Verso la DdB, ovvero la Dittatura della Burocrazia

di Mario Maviglia
Dopo anni di intenso e sotterraneo lavoro, la burocrazia è riuscita a imporre il proprio potere nella vita pubblica e privata del nostro Paese, instaurando una sorta di dittatura, la Dittatura della Burocrazia (DdB) appunto. L’espressione non deve trarre in inganno: la DdB non presenta i caratteri brutali, violenti e repressivi delle classiche dittature che abbiamo conosciuto nel tempo. Anzi, alla DdB non interessano i corpi delle persone, il suo progetto è più ambizioso: mira a conquistare le anime dei cittadini in modo che ognuno, quasi spontaneamente, diventi egli stesso promotore e fautore di burocrazia.

Solo in questo modo la DdB può imporsi alla coscienza delle persone e delle istituzioni e può realizzare il suo obiettivo principale: avviluppare nelle sue rassicuranti ancorché soffocanti spire il modus vivendi di ogni cittadino.
Abbiamo detto che questo processo aborrisce il ricorso alla violenza e alla coartazione. Semmai, la strategia della DdB è equiparabile al cosiddetto fenomeno della “rana bollita” descritto da Bateson in Mente e natura.
Afferma Bateson: «E’ un fatto non banale che siamo quasi sempre inconsapevoli delle tendenze nelle variazioni del nostro stato. Esiste una leggenda quasi scientifica secondo la quale, se si riesce a tenere buona e ferma una rana in una pentola di acqua fredda e si aumenta lentissimamente e senza sbalzi la temperatura dell’acqua, in modo che nessun istante possa essere contrassegnato come quello in cui la rana dovrebbe saltar fuori, la rana non salterà mai fuori e finirà lessata».

Bateson si riferiva all’inquinamento che cresce a poco a poco senza che ce ne rendiamo conto, ma la metafora va bene anche all’azione della burocrazia che tende a imporre una mentalità burocratica in tutti noi corrompendo la mente e il modo di fare di ognuno.
Il vero successo della DdB è fare in modo che le istituzioni e gli stessi cittadini diventino “più realisti del re” in campo burocratico.
I segnali sono molto incoraggianti e già si possono apprezzare i primi risultati di questa importante conquista. Prendiamo il mondo della scuola e – a titolo esemplificativo – la procedura che viene seguita solitamente per affidare un incarico di formazione ad un esperto esterno (anche per poche ore). In alcune scuole questo iter amministrativo appare ben congegnato, strutturato e interessante, anche da un punto di vista psichiatrico.
Alla base di tutto c’è ovviamente un bando emanato dall’istituzione scolastica a cui l’interessato aderisce, di solito compilando una domanda (anche in forma on line) e allegando un CV.
Le scuole più avvedute chiedono al formatore di esplicitare i motivi che lo spingono ad aderire al bando e come intende svolgere le ore di formazione.
Va da sé che si sa già a chi sarà affidato l’incarico, ma il moloch della burocrazia vuole che le cose siano fatte a regola d’arte. Non dimentichiamo che il primo principio della termoburocrazia recita: “Prima si sceglie il candidato, dopo si elaborano criteri e procedura di scelta. L’importante è che le carte siano a posto.”
Per il perfezionamento dell’incarico la scuola richiede al formatore una serie di ulteriori documenti, come la scheda anagrafico-fiscale, l’autorizzazione al trattamento dati e altre dichiarazioni varie (di insussistenza, di incompatibilità, di incompetenza ecc., tutte accomunate dal prefisso negativo in-; altre dichiarazioni si riferiscono invece all’anticorruzione, all’antimafia, all’anticamera ecc., tutte accomunate dal prefisso anti-).
Inutile dire che per ogni singola dichiarazione il formatore dovrà riportare sempre ex novo le proprie generalità anagrafiche in quanto il sistema non prevede e non consente il travaso dei dati da un modello all’altro. E d’altro canto questo andrebbe contro il secondo principio della termoburocrazia che stabilisce: “I dati anagrafici vanno trascritti in originale in ogni singolo modulo non essendo possibile la trasmigrazione degli stessi da un modulo all’altro per ragioni di odine pubblico e per evitare forme di anchilosi delle mani”.
Per alcuni versi appare ancor più significativo il lavoro di “rifinitura” burocratica (leggasi: essere più realisti del re) messa in atto da alcuni Uffici Scolastici Regionali in occasione del conferimento di incarichi di reggenza ai dirigenti scolastici.
In questo caso, oltre alla canonica domanda di disponibilità a ricoprire l’incarico di reggenza, riportante i soliti dati anagrafici, il dirigente deve inoltre produrre: una dichiarazione in cui vengano esplicitati i motivi per cui chiede la reggenza; copia della carta di identità; copia della tessera sanitaria; attestazione ISEE; in che misura gli emolumenti derivanti dalla reggenza vanno a modificare il bilancio familiare; stato di famiglia.
Alcuni USR, più lungimiranti e più in linea con i dettami della DdB, richiedono anche l’impronta digitale da apporre sulla domanda e l’esito delle analisi medico-scientifiche con l’attestazione che tali impronte sono da ricondurre al soggetto in questione.
Molti dirigenti scolastici, per non trovarsi impreparati nella fornitura dei dati richiesti in questa e nelle altre innumerevoli occasioni di interazione con i vari settori della PA, hanno saggiamente provveduto a costruirsi un data base Access contenente migliaia di dati come quelli riportati sopra, ma anche altri che potrebbero un giorno o l’altro essere richiesti dalla DdB: numero di scarpe, gruppo sanguigno, QI, allergie alimentari ecc.
(Alcuni DS particolarmente volenterosi e “bolliti”, nel senso della rana, hanno inserito anche le “scappatelle” avute durante la vita matrimoniale, ma il dato è leggibile solo utilizzando un codice di accesso criptato. Non sia mai che il partner…).
Tutto bene, quindi? Ovviamente no. Anche le migliori dittature hanno le loro falle, e in effetti nel corso degli anni si sono levate varie critiche che denunciavano l’avviluppo fin troppo caldo e soffocante delle tante norme. E qualche Ministro, a dire il vero, ha fatto dei tentativi per limitare il problema.
Qui ricordiamo, in particolare, la Ministra della Ipersemplificazione Amministrativa, sen. Gaia Lex, che aveva predisposto ben 250 disegni di legge finalizzati a sfoltire la produzione normativa con l’eliminazione di almeno 180 leggi vetuste. Era un primo passo, ovviamente, anche perché il saldo tra nuove leggi e leggi da abrogare era comunque sbilanciato a favore delle nuove (ma la Ministra e il suo entourage questo aspetto non lo avevano considerato…).
In ogni caso la Ministra non poté completare quest’opera meritoria a causa di un insolito trauma mentale che la colpì mentre era intenta a districarsi tra un combinato disposto e un ad substantiam, conditi da un ex professo.
Solo l’intervento degli addetti alla prima sicurezza, effettuato dopo avere rigorosamente rispettato la procedura prevista dalle norme amministrative in materia, ha scongiurato il peggio. Nel tempo trascorso perché gli addetti alla prima sicurezza intervenissero, la Ministra ha fatto in tempo a ingoiare, in modo compulsivo e incomprensibile, metà dei disegni di legge su cui stava lavorando. Sono state necessarie due lavande gastriche per risolvere il problema.
Risultato: ricovero permanente in Corsia n. 6, di cechoviana memoria.

