Ma di quali valori parla la Sottosegretaria ? La virtù greca era anche pederastia e la democrazia escludeva schiavi, donne e non solo

di Mario Maviglia

Alcuni soggetti, pubblici e privati, hanno la grande capacità di rendere “straordinario” o “epocale” ciò che è assolutamente ordinario. È quanto fa fin troppo spesso la stampa quando qualifica come “storico” un evento sportivo di un certo rilievo, o come quando il Governo (di qualsiasi colore) enfatizza in modo “enfatico” l’approvazione della legge di stabilità che è un atto ordinario del Parlamento.

 

Questa volta il merito va alla Sottosegretaria del Ministero del Merito, Paola Frassinetti, che, nel commentare la scelta del greco antico come seconda prova scritta per gli studenti del liceo classico per i prossimi esami di Stato, si è profusa in una dichiarazione dall’ampio respiro storico, sociale e retorico, anche se la scelta (non il “sorteggio”, sig.ra Sottosegretaria) della seconda materia d’esame dovrebbe essere considerato un atto di ordinaria amministrazione per il MIM.
Ma la Sottosegretaria in questa scelta ha voluto vederci “non solo [confermata] l’importanza duratura dello studio del greco antico, ma [anche] la sua rilevanza ancora del tutto attuale nell’offerta educativa della nostra Scuola.” Questa premessa offre alla Nostra il la per esibirsi in una passionale e magniloquente dichiarazione sul valore dello studio del greco antico e più in generale sulla sua “grande e multiforme eredità letteraria”.

Infatti, secondo la Sottosegretaria, lo studio di questa materia consente agli studenti non solo di acquisire “competenze linguistiche ed analitiche avanzate”, ma anche “una comprensione profonda dei valori fondamentali della civiltà europea”.
Che lo studio di questa lingua favorisca lo sviluppo di “competenze linguistiche e analitiche avanzate” è fuor di dubbio, tanto quanto studiare il latino, l’ebraico o l’arabo o il swahili o qualsiasi altra lingua, viva o morta che sia. Ma a pensarci bene anche lo studio della programmazione informatica richiede competenze linguistiche ed analitiche avanzate, tant’è che si parla di linguaggio di programmazione e se non lo si comprende e non lo si padroneggia sarebbe impossibile utilizzare qualsiasi funzione del computer o del tablet (e io stesso non potrei scrivere questo intervento…).
E d’altro canto, se chiedete ad un direttore d’orchestra se la musica richiede competenze linguistiche ed analitiche avanzate cosa credete che vi risponderà? Dirà di sì, e ha ragione, perché ogni disciplina ha una sua particolare grammatica e sintassi, come il greco antico.

Quest’idea che il greco antico (e, per estensione, il liceo classico) sia naturaliter una disciplina formativa che aiuta a ragionare e a formare la mente trova le sue conseguenziali degenerazioni nella mente di molti editorialisti che considerano il liceo classico la vera scuola e tutte le altre mera espressione dell’annacquamento della cultura e al più strutture per formare la forza lavoro del Paese.

Si può essere d’accordo con la Sottosegretaria quando afferma che il greco antico contribuisce a comprendere in modo profondo i “valori fondamentali della civiltà europea”, però bisogna mettersi d’accordo su quali siano questi valori.
Se sono quelli veicolati dalle Leggi di Norimberga del 1935 in Germania o dalle Leggi razziali del 1938 in Italia, sappiamo dove hanno condotto questi due Paesi e l’Europa intera. Probabilmente la Sottosegretaria si riferisce a quei concetti “universali di virtù, di giustizia, di eroismo, di amore per la patria e di partecipazione attiva alla sua vita politica, dalla vocazione umana alla ricerca del senso della vita e del mondo, che devono continuare a plasmare la nostra contemporaneità”.
E su questo, ovviamente, non si può che essere d’accordo, con alcune puntualizzazioni storiche importanti.

