La scuola che in tanti sognano, ma che non avremo

Stefaneldi Mario Maviglia

Questa campagna elettorale sta facendo sognare tutti gli operatori scolastici: tra aumenti salariali (fino ad arrivare all’equiparazione con la media degli stipendi dei docenti UE), il tempo pieno su tutto il territorio nazionale ed altre importanti promesse, c’è motivo di essere ottimisti rispetto al futuro della scuola italiana.

Non vogliamo offuscare questa immagine idilliaca della scuola che verrà; segnaliamo però che ci sono anche altri problemi che oggi sono sul tappeto e che meriterebbero di essere affrontati. Ne citiamo solo alcuni, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo.

Ormai è invalso l’uso di considerare l’istituzione scolastica come una comunità che interagisce con la più vasta comunità esterna. L’ultimo CCNL Scuola ha introdotto, a questo proposito, l’espressione di “comunità educante” (art. 24). Visione suggestiva e intrigante. Ma perché la scuola possa riconoscersi come “comunità” occorre che vi siano i presupposti, come dire?, materiali perché ciò avvenga. In una comunità, ad esempio, ci si aspetta che i componenti si conoscano tra loro in modo non superficiale, ci si attende che possano interagire al loro interno e condividere idee e progetti; insomma ci si aspetta che vi sia una rete relazionale e comunicativa viva e continua sia in senso orizzontale (tra colleghi) che in senso verticale (con la dirigenza e viceversa). A fronte di ciò, vi sono istituti scolastici che contano più di 2000 studenti ed oltre 200 addetti tra docenti e personale ATA.

È ragionevole pensare che queste strutture si configurino più come dei monstre organizzativi che come comunità. Difficile immaginare, ad esempio, che un dirigente scolastico, in questi contesti, conosca in modo adeguato tutti i docenti dell’istituto, per non parlare degli studenti. Purtroppo le norme attuali fissano solo i numeri minimi per far funzionare un’autonomia scolastica (non meno di 600 alunni ordinariamente e non meno di 400 nelle zone di montagna o piccole isole); non viene fissato un numero massimo. Pensare di fondare “comunità educanti” con numeri così alti è pura utopia in quanto viene a mancare l’elemento caratterizzante una comunità, ossia quello relazionale-comunicativo; al più si può fondare una comunità organizzativa con una chiara definizione dei ruoli e dei poteri dei diversi soggetti coinvolti. La soglia che la legge fissa come livello minimo dovrebbe costituire invece il livello normale di un’istituzione scolastica. I grandi istituti scolastici rispondono ad esigenze di risparmio economico e, tutto sommato, perseguono modelli aziendalistici (ricordano le grandi fabbriche), ma i processi educativi, per essere curati e sviluppati adeguatamente, dovrebbero ispirarsi a modelli umanistici, ossia favorire l’incontro tra le persone e tra queste e la cultura, in tutte le sue poliedriche forme.

La scuola, com’è noto, ha il compito di curare i processi di apprendimento e socializzazione delle giovani generazioni in modo che questi possano inserirsi attivamente nella società e realizzare, per quanto possibile, i loro desideri. Tutto ciò che ruota intorno alla scuola (competenze professionali, aspetti organizzativi, dispositivi amministrativi, risorse strumentali ecc.) dovrebbe essere subordinato o collegato a questo compito prioritario (alla mission della scuola, come spesso viene detto). Se però si analizza come la scuola è andata strutturandosi nel corso di questi ultimi due decenni si può facilmente verificare che questo principio è stato fortemente contraddetto nei fatti. Prendiamo l’aspetto burocratico. Ogni organizzazione non può fare a meno di documentare, attestare, certificare ecc. la propria attività, per vari e molteplici motivi; ma quando la produzione di atti raggiunge livelli assimilabili alla categoria della superfetazione, allora rischia di essere messa in discussione la stessa mission dell’organizzazione stessa, nel senso che ciò che doveva essere visto come un mezzo diventa un fine. È quello che è successo alla scuola e che continua a succedere: un profluvio di norme, circolari, direttive, note, decreti, istruzioni e quant’altro, che soffoca l’attività di docenti e dirigenti. Non è esagerato dire che oggi il docente italiano rischia di essere più paragonabile ad uno scribacchino che a un intellettuale. Non vi è aspetto della funzione docente (e dirigente) che non sia fortemente interessata a produzioni scritte (schede, resoconti, rapporti, verbali, verifiche, progetti, linee operative ecc.), per non parlare dell’insieme di incontri, riunioni, colloqui ecc. che fanno da corollario a tutto ciò. Questa sovrapproduzione burocratica è costantemente sostenuta dallo stesso Ministero (e dalle sue diramazioni periferiche) attraverso una molteplicità di atti (circolari, note, monitoraggi, direttive, ordinanze e altro ancora) che si riversano sulle istituzioni scolastiche il più delle volte senza che vi sia un ritorno degli esiti di quanto richiesto. Questo processo crea inevitabilmente sovrapposizione di norme, spesso in contraddizione tra loro, ponendo i soggetti terminali in situazioni disagevoli di interpretazione ed esegesi delle norme stesse. Forse bisognerebbe riorganizzare in modo sistematico le norme già esistenti (operazione già prevista, per la verità, dalla legge 107/2015, ma finora mai portata a termine) e quindi imporre un limite massimo di atti da produrre nel corso di un anno scolastico. Se le norme nazionali sono chiare e ben sistematizzate, gli interventi amministrativi del Ministero non dovrebbero superare la decina nel corso dell’anno scolastico; ci penseranno le scuole autonome ad organizzare l’attività scolastica sulla base delle norme esistenti. Questo presuppone che il “superiore Ministero” abbandoni definitivamente ogni velleità centralistica e si ponga al servizio dell’autonomia delle scuole.

C’è però da sperare che questo passo indietro del Ministero rispetto alla sovrapproduzione burocratica non venga compensato da analoga sovrapproduzione delle scuole autonome. Talvolta, infatti, sono i dirigenti scolastici a soffrire di comportamenti compulsivi sul piano della produzione di “carte”, attraverso una intensa generazione di norme regolamentari locali, oppure richiedendo ai docenti la produzione/compilazione di una molteplicità di documenti. Una scuola di dimensioni più ridotte probabilmente necessiterebbe di una minore produzione di “carte e scartoffie”. Quello che si vuole sottolineare con decisione è che l’insegnamento dovrebbe essere fortemente sburocratizzato e gli insegnanti non dovrebbero essere oggetto di inutile e snervanti molestie burocratiche; le energie magistrali vanno impiegate prima di tutto e innanzi tutto nella cura dei processi di apprendimento e non nel soddisfare le brame burocratiche dell’ingordo moloch amministrativo, invero mai completamente sazio. Le preoccupazioni dei docenti dovrebbero essere altre: come strutturare la classe in una comunità di apprendimento? Quali strategie mettere in atto nei confronti degli studenti che non apprendono? Come suscitare la motivazione? Quale mediazione didattica appare più indicata per quella specifica classe frequentata da quei particolari alunni? Quali approcci valutativi adottare in termini formativi? Come suscitare e tenere vivo l’interesse degli alunni? Come utilizzare in modo proficuo le tecnologie informatiche nella didattica? Quali approcci sono più efficaci nella gestione della classe o dei gruppi? Come garantire continuità e coerenza tra i diversi interventi dei vari docenti che si alternano in una medesima classe? Come interagire con la realtà esterna senza snaturare la specificità educativa della scuola? Su queste domande prioritariamente, e su altre del medesimo tenore, si dovrebbe indirizzare l’attenzione dei docenti in quanto facilitatori dei processi di apprendimento. Eppure l’impressione che si ricava è che questi problemi siano stati espunti dal dibattito sulla scuola, tutto centrato su ciò che avviene al di fuori dell’aula, come se la professione docente si svolgesse in un altrove contrassegnato dall’assenza della didattica e della pedagogia.

