turisti) ha bisogno di un adeguato know how, creatività, innovazione, in una parola di istruzione e formazione. Per non parlare di altri settori produttivi in cui la cifra che contraddistingue i prodotti italiani è la qualità, ossia l’insieme di gusto, creatività, innovazione, ossia, ancora una volta, istruzione e formazione.

Ai tanti politici nostrani che oggi mostrano sbigottimento e sdegno per la situazione in cui versa la scuola italiana bisognerebbe richiedere un po’ più di ritegno, considerato che probabilmente la categoria della vergogna non fa parte del loro corredo civile e politico. Non ci spingiamo fino a dire che si tratta “di gente infame, che non sa cos’è il pudore” (F. Battiato, Povera Patria), ma qualche dubbio sorge.

Grazie ai loro interventi di tagli forsennati oggi l’Italia detiene il triste primato in Europa per quanto concerne la dispersione scolastica (13,3% a fronte di una media UE del 10%), ed è penultima in UE per quanto riguarda il tasso di giovani laureati fra i 30 e i 34 anni (27,6% contro una media UE del 40%). Solo la Romania fa peggio di noi. Altri dati non esaltanti riguardano i giovani fra i 15-29 anni che non sono occupati e non sono in formazione (i cosiddetti Neet), che in Italia costituiscono il 23,4% dei giovani di quella fascia di età a fronte di una media UE del 12,9%.

Non va poi dimenticato che ancora oggi l’Italia destina all’istruzione un punto percentuale in meno del PIL rispetto alla media UE e che il divario Nord-Sud per quanto concerne i livelli di istruzione è ancora drammaticamente elevato tanto da determinare un’Italia divisa in due. Più in generale, è facile fare una correlazione tra i bassi livelli di sviluppo dell’istruzione e la scarsa crescita economica del Paese: non è un caso che l’Italia sia cresciuta meno degli altri Paesi UE, e continua a crescere meno.

Forse va preso atto che in questo Paese i problemi della scuola non costituiscono una priorità dell’agenda politica, probabilmente perché dando un’istruzione seria al popolo si corre il rischio di emanciparlo da quel rimbambimento che la TV commerciale (e la stessa TV pubblica in un’opera di emulazione e rincorsa al ribasso) nel corso di questi decenni ha condotto con pervicacia e con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. D’altro canto, F. De Sanctis già nel 1860 notava che “un popolo ignorante non ragiona, ma ubbidisce”, e in tempi più recenti E. Che Guevara sottolineava che “un popolo ignorante è più facile da ingannare”. Queste parole possono essere contrapposte a quanto diceva qualche anno fa un famoso ministro dell’economia (Tremonti), ossia che con la cultura non si mangia. E aveva ragione, ma noi aggiungiamo: con l’ignoranza ancora meno, con l’aggravante che si è più sudditi e meno cittadini.

Passata la pandemia, se vi saranno dei risparmi da fare, come sarà inevitabile (e dunque dei tagli alla spesa pubblica), provate a indovinare quale settore verrà sicuramente toccato. Non è difficile intuirlo, anche senza sforzarsi troppo. Ma fate in fretta: sta per cominciare il programma C’è posta per te… (leggasi TV spazzatura).

[1] https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-04-17/istruzione-anni-tagli-miliardi-081609.shtml?uuid=AaEl9gPD&refresh_ce=1
[2] P. Bianchi, Nello specchio della scuola, Laterza, Roma-Bari, 2020
[3] M. Maviglia, Sopravvivere a scuola. Manuale di istruzione, Edizioni Conoscenza, Roma, 2020




Per una politica scolastica “banale”

di Mario Maviglia

Avete presente quel gioco in cui vi si chiede di scegliere/salvare due-tre oggetti da portare con voi in un’isola deserta? Se dovessimo applicare questo gioco al nostro sistema scolastico la risposta è fin troppo semplice e scontata: le “cose” da salvare sono i docenti e gli studenti.
In fondo, a pensarci bene, se non ci sono gli alunni le scuole non possono esistere (e infatti chiudono, letteralmente, con il calo demografico), e gli alunni hanno bisogno di docenti che li seguano nel loro percorso di apprendimento.
Tutte le altre figure (dirigenti, provveditori, direttori generali, ministri ecc.) sono (dovrebbe essere) a supporto di questa primigenia relazione educativa, ma se non sono presenti nella nostra ludica isola, la scuola può funzionare lo stesso.
Quanto stiamo dicendo rasenta l’ovvietà, se non addirittura la banalità. Eppure è incredibile come nel nostro sistema scolastico questa asserzione così pleonastica, lapalissiana, prevedibile, banale, appunto, venga continuamente sconfessata nei fatti.

Non ci si lasci però trarre in inganno: la nostra non è una semplice boutade, ma costituisce (dovrebbe costituire) una sorta di programma politico-istituzionale che il Paese si impegna a realizzare. Il Paese nel suo complesso, e non solo le singole forze politiche o le coalizioni.
In altre parole, il tema “scuola” dovrebbe rappresentare un motivo di forte attenzione per ogni schieramento politico, indipendentemente dal colore ideologico. Di conseguenza, tutta la filiera “produttiva” e decisionale dell’apparato amministrativo e burocratico della scuola, ad ogni livello, dovrebbe – sciententemente e coscienziosamente – essere finalizzata a far sì che quella relazione primigenia funzioni in modo ottimale e consegua gli obiettivi prefissati, primo fra tutti quello di assicurare il successo formativo ad ogni studente
. Fuori da questo orizzonte vi possono essere anche delle buone azioni, ma rischiano non solo di configurarsi come fuorvianti rispetto all’obiettivo prioritario, ma anche di trasformare il sistema scolastico in un carrozzone burocratico o tecnocratico.

Prendiamo l’esempio dell’autonomia scolastica. L’idea di fondo che dovrebbe sollecitare le scuole ad assumere un ruolo più attivo e consapevole nel processo decisionale in ordine all’ambito curricolare, organizzativo, didattico e dell’innovazione, non risponde tanto all’esigenza di essere à la page rispetto ai temi dell’innovazione, quanto di soddisfare in modo più efficace ai bisogni educativi specifici di quell’utenza, inserita in quel contesto territoriale, utilizzando al meglio le opportunità e potenzialità interne ed esterne alla scuola. L’autonomia è quindi un mezzo, una opportunità di cui la scuola può disporre per qualificare in modo più incisivo i processi di insegnamento-apprendimento.
Gli interventi che vengono apportati sul piano didattico-organizzativo o gestionale o curriculare dovrebbero dunque ispirarsi a questo principio e non a questioni di mera ingegneria organizzativa.

Se si assume per valido quanto fin qui “banalmente” esposto, ne discendono delle conseguenze facilmente immaginabili sul piano politico-istituzionale (per questo parlavamo di una sorta di programma).