Per quanto riguarda il concetto di “virtù” non va dimenticato che “Nell’antica Grecia era praticata la pederastia intesa come relazione sessuale di un adulto con un minore in età compresa tra i 12 ed i 18 anni, considerata lecita e riconosciuta come forma educativa all’interno di un’esperienza spirituale e pedagogica, attraverso la quale l’adulto trasmetteva le virtù del cittadino. I rapporti tra adulti e soggetti appena puberi costituivano una parte di esperienza di vita, regolata da una serie di regole che dettavano i tempi e modi di questi rapporti”.[1]

Per quanto concerne la partecipazione attiva alla vita politica, può essere utile riportare quanto dice lo storico Luciano Canfora[2]: “La democrazia nella Grecia antica, a giudicare dalle fonti di cui disponiamo, fu un fenomeno dai contorni non molto definiti e, inoltre, oggetto sin dal principio di contrastanti valutazioni e interpretazioni. Consistendo, in sostanza, nell’attribuzione, a una assemblea deliberante composta di «cittadini» di pieno diritto, del potere deliberativo, la democrazia fu, di necessità, nel mondo greco, nozione troppo generica per essere racchiusa in una rigorosa definizione.
Non è del tutto arbitrario, per es., il giudizio di un pensatore politico che esercitò molta influenza nel 4° sec. a.C., l’ateniese Isocrate, secondo cui sarebbe stata Sparta la «democrazia perfetta» (Areopagitico, 61): a Sparta sono cittadini pleno iure solo gli spartiati, e sono tutti «uguali» e tutti ugualmente partecipi dell’assemblea decisionale (apella), mentre tutti gli altri (perieci e iloti) sono considerati estranei alla comunità degli «uguali», non solo perché sottomessi con la forza, ma perché considerati appartenenti a un’altra «razza» rispetto alla «purezza» degli spartiati.”
Insomma, siamo di fronte a un’idea di democrazia che esclude gran parte dei cittadini dalla partecipazione alla vita politica, oltre che, ça va sans dire, le donne, gli schiavi, gli stranieri ecc.

Per quanto concerne infine “l’amore per la patria”, richiamato dalla Sottosegretaria, è difficile sottrarsi al pensiero delle centinaia di migliaia di soldati italiani che nella Seconda Guerra Mondiale il regime fascista ha mandato in giro per il mondo a farsi ammazzare per la Patria (ma la Russia, l’Albania, la Grecia, i Balcani ecc. facevano parte della Patria?).

Un umile consiglio vogliamo dare alla Sottosegretaria: la prossima volta, quando verrà scelta (scelta, non sorteggiata…) la seconda prova scritta dell’esame di Stato dia solo notizia della materia prescelta, senza inoltrarsi in considerazioni troppo complesse e che forse non sono alla sua portata. Si ispiri al detto latino: Sutor, ne ultra crepidam! (ops! non è greco antico…).

[1] M. Arrivas in https://www.bibliotechedap.it/rassegnapenitenziaria/cop/65999.pdf

[2] L. Canfora, La democrazia nella Grecia antica in https://www.treccani.it/enciclopedia/la-democrazia-nella-grecia-antica_(Dizionario-di-Storia)/




Giornata della Memoria, il Ministero teme “iniziative che possano turbare gli studenti”. Ma a cosa si riferisce?

di Mario Maviglia

La direttrice generale dell’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio ha inviato ai “dirigenti scolastici degli istituti scolastici di ogni ordine e grado del Lazio” una nota “riservata” (talmente “riservata” che la si può tranquillamente trovare sui social) che recita testualmente così: “Oggetto: Svolgimento delle attività didattiche. Nell’approssimarsi della Giornata della Memoria ed alla luce degli scenari internazionali di crisi si raccomanda le SS.LL. di porre la massima attenzione per prevenire iniziative o comportamenti che possano turbare la serenità degli studenti e delle studentesse nonché il regolare funzionamento delle attività scolastiche. Ogni eventuale elemento di novità al riguardo deve essere rappresentato allo scrivente Ufficio con la massima tempestività. Il direttore generale” ecc. ecc.