Questo problema appare strettamente intrecciato al cosa insegnare, ossia a ciò che è importante che oggi apprendano gli studenti e soprattutto alle forme di “trasmissione” del sapere. Sul primo punto sembra ormai persa la battaglia condotta per tanti anni e che mirava a snellire ed essenzializzare i curricula delle scuole di ogni ordine e grado. In realtà nel tempo i curricula si sono viepiù ampliati configurandosi di fatto come degli “spezzatini cognitivi” con scarse relazioni tra di loro. Questo processo di secondarizzazione, caratterizzato da nette paratie tra le discipline, ha nel tempo coinvolto anche i gradi iniziali dell’istruzione, talché oggi non vi è una sostanziale differenza tra l’offerta didattica del primo e del secondo ciclo, a parte, evidentemente, i livelli di approfondimento. Parlare di semplificazione del curricolo, attraverso operazioni di apparentamento tra discipline affini o periferiche, oggi appare quasi improponibile anche perché andrebbe a scardinare il meccanismo perverso delle classi di concorso iperspecialistiche. In questa frammentazione sono stati sacrificati, almeno nel primo ciclo, anche i cosiddetti saperi di base, (lingua e matematica, in primo luogo), immolati sull’altare dell’uguaglianza delle discipline, con inevitabili ripercussioni sulle possibilità di padroneggiare tutte le discipline, atteso che una inadeguata alfabetizzazione linguistica pregiudica l’acquisizione delle altre.

Ancor più complesso è il problema della mediazione didattica, ossia di come far arrivare il messaggio agli allievi, e dunque la questione delle strategie e della strumentazione (didattica) che vengono utilizzate. Anche in questo caso sembra che si faccia ancora molta fatica ad uscire dai canoni tradizionali caratterizzati da una comunicazione unidirezionale. In fondo, diciamocelo chiaro, in molte scuole la lezione la fa ancora da padrona. Decenni di insistenza sulla centralità dello studente e sulla cura della personalizzazione si infrangono davanti al totem della sempiterna lezione. Non che questa vada criminalizzata, ma bisognerebbe almeno trovare degli adeguati contrappesi per rendere effettivamente attivo il ruolo dello studente. E oggi esistono delle strategie didattiche che permettono di operare in questa prospettiva. Il lavoro di gruppo o quello cooperativo, ad esempio, appartengono a questa categoria, anche se ancora sono molto poco presenti nel nostro sistema scolastico e in alcuni istituti del tutto ignoti. La didattica laboratoriale, che coniuga l’approfondimento teorico con gli aspetti operativi di una disciplina, è un’altra strategia molto citata ma poco praticata. La responsabilizzazione dello studente con la mobilitazione delle sue capacità elaborative ed operative appare ancora molto poco diffusa nella pratica didattica. Di fatto gli studenti sono quasi sempre destinatari pressoché passivi degli interventi didattici degli insegnanti; sono poche le occasioni in cui possono mettere a frutto, attraverso progetti individuali o di coppia o di gruppo, quanto acquisito in classe. Non che manchino esperienze ispirate a questi principi educativo-didattici, ma nel complesso la didattica appare ancora ingessata, centrata prevalentemente sulla parola dell’insegnante e fortemente disallineata rispetto alle forme contemporanee di conoscenza dei giovani di oggi, immersi in un universo tecnologico dove l’utilizzo dei mezzi informatici ha sostituito le forme tradizionali dell’acquisizione dei dati e delle modalità di comunicazione.

Quanto è stato detto fin qui stenta ad entrare nel dibattito pubblico sulla scuola, ma se non si tengono conto di questi problemi le varie proposte di riforma rischiano di rimanere lettera morta in quanto non riescono ad incidere sulle concrete prassi didattiche. Se non vi è un cambio di paradigma nel modo di fare scuola ogni progetto di riforma è destinato ad arenarsi. Gli stessi interventi che mirano a contrastare le cosiddette “povertà educative” spesso dimenticano di considerare che può essere la stessa scuola ad alimentare ed aggravare queste povertà laddove perpetua forme vetuste di didattica che non riescono a motivare e coinvolgere nei processi di apprendimento la popolazione studentesca più fragile.

Tutto ciò ci porta a fare un’ultima considerazione riguardante il ruolo fondamentale svolto dai docenti nel rinnovamento della didattica e quindi della scuola. Ogni proposta di riforma della scuola non può aspirare ad alcun possibile successo se non trova una classe magistrale in grado di accettare e interpretare le sfide innovative. Lavorare sulle competenze professionali degli insegnanti appare quindi un obiettivo prioritario se non si vogliono perdere importanti opportunità di sviluppo e rinnovamento della scuola. Gli stessi sostanziosi finanziamenti messi in campo dal PNRR rischiano di lasciare inalterato il livello di qualità della scuola se non si interviene sulla formazione dei docenti. Avere insegnanti ben preparati e in grado di modulare gli interventi didattici a seconda delle realtà delle classi, vuol dire investire sulla loro formazione e sui meccanismi di selezione e individuazione di professionisti idonei. Su questo aspetto in Italia si registra una grande fatica a trovare una soluzione adeguata; di fatto ci si accontenta di tenere in piedi un esercito di professionisti malpagato, senza alcun incentivo a migliorare la propria professionalità, con pochissimi controlli sulla qualità del servizio prestato e con una preparazione iniziale alquanto indefinita. Con questi presupposti c’è poco da essere ottimisti.

 

 




Caro futuro Ministro dell’Istruzione, chiunque tu sia…

di Mario Maviglia

(Attenzione! Questo intervento contiene affermazioni a forte impatto emotivo e pertanto se ne sconsiglia la lettura ai soggetti fragili, depressi o impressionabili. Non tenere a portata di mano pistole d’ordinanza o altre armi, anche bianche).
Nel testo il termine “Ministro” viene usato al maschile ma comprende anche il femminile.

Caro futuro Ministro dell’Istruzione, chiunque tu sia (c.t.s.), siamo convinti che sarai scelto non in seguito a incomprensibili e imperscrutabili beghe di potere o per mantenere equilibri politici precari. No! Tutto ciò fa parte della liturgia del passato. Questa volta sarai scelto per le tue acclarate competenze generali e di politica scolastica in particolare. Tu conosci in modo puntuale i problemi che affliggono la scuola ed elaborerai un piano di interventi tempestivo, efficace e definitivo. Finalmente la scuola sarà rivoltata come un calzino e potrà realizzare la sua importante funzione senza intoppi o titubanze, proiettata verso un futuro radioso di sviluppo, crescita e ricchezza.
La scuola sarà posta al centro dell’agenda politica e dell’opinione pubblica e tutti ne riconosceranno il suo insostituibile e fondamentale ruolo che svolge per il bene del Paese. Eccetera…

Ma, prima che tu inizi questa catartica e rivoluzionaria operazione di innovazione e trasformazione, vogliamo richiamare la tua attenzione su alcuni preliminari aspetti della macchina che andrai a dirigere nella convinzione che ciò ti possa tornare utile e possa imprimere una accelerazione ai tuoi disegni riformatori.

Caro futuro Ministro, c.t.s., come sai, quando si intraprende un’impresa complessa come quella che tu stai per iniziare, una delle prime cose da fare è quella di verificare chi sono i propri collaboratori, sia nel micro che nel macro, e quali competenze e motivazioni hanno rispetto al compito.
Per esempio, il tuo apparato amministrativo è in grado di gestire processi ordinari ancorché complessi? (Non rispondere subito, fai prima un respiro, o conta fino a tre).
Alcuni di questi processi sono di una banalità disarmante e ripetitiva, come ad esempio la nomina dei docenti “prima” che inizino le lezioni (o la nomina degli addetti all’amministrazione delle scuole).
Saprai, caro futuro Ministro, c.t.s., che l’anno scolastico, in Italia, inizia il 1° settembre, mentre le lezioni hanno un inizio differenziato a seconda delle Regioni. Queste scadenze si conoscono un anno prima e dunque tutto lascerebbe supporre che si abbia il tempo necessario per organizzare tempestivamente le varie operazioni di trasferimenti, nomine, immissioni in ruolo e quant’altro.
Eppure è quasi commovente vedere come l’apparato amministrativo ogni anno arrivi con l’acqua alla gola per completare le varie operazioni.
Forse sono troppo complesse? Forse ci sono troppi passaggi? Forse non ci sono adeguate competenze gestionali nel management amministrativo?
Il problema in sé non è paragonabile ai tanti di carattere politico che dovrai affrontare, caro futuro Ministro, c.t.s., ma considerato che impatta fortemente sull’organizzazione delle scuole e sulle attese di studenti e famiglie, forse ti conviene rivolgere una certa attenzione e trovare delle soluzioni, come dire?, definitive. (Ricorda, caro futuro Ministro, c.t.s: l’a.s. in Italia inizia il 1° settembre…).