  1. Una classe politica che voglia sostenere lo specifico della scuola e la peculiare relazione che rende possibile il conseguimento degli obiettivi, secondo quanto detto sopra, predisporrà delle strutture adeguate affinché ciò sia possibile e dunque fornirà degli edifici non solo sicuri sul piano delle norme, ma anche accessibili a tutti, inclusivi, funzionali ed adeguati sul piano didattico e tali da consentire vari tipi di aggregazioni (piccoli gruppi, classi, grandi gruppi) e varie e diversificate esperienze (laboratori, spazi interni ed esterni pensati ad hoc). Può darsi che non tutti gli edifici rispondano a questi standard (secondo l’Istat 2018 il 30% degli edifici scolastici presenta barriere architettoniche per i disabili, e questo a 40 anni dalle prime leggi sull’integrazione dei disabili nelle classi comuni), ma il decisore politico elaborerà un programma pluriennale, pubblico e definito, per raggiungere l’obiettivo della piena funzionalità delle strutture. In altre parole, le scuole saranno luoghi gradevoli, esteticamente piacevoli, stimolanti sul piano cognitivo e relazionale, per adulti e minori, in grado di alimentare positivamente la relazione educativa di cui sopra.
  2. Queste strutture saranno dotate di tutte le attrezzature necessarie per far sì che le scuole possano esplicare al meglio la loro offerta formativa e dunque non mancheranno infrastrutture informatiche in grado di sostenere tutto il traffico telematico in caso di ricorso alla didattica a distanza e di altre operazioni di carattere didattico e amministrativo. Va da sé che le risorse finanziarie assegnate alla scuola saranno certe ed accreditate in tempi definiti e noti.
  3. I docenti saranno professionisti competenti, in grado di gestire in maniera efficace la relazione educativa. La loro selezione avverrà in modo che accedano al ruolo persone motivate e capaci di sostenere con padronanza i processi di insegnamento-apprendimento, attente a sollecitare e sviluppare la curiosità e la passione degli studenti nei confronti della conoscenza. Che siano di ruolo o supplenti, i docenti saranno in servizio dall’inizio delle lezioni, non essendo previsti aggiornamenti o cambi di graduatorie nel corso dell’anno scolastico. Per la delicata funzione da essi svolta, a tali professionisti viene riconosciuto un trattamento economico in linea con la media dei Paesi più avanzati. Obviously, i docenti (come tutte le figure del sistema scolastico, a tutti i livelli) saranno sottoposti periodicamente a valutazione per verificare l’idoneità alla gestione della relazione educativa e ai risultati conseguiti.
    Salvo situazioni di “scarso rendimento” derivanti da negligenze del docente o da inadempienze contrattuali (passibili di licenziamento disciplinare), il sistema prevede forme di uscita assistita e morbida dal lavoro d’aula per quei docenti che non sono in grado (o non sono più in grado) di gestire in modo adeguato la relazione e dunque di garantire il conseguimento degli obiettivi istituzionali.
  4. La manutenzione della formazione avviene in forma obbligatoria, stabilizzata e ricorrente, all’interno di un quadro certo e definito di regole e in relazione alle esigenze formative espresse dai docenti stessi, oltre che in riferimento ad esigenze di carattere istituzionali legate all’incremento delle competenze degli studenti in particolari ambiti.
  5. Il sistema scolastico nel suo complesso è impegnato a valorizzare lo specifico della professionalità docente e dunque prioritariamente il lavoro d’aula. È dunque la dimensione didattica e relazionale con gli studenti che gli insegnanti devono curare con particolare attenzione perché è quella che esprime lo “statuto epistemologico” dell’essere docente. La complessità della scuola richiede che vi siano delle figure intermedie per meglio gestire l’impresa educativa in tutti i suoi vari aspetti, ma non va trascurato che queste figure sono comunque a supporto del lavoro d’aula, ossia della dimensione più genuina dell’essere docente. Sotto questo profilo il sistema dovrebbe premiare prima di tutto e innanzi tutto chi esprime una didattica incisiva, inclusiva e performante, ribaltando l’ottica attuale che tende a premiare chi si impegna fuori dall’aula.
  6. Il management scolastico, a tutti i livelli, è al servizio e a supporto dei processi di insegnamento-apprendimento. In particolare i dirigenti scolastici vengono selezionati e formati affinché siano in grado di creare le migliori condizioni all’interno del loro istituto perché la relazione educativa tra docenti e studenti sia quanto più possibile incisiva e produttiva. In questo senso, le competenze comunicative e relazionali dei dirigenti scolastici, unitamente alla conoscenza dei meccanismi attraverso cui si sviluppano i processi di apprendimento, costituiscono temi prioritari della formazione in servizio dei dirigenti. L’organizzazione scolastica nel suo complesso (dall’articolazione della settimana scolastica delle lezioni, all’allestimento degli spazi, alla scelta delle attrezzature e dei materiali didattici) è ispirata a questa esigenza.
  7. L’apparato burocratico del Ministero, in tutte le sue articolazioni, ha come obiettivo prioritario quello di definire le linee generali di esplicazioni del servizio scolastico e di fornire supporto, servizi e strumenti perché le scuole possano curare al meglio i processi di insegnamento-apprendimento. Le richieste di eventuali monitoraggi, relazioni, report e quant’altro deve perseguire questo scopo prioritario, limitando al minimo indispensabile altre richieste burocratiche che distolgono l’attenzione delle scuole dai loro obiettivi istituzionali.
  8. Il decisore politico utilizza gli esiti delle prove Invalsi, o altri risultati derivanti da indagini internazionali, per elaborare piani di miglioramento e di sviluppo, anche pluriennali, riguardo le conoscenze o competenze più compromesse a livello nazionale o a livello di singole zone del Paese. Ogni indagine nazionale o internazionale deve prevedere, già in fase di elaborazione, eventuali interventi migliorativi che possono tradursi in attività formative per incrementare le competenze dei docenti negli ambiti compromessi, o in misure perequative di tipo finanziario o strumentale.

I punti esposti sopra non esauriscono le molteplici esigenze e istanze finalizzate a riportare l’attenzione sulla natura specifica della scuola e sul core della sua funzione sociale e istituzionale, ma costituiscono già un programma di lavoro ambizioso, e forse anche in controtendenza rispetto ad un dibattito che sempre più spesso punta l’attenzione sugli aspetti collaterali e di contorno del fare scuole. Ça va sans dire, questo programma “banale” non ha alcuna possibilità di essere realizzato, perché talvolta la realizzazione di cose banali richiede non solo coraggio, ma anche un atteggiamento visionario che vada oltre il gretto orizzonte temporale del tirare a campare. “Ed elli a me: “Questo misero modo / tegnon l’anime triste di coloro / che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” (Inferno, Canto III).