Sorte migliore non è toccata al suo successore, il Ministro per l’Iper-ipersemplificazione Amministrativa, on. Quinto Comma, che aveva continuato con alacrità il processo di riduzione delle norme, individuando ben 175.000 articoli di legge non più in vigore, sparsi nella sterminata produzione normativa italiana. La cerimonia ufficiale di eliminazione, anche fisica, di queste norme doveva svolgersi, alla presenza delle più Alte cariche dello Stato, presso i giardini del Quirinale, e prevedeva l’accensione di un grande falò purificatore, che avrebbe distrutto le norme vetuste.
Purtroppo, anche grazie a un improvviso venticello, le fiamme hanno lambito le mani dell’on. Ministro, pronte a lanciare sul falò copia cartacea delle vecchie leggi. Davanti agli occhi esterrefatti degli astanti, le fiamme hanno repentinamente avvolto il corpo del Ministro riducendolo letteralmente in cenere. Particolare inquietante: l’unico documento che non è stato distrutto dal fuoco catartico è stato l’articolo di una piccola legge del lontano passato recante norme su come prevenire la diffusione delle fiamme in caso di falò. Va detto però che la drammatica scomparsa del Ministro non è stata del tutto inutile ai fini della semplificazione amministrativa: l’onorevole stava infatti lavorando ad un progetto molto complesso che avrebbe portato alla riduzione di ben 2580 atti amministrativi, ma la cui abrogazione richiedeva 3000 nuove leggi.
Un guadagno insomma c’è stato.

Dopo questi episodi, la DdB aveva fatto condurre una rigorosa indagine scientifica per trovare le ragioni psico-culturali del bisogno impellente, primordiale, ancestrale e naturale del popolo italiano a nutrirsi di burocrazia. In effetti la ricerca, durata ben tre anni, ha portato alla scoperta di un gene, tipico della popolazione italica, battezzato art.20co5-bis, responsabile della produzione compulsiva di norme, regole, atti e direttive da parte degli italiani.
A quel punto anche le ultime voci dissidenti sono rientrate mestamente nel silenzio. E le spire della burocrazia avvolsero dolcemente le contrade d’Italia in un abbraccio da togliere il fiato.




Elogio della teocrazia della privacy

di Mario Maviglia

I primi ad adeguarsi furono i ristoratori: agli avventori non veniva consegnato il menu in forma cartacea con l’elenco dei piatti disponibili, ma un foglio con su riportato un codice QR a barre bidimensionale da leggere con il telefonino, tramite un’apposita app. L’elenco dei piatti (ognuno dei quali veniva identificato con un numero) appariva sul display; il cliente comunicava i numeri dei piatti prescelti al cameriere. “In questo modo è garantita la privacy dei clienti rispetto a quello che mangiano.” “Ah, sì, certo”.
Le Università si adeguarono subito dopo: nei test di accesso ogni studente veniva associato ad un codice alfanumerico (es. ay127bx), codice che lo avrebbe seguito per il tutto il corso di studi. Sia nel corso delle lezioni che durante lo svolgimento degli esami i prof non potevano chiamare gli studenti per nome e cognome, ma utilizzando tale codice personale alfanumerico. Fin da subito emerse che il sistema non era molto agevole e faceva perdere molto tempo, ma d’altro canto le direttive del Garante della Privacy erano chiare: l’uso del nome e cognome era consentito solo nelle situazioni private, mentre in tutte le situazioni pubbliche andava utilizzato il codice alfanumerico per non ledere la privacy dei cittadini.

Alcune Università ovviarono comunque a questo inconveniente stampando il codice alfanumerico direttamente sul braccio destro degli studenti. Qualche osservatore fece notare che ciò ricordava esecrabili pratiche della storia passata, ma nessuno lo ascoltò, anche perché pochi conoscevano questo aspetto della storia.
Le scuole aderirono con grande entusiasmo alle indicazioni del Garante (d’altro canto non avevano scelta: le norme andavano rispettate). Seguendo l’esempio delle Università, anche nelle scuole di ogni ordine e grado gli alunni venivano identificati e chiamati con un codice alfanumerico. Ovviamente non era possibile redarguire gli studenti durante le lezioni, per questioni di privacy. La correzione collettiva dei compiti era severamente vietata in quanto poteva mettere in evidenza gli errori commessi dai diversi allievi, calpestando in tal modo il diritto alla privacy. Gli stessi docenti venivano identificati attraverso un codice alfanumerico. Per la verità le scuole non avevano fatto fatica a implementare il nuovo modo di vivere introdotto dalla Teocrazia della Privacy, avendo fatto esperienza durante il periodo di pandemia causato dal Codid-19. All’epoca, infatti, i docenti dovevano esibire ogni giorno il cosiddetto green pass per non ledere la privacy di chi non voleva vaccinarsi.
Certo, qualcosa non funzionava del tutto. Anche se tutta l’organizzazione sociale aveva come principio di base il sacrale rispetto della privacy dei cittadini, erano frequentissime e sempre più aggressive le telefonate pubblicitarie provenienti da call center, soprattutto durante l’ora di cena, tra un bastoncino di pesce e una minestra di riso. Il cosiddetto Registro Pubblico delle Opposizioni, che doveva servire a bloccare le telefonate indesiderate, non aveva mai preso piede. E d’altro canto, tra bancomat, telepass, tessera sanitaria, videosorveglianza stradale e altri marchingegni simili, del cittadino si poteva sapere non solo dove era stato, ma cosa aveva comperato, quali programmi TV aveva visto, quali medicine aveva acquistato e cosa aveva mangiato al ristorante. A discolpa del Garante va detto che la mole di lavoro richiesta per tutelare la privacy dei cittadini era talmente grande che poteva certo preoccuparsi di tutelare la riservatezza di ognuno!
In ogni caso, ogni sei mesi erano previsti riti riparatori verso il dio Privacy, durante i quali venivano immolati decine di animali (per fortuna in forma virtuale). Tutti rigorosamente elencati con un codice alfanumerico.