Nel corso della campagna elettorale molti tuoi concorrenti hanno promesso mare e monti (qualcuno anche la collina…). È stato detto che gli stipendi dei docenti italiani devono essere equiparati alla media degli stipendi dei docenti UE. Ma perché fermarsi a questo? Perché non puntare più in alto? Tu vai oltre: prometti stipendi da favola, con aumenti stratosferici per tutti! Tanto gli italiani hanno la memoria corta e dimenticano tutto.
Ricorderai che nel passato qualche uomo politico aveva promesso un milione di posti di lavoro poco prima delle elezioni, qualcun altro l’aumento delle pensioni e la sconfitta della povertà, tanti altri l’abbassamento delle tasse. Gli italiani stanno ancora aspettando. Gli italiani sanno aspettare. E allora tu prometti stipendi d’oro! Non ti costa nulla e ti fa avere un mucchio di voti.

Anche riguardo ad altri aspetti della vita scolastica, non essere banale! Punta in alto!
Basta con le classi pollaio! Al massimo, classi-stalla: sono più grandi e ci stanno più studenti. Nessuno ti può accusare di non aver risolto il problema. Anzi, potrai sempre dire che “la congiuntura economica del momento non consente di affrontare il problema in una prospettiva risolutoria diversa, e pertanto occorre adottare una linea di condotta realistica in sintonia con le specifiche richieste dell’UE… ecc. ecc.” (il riferimento alla UE va sempre bene…).
E poi, parliamoci chiaro, si può fare lezione anche con 50 studenti: chi ha voglia di studiare non si lascia condizionare dal numero. Certo, i tuoi predecessori hanno insistito oltremodo (sulla carta…) sulla necessità di personalizzare i percorsi di apprendimento, ma quelle sono espressioni che si usano perché “lo vuole la UE”, appunto. Fumo negli occhi, insomma.
D’altro canto, saprai, caro futuro Ministro, c.t.s., che la scuola riesce a fare poco o nulla rispetto ai divari iniziali tra gli studenti. E allora perché vuoi intralciare un fenomeno naturale, che fa parte della natura stessa delle cose? Ovviamente non dirai così al personale della scuola, anzi ti sperticherai nel dire che il tuo Ministero “è impegnato nel garantire a tutti gli studenti il diritto allo studio e il successo formativo quale obiettivo prioritario per innalzare il livello culturale della popolazione e la crescita economica del Paese bla bla bla…”.

Non ti vorrai sottrarre, caro futuro Ministro, c.t.s., al fascino discreto del lasciare il segno della tua permanenza a Viale Trastevere 76/A attraverso una epocale riforma della scuola, qualunque cosa essa sia.
I tuoi predecessori hanno amato in modo particolare questo aspetto della loro missione. Tu non puoi essere da meno. La riforma può riguardare l’Esame di Stato della scuola del secondo ciclo (ma è diventato un tema talmente inflazionato che è meglio lasciar perdere…); oppure l’obbligo scolastico (12 anni? 13 anni? Nessuno offre di più?…) oppure le modalità di reclutamento del personale (tema sempre attuale e che dà sempre tante soddisfazioni al Ministro di turno, un po’ meno alle scuole costrette a fare i conti con sistemi di selezione che nella migliore delle ipotesi premiano la velocità di risposta ai quiz o la conoscenza mnemonica dei candidati, molto meno l’attitudine all’insegnamento).
Ma noi ti consigliamo di dedicarti ad una riforma veramente titanica: il riordino dei cicli! Se riuscirai a portarla a termine, una tua gigantografia verrà apposta nel Salone dei Ministri del palazzo ministeriale! Per la verità in questa fase non è tanto importante la realizzazione della riforma, quanto la promessa di realizzarla (ricordati del milione di posti di lavoro di cui sopra…). Per la sua elaborazione puoi fare riferimento agli schemi che di solito utilizzano gli allenatori delle squadre di calcio (1-3-4-4, oppure 4-4-4, oppure 1-4-3-5 ecc.). Qual è il senso di tutto ciò? È lo stesso che consente il funzionamento di scuole con oltre 2000 studenti…

Un aspetto che ricorre puntualmente nel dibattito scolastico è quello dell’autonomia delle scuole. Non ti lasciare ingannare, caro futuro Ministro, c.t.s. È un falso problema.
L’autonomia scolastica in Italia non la vuole quasi nessuno. Sicuramente non il Ministero che andrai a dirigere, che l’ha usata per rifilare alle scuole “autonome” incombenze burocratiche di una certa scocciatura.
Questa finta autonomia ha permesso finora al Ministero che andrai a dirigere di tenere in mano il pallino del gioco, imponendo alle scuole disposizioni, direttive, ordini, istruzioni, precetti, circolari, decreti, note, linee di comportamento e altro ancora.
D’altro canto se le scuole dovessero davvero agire l’autonomia prevista dalle norme (ancorché nella sua dimensione “funzionale”), forse emergerebbe con tutta evidenza l’inutilità di un apparato amministrativo ministeriale (con le sue ramificazioni periferiche) così elefantiaco e pervasivo.
A proposito, caro futuro Ministro, c.t.s., forse saprai che quasi il 27% delle istituzioni scolastiche non ha il DSGA (Direttore Servizi Generali e Amministrativi), con punte che arrivano al 53% (come in Lombardia). Ma tu non farne un problema, non provare ambascia: in fondo, in una situazione così caratterizzata, le scuole possono sperimentare sul campo il concetto di resilienza che va tanto di moda in questo periodo.
Sì, certo, ci sono le scocciature dei PON o quelle legate all’utilizzo dei fondi PNRR, ma stai sicuro che in un modo o nell’altro le scuole se la caveranno anche senza la presenza del DSGA. Sono resilienti, appunto…

Ci sarebbero tante altre cosette da considerare: l’effettiva possibilità per le famiglie di utilizzare i servizi educativi 0-3 anni senza dover accendere un mutuo; l’avvio (non sulla carta) del Sistema integrato 0-6; la valutazione come sistema di controllo dei processi di insegnamento-apprendimento (e non solo come verifica sanzionatoria dei risultati degli studenti); la dialettica tra conoscenza e prassi (evitando l’inciampo fonetico dei PCTO); il superamento, o l’attenuazione, dei divari territoriali in termini di qualità dei risultati. Ma queste sono cose troppo serie per poter essere trattate da un Ministro.

Insomma, caro futuro Ministro, c.t.s., il lavoro che ti attende è tanto, ma siamo sicuri che riuscirai a portarlo avanti con quella perizia e competenza che hai dimostrato in campagna elettorale facendo promesse mirabolanti.
Il volgo ha bisogno di promesse perché ha bisogno di sognare, di immaginare un avvenire migliore, idilliaco e paradisiaco. Tu hai regalato un sogno! Lascia che la realtà viaggi invece sui suoi consueti binari dell’umana miseria e dell’asfittica contingenza del momento.