Non sappiamo se la nota nasce da qualche sollecitazione del Superiore Ministero o se è stata una iniziativa della direttrice regionale; in ogni caso merita qualche osservazione, che (lo anticipiamo) forse non sarà politicamente corretta, ma speriamo eticamente irreprensibile. Innanzi tutto non si comprende quali possano essere quelle “iniziative o comportamenti che possano turbare la serenità degli studenti e delle studentesse.” Utilizzando un approccio ermeneutico-inferenziale abbiamo provato a indicare alcune di queste iniziative potenzialmente “turbanti”:

  • I ragazzi e le ragazze inneggiano alle Brigate Rosse et similia (ma la cosa appare inverosimile in quanto gli studenti odierni non sanno neppure cosa fossero le Brigate Rosse).
  • Gli studenti e le studentesse manifestano pubblicamente a favore delle camere a gas naziste (ma queste manifestazioni sono tipiche di CasaPound et similia e dunque la nota andrebbe rivolta a questi centri di estrema destra, ma in questo caso è competente il Ministero dell’Interno, non il MIM).
  • I giovani manifestano contro la guerra (e questo sarebbe “turbante” per i giovani?).
  • I giovani manifestano a favore della pace (e anche questo sarebbe “turbante” per i giovani?)

L’espressione “manifestare” va qui intesa in senso lato (discussioni, dibattiti, proiezioni di filmati e altre iniziative che le scuole possono organizzare per l’occasione all’interno della scuola o all’esterno con il coinvolgimento della comunità locale).

Si può, ovviamente eccepire che la Giornata della Memoria è stata istituita per commemorare le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei e dei deportati militari e politici italiani nei campi di concentramento nazisti e dunque questo è il perimetro all’interno delle quali collocare le attività didattiche. Tutto ciò che va oltre questo perimetro è in contrasto con il significato e il senso della Giornata della Memoria. Ma questo non è ampiamente già noto alle scuole? Perché inviare una nota di quel tenore?

Ci può essere un’altra ragione, considerato quello che sta succedendo in Italia in questo periodo: probabilmente il MIM vuole prevenire manifestazioni di sostegno al popolo palestinese da parte degli studenti. Potrebbe essere questo l’”eventuale elemento di novità” da segnalare all’USR? In ogni caso, poiché l’oggetto della nota è “svolgimento delle attività didattiche” non risulta che il DPR 275/1999 (Regolamento dell’Autonomia) e le altre norme vigenti prevedano che le istituzioni scolastiche debbano segnalare al Superiore Ufficio quali attività didattiche hanno in programma di realizzare, anche se queste dovessero contenere “elementi di novità” (peraltro non ben specificati).

Questo detto/non detto, questo giocare sull’ambiguità della comunicazione nasconde chiari intenti di controllo e di ricatto e tende a fare in modo che le scuole si autolimitino nella loro libertà espressiva e di ricerca. Nulla di nuovo sotto il sole: in fondo il MinCulPop era basato su questo sistema: fare in modo che le persone si autocensurassero attraverso un controllo serrato dei loro comportamenti. E, in quel caso, per la verità, anche attraverso azioni repressive. In questa dinamica l’USR rischia (consapevolmente o meno) di proporsi come un novello Argo Panoptes che attraverso i suoi cento occhi controlla continuamente i suoi sottoposti, forse per tranquillizzare (per non “turbare”?) il suo committente, ossia il Superiore Ministero.




Il manifesto per una scuola eugenetica di Galli Della Loggia

di Mario Maviglia

Questo intervento intende sviluppare in modo coerente e organico quanto ha enunciato qualche giorno fa sul Corriere della Sera un noto editorialista che denominerò EGDL per ragioni di economia di caratteri avendo egli un cognome troppo lungo per essere riportato per intero e anche per le ragioni che, in modo subdolo e implicito, verranno esposte nel corso di questo intervento.
In sostanza EGDL sostiene che la scuola italiana funziona male e i risultati scolastici sono quelli che sono perché nelle classi assieme agli “allievi cosiddetti normali” convivono anche “disabili gravi con il loro personale di sostengo (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo.”

Questa fotografia di EGDL è ampiamente incompleta: a scuola infatti ci vanno anche rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, sfigati di ogni genere. Tutta questa congerie di soggetti subumani o al limite dell’umanità reca un grave danno a chi invece (gli allievi normali) ha diritto di seguire il corso di studi con profitto e regolarità e a prendere in mano, un domani, la guida del Paese.

EGDL esprime, in modo peraltro non del tutto chiaro ed esplicito (ci vuole coraggio talvolta anche per riconoscersi nelle proprie idee), ciò che probabilmente c’è in tanta parte dell’opinione pubblica italiana, presumibilmente quelli a cui piace “il mondo al contrario”. A lui e alla parte di questa popolazione “normale”, è rivolto questo intervento che ha lo scopo di tradurre in termini più espliciti ciò che il Nostro non ha avuto (ancora) il coraggio di esprimere ma che è una logica e coerente conseguenza delle sue pennellate editoriali.