L’ora di lezione, tra mito e idealismo

di Mario Maviglia

Nel recente Manifesto per la nuova Scuola (sottoscritto da noti intellettuali quali, tra gli altri, Chiara Frugoni, Carlo Ginzburg, Vito Mancuso, Dacia Maraini, Massimo Recalcati, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky), tra gli otto punti elencati per rilanciare il ruolo della scuola compare anche la centralità dell’ora di lezione a cui viene dedicata una particolare enfasi.
Vi si legge infatti: “Dopo vent’anni di devastanti riforme, occorrerebbero interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale”.
Sarebbe facile fare dell’ironia sottolineando che i promotori del Manifesto hanno dimenticato di aggiungere che per restituire centralità all’ora di lezione “disciplinare” è indispensabile disporre di una cattedra posta sopra una pedana, come avveniva qualche decennio fa, perché in questa modo viene esaltata ancor più la sacralità della lezione, ancorché in un contesto laico. Ci si potrebbe spingere oltre dicendo che in quest’idea sacrale di lezione si intravede lo Spirito che diventa atto, ossia un agire dello Spirito, per usare termini cari a Gentile.

Nessuno vuole misconoscere l’importanza che la lezione riveste nell’economia degli interventi didattici, ma, per come viene presenta dai promotori del Manifesto, si intravede una concezione alquanto ingenua, se non idealistica, della lezione stessa, che non tiene conto di cinquant’anni di ricerca culturale, psicopedagogica e didattica. Già l’insistenza sulla lezione “disciplinare” spazza via tutti i richiami ad evitare la compartimentazione e il frazionamento del sapere, inducendo – come sottolinea Morin[1] “a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro solidarietà), a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e a integrare”.
Tutto ciò porta a una divaricazione e tra “i saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra” [2].
È facile immaginare la fenomenologia didattica della centralità dell’ora di lezione disciplinare così come agognata dai promotori del Manifesto: un susseguirsi di docenti, nel corso della giornata scolastica, ognuno dei quali trasmette il suo sapere disciplinare agli studenti senza alcuna preoccupazione di costruire collegamenti e ponti con le altre discipline. Ovviamente, in questa rappresentazione, gli studenti sono tutti in estatico assorbimento del sapere magistrale, attenti e disponibili a fare da anello terminale di questo processo di transfer cognitivo che vede il docente-sacerdote elargire il suo sapere.

Questa narrazione non farebbe una piega se non trovasse due limiti sostanziali: la realtà concreta del fare scuola e, soprattutto, la realtà concreta degli studenti in carne ed ossa. È infatti noto, a chi ha qualche conoscenza diretta della scuola, che i livelli di attenzione degli studenti non sempre garantiscono una tenuta adeguata su tutte le quattro-cinque ore mattutine di lezioni disciplinari. In questo caso l’opera meritoria dell’agire dello Spirito rischia di essere compromessa dalla volgare, prosaica e ahimè reale esigenza dei corpi che recalcitrano, si distraggono, reclamano pause cognitive.
Va poi tenuto presente che non tutti gli studenti si trovano a loro agio con la comunicazione verbale, preferendo altri canali (motori, iconici, prassici). Una volta tutto ciò andava sotto il nome di stili cognitivi e una competenza specifica dell’insegnante consisteva proprio nel modulare il suo intervento in modo da intercettare, per quanto possibile, tutti i diversi stili cognitivi degli allievi. (Si rinvia alle opere di Jerome Bruner su questo). La lezione, classicamente intesa, azzera queste differenze ed enfatizza la produzione orale.

Connesso a quanto appena detto, c’è un altro aspetto che va considerato e che i nostalgici della centralità della lezione disciplinare hanno trascurato: più che di “lezione” occorre parlare di interventi didattici e formativi variamente connotati. Le attività didattiche svolte in forma laboratoriale sono da considerarsi lezioni in senso classico? E i lavori svolti in gruppo? E la realizzazione di un progetto didattico? E alcune metodologie di coinvolgimento attivo degli studenti come la flipped classroom o il debate? Ma già immaginiamo l’espressione inorridita e disgustata dei puristi della lezione: queste attività andrebbero vietate perché sottraggono ore preziose al vero fare scuola che si realizza solo nel momento in cui si svolge il rito della lezione. Ma forse sotto c’è un altro motivo: la lezione rappresenta l’esaltazione della centralità del docente, il suo potere (cognitivo e non solo). Dare spazio al protagonismo degli studenti (se se ne è capaci, ovviamente), mette in crisi questo paradigma e offusca l’immagine del docente-sacerdote. Lo Spirito che diventa atto potrebbe soffrirne.

[1] E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 7
[2] Ivi, p. 5




Sorridere, voce del verbo insegnare

di Mario Maviglia e Laura Bertocchi

Sorridere per vivere meglio (M.Maviglia)

Nel 1972 Patch Adams, un anomalo e anticonformista medico statunitense, fonda in Virgina il Gesundheit! Institute (Salute, in tedesco). La ricetta di Adams è apparentemente semplice: la salute si fonda sulla felicità ed è possibile intraprendere un percorso di cura e terapia se vi è un approccio con l’altro basato sull’umorismo, la vicinanza emotiva. All’ingresso dell’ospedale da lui fondato ha fatto mettere una frase famosa: “Per noi guarire non è solo prescrivere medicine e terapie ma lavorare insieme condividendo tutto in uno spirito di gioia e cooperazione. La salute si basa sulla felicità – dall’abbracciarsi e fare il pagliaccio al trovare la gioia nella famiglia e negli amici, la soddisfazione nel lavoro e l’estasi nella natura delle arti”.[1]

L’intuizione di Patch Adams non è la trovata di un medico bizzarro o alternativo; in realtà vi sono prove scientifiche che evidenziano il valore terapeutico del riso. È noto infatti che il riso fa aumentare la secrezione di sostanze come l’adrenalina e la noradrenalina e le endorfine che provocano diminuzione del dolore e della tensione. Ma vi sono altri effetti collegati al riso:

Muscolatura: quando si ride parte la muscolatura … si rilassa e innesca una ginnastica addominale che migliora le funzioni del fegato e dell’intestino (ridere equivale a un buon jogging fatto rimanendo fermi). Solo col riso muoviamo alcuni muscoli del corpo e soprattutto del viso. Quando il cervello invia il messaggio “ridi”, ben quindici muscoli del viso vengono attivati dal segnale …  La risata si riflette dall’espressione facciale ai muscoli del torace e dell’addome (le spalle e il torace si sollevano aritmicamente) sino agli sfinteri. Non a caso dopo una risata a crepapelle si sentono i muscoli della pancia doloranti, come pure le costole.