 

 




Il docente esperto: uno su cento ce la fa…

di Mario Maviglia

Prendete una delle categorie più vilipese in Italia, sia sul piano sociale che economico, ancorché – contraddittoriamente – più tutelata sul piano occupazionale. Si tratta di una professione più che dignitosa, ma sempre più oberata di impegni burocratici. Su questa categoria i vari Ministri che si sono succeduti nel tempo hanno sempre nutrito l’ambizione di lasciare un segno con le loro (spesso dannose) riforme. Nessuno che si sia mai preoccupato di creare le condizioni migliori per consentire a questi professionisti di svolgere il proprio lavoro in modo tranquillo e sereno, centrando l’attenzione sul compito principale che dovrebbe assolvere la loro ”azienda”, ossia la promozione e lo sviluppo dei processi di apprendimento e di socializzazione degli studenti. Nel tempo, anzi, le condizioni lavorative di questi professionisti sono andate viepiù peggiorando.

Oggi, attraverso una delle tante leggi che nulla ha a che fare con il mondo della scuola (Decreto Aiuti bis), viene inserito un meccanismo di “premiazione” dei docenti, che non trova eguali in altri contesti professionali, attraverso la creazione della figura dell’”insegnante esperto”, un super-docente dotato di grandi capacità, quasi taumaturgiche, soprattutto considerando l’iter che dovrà seguire per diventare “esperto”. Infatti il super-docente dovrà completare tre corsi triennali di formazione consecutivi e non sovrapponibili tra loro, con valutazione positiva. Questi docenti niciani non potranno essere più di 8 mila (poco più dell’1% del totale) e alla fine di questa eroica cavalcata formativa potranno meritatamente godere di un assegno annuale ad personam di 5650 euro all’anno, ossia circa 400 euro in più al mese rispetto ai colleghi non “esperti”.

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Peraltro non sono richiesti compiti particolari a questa nuova figura, anche se dovrà rimanere nella stessa scuola per almeno tre anni. A livello formale la sua istituzione è prevista a partire dall’a.s. 2023/2024, ma gli effetti economici decorreranno dall’a.s. 2032/2033. (Per molti docenti già arrivarci, a questa data, sarà una positiva prova di resilienza esistenziale…).
La legge non chiarisce se, in caso di premorienza dell’interessato prima della scadenza dei fatidici 9 anni di formazione, le esperienze formative comunque maturate nel frattempo possano essere trasmesse agli eredi o a colleghi designati dal compianto prima della sua dipartita. Ma va detto che c’è nello spirito della legge una grande prospettiva di speranza e di ottimismo: infatti chi viene prescelto come “docente esperto” dovrà impegnarsi a vivere ancora per almeno 9 anni per poter godere dei sacrifici sostenuti. E in questo periodo storico contrassegnato da crisi di vario tipo, depressione cronica e sfiducia nel futuro, il messaggio veicolato dalla norma suona decisamente rincuorante e terapeutico.

Questo, sommariamente, quanto prevede la legge. Ma ancor più interessante è capire quali giri mentali hanno seguito i proponenti questa norma che di fatto prefigura un iter formativo per acquisire la qualifica di “esperto” equiparabile alla formazione di un pilota d’aereo o a quella di un medico specialista. Forse poteva essere scelta, come dire?, una via più breve, magari riconoscendo eventuali “crediti” acquisiti durante l’esperienza professionale pregressa. Ma in questo caso, forse, la futura quanto inutile Scuola di Alta Formazione non avrebbe avuto lavoro a sufficienza da svolgere e non avrebbe potuto giustificare quindi la sua ragion d’essere e il baraccone burocratico al suo seguito.

Più prosaicamente ci si poteva dedicare in modo serio e in un arco temporale non biblico a equiparare gli stipendi dei docenti italiani alla media degli stipendi dei loro colleghi UE, almeno come base di partenza e questo anche per rendere più attrattivo l’insegnamento ad una platea più vasta di professionisti.

Ovviamente non è solo una questione economica, ma c’è da chiedersi quale molla masochistica dovrebbe spingere un docente a formarsi per 9 anni prima di vedere dei vantaggi economici, quando potrebbe destinare meno tempo per una preparazione adeguata ad affrontare un concorso per dirigente scolastico o dirigente tecnico (se i concorsi si svolgessero a scadenza regolare…), con vantaggi economici molto più consistenti.

Insomma, l’impressione generale che si ricava è che la vecchia e mai abbandonata idea di creare forme di differenziazione di carriera tra i docenti sia ancora tutta da elaborare, a meno che non ci si voglia illudere che l’istituzione del “docente esperto” sia la risposta a questo problema. Sicuramente è un modo poco produttivo di utilizzare i fondi pubblici. Se a ciò si aggiunge il finanziamento necessario per il funzionamento dell’istituenda ed evanescente Scuola di Alta Formazione si può comprendere come spesso la spesa pubblica venga dirottata in opere inutili, se non futili.

 

 

 

 




L’ipocrisia ai tempi della guerra

di Mario Maviglia

Chiedo scusa se questo intervento può risultare duro se non addirittura cinico. Mi difendo dicendo che quanto sta succedendo in questo periodo è ancora più duro e cinico.
Il conflitto tra Russia e Ucraina ha messo in luce una mole impressionante di comportamenti ipocriti a vari livelli.

1. Partiamo da quello più vicino al mondo della scuola.
Migliaia di bambini/e e ragazzi/e ucraini/e sono stati accolti (fortunatamente) in Italia come profughi e possono in tal modo avere protezione, assistenza e frequentare la scuola. Per accogliere i profughi ucraini vi è stata una mobilitazione di solidarietà come non si è mai vista in Italia, almeno per quanto riguarda i fenomeni migratori. Eppure nel corso degli ultimi decenni vi sono stati movimenti migratori che hanno massicciamente interessato il nostro Paese, ma non sempre l’accoglienza è stata così solerte e solidaristica, nemmeno nei confronti dei bambini, che pure provenivano da zone dilaniate dalla guerra (Afghanistan, Siria, Iraq, per citarne alcune). Anzi, alcune forze politiche hanno fatto del contrasto all’accoglienza dei migranti (anche provenienti da zone di guerra) la loro parola d’ordine.
Questo comportamento schizofrenico (ipocritamente schizofrenico) può essere spiegato, almeno in parte, dal fatto che i bambini provenienti dall’Ucraini sono bianchi, biondi, occhi azzurri, cristiani ancorché ortodossi, mentre quelli dei Paesi citati sono di pelle scura, capelli scuri, occhi neri, di religione musulmana. Vi sono sicuramente altre ragioni legate alla specifica posizione geopolitica dell’Ucraina e ai particolari rapporti che ha (o tenta di avere) con l’UE e i Paesi occidentali.


Quello che qui si vuole sottolineare è il diverso trattamento che viene riservato ad altre infanzie, altrettanto sfortunate e in pericolo, come se la retorica dell’accoglienza fosse ammantata di un sottile razzismo che classifica inconsapevolmente (?) i bambini in persone di serie A e di serie B.

2. Qualche giorno fa la Camera dei Deputati ha approvato, a larghissima maggioranza, l’aumento delle spese militari per 13 miliardi di euro.
Con questa somma potrebbero essere costruiti circa 4500 nuovi asili nido, o, se si dovessero riadattare edifici già esistenti, un numero ancora più alto. Oppure si potrebbero abbassare le rette per la frequenza degli stessi asili. Secondo un’indagine condotta da Altroconsumo e riportata sul Corriere della sera on line del 13/03/2022  il costo per la frequenza di un asilo nido privato va da 480 a 620 euro al mese. Milano è la città più cara tra le otto esaminate (Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma e Torino) su 350 nidi coinvolti. Eppure la legge 107/2015 e il successivo decreto legislativo 65 del 2017 miravano proprio ad abbattere le rette di frequenza e ampliare il servizio educativo per portarlo al 33% dei potenziali utenti, secondo quanto fissato dalla UE.
Questo obiettivo appare ancora lontano dall’essere raggiunto; in compenso si aumentano le spese militari. Anche in questo caso assistiamo a una grande rappresentazione ipocrita quando si pontifica sull’attenzione da riservare all’infanzia a fronte di scelte politiche che vanno in una direzione opposta; o quando ci si meraviglia che il nostro Paese presenta un tasso di natalità tra i più bassi al mondo. Difficile incentivare la nascita di figli aumentando le spese militari.