Si tratta di pochi principi che disegnano un modello di scuola dove finalmente chi ci va viene messo nella condizione di apprendere e di imparare le cose che veramente contano nella vita senza intralci o ritardi causati da ragazzi/e che non hanno voglia di studiare o che, per natura, non sono in grado di frequentare proficuamente la scuola e intraprendere studi seri. Per ragioni espositive i principi vengono presentati sotto forma di decalogo, ma non ci si lasci ingannare da questa scelta stilistica: dietro ogni principio c’è una profonda riflessione sul senso della scuola e, in fondo, sul senso della vita e della convivenza tra gli umani.

  1. Le materie più importanti della scuola così concepita sono italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti). Tutte le altre materie sono subordinate a queste e il curricolo è costruito tenendo conto di questa gerarchia gnoseologica.
  2. Le scuole sono organizzate e classificate secondo il tasso di eccellenza umana che esprimono. Pertanto abbiamo:
    2 a: Scuole A+: riservate a tutti i ragazzi/ biondi e con occhi azzurri (A sta per Ariani) e con QI geniale o alto.
    2 b: Scuole A: riservate a ragazzi/e ariani ma non biondi e senza occhi azzurri e con QI medio-alto.
    2 c: Scuole H: riservate agli handicappati di ogni genere (l’attuale denominazione di “disabili” è mistificante, oltre che demagogica).
    2 d: Scuole S: riservate agli stranieri, ma con qualche eccezione nei confronti dei ragazze/i che potrebbero rientrano nella categoria A+ o A.
    2 e: Scuole B: riservate ai ragazzi/e Bes.
    2 f: Scuole AS: riservati agli altri sfigati oltre ai Bes (rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, ecc.).
  3. Ogni scuola così denominata è distinta dalle altre ed allocata in un edificio a se stante (denominato block). Va da sé che ogni edificio sarà adattato architettonicamente secondo il modello Panopticon, secondo la geniale intuizione di Jeremy Bentham e rivisitato in termini sociologici da Michel Foucault.
  4. Il curricolo completo imperniato su italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti) e sulle altre materie ruotanti intorno a queste, è riservato solo alle scuola di tipo A+ e A (ma in queste ultime non può essere insegnato l’aramaico). In tutte le altre scuole si provvederà a dare un’alfabetizzazione di base di lingua italiana e soprattutto si insegnerà ai ragazzi/e ad apprendere un lavoro (il motto di queste scuole sarà infatti “Il lavoro rende liberi”).
  5. Ad esclusione delle scuole di tipo A+ e A, in tutte le altre scuole ci sarà un curricolo maschile e uno femminile. Infatti i ragazzi saranno avviati ad apprendere un lavoro per mantenere la famiglia, mentre le ragazze si occuperanno soprattutto di lavori domestici, nozioni di puericultura per l’allevamento dei figli, nozioni di economia domestica per fare la spesa e far quadrare i conti della famiglia, nozioni di tecnologia per far funzionare gli elettrodomestici come lavatrice, lavastoviglie et similia.

In sintonia con quanto implicitamente espresso da EGDL, questi semplici principi dovrebbero essere in perfetta sintonia con i valori democratici espressi dalla Costituzione: infatti, è garantito il diritto all’istruzione per tutti (art. 34 cost., comma 2) e nel contempo solo i capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ossia i ragazzi/e frequentanti le scuole A+ e A (art. 34 cost., comma 3).

 

 




Dimensionamento scolastico: non esiste un numero “giusto” di alunni, ma bisogna decidere quale scuola vogliamo