 

 




Dirigenza pubblica e comportamenti anomali

di Mario Maviglia

La recente vicenda del DG dell’USR Marche, Marco Ugo Filisetti, ci sollecita a intervenire sul comportamento dei dirigenti pubblici.
Il DG Filisetti, in una nota indirizzata agli studenti in occasione della ricorrenza del 4 novembre, ha usato toni di esaltazione della guerra per ricordare i Caduti della Prima Guerra Mondiale, riprendendo, peraltro, un discorso tenuto da Mussolini il 23 marzo 1919 (come nota Repubblica on line) in cui il Duce diceva “L’adunata rivolge il suo primo saluto e il suo memore e reverente pensiero ai figli d’Italia che sono caduti per la grandezza della Patria…”; Filisetti nella sua nota scrive: “In questo giorno il nostro reverente pensiero va a tutti i figli d’Italia che dettero la loro vita per la Patria…”.

Al di là della vicenda in sé, su cui peraltro il MI ha avviato un approfondimento, quello che qui preme sottolineare è il ruolo che un dirigente pubblico può e deve esercitare in relazione ai compiti assegnatigli.
Ancora troppi dirigenti dimenticano che quando mettono una firma su un atto pubblico o comunque a valenza esterna (ancorché di carattere commemorativo, come nella fattispecie), non è il dirigente in quanto persona fisica a firmare l’atto, ma il rappresentante della struttura amministrativa che dirige e rappresenta. Sotto questo profilo, l’azione dirigenziale trova dei limiti nelle norme (prima fra tutte la Costituzione) che disegnano il perimetro entro cui il dirigente può agire e determinare la volontà dell’Amministrazione (non la sua volontà).
Detto ancor più esplicitamente, un dirigente può anche coltivare sentimenti da guerrafondaio o essere di fede fascista, ma nel momento in un cui ricopre un incarico pubblico, di rango addirittura dirigenziale, non può trascurare il fatto che la nostra Costituzione “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11) e vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (XII disposizione transitoria).

Questi principi costituzionali possono non essere condivisi, nella propria sfera privata, ma le Amministrazioni pubbliche sono tenute a conformarvisi e il dirigente non può esimersi dal rispettarli, proprio perché svolge una funzione pubblica e, in quanto dirigente, determina la volontà dell’apparato burocratico che dirige. A ben vedere, questa dissonanza che talvolta si nota in alcuni dirigenti tra il loro personale orientamento e quello che dovrebbe essere invece l’orientamento dell’Ufficio pubblico che dirigono deriva da una concezione personalistica del potere e del bene pubblico. In altre  parole, la funzione dirigenziale viene piegata ai propri fini personali, poco importa che questi siano di carattere materiale o ideologico.
In fondo, da un punto di vista meramente etico-comportamentale, tra il dirigente che ruba soldi pubblici e colui che strumentalizza in senso ideologico l’Ufficio che dirige non c’è alcuna differenza: entrambi concepiscono il servizio pubblico come una loro proprietà, un bene di cui possono disporre a piacimento. Ovviamente, questo modo di pensare è alquanto diffuso in Italia, a vari livelli, e questo spiega l’altro il grado di corruzione che caratterizza la nostra Penisola rispetto agli altri Paesi avanzati.

Il dirigente dovrebbe sempre avere ben chiari i presupposti e gli effetti degli atti che firma o intende firmare: il presupposto di fondo – lo abbiamo detto – è che l’atto o la comunicazione si collochi all’interno del perimetro giuridico tracciato dalle norme e che non debordi da tale perimetro (soprattutto per quanto riguarda gli atti di carattere discrezionale); in secondo luogo occorre sempre chiedersi quali sono gli effetti che produce un atto o una comunicazione sugli interessati. Proprio perché l’atto/comunicazione non è un prodotto intimo o personale del dirigente responsabile, ma una manifestazione di tipo istituzionale, il registro comunicativo deve necessariamente seguire le regole della comunicazione istituzionale. Non è solo questione di etichetta protocollare, ma di rispetto nei confronti dell’istituzione di cui si è a capo, istituzione che è sicuramente “casa” del dirigente, come lo è di tutti i cittadini.
Espressioni come quelle contenute nella nota citata sopra (“Per questo quello che siamo e saremo lo dobbiamo anche a Loro e per questo ricordando i loro nomi sentiamo rispondere, come nelle trincee della Grande Guerra all’appello serale del comandante: PRESENTE!”), possono andar bene in un racconto dannunziano o interventista, un po’ meno in una comunicazione di un Ufficio pubblico della Repubblica Italiana del 2020.
(En passant, si fa notare che il grido “PRESENTE!” era tipico delle camicie nere quando salutavano i camerati caduti durante i saccheggi e le devastazioni squadristiche. Se ne trova una eco nel recente romanzo di Antonio Scurati, M. L’uomo della provvidenza, “…migliaia di gagliardetti con i nomi dei caduti…Benito Mussolini si avvicina. Legge. Trasalisce. PRESENTE! PRESENTE! PRESENTE!…”, p. 624).

Ovviamente nessuno vuole coartare la creatività espressiva di un dirigente; si chiede però di tenere ben distinte le proprie aspirazioni “espressive” (ma in questo caso, più opportunamente, ideologiche) da quelle dell’istituzione, che deve essere preservata da ogni contaminazione personalistica. Se il registro comunicativo protocollare dell’istituzione viene vissuto come troppo stretto, rigido e inibente, il dirigente può dedicarsi alla scrittura letteraria, nel suo tempo libero; oppure può licenziarsi per meglio seguire la sua vena poetico-ideologica e magari fondare un movimento politico basato sul valore della guerra e della morte come aspirazione di ogni vero patriota. Ciò che non è ammissibile è il coinvolgimento dell’Ufficio in questi panegirici dal netto sapore reazionario e fascistoide.

Va comunque detto che queste manifestazioni prendono piede in quanto l’Amministrazione non assolve fino in fondo e in modo puntuale la propria funzione di controllo dei comportamenti devianti dei propri dirigenti. Anzi, l’Italia è uno dei pochi Paesi avanzati dove di solito i dirigenti non pagano per le loro colpe. In questo contesto istituzionale così labile e sfilacciato ognuno può sentirsi autorizzato ad esternare le proprie contorsioni ideologiche e mentali contando su una sicura impunità.