3. In questo periodo siamo stati letteralmente investiti da una mole enorme di immagini di guerra attraverso i vari TG, inframmezzati da messaggi pubblicitari di vario tipo in un mix consumistico dove il carrarmato colpito da un missile cedeva il posto all’ultimo modello di auto ibrida e viceversa.
L’aspetto più ipocritamente sconcertante nelle “analisi” dei vari giornalisti è il loro stupore nel registrare distruzione e morte. Ma la guerra ha proprio questo scopo. Forse occorre ricordare, parafrasando Mao, che “la guerra non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La guerra è un atto di violenza.”
L’unico antidoto alla guerra è la pace: ma di questo nei vari TG si parla poco, troppo preoccupati a spettacolarizzare e ad esibire sconcerto davanti al dolore e alla morte. La scuola ne può parlare, e forse può anche educare alla pace, o almeno tentare di farlo. Non è un lavoro semplice perché anche in questo caso occorre andare oltre il generico e ipocrita auspicio del “volersi bene” sapendo che non a tutti si vuole o si può voler bene. Il problema, semmai, è quello di creare un contesto di relazione e di apprendimento dove questi aspetti negativi possano essere percepiti, discussi, analizzati e governati. Sotto questo profilo la scuola può essere una grande palestra di democrazia e di comprensione, se riconosce gli aspetti “bellicosi” che albergano negli alunni e se predispone itinerari formativi per incanalare questi comportamenti in una dimensione di convivenza civile avendo la chiara consapevolezza che costruire è più difficile che distruggere.




Didattica a distanza e setting fluttuanti

di  Mario Maviglia e Laura Bertocchi

La scenografia nella didattica a distanza (M. Maviglia)

 Uno dei tanti effetti che la pandemia ha avuto in campo scolastico è stato quello di aver prodotto un radicale cambiamento nell’allestimento del setting educativo, intendendo con questo termine “l’insieme delle variabili che definiscono il contesto entro cui si svolge la relazione formativa”[1] (M. Castoldi, 2016) .
Tra queste variabili generalmente vengono ricomprese il tempo, lo spazio, le regole, gli attori, i canali comunicativi, ma anche le forme relazionali. La didattica a distanza ha cambiato le caratteristiche di tali variabili, anche se finora non si è molto approfondito e discusso questo aspetto che pure influenza in modo non secondario l’impresa educativa. Se ad esempio consideriamo le coordinate spazio-temporali si può facilmente constatare che un conto è fare scuola avendo come riferimento un setting strutturato con spazi ben identificabili (aule, laboratori, atelier, palestre ecc.) e dove il “controllo” del docente è ben delineato, un altro è gestire la lezione in spazi virtuali, come nella DaD, dove l’”aula” si scompone in tanti spazi individuali (l’immagine sullo schermo di ogni singolo studente) e la tradizionale scenografia scolastica (fatta di banchi, cattedra, lavagna o LIM, pareti più o meno addobbati, angoli, attrezzature ecc.) risulta completamente trasformata. Peraltro, va sottolineato che mentre nei tradizionali setting d’aula sono i docenti a definire – consapevolmente o meno – l’allestimento della scenografia in modo che sia funzionale al tipo di attività che vi si svolge e agli obiettivi che si vogliono conseguire, nella scenografia dettata dalle contingenze della DaD il “controllo” dei docenti risulta molto più labile e indefinito e comunque fortemente influenzato alla tecnologia.

Un altro aspetto da considerare è che nella “scenografia DaD” entra prepotentemente in campo il contesto familiare dei singoli studenti, sebbene attraverso il particolare e limitato occhio della webcamera.
Di fatto si entra nelle case degli studenti (e gli studenti entrano in quella dell’insegnante, se il collegamento avviene dalla casa di costui), si spia dentro. Questa deformazione dei confini del setting educativo determina problemi del tutto nuovi rispetto alla tradizionale gestione delle attività didattiche.


La variabile tempo, ad esempio, va incontro ad una serie di alterazioni: in situazione di DaD può succedere che non tutti gli studenti riescano a collegarsi alla rete e dunque si va incontro a inevitabili perdite di tempo o comunque a tempi morti. (Ricordiamo che “Il rapporto DESI (Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società) 2020 della Commissione Europea (…) ci vede posizionati al 25° posto globale nel ranking della digitalizzazione dei paesi dell’Unione Europea (i dati sono riferiti al 2019, perciò ancora 28 paesi)” (Rapporto sulla trasformazione digitale dell’Italia, CENSIS e TIM, 2020[2]).
Non è che nelle situazioni normali non vi siano perdite di tempo, ma mentre in quest’ultime il docente può intervenire direttamente per risolvere eventuali problemi, nella DaD le possibilità di intervento da parte dell’insegnante sono molto più limitate. A ciò va aggiunta la diversa strumentazione tecnologica di cui gli studenti possono usufruire a casa e dunque le differenti possibilità di avere collegamenti ottimali oppure problematici. Non tutti gli studenti utilizzano la banda larga o la fibra per il processo dei dati. Questi aspetti, se non adeguatamente considerati, rischiano di creare difformità nelle possibilità di accesso al servizio scolastico. In fondo in classe la strumentazione didattica è a disposizione di tutti gli alunni; nella situazione di DaD è invece fortemente correlata alla dotazione tecnologica delle famiglie.

Va pure detto che la didattica a distanza, se non adeguatamente gestita, tende ad enfatizzare gli aspetti più trasmissivi dell’insegnamento con un inevitabile scivolamento verso un approccio nozionistico alla didattica. La didattica in presenza non è scevra da questi rischi, ovviamente, ma le specifiche coordinate spazio-temporali della DaD accentuano ancor più questi elementi unidirezionali della comunicazione magistrale. Ci sono ovviamente degli “accorgimenti” che possono attenuare questi aspetti; uno di questi, ad esempio, consiste nell’attivare gli studenti nei giorni precedenti la lezione o l’attività didattica, in modo che possano consultare materiale on line che lo stesso docente fornisce loro o che possono reperire direttamente sulla base delle indicazioni date dall’insegnante (ovviamente in relazione all’età degli alunni). In questo caso la lezione viene “costruita” insieme agli studenti sulla base di quanto hanno capito/trovato sull’argomento. Ancora troppo spesso gli studenti vengono considerati meri destinatari dell’attività didattica, più che protagonisti, e la DaD rischia di relegarli in una dimensione di maggiore passività.

Un ulteriore aspetto va tenuto presente nella scenografia della DaD, sempre in relazione alla gestione dei tempi. Proprio perché gli elementi trasmissivi rischiano di farla da padrone, i tempi di attenzione potrebbero conoscere livelli ancor più bassi di quanto non succeda nelle situazioni scolastiche ordinarie. È pur vero che i ragazzi oggi sono abituati a stare anche molte ore davanti a un computer, ma le forme di utilizzo sono molto diverse di quanto avviene durante la DaD in quanto le loro possibilità di intervento sul palinsesto sono decisamente molto limitate.

Gli aspetti comunicativi (L. Bertocchi)

Possiamo allora chiederci quali strumenti ha il docente in DaD per cercare di coinvolgere gli studenti. Alcuni non sono poi così diversi da quelli utilizzati in presenza.
Partiamo da una constatazione: ogni insegnante è guardato ed ascoltato (si spera!), anche in DaD. Spetta a lui decidere di “operare una messa in scena attiva del proprio corpo”[3] e della propria voce, anziché “essere passivamente esposto agli sguardi”[4] degli studenti. Spetta a lui scegliere di utilizzare consapevolmente gli strumenti che ha a disposizione, cosciente delle reazioni che atteggiamenti e comportamenti possono suscitare.