di Mario Maviglia

Quando si parla di dimensionamento e razionalizzazione della rete scolastica si usano di solito parametri meramente ragionieristici finalizzati al risparmio della spesa pubblica.
Naturalmente, di per sé questo non è un male, anche se sarebbe opportuno che i medesimi parametri venissero applicati anche per altri capitoli di spesa del bilancio dello Stato (ad esempio quelle relative alle spese militari o alle spese per il funzionamento degli apparati politici del Parlamento o ancora alle spese per i contributi pubblici ai giornali, per citarne solo alcuni a titolo esemplificativo).
Raramente si fanno ragionamenti riguardanti la funzionalità dell’adozione di questi parametri e gli effetti che producono sul piano organizzativo e sul funzionamento del servizio scolastico. Com’è noto la legge finanziaria 2023 (L. 197 del 29 dicembre 2022) al comma 557 ha innalzato a 900 il numero minimo di studenti per riconoscere l’autonomia alle istituzioni scolastiche (in precedenza il numero minino era di 600), fatta eccezione per le scuole situate nelle zone di montagna o nelle piccole isole o caratterizzate da specificità linguistiche.
Questo significa che alle istituzioni scolastiche che si trovano al di sotto di questi parametri (scuole cosiddette sottodimensionate) non potranno essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato, ma solo dirigenti con incarico di reggenza. E lo stesso vale per i DSGA. Ovviamente questo meccanismo non riguarda i plessi scolastici in sé, la cui apertura o chiusura o dislocazione è di pertinenza degli enti locali, ma il numero di “presidenze” di titolarità che vengono attivate.

È plausibile immaginare che le istituzioni scolastiche sottodimensionate, e dunque senza un DS e un DSGA titolare, ma affidate in reggenza, siano condannate a una progettualità più precaria e a una continuità più frammentata nella gestione della scuola.
Ma, più in generale, il problema di fondo è quello di definire quale è il numero ottimale di studenti di una istituzione scolastica che consenta di garantirne una gestione efficace ed efficiente del servizio scolastico, tenendo conto che all’aumento del numero degli studenti corrisponde un correlativo aumento delle unità di personale scolastico occorrente per far funzionare la scuola.
Probabilmente non esiste una risposta univoca a tale quesito, ma è significativo che esso non venga mai posto nel dibattito riguardante questo problema e nelle decisioni che vengono assunte. D’altro canto finché la politica scolastica in Italia verrà definita dal MEF è difficile aspettarsi ragionamenti orientati in questa direzione.

Sappiamo d’altronde che mentre si è particolarmente attenti ad evitare che le istituzioni scolastiche funzionino con un numero di studenti inferiore alla soglia minima stabilita (salvo le eccezioni riportate sopra), non altrettanta solerzia viene dimostrata nei confronti di quegli istituti che nel tempo hanno assunto dimensioni così ampie per numero di studenti iscritti da diventare dei veri e propri monstre.
Ma anche in questo caso occorre chiarire il senso di questa affermazione. In teoria un istituto con 3500 studenti potrebbe non essere in sé un’aberrazione (ne ho visitato personalmente uno in pieno centro a Pechino che contava questa popolazione studentesca), ma si tratta di chiarire che tipo di scuola si vuole perseguire e il ruolo che è chiamato a svolge il dirigente scolastico all’interno di istituti così concepiti.
Infatti, se si opta per un ruolo essenzialmente gestionale e manageriale del DS, probabilmente il numero di studenti può essere molto elevato in quanto il dirigente si occupa essenzialmente di problemi macro; se invece si punta ad un ruolo più caratterizzato nel senso della leadership educativa, allora una dimensione più ridotta dell’istituto può favorire meglio lo svolgimento dei compiti connessi.
La tendenza che si è diffusa nel tempo in Italia è stata quella di puntare su un identikit di figura dirigenziale di tipo manageriale (almeno sulla carta e per i compiti che vengono richiesti) e dunque in grado di dirigere istituti anche di grandi dimensioni, tendenza che, guarda caso, meglio si sposa con le politiche di contenimento della spesa pubblica.

Tutto il ragionamento fatto fin qui può essere confutato con l’osservazione che la buona scuola in fondo la fanno i buoni insegnanti e questo a prescindere dalle dimensioni dell’istituzione scolastica. Infatti, si può obiettare che è all’interno del rapporto d’aula che si esprime una buona didattica con il correlativo conseguimento di risultati scolastici significativi e positivi.
Questa osservazione, non banale, trascura però che le “prestazioni” dei docenti risentono anche del clima complessivo che si crea all’interno della scuola e dei rapporti che si stabiliscono con la dirigenza.
Non a caso A. Paletta rimarca che “la leadership è una qualità distintiva tanto più di valore quanto più è strettamente connessa alla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ovvero quanto più valorizza studenti e docenti nella cui interazione si sostanzia lo sviluppo della persona umana.”[1]
Ma c’è da chiedersi in quali tempi e con quali energie un dirigente di un istituto di grandi dimensioni può garantire la tenuta complessiva del sistema e una interazione non episodica con i docenti (quando questi superano abbondantemente il numero di cento), atteso che proprio gli insegnanti costituiscono la principale risorsa professionale su cui si gioca la qualità della didattica e della relazione educativa.