 




Alcune considerazioni sulla istruzione parentale

di Mario Maviglia

La normativa

La possibilità di provvedere direttamente all’istruzione dei propri figli, senza fruire del servizio scolastico fornito dalle scuole statali o paritarie o non statali non paritarie, è prevista già da tempo dal nostro ordinamento giuridico. Il D.Lvo 16 aprile 1994, n. 297, all’art 111, comma 2, stabilisce che “i genitori dell’obbligato o chi ne fa le veci che intendano provvedere privatamente o direttamente all’istruzione dell’obbligato devono dimostrare di averne la capacità tecnica od economica e darne comunicazione anno per anno alla competente autorità.”
Queste scarne indicazioni normative sono state ripetutamente richiamate da successivi provvedimenti legislativi e amministrativi:
DM n. 489 del 13 dicembre 2001 sulla vigilanza dell’obbligo di istruzione;
D.Lvo 25 aprile 2005, n. 76, riguardante le norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione;
Legge 27 dicembre 2006, n. 296, che porta a 10 anni la durata dell’istruzione obbligatoria; 

D.Lvo 13 aprile 2017 n. 62 sulla valutazione degli alunni.

Dall’insieme di queste norme emerge che la possibilità di fare ricorso all’istruzione parentale (o homeschooling) è subordinata al requisito della capacità tecnica da parte dei genitori o della capacità economica. In sostanza se i genitori intendono provvedervi direttamente devono dimostrare di avere una preparazione culturale adeguata a fornire l’istruzione prevista per quel livello scolastico o, in alternativa, avere la capacità economica per provvedere tramite docenti privati o istitutori.

È importante sottolineare che la scuola non esercita un potere di autorizzazione in senso stretto verso le richieste di istruzione parentale dei genitori, ma un semplice accertamento della sussistenza dei requisiti tecnici ed economici.
Va pure sottolineato che, in relazione a quanto stabilito dal citato D.Lvo 62/2017, in caso di istruzione parentale, i genitori dell’alunno o coloro che esercitano la responsabilità genitoriale, sono tenuti a presentare annualmente la comunicazione preventiva al dirigente scolastico del territorio di residenza. Tali  alunni sostengono annualmente l’esame di idoneità per il passaggio alla classe successiva in qualità di candidati esterni presso una scuola statale o paritaria, fino all’assolvimento dell’obbligo di istruzione.

Il movimento Homeschooling

Fin qui la norma. Da un punto di vista di analisi quantitativa del fenomeno, navigando in rete si può facilmente verificare che il fenomeno della homeschooling [1] è diffuso soprattutto all’estero: negli Stati Uniti i ragazzi interessati sono più di 2 milioni, in Inghilterra sono circa 80 mila, 70 mila in Canada, 4 mila in Francia e 2 mila in Spagna (dati relativi al 2018).
In Italia sono 5126 i ragazzi che utilizzano questa forma di istruzione (dati ufficiali MIUR relativi all’a.s. 2018-2019)[2], anche se il fenomeno appare in costante aumento[3].
Non è dunque in discussione la libertà di scelta da parte delle famiglie che presentano i requisiti illustrati sopra. Si tratta semmai di capire le ragioni di tale scelta e i risultati conseguiti. Va però sottolineato che mentre alcune famiglie utilizzano l’istituto dell’istruzione parentale per una forte sfiducia nei confronti del sistema scolastico (soprattutto per quanto concerne gli esiti del processo di apprendimento, anche in relazione alle disfunzioni organizzative della scuola), altre vi fanno ricorso essenzialmente per motivi ideologici in quanto, dal loro punto di vista, la scuola propone ai bambini modelli educativi che condizionano la sfera morale del loro sviluppo (es. la cosiddetta teoria gender, no vax ecc.), e altre ancora si ispirano al modello della homeschooling che propone un progetto educativo alternativo a quello del sistema scolastico storicamente inteso. Infatti, se si analizzano i siti dei fautori di questo progetto (in particolare www.controscuola.it e www.educazioneparentale.org) si può facilmente rilevare che coloro che aderiscono a questo orientamento lo fanno da una parte per motivi ideali e pedagogici e dall’altra in quanto non hanno fiducia nel tipo di educazione e insegnamento impartito dal sistema scolastico, troppo scandito – dal loro punto di vista – in tappe predefinite, verifiche, voti. Viceversa, viene privilegiato un approccio educativo basato sull’esperienza personale e sulla ricerca favorendo “un percorso da autodidatti da subito, quindi non proponiamo loro alcuna nozione preconfezionata e non li sottoponiamo ad alcun tipo di esaminazione. Stiamo imparando accanto ai nostri figli, osservandoli e sostenendoli nelle loro ricerche e scoperte. Il fatto di essere i protagonisti di un cammino la cui direzione è sconosciuta, rende l’avventura ancora più emozionante e imprevedibile. Questo ci permette anche di costruire un percorso assolutamente originale, che non riprende nessuno schema già in uso.”[4]

Una capacità molto curata – sempre a detta dei fautori di questo movimento – è quella di “avere una mente inquisitiva e la capacità di imparare in autonomia. Ogni bambino ha un bagaglio di domande infinito, e il nostro compito è semplicemente quello di mantenere viva la fiamma della conoscenza. Lo facciamo in molte maniere, per esempio facendoci in primis noi tante domande e poi valutando con loro le possibili risposte. Tutti i bambini hanno questo spirito di ricerca ma, troppo spesso, esso viene soffocato in nome del sistema educativo tradizionale che non incoraggia il pensiero divergente e riempie le teste degli studenti con nozioni già pronte. Le lezioni vengono assimilate temporaneamente per poi essere rigurgitate nel momento del test. Questo tipo di esercitazione sterile uccide il pensiero critico.”

Tutto ciò dovrebbe portare ad essere più curiosi. Molte attività, infatti, sono basate su esigenze di soluzione concreta di problemi quotidiani, come per esempio “imbiancare la casa, oppure trovare i soldi per una bicicletta nuova o programmare una vacanza”, creando progetti, ciascuno con il proprio scopo ben definito.
I bambini vengono incentivati in questo modo “a trovare le opportune soluzioni a quelli alla loro portata, mentre per quelli più complicati chiediamo comunque e sempre la loro opinione. Più di una volta la loro freschezza ci ha permesso di trovare una soluzione originale, alla quale noi adulti non saremmo arrivati da soli. Li incoraggiamo quindi a procedere per tentativi, suggerendo di riprovare se falliscono e congratulandoci con loro per le conquiste ottenute. Questo processo alimenta la loro autostima e la sicurezza di poter sormontare qualsiasi ostacolo che la vita gli presenterà. Così saranno esperti di problem solving, una dote impagabile.”