Respirazione: Il primo beneficio provocato da una risata lo riceve la respirazione, che grazie ad essa diventa più profonda. L’aria dei polmoni viene rinnovata attraverso fasi di espirazione e inspirazione tre volte più efficaci che in stato di riposo. Questo favorisce l’eliminazione dell’acido lattico, una sostanza tossica per il nostro organismo, con una sensazione di minor stanchezza. Le alterazioni del ritmo respiratorio intervengono sull’ossigenazione del sangue. La respirazione, inoltre, esercita e rilassa la muscolatura toracica e innesca una ginnastica addominale che migliora le funzioni del fegato e dell’intestino.

Circolazione sanguigna: La risata favorisce, attraverso la respirazione profonda, l’ossigenazione e la circolazione del sangue con aumento della pressione arteriosa. Il riso crea un calore interno generalizzato che ossigenando tutte le cellule del corpo, può accelerare la rigenerazione dei tessuti e stabilizzare molte funzioni corporee, contribuendo a difendere il fisico da infezioni. La riattivazione della circolazione provoca un generale senso di benessere (cenestesi).

Cuore: Durante una risata, il cuore aumenta le pulsazioni anche fino a 120 al minuto.

Occhi: Quando si ride gli occhi sfavillano, hanno una luce più accesa grazie a un nuovo apporto di sangue fresco alle pupille.

Naso: Si dilatano le narici, aumentando così la quantità d’aria che entra nelle fosse nasali. Chi più ride, inoltre, con l’aria fresca ripulisce anche le fosse nasali e chi ride meno incorre nelle malattie di raffreddamento.

Sistema uditivo: Gli stessi suoni emessi da una risata contribuiscono a darci una sferzata di vitalità, grazie a un’azione positiva diretta sui nervi auditivi …

Polmoni: Il primo effetto di una bella risata è di dare aria ai polmoni, con lo stesso risultato degli esercizi che si dovrebbero fare ogni mattina appena alzati. I nostri polmoni contengono infatti dal 10 al 15% di aria residua, che non esce con la respirazione ordinaria, ma che è bene togliere.”[2]

Sulla scia delle esperienze terapeutiche di Patch Adams si è sviluppato un filone di studi denominato clownterapia e di esperienze che si sono diffuse in tutto il mondo[3].

Solo un dubbio rimane dopo quanto detto sopra: perché la gente mediamente sorride e ride poco?
Infatti secondo alcuni dati pubblicati da La Stampa (risalenti al 2010)[4] con l’avanzare dell’età si tende a ridere sempre meno. Infatti, mentre un bebè arriva a ridere fino a 300 volte al giorno, già un adolescente ride “solo” sei volte al dì e dai 20 ai 30 anni si ride in media solo quattro volte al giorno. Tra i 30 e i 40, invece, le cose migliorano: le risate salgono a cinque, ma questo sembra sia legato alla presenza di bambini piccoli, che si hanno di solito intorno proprio in questa fascia d’età. Dopo si assiste ad un crollo: a 50 anni si ride tre volte al giorno, mentre per gli ultra-sessantenni la media si riduce a 2,5. Se si considera che i docenti italiani sono i più vecchi in Europa è facile desumere che nelle classi italiane si tende a ridere e sorridere molto poco.

Sorridere per apprendere meglio (L. Bertocchi)

Se ridere fa vivere meglio, in senso generale, è altrettanto vero che un approccio sorridente, caldo e cordiale aiuta il processo di apprendimento. E questo per ragioni di carattere psicopedagogico. Innanzi tutto, il processo di apprendimento si sviluppa, com’è noto, all’interno di una relazione e dunque la qualità dell’apprendimento, la sua stabilità, la sua implementazione dipendono anche da come funziona tale relazione. In sostanza, c’è un forte intreccio tra gli aspetti cognitivi e quelli emotivi. Una relazione che stigmatizza l’errore o la prestazione probabilmente non aiuta il processo di apprendimento; così pure, una relazione fredda, distaccata, poco empatica rischia di non dare quella giusta motivazione al soggetto in situazione di apprendimento.

Ce ne dà una testimonianza lo scrittore francese Daniel Pennac, che è stato anche professore. In una intervista concessa a Repubblica l’8 ottobre 2016[5], l’inventore di Malaussène afferma “L’umorismo protegge il nostro interlocutore con cui ci stiamo relazionando e in questo senso crea un legame prezioso tra le persone perché con la risata si rassicura l’altro divertendolo. Nel mio caso l’umorismo l’ho ereditato da mio padre. Durante il mio primo anno di scuola sembrava che io non avessi appreso nulla se non la prima lettera dell’alfabeto. Mia madre era terribilmente preoccupata, ma poi mio padre la fece ridere dicendole semplicemente: non ti devi preoccupare, tra ventisei anni conoscerà perfettamente tutte le altre lettere! Ecco, usare il sorriso, la risata, per rassicurare l’altro, per metterlo di nuovo in condizione di affrontare la realtà, questo è il segreto. È quello che ho fatto come professore, rifiutandomi sempre di drammatizzare i piccoli insuccessi dei miei alunni”.