La voce innanzitutto. È lo strumento professionale per eccellenza, fondamentale per ogni docente, anche quando la didattica si realizza a distanza. Cerchiamo di analizzare in che misura e con quali differenze rispetto alle lezioni che tradizionalmente si tengono in presenza.

L’insegnamento “è essenzialmente fatto di parole”[5]. Il docente comunica in modi diversi e con diversi scopi:[6]

  1. Di controllo: ordina, comanda, tronca i conflitti.
  2. Di imposizione: regola, dispone, moralizza, giudica, informa.
  3. Di facilitazione: chiarisce, mette in evidenza, dimostra, insegna.
  4. Di svolgimento del contenuto: stimola, apprezza, offre aiuto.
  5. Di risposte personali: risponde alle domande, accetta le esperienze personali, interpreta, riconosce i propri errori.
  6. Affettivi positivi: loda, mostra sollecitudine, incoraggia.
  7. Affettivi negativi: ammonisce, rimprovera, accusa, rinvia.

Soffermiamoci quindi sugli aspetti paraverbali, detti anche non verbali, del parlato e che riguardano il modo in cui qualcosa viene detto. Essi “modellano, arricchiscono, completano, a volte modificano”[7] il significato del messaggio, fino al punto di stravolgerlo.  Tra le principali qualità vocali che caratterizzano il tono di un discorso troviamo:

  1. L’altezza: riguarda la frequenza del suono e permette di distinguere una voce acuta da una grave, un tenore da un baritono per esempio.
  2. Il timbro: deriva dall’ampiezza di vibrazioni e permette di riconoscere suoni che hanno la stessa altezza, come una medesima nota suonata da un oboe e da una chitarra rock.
  3. La velocità di eloquio: riguarda il numero di sillabe pronunciate in un determinato lasso di tempo.
  4. Il ritmo: e cioè l’alternanza delle velocità in un discorso.
  5. L’intensità: ci permette di distinguere i suoni deboli da quelli forti.

L’altezza e il timbro ci appartengono per natura e sono difficilmente modificabili. Permettono di distinguere la nostra voce tra mille altre, come una sorta di impronta digitale. Le altre caratteristiche invece, note con il termine di “colore”, oltre a suscitare spesso prevedibili reazioni nell’interlocutore, sono riconosciute come rivelatrici dei sentimenti e delle emozioni di colui che parla.

Vediamo qualche esempio.

Al di là di precise caratteristiche personali e culturali, adattare il ritmo al discorso è molto importante. Un andamento regolare esprime emozioni tranquille, ma rischia di diventare mono-tono, rendendo estremamente difficile mantenere nell’interlocutore un’attenzione costante. Un ritmo irregolare, al contrario, rende emozioni forti e violente e, al contempo, permette di sottolineare i passaggi che riteniamo fondamentali.

Inoltre, poiché anche in DaD è auspicabile che il processo di insegnamento-apprendimento si realizzi in modo collaborativo, l’esperienza ci insegna che, in questa modalità più che in presenza, gli interventi degli studenti vanno sollecitati, poiché “sparire” e nascondersi dietro ad uno schermo è più facile e più frequente che in un’aula scolastica.

Anche i silenzi possono essere ricchi di senso e di significato. Non parlare, dopo aver posto una domanda, permette all’interlocutore di inserirsi nel discorso, dandogli il tempo necessario a formulare una risposta. Il rischio di silenzi prolungati in remoto è però che qualcuno li attribuisca a problemi di connessione. Ecco, in questi casi “riempire” i silenzi con cenni di incoraggiamento e sorrisi può essere una strategia.

Altra caratteristica molto importante nella comunicazione è l’intensità della voce: una voce forte richiama l’attenzione, incita, esorta, ma può anche apparire prevaricatrice; al contrario, una voce troppo bassa rischia di perdersi e di non essere correttamente percepita, soprattutto in DaD, dove i rumori in sottofondo sono diversi e possono interferire con l’adeguata comprensione del messaggio.

D’altro canto, non deve essere sottovalutata la ricchezza comunicativa del linguaggio non verbale. Il contatto fisico – una delle forme più forti di trasmissione di un messaggio, che favorisce l’avvicinamento, anche emotivo, tra le persone – in DaD viene a mancare.

Permangono invece, in tutta la loro potenza comunicativa, altri gesti che – come le parole – rivestono diverse funzioni. Nella comunicazione a mezzo busto le mani possono essere visibili. Tra i gesti principali individuiamo quelli[8]:

  1. Olofrastici: con una sola parola trasmettono un messaggio, come per esempio il gesto “vai via!”
  2. Articolati: indicano un nome o un oggetto, come quando ad esempio puntiamo il dito per indicare una persona.
  3. Iconici: rappresentano immagini.
  4. Arbitrari: che appartengono ad uno specifico linguaggio, come quello dei segni per i sordi.
  5. Codificati: ai quali attribuiamo precisi significati condivisi.

Questi gesti, utilizzati correttamente, arricchiscono ed enfatizzano il discorso.

Anche la mimica facciale gioca un ruolo importante in DaD, ma non solo. Alcune espressioni hanno evidenti funzioni di rinforzo, positivo o negativo, di ciò che viene detto a parole. Questi i più evidenti:

  1. Testa: scuotere la testa dall’alto verso il basso indica approvazione, assenso; muoverla invece da destra verso sinistra mostra disaccordo, dinego; inclinarla da un lato, magari guardando negli occhi l’interlocutore, trasmette attenzione, empatia, propensione all’ascolto.
  2. Occhi: aggrottare le sopracciglia mostra contrarietà, disapprovazione; alzare gli occhi al cielo, magari sbuffando, rivela stizza e irritazione; sollevare un solo sopracciglio indica scetticismo e incredulità; spalancare gli occhi mostra sorpresa o terrore (ma speriamo non sia questo il caso!).
  3. Bocca: abbiamo un sorriso sardonico, beffardo, persino sprezzante quando gli angoli della bocca sono rivolti verso l’alto mentre lo sguardo rimane serio; un sorriso sincero invece mostra approvazione e incoraggiamento; serrare le labbra, magari mordicchiarsele, rivela disagio.

Numerose piattaforme permettono di mettere in evidenza colui che parla e allora lo sguardo e il sorriso diventano fondamentali. Il contattato oculare è possibile anche via web, soprattutto nei momenti in cui -anziché parlare a tutta la classe – si instaura un dialogo collaborativo con un singolo allievo. Generalmente guardare il proprio interlocutore trasmette sensazioni di franchezza, attenzione, partecipazione, incoraggiamento. Se in presenza essere fissati può mettere alcuni studenti a disagio, poiché percepiscono questo atteggiamento come aggressivo o sfidante, ciò raramente succede a distanza, dove il filtro dello schermo attenua le espressioni, rendendole meno nitide. Per questa ragione allora una certa enfatizzazione di alcune caratteristiche può aiutare l’efficacia comunicativa.

Quanto abbiamo presentato sopra sono solo alcuni spunti per sollecitare una prima riflessione su come anche in situazione di DaD è opportuno prestare attenzione agli aspetti scenografici del fare scuola, un fare scuola affatto diverso da quello ordinario e proprio per questo meritevole di essere investigato nella sua diversità. L’aspetto comunicativo riveste, in questo contesto, una particolare importanza considerato che è soprattutto sulla figura dei docenti e degli studenti che si concentra l’attenzione, a differenza della classica situazione d’aula dove gli stimoli percettivi sono molto più variegati. 