Volendo sintetizzare in alcune parole chiave il progetto educativo della homeschooling (almeno per quanto concerne la versione italiana e secondo quanto riportato dai loro fautori), questi sono i punti caratterizzanti:

  1. Libertà. I bambini vengono sollecitati ad agire liberamente, senza condizionamenti e a scoprire le proprie passioni, come presupposto per avere una vita piena in futuro anche in campo lavorativo. Libertà vuol dire avere la possibilità anche di sbagliare e di apprendere dagli errori.
  2. Felicità. I bambini vengono educati a trovare in se stessi la felicità e non negli oggetti che si posseggono o nel denaro o nei voti. “Fin da piccolissimi noi lasciamo ai nostri figli la propria privacy, la libertà di intrattenersi da soli: giocando, leggendo, immaginando, costruendo. L’ozio creativo e solitario è da noi largamente valorizzato con risultati positivi. La felicità si raggiunge da soli. Non ho praticamente mai sentito i miei figli lamentarsi di essere annoiati. Piuttosto che l’algebra o il nome dei fiumi del centro America, si dovrebbe insegnare a essere felici. Il bambino che non sperimenta questo grado d’indipendenza rischia, una volta adulto, di attaccarsi in maniera morbosa ad un’altra persona, oppure di colmare il vuoto esistenziale con dei passatempi come i social o lo shopping, oppure peggio ancora, con il cibo.”
  3. Indipendenza. I bambini vengono aiutati e sollecitati a rendersi sempre più indipendenti nelle loro attività quotidiane. “Li lasciamo sbagliare un numero infinito di volte, ricordandoci che sbagliando s’impara. L’indipendenza conduce alla libertà… senza aver bisogno di un insegnante o di un genitore (o in un futuro lontano di un capo) che gli dica cosa fare, essi sanno cosa vogliono raggiungere e trovano da soli il modo per realizzare i propri sogni. Se lungo il cammino hanno bisogno di qualcuno che li aiuti, sanno bene a chi rivolgersi e in quali termini.”
  4. Compassione. Per compassione si intende empatia verso il prossimo che dovrebbe portare alla felicità reciproca. come fonte di benessere.
    “La tolleranza va di pari passo con la compassione, e si allena conoscendo persone di diverse etnie, gruppi sociali e stati fisici.”
  5. Cambiamento. I bambini vengono educati ad adattarsi al cambiamento, ad accogliere le sfide della vita, anche quando le cose non vanno come erano state progettate.

 Alcune considerazioni critiche

Analizzando in modo critico questo progetto pedagogico, va detto innanzi tutto che non esistono – almeno in Italia – ricerche empiriche che supportino quanto dichiarato dai fautori della homeschooling o istruzione parentale. In particolare non si sa se, in senso longitudinale, i bambini che hanno fruito di questo approccio abbiano sviluppato effettivamente le capacità elencate sopra e con quale margine di differenza rispetto ai bambini che hanno frequentato il tradizionale sistema scolastico. In mancanza di dati empirici dobbiamo quindi condurre una riflessione critica tenendo conto dei risultati della ricerca psico-pedagogica degli ultimi decenni.

Alcuni aspetti, in particolare, appaiono fragili nel modello educativo della homeschooling:

  1. La coincidenza di ruolo tra genitore e istitutore/insegnante può essere fonte di criticità nello sviluppo psicofisico del bambino. Ogni genitore esercita, direttamente o indirettamente, consapevolmente o meno, funzioni anche “istruttive” nei confronti dei figli, e non solo educative. In questo modello però vengono assunte dai genitori anche quelle funzioni istruttive più formali che generalmente vengono svolte da professionisti della didattica (i docenti), come ad esempio gli apprendimenti di base e le conoscenze previste dai diversi livelli scolastici. Non è solo questione di competenza professionale (i genitori, sotto questo profilo, potrebbero essere professionalmente più attrezzati dei docenti), ma di gestione della relazione di insegnamento-apprendimento. Nella relazione genitore-figlio, infatti, inevitabilmente assumono una certa prevalenza gli aspetti emotivo-affettivi che, pur presenti nella relazione insegnante-bambino, vengono maggiormente diluiti in vista del raggiungimento di un obiettivo di apprendimento.
  2. L’asimmetria che caratterizza il rapporto educativo tra un adulto e un bambino/minore rischia di essere “annacquata” in un rapporto troppo sbilanciato in senso affettivo. Non è detto che ciò debba avvenire nell’istruzione parentale, ma il rischio c’è, anche perché tutte le attenzioni vengono rivolte ad un solo soggetto e non ad una classe. In altre parole, vi può essere un eccesso di “codice materno” a scapito di quello “paterno”, con tutte le disfunzioni nello sviluppo che sono state messe in luce dalla letteratura psicopedagogica[5].
  3. La classe rappresenta una sorta di microcosmo sociale all’interno del quale i bambini possono sperimentare e vivere in modo consapevole le regole della convivenza civile. L’altro contesto è sicuramente la famiglia, ma nella cultura italiana la famiglia rappresenta il centro degli interessi degli individui, anche a scapito della comunità che richiede invece cooperazione. Anche per queste ragioni socio-storiche, il privare il bambino della frequenza di questo microcosmo può portarlo a non acquisire adeguatamente le forme di convivialità e relazionalità sociale.
  4. Il processo di insegnamento-apprendimento, oggi più di ieri, tende ad aiutare gli alunni a sistematizzare le conoscenze. E’ vero che i ragazzi possono acquisire una mole di dati, informazioni e conoscenze a prescindere dalla scuola: basta accendere un computer o utilizzare un telefonino; ma quando e dove hanno la possibilità di dare un senso a questa massa di dati? In teoria, i ragazzi potrebbero avere più nozioni dei loro docenti, ma la scuola offre loro la possibilità di collocarle in un orizzonte di senso, di dare loro un significato, di costruire quadri interpretativi per meglio capire il reale, altrimenti le nozioni rimangono appiccicate alla memoria, senza connessioni tra loro, come una insalata mentale mal amalgamata, come succede nei quiz televisivi. La scuola aiuta questo processo di sistematizzazione non solo attraverso l’intervento dell’insegnante, ma anche mediante la condivisione della vita scolastica con i compagni che consente di mettere a confronto opinioni, pensieri, idee e comportamenti diversi[6].
  5. Uno degli aspetti più deboli della homeschooling è proprio la mancanza di questa agorà che consenta ai bambini di confrontare con altri bambini e altri adulti (non legati da un vincolo affettivo naturale!) idee, posizioni, sentimenti, conoscenze, comportamenti. In fondo la conoscenza è un processo di costruzione sociale[7], che nasce nell’interazione con gli altri, con la diversità delle situazioni e delle persone.