Ridere di se stessi, in primo luogo, appare molto terapeutico, anche perché, nota sempre Pennac, “Tutte le tragedie dell’umanità sono state provocate da megalomani incapaci di prendersi gioco di loro stessi. Io cerco di non prendermi mai troppo sul serio, anche se è più complicato quando sono stanco”. Riguardo la sua esperienza scolastica lo scrittore confessa che provava vergogna per i suoi fallimenti e che nutriva desideri di vendetta contro i suoi professori. “Ho impiegato molto tempo a capire che la vendetta è un sentimento sterile. L’umorismo è stato per me un lungo apprendimento dell’amore”. Da docente, Pennac ha usato l’umorismo come leva motivazionale: “Credo che agli studenti si possa trasmettere l’autoironia è proprio da lì che bisogna cominciare, per combattere in modo efficace la paura che i bambini hanno della scuola. Perché questa paura distrugge ogni capacità di apprendimento”.

Su questi aspetti ha dedicato una grande attenzione Daniela Lucangeli che ha sottolineato la necessità di fondare quella che con felice espressione ha denominato una “didattica del sorriso”[6].
Afferma Lucangeli:Le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni. Se imparo con curiosità e gioia, la lezione si incide nella memoria con curiosità e gioia. Se imparo con noia, paura, ansia, si attiva l’allerta. La reazione istintiva della mente è: scappa da qui che ti fa male. La scuola ancora crea questo cortocircuito negativo”[7].
Ma la studiosa avverte che adottare questa modalità non vuol dire fare i faciloni: Non si vuole incoraggiare una scuola ‘molle’ ma si vuole incoraggiare una scuola capace di dare il 38% in più di organizzazione cerebrale, se sa come innescare il meccanismo dell’intelligenza creativa, costruttiva distribuita“.

Chiunque si sia trovato ad insegnare sa quanto la motivazione giochi un ruolo decisivo nel processo di apprendimento. Certo, la demotivazione scolastica ha cause molteplici e complesse, ma un atteggiamento positivo, che promuova la motivazione intrinseca, può predisporre favorevolmente all’impegno o, quantomeno, limitare le situazioni di disagio che spingono a rifiutare lo studio. Come chiarisce Boscolo[8], l’insegnante può interagire con l’atteggiamento motivazionale dei suoi alunni. Adottare rinforzi non punitivi, non frustranti, riesce a sostenere nella fatica che l’apprendimento comporta. Ed è qui che il sorriso assume un ruolo cruciale.

Innanzitutto precisiamo che il sorriso deve essere vero, sincero. Bonfiglio[9] ha individuato diverse tipologie di sorriso, tra le quali ricordiamo: il sorriso di paura, di disprezzo, triste. Queste espressioni suscitano emozioni negative, che non favoriscono il processo di insegnamento-apprendimento.
Il sorriso che scegliamo di portare in classe ogni giorno deve essere aperto, onesto, sentito.

C’è il sorriso di benvenuto, che accoglie gli studenti ogni mattina all’ingresso nella scuola; il sorriso di incoraggiamento che, unito ad un cenno del capo, invita alla partecipazione attiva, a prendere parola, ad intervenire in una discussione. I rinforzi positivi non possono che essere accompagnati da un sorriso, così come gli sguardi d’intesa. Sorridere in risposta al nostro interlocutore comunica che abbiamo capito e condividiamo ciò che ci viene detto.
Affinché la nostra espressione sia percepita come sincera e partecipata, è necessario che anche gli occhi sorridano, diversamente la sensazione è che qualcosa stoni, come se lo sguardo trasmettesse un messaggio completamente diverso rispetto al resto.
Naturalmente l’età dei nostri studenti determina la percezione di una gamma più o meno ampia di emozioni, di sfumature di significato. I bambini della scuola dell’infanzia non hanno ancora pienamente sviluppato la sensibilità che generalmente permette ad uno studente di scuola superiore di distinguere un sorriso d’intesa da uno di condivisione.
Non è però questo il punto. Qualunque sia il motivo che ci porta a sorridere in classe, questo deve essere sostenuto ed incentivato perché, come precedentemente esposto, non può esserci apprendimento se manca una disposizione d’animo fiduciosa e propositiva.

Nell’ “Etica Nicomachea”[10] Aristotele aveva notato la stranezza del fatto che per poter fare alcune cose è necessario impararle e che per impararle bisogna farle… Secoli più tardi il paradosso aristotelico non è risolto e si adatta perfettamente al mistero dell’insegnamento-apprendimento: un accompagnamento positivo e propositivo può essere imparato, ma per impararlo è necessario praticarlo. Possiamo quindi imparare a sorridere, ma solo esercitando questa capacità, che può diventare un atteggiamento costante.
Tutto ciò naturalmente non significa che sia necessario avere sempre il sorriso stampato in volto: come abbiamo visto, un sorriso sforzato viene percepito immediatamente come falso. È però necessario acquisire la consapevolezza che le nostre espressioni e i nostri atteggiamenti suscitano reazioni solitamente prevedibili nel nostro interlocutore.
Proviamo quindi a sorridere di più: in quel sorriso ci può essere tutto il senso di ciò che vogliamo trasmettere.

[1] P. Adams (2014) Salute!, Feltrinelli, Milano; P. Adams (2005), Visite a domicilio, Apogeo, Adria

[2] http://www.accademiadellarisata.it/public%5CPDF%5CRicerca%5C1.PDF

[3] A.Dionigi, P, Germani (a cura di) (2014), La clownterapia. Teoria e pratiche, Carocci, Roma; V. Olshansky (2017), Manuale di clownterapia, Audino, Roma; M. L. Mirabella, Clownterapia. Volontari clown in corsia e missionari della gioia, Neos edizioni, Torino, 2006; G. Mattia (a cura di), (2014), Con un naso rosso tutto posso! Esperienze di clownterapia, Pensa editore, S. Cesario di Lecce.

[4] https://www.lastampa.it/cultura/2010/10/09/news/dopo-i-52-anni-non-si-ride-piu-1.3699699

[5] https://www.repubblica.it/rclub/persone/2016/10/08/news/daniel_pennac_una_risata_ci_salvera_-150803693/

[6] https://www.youtube.com/watch?v=FOW821d90pM

[7] M. D’incerti (2019), Daniela Lucangeli, l’importanza di insegnare con gioia, Intervista, in “Donna moderna”, 18/02/2019; D. Lucangeli (2019), Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, Erickson, Trento

[8] P. Boscolo (2012), La fatica e il piacere di imparare. Psicologia della motivazione scolastica, UTET Università, Torino

[9] S. Bonfiglio (2008), Introduzione alla comunicazione non verbale, ETS, Pisa, p. 90

[10] Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di M. Mazzarelli (2000), Bompiani, Milano




Caro Ministro, dica qualcosa di scuola 

di Mario Maviglia

 

Ad ogni cambio al vertice del Ministero dell’Istruzione si crea un’attesa quasi messianica rispetto a quanto è chiamato a fare il nuovo Ministro. Anche nei confronti del neo Ministro Patrizio Bianchi ci si aspetta che risolva, quasi magicamente, problemi antichi, ulteriormente appesantiti dalla pandemia. Lo stesso Ministro, che nel 2020 ha coordinato il Comitato degli esperti del Ministero per la ripartenza della scuola, ha elencato, in un agile volumetto edito lo scorso anno [1], i mali che affliggono la scuola italiana.