NOTE

[1]https://www.iccocchilicciananardi.edu.it/attachments/article/591/Oltre%20la%20metodologia-setting%20organizzativo%20e%20clima%20relazionale.pdf

[2] https://www.operazionerisorgimentodigitale.it/sites/default/files/pdf/20201130%20Rapporto%20sulla%20Trasformazione%20digitale%20dell’Italia%20-%20esteso.pdf

[3] C. Pujade-Renaud (1983), Le corps de l’enseignant dans la classe, ESF, Paris, p. 74

[4] Ibidem

[5] G. Ballanti (1979), Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Lisciani e Giunti Editori, Teramo, p. 7

[6] M. Maviglia, L. Bertocchi (2021), L’insegnante e la sua maschera. Teatralità e comunicazione nell’insegnamento, Mondadori, Milano, pp. 58-59

[7] G. De Landsheere, A. Delchambre (1981), I comportamenti non verbali dell’insegnante, Lisciani & Giunti Editori, Teramo, p. 37

[8] I. Poggi (1987), Le parole nella testa. Guida a un’educazione linguistica cognitivista, Il Mulino, Bologna, p. 51




Che disastro la scuola progressista! Non ci sono più gli ignoranti di una volta!

di Mario Maviglia

Un recente articolo dell’amico e collega Franco De Anna, apparso su queste pagine (Signora mia, non c’è più la scuola di una volta: la ragione astuta del sociologo illustre …e famiglia), mi offre l’occasione per tornare sull’argomento e sottolineare alcuni aspetti che mi stanno a cuore.

Comincio sottoponendo i lettori ad un piccolo test parascientifico (in Italia di scientifica c’è sicuramente l’evasione fiscale…): alzi la mano chi non ha mai sentito i seguenti mantra: “i guai della scuola sono iniziati con il ‘68”; “la scuola progressista è un disastro”; “la scuola media unica ha abbassato il livello di istruzione e favorito l’analfabetismo”.
Vedo che nessuno ha alzato la mano, come volevasi dimostrare. In effetti, periodicamente e in modo ciclico, i soloni nostrani lanciano i loro strali contro la scuola di massa, rimpiangendo un passato irrimediabilmente perduto dove la scuola era seria, i ragazzi apprendevano (e i treni arrivavano in orario, ma questo è un altro mantra…) e insomma lo spirito assoluto spargeva il suo sapere sulle vergini menti dei giovani (quelli delle classi abbienti, beninteso) preparandoli adeguatamente alla pugna e alla direzione del Paese.
Questa idilliaca, funzionale e rassicurante situazione (rassicurante per le classi abbienti, beninteso) è stata spazzata via dalla scuola di massa, ossia dalla innaturale pretesa delle classi subalterne di accedere al sapere e di occupare posti di potere prima riservati esclusivamente alle élite. Il punto di non ritorno di questo imbarbarimento etico-culturale è individuabile nell’istituzione della scuola media unificata che, aderendo a una deplorevole istanza democratica, ha messo insieme il figlio del villano con quello dell’imprenditore, Gianni con Pierino, quello col conto in banca e quello col conto con la giustizia.


Ma l’errore ancor più grave della nuova scuola è stato quello di aver tolto il latino dalle materie di studio: un lutto mai elaborato dai nostri reazionar-chic. Ma come si fa a formare un cittadino colto, preparato e responsabile se non si studia il latino?

Il colpo di grazia è comunque arrivato con il ’68, con le sue pretese egualitarie e le sue visioni oniriche (“L’immaginazione al potere”). La cultura data in pasto alle masse è come una perla data in pasto ai porci: è una metafora, ovviamente, ma rende bene l’idea di come tanti intellettuali inorganici leggono quel periodo storico.
La cosa interessante di tutto ciò è che il vero fallimento a cui abbiamo assistito in campo pedagogico è stato quello del modello gentiliano di scuola, incapace e disinteressato a garantire un’istruzione di qualità a tutti i cittadini. Quel modello, che già funzionava male nel Ventennio, è esploso con l’avvento della scuola di massa in quanto ha continuato a perpetuarsi in un contesto storico-educativo del tutto diverso. Puntare il dito contro la cosiddetta “pedagogia progressista” indica l’ignoranza degli accusatori verso la storia della pedagogia e della scuola.

Infatti, se si vanno ad analizzare e studiare le esperienze educative dei pedagogisti progressisti si scoprirà (incredibile!) che sono tutte accomunate da un grande rigore, impegno e attenzione ai risultati. Ma forse fare i nomi di Dewey, Decroly, Freinet, Visalberghi, Bertoni Jovine, Lodi, Ciari, Malaguzzi e altri ancora e pensare che siano conosciuti dai nostri socio-pedagoghi è pretendere troppo.
Dire che da queste esperienze nasce l’antinozionismo progressista in Italia (come afferma una professoressa-scrittrice che forse si è ritrovata nel ritratto della prof della Lettera di Barbiana) denota, nella migliore delle ipotesi, una profonda ignoranza verso la storia della pedagogia. Di fronte a simili sciocchezze in sede di esame all’Università il prof direbbe: “Vedo che ha le idee confuse o forse non ha studiato a sufficienza. Torni al prossimo appello”.

A proposito di Barbiana, Don Milani è spesso fatto oggetto di attacchi da parte dei nostri Nobel in Pedagogia, dimenticando che proprio Don Milani è stato uno dei più strenui difensori di una scuola “seria”: a Barbiana non esisteva la ricreazione e si andava a scuola anche nei giorni festivi. Il priore teneva continuamente i ragazzi impegnati nel compito (e questo dovrebbe piacere moltissimo ai nostri soloni). Il problema è che quei ragazzi venivano sollecitati a usare la loro testa, ad utilizzare i dati per discutere della realtà, a capire le ragioni per cui durante la seconda guerra mondiale ci siano state tante vittime tra i civili piuttosto che tra i soldati. Questo è insopportabile per i nostri socio-pedagoghi: la storia è già scritta nei libri di testo, non abbisogna di essere ulteriormente investigata, basta spiegarla. Si fa una bella lezione e tutto si chiude lì, senza tanti fronzoli che fanno perdere tempo e non offrono ai bambini le nozioni necessarie per la loro crescita intellettuale.

Anche la malsana idea di Mario Lodi di introdurre i bambini al metodo scientifico facendo fare loro esperienze adatte alla loro età è pura perdita di tempo in quanto i concetti scientifici debbono essere appresi per come si sono storicamente sedimentati. E per fare questo basta e avanza il libro di testo. Insomma, se si vanno ad investigare le esperienze di scuola progressista (per quel che è dato capire con questo termine), senza utilizzare il paraocchi dei nostri soloni, si scopre che dietro c’è un’idea di scuola sicuramente ambiziosa, seria, operosa, attenta ai risultati e ai processi, fortemente inclusiva. (Ecco: inclusiva è veramente troppo per i nostri studiosi. Come i cani di Pavlov, quando sentono questo termine hanno eruzioni cutanee di carattere sociologico…). Certo, non necessariamente in quelle scuole si studiava il latino, e magari si faceva meno grammatica di quel che servirebbe. E questo non è tollerabile per i socio-pedagoghi last minute.

Un’ultima annotazione: dal ’68 in poi si sono succeduti in Italia 46 Governi (https://www.senato.it/leg/ElencoMembriGoverno/Governi.html); non tutti erano di marca “progressista” (per quel che è dato capire con questo termine), anzi alcuni erano di marca decisamente non progressista. Eppure, malgrado ciò, i nostri soloni addebitano la colpa dei mali della scuola alla cultura progressista. Evidentemente c’è stata una forte connivenza tra non progressisti e progressisti, altrimenti i primi avrebbero potuto, con la loro saggia opera riformatrice e restauratrice, deviare il corso della storia e salvare la scuola italiana dai tanti problemi che oggi la affliggono. Così non è stato, anche se i nostri soloni non sembrano rendersi conto di ciò, troppo presi a prestare la loro grande disattenzione allo studio delle opere di storia della pedagogia, tutte scritte rigorosamente in latino, obviously.