In conclusione, per tutte le ragioni esposte sopra, riteniamo che i bambini debbano frequentare una normale scuola, insieme ai loro coetanei e a contatto con una pluralità di figure adulte.
Ci sembra che la scelta dell’istruzione parentale o homeschooling risponda più alle esigenze degli adulti di “preservare” il bambino da un ambiente considerato poco attento alle sue esigenze individuali, emotive e intellettive. E forse soddisfa i bisogni narcisistici degli adulti di voler “forgiare” il piccolo secondo i propri desideri inconsci, ma in realtà, come recita il poeta Gibran, i figli “non vi appartengono benché viviate insieme”[8]. Noi pensiamo invece che si cresce e si apprende meglio nel rapporto e nell’incontro con gli altri. E poi, nella vita professionale e lavorativa, occorre fare i conti con una realtà contrassegnata da tante diverse individualità, idee, opinioni, stili. La scuola, sotto questo profilo, è una palestra ineliminabile.

[1] A. Knepper (2018), Progetto Homeschooling: come pianificare un anno di educazione parentale adatto alla vostra realtà famigliare, Park Day Publishing Libreria online; E. De Marchi (2017), I nostri figliuoli. Primo manuale di educazione parentale e homeschooling, Scrivere edizioni, Libreria universitaria online; E. Di Martino (2017), Homeschooling. L’educazione parentale in Italia, CreateSpace Independent Publishing Platform, Scotts Valley, California; https://www.controscuola.it/; https://www.homeschool.com/

[2] E. d’Albergo, G. Moini (2019), Politica e azione pubblica nell’epoca della depoliticizzazione, Università Sapienza, Roma

[3] M. Maviglia (2020), Sopravvivere a scuola. Manuale di istruzione, Edizioni Conoscenza, Roma

[4] https://www.controscuola.it/perche-homeschooling-prepara-per-futuro-scuola/

[5] L. Pati (a cura di) (2014), Pedagogia della famiglia, Editrice La Scuola, Brescia; F. Fenzio (2018), Manuale di consulenza Pedagogica in ambito Familiare, Giuridico e Scolastico, Youcanprint, Tricase-LE; D. Simeone (2011), La consulenza educativa, Vita e Pensiero, Milano; Bowlby J. (1976), Attaccamento e perdita, Boringhieri, Torino

[6] L. Czerwinsky Domenis (2000), La discussione intelligente. Una strategia didattica per la costruzione sociale della conoscenza, Erickson, Trento;  J. S. Bruner (2000), La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola , Feltrinelli, Milano; P. Boscolo (2012), La fatica e il piacere di imparare, UTET, Torino

[7] P. L. Berger (1997), La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna; L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, (orig. 1934, trad.it. 2007), Giunti Editore, Firenze

[8] G.K. Gibran (1981), Il Profeta, Guanda, Parma




Di cosa parliamo quando parliamo di ispettori scolastici

di Mario Maviglia

La vicenda del corpo ispettivo nel sistema scolastico italiano rappresenta l’apoteosi della finzione e dell’ipocrisia.
Nessun’altra categoria professionale nella Pubblica Amministrazione ha registrato nel tempo un  misconoscimento – nei fatti – così netto e radicale. Partiamo da alcuni dati di realtà che mutuiamo dall’intervento del collega Ettore Acerra (Sostenere le scuole autonome: la funzione ispettiva) contenuto nel testo Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome, a cura di Marco Campione ed Emanuele Contu, Il Mulino, 2020.

Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso gli ispettori scolastici (allora denominati Ispettori Tecnici Periferici) erano circa 700; già nel 2001 erano diventati 440; attualmente sono 191 in pianta organica, ma alla data del 20 marzo 2020 quelli in servizio effettivo con contratto a tempo indeterminato sono 41 (a questi vanno aggiunti 10 dirigenti tecnici con contratto a tempo determinato nominati in base ai commi 5bis e 6 dell’art. 19 del DLgs 165/2001. I 56 dirigenti tecnici nominati ai sensi del comma 94 della L. 107/2015 hanno concluso il loro incarico triennale nel 2019).

Va sottolineato che il taglio degli organici ha riguardato tutta la dirigenza della PA ma con significative differenze: nel periodo dal 2001 ad oggi, ad esempio, il taglio dei dirigenti amministrativi è stato del 27%, quello dei dirigenti tecnici del 56%. In sostanza, gli ispettori scolastici sono diminuiti percentualmente in misura doppia rispetto ai dirigenti amministrativi. Un altro dato è ancor più significativo per considerare” il “peso” dei dirigenti tecnici all’interno della dirigenza pubblica: se si va ad analizzare l’indennità di posizione percepita dai dirigenti del MIUR in relazione alla “pesatura” dei diversi uffici definita dal decreto dipartimentale n. 11 del 6/03/2015, si può notare un andamento molto interessante. Infatti, man mano che si va dalla fascia D (quella meno retribuita) alla fascia A (la più retribuita) il numero dei dirigenti tecnici decresce progressivamente, mentre quello dei dirigenti amministrativi cresce, come si può evincere dalla tabella:

Fascia A Fascia B Fascia C Fascia D Totali
Dirigenti amministrativi 61 92 37 32 222
Dirigenti tecnici 1 39 62 89 191

Questi dati, nella loro ruvida materialità, restituiscono un’immagine quanto mai veritiera e suggestiva del grado di considerazione che l’Amministrazione e il decisore politico hanno nei riguardi della dirigenza tecnica. (Considerazioni simili potrebbero essere fatte anche a proposito della dirigenza scolastica che, almeno sul piano retributivo, ad esempio per quanto riguarda la retribuzione di risultato, registra significative differenze, in negativo, rispetto alla dirigenza amministrativa. Eppure pochissimi dirigenti amministrativi hanno un numero di addetti alle loro dipendenze equiparabile a quello di una istituzione scolastica di medie dimensioni).

Peraltro, tutto ciò avviene a fronte di una prosopopea normativa che – nella descrizione della funzione tecnico-ispettiva e a fronte dei dati riportati sopra – rischia di suonare tronfia. Infatti, se negli ’70 e ’90 poteva avere ancora un senso e un legame con la realtà quanto veniva stabilito dal DPR 417/1974 (uno dei decreti delegati, poi confluito nel DLvo 297/1994) nel descrivere la funzione ispettiva, oggi la medesima descrizione, contenuta nell’ultimo DM emanato in proposito (il n. 1046/2017),  appare quanto mai inverosimile e sganciato dalla realtà in quanto non considera le effettive forze in campo che possono realizzare gli impegnativi obiettivi ivi riportati.