Tenendo comunque conto dell’orizzonte temporale entro cui potrà agire l’attuale compagine governativa (due anni), è alquanto illusorio pensare che il nuovo inquilino di viale Trastevere possa affrontare una lista di problemi che nel tempo si è ampliata in modo preoccupante. Basterebbe, dal nostro punto di vista, mettere mano, in tempi stretti, ad almeno tre importanti situazioni critiche per dare un po’ di fiducia al mondo della scuola e per dare il segno tangibile che si vuole cambiare rotta.

Il primo riguarda la necessità di avere tutti i docenti in cattedra (di ruolo o non di ruolo) dal 1° settembre o comunque all’inizio delle lezioni, come peraltro ha dichiarato lo stesso premier Draghi nel corso delle consultazioni per la formazione del nuovo Governo. Finora non vi è stato Ministro che non abbia promesso ciò, ma la realtà è sotto gli occhi di tutti. Questa sarebbe una vera riforma epocale per la scuola, peraltro a costo zero; anzi, per alcuni versi sarebbe l’esaltazione della banalità dell’ordinaria amministrazione; è come affermare che per far andare i treni ci vogliono i macchinisti. A ben considerare, il D.Lgs 297/1994 all’art. 455 comma 12 già prevede che ”è fatto divieto di spostare personale titolare nelle dotazioni organiche aggiuntive, dopo il ventesimo giorno dall’inizio delle lezioni, dalla sede cui è stato assegnato”.

Questa esigenza di continuità viene ribadita anche dalla CM n. 220 del 27/09/2000. Per la verità queste norme si riferiscono al solo personale di ruolo: occorrerebbe estenderle anche al personale a tempo determinato e anticipare il divieto di spostamento all’inizio delle lezioni. Ovviamente una decisione di questo tenore potrebbero incontrare le resistenze dell’establishment amministrativo costretto a rivedere tutta la tempistica riguardante i trasferimenti, le assegnazioni provvisorie e gli altri ammennicoli che contraddistinguono la burocrazia scolastica italiana. Anche le organizzazioni sindacali potrebbero avere da ridire per il timore che vengano compromessi i diritti connessi alle graduatorie, alle nomine e via discorrendo. Per quanto riguarda invece gli studenti si sa che non hanno voce in capitolo e quindi ci possono essere anche due-tre cambi di docenti nei primi mesi di scuola.

Un secondo intervento, da realizzare possibilmente in tempi non biblici, è quello provvedere a vaccinare tutti gli studenti (ovviamente coloro che sono vaccinabili) e i docenti prima dell’avvio del prossimo anno scolastico in modo da garantire un regolare inizio delle lezioni e scongiurare la chiusura delle scuole a causa del virus. Sarebbe, peraltro, una misura riparativa verso le scuole stesse che hanno dovuto pagare le disfunzioni di un mancato coordinamento e potenziamento dei servizi di supporto a quello scolastico, primo fra tutti il sistema dei trasporti. La situazione pandemica ha portato alla luce un dato che già si percepiva all’interno della società italiana: la marginalità in cui si trova l’istruzione, la formazione e la cultura. Non è un caso che scuole, cinema e teatri siano i luoghi rimasti più a lungo chiusi. Nella hit parade dei valori quotidiani degli italiani l’aperitivo (o apericena) è di gran lunga più importante della lettura di un libro o della visione di uno spettacolo teatrale. E infatti negli ultimi vent’anni quando c’è stato bisogno di fare cassa per far quadrare i conti pubblici questi settori sono stati i più attenzionati, per dirla col gergo burocratico.

Il terzo aspetto, non meno importante, riguarda i finanziamenti che vengono assegnati alle scuole. È alquanto vergognoso che le istituzioni scolastiche debbano affidarsi alle entrate derivanti dai “contributi volontari” richiesti alle famiglie non tanto per ampliare la loro offerta formativa, ma addirittura per garantire l’ordinaria amministrazione della scuola. Il neo Ministro è un economista e non gli sarà difficile stabilire qual è l’entità della somma standard per assicurare un funzionamento ottimale di una scuola in relazione al grado scolastico, agli indirizzi di studio e alla complessità ambientale. Eventuali richieste di contributi alle famiglie dovrebbero costituire forme del tutto residuali per realizzare particolari progetti non attivabili con i finanziamenti ordinari. Per conseguire questo obiettivo basterebbe allineare la spesa per l’istruzione a quella della media UE, ossia destinare un punto di PIL in più (corrispondente a circa 12-15 miliardi di euro annui). Ma queste cose il neo Ministro le conosce molto bene avendone anche scritto in merito.

I problemi sul tappeto sono ovviamente tanti, ma già dare segnali chiari su questi tre sarebbe una prova tangibile che si vuole veramente cambiare qualcosa e che alla scuola viene riconosciuto quel ruolo cruciale che gli spetta in una società civile e democratica. La scuola merita più rispetto.

[1] P. Bianchi (2020), Nello specchio della scuola, Il Mulino, Bologna




Lucia Borgonzoni al Ministero della Cultura è un’ottima scelta: vi spiego perché

di Mario Maviglia

Gentile Presidente del Consiglio,

molti connazionali hanno avuto da ridire sulla nomina della senatrice Lucia Borgonzoni della Lega a Sottosegretaria alla Cultura.
Sì, certo, la signora in questione, nella puntata del 28/06/2018 della trasmissione radiofonica Un giorno da pecora, aveva candidamente affermato che non leggeva un libro da tre anni (per la cronaca, ultimo libro letto Il Castello di Kafka)[1], ma nessuno dei connazionali ha colto la sottile e quasi machiavellica mossa che ha portato alla decisione della nomina della senatrice a quel prestigioso incarico e che lei, Gentile Presidente, ha avallato.
Cerchiamo di spiegare ai lettori cosa c’è dietro. Sicuramente non le sarà sfuggito, Gentile Presidente, che in Italia si legge poco, come peraltro è facile verificare raccogliendo dati in rete[2].
Ma chi può contrastare questa tendenza così deleteria per il progresso civile e culturale del Paese se non una persona che legge poco a sua volta! Qui sta la trovata geniale della nomina della senatrice Borgonzoni a Sottosegretaria.
Infatti solo la senatrice può comprendere empaticamente dall’interno i meccanismi di difesa che vengono messi in atto nei confronti della lettura; può decodificare gli stati psico-cognitivi che spingono tanti italiani a non leggere; può fornire un repertorio fattuale ed empirico delle ragioni del disamore verso la lettura.