L’aspetto interessante da sottolineare, a riprova del paradigma esclusivamente ragionieristico che ha caratterizzato le scelte di politica scolastica, è che all’aumento del numero degli studenti per istituto, che comporta una maggiore complessificazione nella gestione della scuola, non corrisponde, sul piano formale, una ridefinizione di alcuni istituti contrattuali come ad esempio il riconoscimento giuridico ed economico delle figure intermedie incaricate di garantire, insieme al DS, la tenuta del sistema.
Una maggiore complessità del sistema (e il numero degli addetti di un’organizzazione è un fattore che crea di per sé maggiore complessità) richiede forme più complesse e articolate di gestione. E invece, almeno formalmente, un istituto con 2000 studenti (situazione non così infrequente) si trova equiparato ad un istituto con 900 studenti. D’altro canto questo è quanto succede anche nell’attività d’aula in riferimento ai docenti: non vi è alcuna differenza, sul piano formale, tra il lavorare in classi con 18 alunni o con 30, anche se i carichi di lavoro e i potenziali fattori stressogeni sono di peso diverso.

Per tornare al quesito posto prima (quale sia il numero ideale di studenti per ogni istituto), la questione in realtà è mal posta in quanto probabilmente non esiste un numero ideale; semmai il problema è un altro: che idea di scuola traspare dalle scelte di politica scolastica che vengono portate avanti rispetto al dimensionamento? E correlativamente: che idea di dirigente scolastico viene veicolata? La mia ipotesi è che la tendenza ad ampliare i parametri quantitativi delle istituzioni scolastiche, a parte l’onnipresente mantra della razionalizzazione (leggasi: risparmi di spesa, ma con le contraddizioni segnalate in apertura), nasconda un’idea essenzialmente burocratico-gestionale della scuola, con una certa indifferenza verso i processi che sottostanno all’impresa educativa. È la scuola del merito (il merito dei migliori, quelli provenienti dai ceti sociali più abbienti), più che della cooperazione, della competitività più che della solidarietà. In sostanza, è la scuola del profitto, fatta a immagine e somiglianza del neocapitalismo. A questa scuola non serve un dirigente che curi le relazioni umane, o che garantisca che lo sviluppo dei processi di apprendimento costituisca un diritto per tutti gli studenti; a questa scuola serve un manager che si occupi essenzialmente degli aspetti burocratico-gestionali. Il libero mercato completerà l’opera intrapresa da questa scuola, selezionando diligentemente i Gianni dai Pierini.

[1] A. Paletta, Dirigenza scolastica e middle management, Bononia University Press, Bologna, 2020, vol I, p. 9.




Concorso ispettivo: legulei ed esperti di contabilità dovranno accertare competenze socio-pedagogiche

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Mario Maviglia

A breve (la locuzione avverbiale “breve” nel lessico della burocrazia ministeriale ha un significato del tutto diverso dal linguaggio comune degli umani…) dovrebbe essere emanato il bando di concorso per l’assunzione a tempo indeterminato di 145 dirigenti tecnici con funzioni ispettive del Ministero dell’istruzione e del merito. Data la rarefazione di questo evento (paragonabile, nel nostro sistema politico-istituzionale, alla nomina, ogni sette anni, del Presidente della Repubblica…), l’attesa è quanto mai spasmodica, e infatti molti studi legali si stanno già organizzando per assistere efficacemente i candidati che verranno “bocciati” nell’inevitabile contenzioso che ne scaturirà.

Tutti si augurano, ovviamente, che le cose si svolgano nelle forme più regolari possibili per evitare ricorsi e contenziosi vari, ma siamo in Italia, patria del diritto, e insomma un contenzioso non lo si nega a nessuno.