Più nello specifico, il DPR 417/1974 all’art. 4 (confluito senza modifiche nell’art. 397 del DLvo 297/1994) stabilisce che “La funzione ispettiva concorre, secondo le direttive del Ministro della pubblica istruzione e nel quadro delle norme generali sull’istruzione, alla realizzazione delle finalità di istruzione e di formazione, affidate alle istituzioni scolastiche ed educative. Essa è esercitata da ispettori tecnici che operano in campo nazionale, in campo regionale e provinciale. Gli ispettori tecnici contribuiscono a promuovere e coordinare le attività di aggiornamento del personale direttivo e docente delle scuole di ogni ordine e grado; formulano proposte e pareri in merito ai programmi di insegnamento e di esame e al loro adeguamento, all’impiego dei sussidi didattici e delle tecnologie di apprendimento, nonché alle iniziative di sperimentazione di cui curano il coordinamento; possono essere sentiti dai consigli scolastici provinciali in relazione alla loro funzione; svolgono attività di assistenza tecnico-didattica a favore delle istituzioni scolastiche ed attendono alle ispezioni disposte dal Ministero della pubblica istruzione, dal sovrintendente scolastico regionale o dal provveditore agli studi; prestano la propria assistenza e collaborazione nelle attività di aggiornamento del personale direttivo e docente nell’ambito del circolo didattico, dell’istituto, del distretto, regionale e nazionale. Gli ispettori tecnici svolgono altresì attività di studio, di ricerca e di consulenza tecnica per il Ministro, i direttori generali, i capi dei servizi centrali, i sovrintendenti scolastici e i provveditori agli studi. Al termine di ogni anno scolastico, il corpo ispettivo redige una relazione sull’andamento generale dell’attività scolastica e dei servizi.”

Il DM 1046/2017, contenente l’Atto di indirizzo per l’esercizio della funzione tecnica ispettiva, è un corposo documento di 8 pagine e rappresenta un interessante caso amministrativo di libro dei sogni, assolutamente incurante delle concrete condizioni in cui si esplica la funzione ispettiva oggi in Italia.
Vi si dice che il contributo del Servizio Ispettivo Tecnico “risulta di particolare rilevanza, anche in un’ottica di armonizzazione con le politiche dell’Unione Europea, al fine di realizzare una valutazione di sistema basata su un’analisi della situazione della scuola italiana e della sua evoluzione, sulla individuazione dei punti di forza e di debolezza e sulla rilevazione delle criticità e delle eccellenze.”
Inoltre, nel contesto dell’autonomia, l’attività ispettiva “si rivela fondamentale strumento conoscitivo, valutativo e di miglioramento delle diverse realtà scolastiche.” Il decreto insiste in modo particolare sull’apporto che il Servizio Ispettivo dovrebbe dare nella realizzazione e sviluppo dei Sistema Nazionale di Valutazione, anche attraverso il coordinamento dei nuclei di valutazione delle scuole e il coordinamento dei nuclei di valutazione dei dirigenti scolastici. Ovviamente non vengono trascurati, ed anzi ne sono esaltati, le tradizionali funzioni che già assolvevano gli ispettori: supporto, assistenza, consulenza e formazione alle scuole nel processo di attuazione dell’autonomia scolastica; proposte e pareri sui temi dello sviluppo dei curricoli, della progettazione didattica, delle metodologie, della valutazione; partecipazione a gruppi di lavoro e organismi tecnici; collaborazione per l’efficace attuazione delle misure previste nel PNSD e ne PON; predisposizione delle prove d’esame conclusive del secondo ciclo di istruzione; assistenza alle scuole e vigilanza in occasione degli esami di Stato; controllo e verifica dei requisiti delle scuole paritarie; collaborazione alla realizzazione della formazione in servizio del personale della scuola; accertamenti ispettivi che si riferiscono a situazioni che riguardano aspetti didattici e organizzativi, contabili e amministrativi. Insomma, la funzione ispettiva viene disegnata a tutto tondo.

Ma facciamo due conti. Riferiamoci esclusivamente alla partecipazione degli ispettori al SNV. Abbiamo già visto che, ad oggi, i dirigenti tecnici sono complessivamente 51 (41 a tempo indeterminato, 10 a tempo determinato). Le istituzioni scolastiche funzionanti nell’a.s. 2019-2020 sono 8223 (comprese le sedi sottodimensionate, dati MIUR). Ad ogni ispettore afferiscono quindi 161 istituzioni scolastiche. È vero che la valutazione esterna delle scuole avviene su base campionaria, ma la valutazione annuale dei 7813 dirigenti scolastici (a.s. 2019-2020, dati MIUR) va fatta sull’intera popolazione e non su campione. Ipotizzando che ogni nucleo di valutazione debba valutare circa 20 DS, occorrono 153 nuclei; ogni ispettore dovrebbe coordinare circa 8 nuclei. Data l’impraticabilità di tale operazione, a fronte dell’organico degli ispettori, vengono utilizzati come coordinatori dei nuclei di valutazione dei DS anche dirigenti amministrativi, ispettori in quiescenza, e dirigenti scolastici in servizio e in pensione. Risulta evidente, da questi pochi dati, che l’attuale organico dei dirigenti tecnici non consente di assolvere ad una delle funzioni fondamentali previste dal DM 1046/2017.

È vero che si è in attesa dei bandi di concorso previsti dalla L. n. 159 del 20/12/2019, per il reclutamento di 59 dirigenti tecnici (a decorrere da gennaio 2021) e di ulteriori 87 a decorrere dal 2023. Con questi 146 dirigenti tecnici, uniti ai 41 già in servizio a tempo indeterminato, il numero complessivo degli ispettori in servizio sarà di 187, comunque inferiore ai 191 previsti dal DPCM n. 98 dell’11/02/2014 di riorganizzazione degli uffici del MIUR e della consistenza degli organici dirigenziali. Queste proiezioni sono peraltro oltremodo ottimistiche in quanto ad oggi non c’è ancora il bando per il reclutamento dei primi 59 dirigenti tecnici e se l’espletamento del prossimo concorso richiederà sei (6!) anni come l’ultimo avviato nel 2008 e concluso nel 2014, è facile prevedere che nel frattempo molti dei 41 dirigenti tecnici a tempo indeterminato oggi in servizio saranno già in pensione, considerata l’età media non certo bassa.

Insomma, da qualunque punto si esamini la questione, emerge un quadro a dir poco sconfortante riguardo l’effettiva considerazione di cui godono gli ispettori nel sistema scolastico italiano, al di là della retorica ministeriale. Molteplici sono le ragioni di questo misconoscimento, non ultimo il fatto che da sempre nel nostro sistema scolastico l’apparato burocratico-amministrativo ha da sempre esercitato un potere debordante, piegando alle sue logiche anche la dimensione tecnico-specialistica espressa dai dirigenti tecnici. Non è un caso che in Italia, in modo particolare, il servizio ispettivo è di fatto asservito a quello amministrativo e che non abbia mai preso corpo l’avvio di un servizio ispettivo autonomo, con una propria organizzazione, disciplina e budget. Vien da pensare che la cultura della valutazione e del controllo (di cui i dirigenti tecnici sono espressione, almeno per buona parte delle loro funzioni) non godano di grande stima in questo Paese, che non a caso è uno dei più corrotti al mondo.