Insomma, sembra la persona giusta al posto giusto. E invece tutti i commentatori hanno espresso stupore, se non addirittura stizza, verso una nomina che appariva ingiustificata, incomprensibile, date le premesse di cui sopra; ma tutti si sono fermati alle apparenze non cogliendo la sottile e perspicace strategia che l’ha ispirata.
In fondo è una sorta di prescrizione paradossale come quella descritta da Milton Erickson in campo terapeutico[3]: vogliamo che la gente legga più libri, allora diamo come modello chi di libri non ne legge proprio. La gente sarà invogliata a leggere per una forma di contrapposizione.

Adesso ci aspettiamo, Gentile Presidente, che a condurre il piano vaccinale nazionale sia un convinto sostenitore del no-vax: saprà sicuramente convincere tutti a fare la vaccinazione aiutandoli a superare ogni resistenza. Da parte nostra avanziamo solo una piccola, ma significativa proposta: all’Agenzia delle Entrate vedremmo bene un evasore fiscale di chiara fama.

Buon lavoro, Gentile Presidente!

[1] https://www.bolognatoday.it/politica/lucia-borgonzoni-rai-radio-lega-un-giorno-da-pecora.html

[2] https://www.giornaledellalibreria.it/news-lettura-la-lettura-in-europa-e-nord-america-chi-legge-di-piu-e-dove-3909.html; https://facta.news/notizia-vera/2020/12/02/si-litalia-e-uno-dei-paesi-europei-in-cui-si-legge-meno/; https://www.sololibri.net/crescono-lettori-italia-ultimi-europa.html

[3] Haley J. (1974), Le strategie della psicoterapia, Sansoni, Firenze

 




Reprimere, tollerare, valorizzare. A proposito del ds veneto sottoposto a procedimento disciplinare

di Mario Maviglia

Qualche tempo fa avevamo dato conto su questo stesso sito della vicenda di un dirigente MIUR (USR Marche) che in una nota indirizzata agli studenti in occasione della ricorrenza del 4 novembre aveva usato toni di esaltazione della guerra per ricordare i Caduti della Prima Guerra Mondiale, riprendendo, peraltro, un discorso tenuto da Mussolini il 23 marzo 1919 in cui il Duce diceva “L’adunata rivolge il suo primo saluto e il suo memore e reverente pensiero ai figli d’Italia che sono caduti per la grandezza della Patria…”; il dirigente in questione aveva scritto nella sua nota: “In questo giorno il nostro reverente pensiero va a tutti i figli d’Italia che dettero la loro vita per la Patria…”. (Dirigenza pubblica e comportamenti anomali, 7 novembre 2020).

In quell’occasione avevamo osservato che nessuno vuole coartare la creatività espressiva di un dirigente; si poneva però l’esigenza di tenere ben distinte le proprie aspirazioni “espressive” (in questo caso ideologiche) da quelle dell’istituzione, che deve essere preservata da ogni contaminazione personalistica. Aggiungevamo che se il registro comunicativo protocollare dell’istituzione viene vissuto come troppo stretto, rigido e inibente, il dirigente può dedicarsi alla scrittura letteraria, nel suo tempo libero; oppure può rimettere il suo incarico per meglio seguire la sua vena poetico-ideologica e magari fondare un movimento politico basato sul valore della guerra e della morte come aspirazione di ogni vero patriota. Inoltre segnalavamo che ciò che non è ammissibile è il coinvolgimento dell’Ufficio in panegirici dal netto sapore reazionario e fascistoide. Non ci risulta che sia stato avviato alcun procedimento disciplinare nei confronti di tale dirigente di prima fascia.

Adesso il quotidiano Repubblica del 23/12/2020 (Il preside di Vo’ sotto inchiesta disciplinare per le critiche ad Azzolina, a firma di Corrado Zunino) dà notizia di un procedimento disciplinare avviato dal MIUR nei confronti di un dirigente scolastico che avrebbe utilizzato sui social alcune espressioni considerate irriguardose nei confronti della Ministra. Ovviamente quanto stiamo per esporre si basa sulla ricostruzione fatta dal giornalista, ricostruzione che appare comunque molto documentata, astenendoci in ogni caso dall’assumere una posizione in un senso o in un altro. Il senso di questo intervento è quello di fare alcune riflessioni sul diritto della libertà di espressione e di come questo diritto va contemperato con il dovere di una leale collaborazione nei confronti dell’Amministrazione. Non va inoltre trascurato il fatto che l’avvio di un procedimento disciplinare con la produzione di una contestazione di addebiti non significa che l’interessato sia colpevole, come talvolta si legge nei social. Anzi, la procedura disciplinare, nella sua ritualità definita dalla legge, nel nostro ordinamento giuridico risponde all’esigenza di garantire il diritto alla difesa dell’incolpato attraverso l’istituto del contraddittorio e/o della produzione di memorie scritte. Sarà quindi l’UPD-Ufficio Procedimenti Disciplinari a stabilire se quanto contestato assuma rilievo disciplinare, dopo aver seguito una precisa procedura che prevede il coinvolgimento dell’interessato in fase difensiva.

Da quel che è dato capire, sono almeno tre le contestazioni che vengono mosse al DS: aver violato il principio di leale collaborazione nei confronti dell’Amministrazione (art. 14 CCNL 2006-2009: “Il dirigente … conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza dell’attività amministrativa nonché quelli di leale collaborazione, di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 del codice civile, anteponendo il rispetto della legge e l’interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui”); aver violato il Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (DPR 16/04/2013 n. 62, presumibilmente art. 10 co 1 “Nei rapporti privati, comprese le relazioni extralavorative con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, il dipendente … non assume nessun altro comportamento che possa nuocere all’immagine dell’amministrazione”, e art. 13 co 9 “Il dirigente, nei limiti delle sue possibilità, evita che notizie non rispondenti al vero quanto all’organizzazione, all’attività e ai dipendenti pubblici possano diffondersi”; aver violato l’art. 26 del CCNL, che richiama gli obblighi del dirigente scolastico.