Come uccidere la formazione senza essere scoperti

di Mario Maviglia

Questo intervento vuole offrire una serie di utili suggerimenti a coloro che, a vario titolo, si occupano di formazione del personale della scuola e che sono mossi dalla comprensibile volontà di sopprimere ogni tentativo di renderla attuabile.
Parliamoci chiaro: la formazione in servizio è una  inutile perdita di tempo (e di soldi), soprattutto se riferita ad un sistema scolastico sano, avanzato, produttivo, eccellente come quello italiano, caratterizzato da risultati fuori dal comune, come emerge dalle classifiche internazionali (e infatti i risultati migliori si registrano al di fuori dei comuni italiani…), dalla grande cura che viene dedicata per far sì che nessuno si perda per strada (la dispersione scolastica in Italia è a livelli quasi zero…; il motto di tutte le scuole italiane infatti è No one left beynd), e da un corpo docente che sprizza salute da tutti i pori pedagogici ed esprime una preparazione professionale mediamente straordinaria e comunque non equiparabile a quella dei docenti degli altri Paesi avanzati.

Esiste anche da noi, ovviamente, qualche mela marcia, qualche docente che non sa fare il suo mestiere, ma il sistema è così solido che si riesce a risolvere queste criticità senza grandi difficoltà (ad esempio “sollecitando” il docente inadeguato a chiedere trasferimento ad altra scuola, e poi ad un’altra ancora e così fino all’età pensionabile. Il motto Nessuno resti indietro è da riferire ai docenti… ).

Tornando a noi, ci sono vari modi per uccidere la formazione senza farsi scoprire e lasciando credere alla UE e agli altri partner internazionali che nutriamo una profonda fiducia sul valore aggiunto della formazione e che quindi ci impegniamo a mettere in atto piani formativi di grande valenza pedagogica e didattica che contribuiscono in modo determinante ad innalzare il già altissimo livello di preparazione dei nostri docenti bla bla bla, bla bla bla… (cfr Greta Thunberg).

Questi metodi di soppressione della formazione sono il risultato di tanti studi svolti sul campo a vari livelli e di una continua sperimentazione in situazione. Ad esempio, per lunghi anni abbiamo detto che la formazione è un diritto/dovere dei docenti, una locuzione, questa, bellissima per dire tutto (ossia niente) e per scansare in modo rigoroso e scientifico l’inutile zavorra della formazione. Infatti, nella titanica (e bizantina) discussione riguardante quanto dovere e quanto diritto ci debba essere nella formazione, intere generazioni di docenti sono riusciti ad andare tranquillamente in pensione facendo poche o zero ore di formazione e potendo dire ai nipoti, con orgoglio: “Io non c’ero!” oppure, quelli più esterofili, “Not in my back yard!”

Questa situazione assolutamente idilliaca e tranquilla è stata proditoriamente e sciaguratamente sconvolta dalla legge 107/2015 che ha stabilito che la formazione dei docenti è “obbligatoria, permanente e strutturale”.
Panico nel mondo scolastico e sindacale! Non tutti hanno però colto la sottile e intelligente strategia utilizzata dal nostro legislatore nel far credere che la formazione diventasse qualcosa di stabilizzato nella vita delle istituzioni scolastiche. In realtà questa volontà il decisore politico non l’ha mai avuta! E il decisore amministrativo ancora meno! Il tutto, infatti, rientrava in una sorta di teatrino politico escogitato appositamente per confondere l’UE e far sembrare che in Italia la formazione è tenuta in grande considerazione. E in effetti, con visione lungimirante, la stessa Amministrazione scolastica si è ben guardata dal tradurre quella “obbligatorietà” in un monte ore definito e a sancirlo nel CCNL.

Anzi con una nota applicativa (n. 2915 del 15/09/2016), degna della migliore scuola sofista, il Ministero precisava che “il principio della obbligatorietà della formazione in servizio” [va considerato] “come impegno e responsabilità professionale di ogni docente” [e dunque] “l’obbligatorietà non si traduce, quindi, automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del Piano”.
Insomma, non esiste alcun monte-ore obbligatorio. Il sospiro che si è sentito in Italia al momento dell’emanazione della nota era quello di sollievo da parte di molte scuole e dei loro sindacati. Questo concetto veniva ribadito con commovente iterazione con una nota successiva (la n. 25134 dell’1/06/2017) la quale stabiliva che “l’obbligatorietà non si traduce automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del piano”.
Leggasi: ognuno fa quello che vuole. D’altro canto non poteva essere diversamente: la nostra è una matura democrazia liberale. La tua libertà finisce dove comincia la mia. Tu non vuoi fare formazione? No problem! Non costringere me a farla. Anzi, mettiamo insieme le nostre forze per costruire una formazione eterea, incorporea, leggera, quasi impalpabile.

Ma ci sono altri modi per uccidere la formazione senza essere scoperti: per esempio ricorrendo all’utilizzo di termini contrastanti o dando fiducia al tempo. Per quanto riguarda il primo aspetto, il gioco è abbastanza semplice: prendete una qualsiasi legge (ad esempio la n. 178 del 30/12/2020) e stabilite che viene avviata una formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità non in possesso (i docenti, non gli alunni…) del titolo di specializzazione sul sostegno.
Il principio dell’obbligatorietà lo ribadite anche in un successivo decreto applicativo (ad esempio il DM n. 188 del 21/06/2021).
Ma (attenzione! attenzione! A me gli occhi!) con una circolare che reca istruzioni in materia (ad esempio la n. 27622 del 6/09/2021) il personale docente interessato viene “invitato” a partecipare alle attività formative. Non “obbligato”, capite? E in effetti molti docenti, educatamente e con l’appoggio degli onnipresenti sindacati, hanno risposto al ministero: “Grazie dell’invito, mi ha fatto molto piacere riceverlo, ma non intendo parteciparvi. Ho altro da fare. Sarà per un’altra volta. Non perdiamoci di vista, però.”

Per quanto riguarda il tempo, c’è da ricordare innanzi tutto che esso è galantuomo; e mai massima fu più azzeccata come nel presente esempio. Infatti con la già citata nota 27622/2021 il Ministero ha fornito un’articolata proposta di organizzazione dei corsi di formazione sulla disabilità La nota reca la data del 6 settembre 2021; nel testo viene detto che “per consentire l’effettiva erogazione delle risorse finanziarie entro l’a.f. 2021, le scuole saranno invitate a fornire rendicontazione entro e non oltre la data del 30 novembre p.v.” Avete capito? Più veloce della luce! Il nostro Ministero certe volte è di una efficienza e tempismo mostruosi. (Di solito quando si tratta di far lavorare gli altri…).

In poco più di due mesi le scuole dovranno progettare le attività formative, trovare i formatori, stipulare i contratti (mi raccomando: non si trascuri di chiedere il consenso per il trattamento dati, l’antimafia, l’anticorruzione, i dati anagrafico-fiscali, la dichiarazione di insussistenza/incompatibilità, il CV in formato UE, e gli atri 15 atti previsti…), realizzare le attività formative a livello di ambito e fornire rendicontazione al Ministero entro il 30 novembre! Non ci si lasci però impressionare da questa veemenza decisionista; le ragioni in realtà sono molto serie e impongono un impegno solerte e senza indugi da parte delle scuole interessate alla formazione: infatti, se le scuole non rendicontano entro il 30 novembre potrebbe succedere qualcosa di grave al nostro Paese, qualcosa di irreparabile e catastrofico, qualcosa che in confronto lo scoppio della Terza Guerra Mondiale rappresenterebbe una bazzecola di second’ordine.

Vi chiederete che cosa; è presto detto: i ragionieri del Ministero dell’Istruzione non avrebbero i dati a disposizione per fare il conteggio di quanto è stato speso e di quanto resta da spendere! E questo è di palmare evidenza che non ce lo possiamo permettere! La pandemia è stata devastante per la scuola e per il Paese; non riusciremmo a sopportare un’altra sciagura se i dati non arrivano prima del 30 novembre a viale Trastevere!

Naturalmente questa oltremodo tempestiva mossa del Ministero nasconde un secondo fine, molto astuto e coerente con quanto abbiamo detto sopra: con tempi così ridotti molte scuole non riusciranno ad organizzare la formazione e quindi, ancora una volta, si riuscirà a farla franca rispetto al famoso vincolo della “obbligatorietà” della formazione. L’Italia è un Paese magnifico: ad ogni problema trova sempre una non soluzione.