Perché l’autonomia scolastica è fallita?

Un convegno promosso da Gessetti Colorati

Un convegno promosso da Gessetti Colorati

di Mario Maviglia

Sono vari i motivi che hanno portato se non al fallimento sicuramente al depotenziamento dell’autonomia scolastica in Italia.

 

1. Vi è stato in primo luogo un atteggiamento gattopardesco da parte dell’Amministrazione Centrale, impegnata (a parole) a favorire l’autonomia delle scuole, ma in realtà sempre più ossessivamente presente nella vita delle istituzioni scolastiche e non sempre per ragioni di supporto e di assistenza. In fondo, la vocazione centralista del nostro sistema scolastico non è stata mai definitivamente abbandonata. Negli ultimi anni in particolare le scuole sono state letteralmente sottoposte a vere e proprie forme di stalkeraggio burocratico con continue richieste di monitoraggi, relazioni, fornitura di dati, report et similia. In compenso l’Amministrazione ha riversato sulle scuole tutto ciò che poteva essere riversato in termini amministrativi e organizzativi.
La stessa istituzione delle reti di ambito (di cui alla L. 107/2015) può essere letta sotto questa luce, ossia come una ulteriore periferizzazione di una serie di incombenze amministrativo-contabili a carico delle scuole (vedasi l’organizzazione dei corsi di formazione a cura delle reti di ambito).
Va peraltro sottolineato che invece proprio sul piano del supporto su altri aspetti cruciali della vita delle istituzioni scolastiche l’Amministrazione scolastica (in tutte le sue varie declinazioni territoriali) ha dimostrato una grande fragilità mettendo in seria difficoltà la gestione del servizio scolastico da parte delle scuole (si pensi alla gestione delle graduatorie con aggiustamenti e ribaltamenti nel corso dell’anno scolastico, o alla gestione dei concorsi, o ancora all’assegnazione delle risorse finanziarie ecc.).
Difficile realizzare una matura autonomia in una situazione così caotica e problematica.

2. Probabilmente anche da parte delle singole scuole non vi è stata una adeguata percezione delle potenzialità sottese all’autonomia scolastica. C’è da chiedersi infatti quanto siano stati indagati e realizzati da parte delle istituzioni scolastiche i vari ambiti dell’autonomia richamati dal DPR 275/1999 (Autonomia didattica / Autonomia organizzativa / Autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo / Reti di scuole / Iniziative finalizzate all’innovazione).
L’impressione generale che se ne trae (in mancanza di dati empirici ufficiali sulla realizzazione dell’autonomia, e anche questo è significativo) è che alle stesse scuole sia sfuggito il senso e la portata di queste innovazioni e che esse abbiano preferito percorrere i più rassicuranti sentieri dell’ordinarietà e della tradizione. D’altro canto, a discolpa delle scuole e dei suoi operatori, va detto che l’autonomia è prima di tutto una prospettiva culturale e su questo versante poco è stato fatto per formare il personale.
Operare in autonomia vuol dire condividere una certa idea di scuola e di apprendimento, fare gruppo, agire tenendo conto delle caratteristiche e peculiarità del territorio. In quali momenti del loro iter formativo gli operatori scolastici abbiano potuto formarsi su questi cruciali aspetti della professionalità è difficile capire. Uno dei tanti paradossi della scuola italiana è proprio questo: a docenti, dirigenti e personale tutto viene richiesto di operare in una dimensione collegiale e di sistema, ma nessuno si preoccupa di formare le persone a questa dimensione. La formazione universitaria dei futuri docenti è fortemente contrassegnata da un training formativo caratterizzato da azioni a forte impronta individualistica, e la formazione in servizio per i docenti di ruolo spesso trascura la dimensione collegiale.
Come può un processo di autonomia essere implementato e dispiegare le sue potenzialità se questi sono i presupposti?

3.  Anche la figura del dirigente scolastico merita di essere considerata all’interno della riflessione che stiamo facendo. Il DPR 275/1999 delinea, per la verità in modo implicito, una figura di dirigente in grado di dare sostengo e sviluppo ai vari ambiti dell’autonomia elencati sopra. Se però si analizzano i vari bandi di concorso per dirigenti scolastici e i corsi di formazione allestiti dall’Amministrazione scolastica nei confronti dei dirigenti nel periodo dal 1999 ai giorni nostri non sarà difficile scoprire che questi aspetti sono stati alquanto trascurati o trattati in una declinazione essenzialmente amministrativo-burocratica. Oggi il dirigente scolastico si trova soverchiato da incombenze le più disparate (sicurezza, privacy, trasparenza ecc.) che sottraggono tempo ed energie alle dimensioni più vicine ai temi dell’autonomia.
Nella migliore delle ipotesi abbiamo davanti dei tecnocrati che con grande fatica portano avanti l’impresa educativa, intrappolati in una rete di adempimenti ed emergenze che lasciano poco spazio all’eleborazione culturale e (non sia mai!) pedagogica, in questo perfettamente allineati con un management amministrativo ministeriale che sembra sempre più lontano dalla capacità di comprendere e interpretare i concreti problemi del sistema scolastico.
Ma può una scuola intraprendere convintamente e consapevolmente un itinerario di autonomia se la sua figura apicale appare così frastornata nella delineazione di un ruolo che necessariamente deve fare i conti con la promozionalità, la relazione, la comunicazione e la condivisione?

4. Infine non può essere sottaciuto il fatto che anche dopo l’avvio dell’autonomia scolastica non è stata contesualmente avviata la riforma degli organi collegiali, sintomo della difficoltà di dare un contorno più preciso alle istanze di partecipazione attraverso la ridefinizione del ruolo delle diverse componenti all’interno del processo di autonomia. Si è persa l’occasione – almeno fino al momento attuale – di dotare la scuola di organismi partecipativi a supporto dell’autonomia anche in relazione alla complessa gestione del sistema delle azioni previste dal DPR 275/1999, più volte richiamate. Si tratta di immaginare degli organismi che, pur favorendo la partecipazione, possano operare in un’ottica di semplificazione e di snellezza, senza le pastoie burocratiche che sono sotto gli occhi di tutti. Per concludere, non sembra esservi allo stato attuale una reale volontà di sostenere il processo di autonomia delle scuole. E d’altro canto le stesse proposte di regionalizzazione del sistema di istruzione rischiano di istituire tanti “ministeri regionali” ancor più oppressivi e soffocanti rispetto a quello nazionale. Il problema, come si vede, non è solo di ingegneria istituzionale, ma di natura culturale e civile e attiene al significato che si attribuisce al ruolo che la scuola dovrebbe esercitare all’interno della società attuale