Da quanto riportato dal quotidiano le espressioni censurate, apparse sul profilo Facebook del DS, sarebbero le seguenti:

  • Aver definito la Ministra Azzolina “una che ci crede, ma è debole”;
  • Aver ribattuto che “questo numero non vuole dire nulla” a fronte della dichiarazione MIUR “Il numero degli studenti positivi nelle scuole è dello 0,08 per cento”;
  • Aver espresso dubbi sulla decisione della Ministra di convocare trenta DS, senza un preciso criterio di rappresentatività, per raccogliere notizie e dati sulla situazione delle scuole. Il DS in questione ha postato “Esprimo perplessità su come vengono scelti questi dirigenti scolastici. Chi si ascolta? Gli amici?”;
  • In un’altra occasione lo stesso DS ha scritto, sempre sui social, “”Banchi sì, banchi no, quando è che iniziamo a parlare di scuola?”.

Ribadiamo ancora una volta che ci stiamo basando su quanto riportato da Repubblica; può darsi che vi siano altre contestazioni di diverso tipo e peso. In ogni caso, qui si tratta di dirimere una questione di fondo, ossia se le espressioni usate dal DS rientrino nella sfera dei diritti di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost), o se siano meritevoli di attenzione sul piano disciplinare in quanto considerate ingiuriose nei confronti dell’Amministrazione e dei suoi rappresentanti. Prendiamo l’espressione usata nei confronti della Ministra Azzolina (“una che ci crede, ma è debole”): a ben vedere, questa espressione sarebbe stata più offensiva, in quanto sarcastica, se il DS avesse detto “una che ci crede ed è molto forte”, se si tiene conto del contesto generale causato dalla pandemia e degli innumerevoli problemi sorti nella gestione della stessa, soprattutto in campo scolastico. Anche l’espressione usata in occasione della scelta di trenta DS per uno scambio di idee con la Ministra, (“Esprimo perplessità su come vengono scelti questi dirigenti scolastici. Chi si ascolta? Gli amici?”), appare alquanto castigata e semmai non tiene conto della facoltà discrezionale che la Ministra può usare nell’acquisire dati, informazioni, punti di vista, stati d’animo interpellando chi ritiene che le possano fornire tali informazioni.

Come si vede, tutte le espressioni riportate sopra si prestano almeno a una duplice interpretazione e la loro valenza va contestualizzate nella specifica situazione, come peraltro sempre dovrebbe avvenire in campo disciplinare. En passant, si sottolinea che proprio la scuola diretta dal DS in questione è stata scelta dal MIUR per l’inaugurazione ufficiale del corrente anno scolastico, alla presenza del Presidente della Repubblica e della stessa Ministra Azzolina. Difficile immaginare che il Ministero abbia scelto una scuola guidata da un DS facinoroso o così poco leale nei confronti dell’Amministrazione, anche se le espressioni contestate sembra siano successive a questo evento.

Più in generale, si è indotti a pensare che all’Amministrazione non siano molto gradite le critiche espresse dai propri dirigenti anche perché – aggiungiamo noi – quando ci si contorna di yes-man o yes-woman (usiamo volutamente espressioni anglofone, meno pesanti di quelle italiane…) l’angolo visuale diventa quello della piena e acritica adesione alla volontà del capo di turno, in una sorta di comportamento più realista del re/Ministro. Tutto ciò a fronte di comportamenti (comportamenti, non opinioni, come nella fattispecie) non sempre irreprensibili che molti DS mettono sovente in campo. Ci riferiamo, ad esempio, al ricorso allo smart working personale di alcuni DS anche in periodi non strettamente emergenziali che rendevano ingiustificata l’assenza dalla sede di servizio; o al fatto che molti DS si negano ad incontrare genitori degli alunni, e spesso anche gli stessi docenti, costruendo intorno a loro una cintura di sicurezza che in confronto quella del Capo dello Stato appare alquanto labile e perforabile. In tutti questi casi l’Amministrazione non ha avviato procedimenti disciplinari preferendo “gettare la spugna con gran dignità” (De Andrè). E, ripeto, qui si parla di comportamenti, non di opinioni.

(Riguardo allo smart working un giorno o l’altro bisognerà specificare il significato semantico-comportamentale che questa espressione assume nell’ambito della PA).

Ma quand’anche volessimo maturare la convinzione che quelle espressioni siano le manifestazioni espressive di un dirigente particolarmente critico nei confronti dell’operato dell’Amministrazione e dei suoi vertici, rimane il fatto che va considerato se queste espressioni siano state accompagnate da conseguenti comportamenti omissivi, scorretti o addirittura contra legem; altrimenti, ancora una volta, ci si riferisce all’ambito delle opinioni. Ma anche in questo caso, si coglie l’incapacità dell’Amministrazione di far tesoro delle voci critiche ed anzi di valorizzarle per assumere decisioni quanto più ponderate possibili. Stiamo facendo un discorso generale che prescinde dal caso specifico, ma ci sembra che ancora una volta il bisogno di trovare adesioni acritiche al proprio operato fa perdere di vista il valore vitale, ancorché defatigante, del punto di vista diverso, della critica. Eppure ogni Amministrazione sana e matura dovrebbe individuare al proprio interno quei dirigenti che si assumono il disagevole compito di andare “in direzione ostinata e contraria” (sempre De Andrè) per cercare di capire più in profondità le ragioni del dissenso e per apportare (perché no?) eventuali modifiche migliorative. Spesso ci si priva di questi contributi perché è più facile, ed anche più comodo, oltre che più narcisisticamente appagante, avere intorno collaboratori proni e ubbidienti, anche quando l’evidenza porta a dire che il re (ministro) è nudo. In fondo anche Nietzsche consigliava: “Ama i tuoi nemici perché essi tirano fuori il meglio di te.”

Se invece si vuole vietare l’espressione delle opinioni critiche dei DS verso il management politico e amministrativo del sistema scolastico italiano, la strada c’è: basta modificare il Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (DPR 62/2013) ed inserire una esplicita postilla in tal senso. Il pensiero unico ne guadagnerebbe.