C’è un aspetto che però i vari legulei forse non considereranno abbastanza nelle loro azioni legali (non si chiede alcun compenso per il suggerimento che ne facciamo qui…) e riguarda la correlazione (match, direbbero gli anglofoni) tra le competenze richieste per svolgere la funzione tecnico-ispettiva (per come si evince dalla bozza di Schema di Regolamento che il MIM ha trasmesso al CSPI per il previsto parere) e la composizione della Commissione giudicatrice del concorso (sempre secondo quanto previsto dallo Schema di Regolamento). Infatti, se si analizzano le competenze richieste ai candidati dirigenti tecnici, troviamo sei settori di competenze molto ben strutturati sul piano tecnico-professionale e che fanno riferimento essenzialmente ad ambiti di tipo socio-psico-pedagogico: a) competenze in ambito educativo, pedagogico e didattico; b) competenze finalizzate al sostegno, alla progettazione e al supporto dei processi formativi; c) competenze finalizzate a supportare il processo di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche; d) competenze – sotto il profilo tecnico-scientifico – nelle attività di analisi, studio, ricerca sui processi educativi nazionali e internazionali a supporto dell’Amministrazione; e) competenze nell’ambito degli accertamenti ispettivi, con particolare riferimento agli aspetti didattici, organizzativi, contabili e amministrativi, anche nell’ambito del monitoraggio, del controllo e della verifica della permanenza dei requisiti previsti per il funzionamento delle istituzioni scolastiche paritarie e delle scuole non paritarie; f) competenze nell’ambito relazionale.

In realtà le prove d’esame, come sottolinea lo Schema di Regolamento, sono volte anche ad accertare le conoscenze del candidato in vari ambiti e materie, puntigliosamente riportati negli Allegati B) e C) dello Schema, e fortemente marcati in senso giuridico-amministrativo, tanto che il CSPI nel suo parere ha suggerito, in vari passaggi, di dare maggiore spazio a materie quali didattica generale, pedagogia generale e sociale, pedagogia e didattica speciale, sociologia generale, a scapito di materie afferenti lato sensu al diritto. Ma è facile immaginare che saranno soprattutto le conoscenze di tipo giuridico a fare la parte da leone nell’economia complessiva della valutazione dei candidati e questo per un motivo molto semplice legato alla composizione della Commissione d’esame. Infatti, dei cinque membri previsti dallo Schema di Regolamento, tre sono scelti tra i dirigenti appartenenti ai ruoli del Ministero che ricoprano o abbiano ricoperto un incarico di funzioni dirigenziali generali ovvero tra i professori di prima e di seconda fascia di università statali e non statali, i magistrati amministrativi, i magistrati ordinari, i magistrati contabili, gli avvocati dello Stato, i prefetti; e due vengono scelti fra i dirigenti non generali dell’area delle funzioni centrali appartenenti ai ruoli del Ministero. Non viene contemplata esplicitamente la presenza di un dirigente tecnico tra i commissari d’esame, anche se può essere fatta rientrare tra i “dirigenti non generali”. In ogni caso, c’è da chiedersi come può la Commissione verificare il possesso dei sei ambiti di competenze descritti sopra se al proprio interno non vi sono le competenze professionali specifiche. Il problema sembra peraltro tenuto presente dalla stesso Schema di Regolamento laddove prevede che “la commissione esaminatrice e le sottocommissioni possono essere altresì integrate ciascuna anche da membri aggregati esperti in selezione e valutazione del personale e/o in psicologia e/o in risorse umane.” Ma allora perché non inserire questa figura già all’interno della Commissione in forma stabile e non solo come possibilità?

Per tutti questi motivi, è facile prevedere che – come al solito – ciò che maggiormente interesserà i commissari sarà l’apparato burocratico delle conoscenze dei candidati, con buona pace del complesso delle competenze socio-psico-pedagogiche descritte sopra. D’altro canto, se tra i commissari figurano magistrati amministrativi, ordinari, contabili, avvocati dello Stato, prefetti o dirigenti amministrativi, non è azzardato supporre che il loro orizzonte professionale è costituito da norme, leggi e architetture istituzionali. Risulta difficile immaginare che abbiano dimestichezza con Dewey, Vygotskij o De Bartolomeis, o con campi del sapere come il socio-costruttivismo, la pedagogia attiva, le neuroscienze in campo educativo, o la valutazione di sistemi complessi ecc., a meno che, per strane alchimie epistemologiche, nel loro percorso professionale non siano venuti a contatti con questi ambiti. Ma nella selezione di figure così fortemente contrassegnate sul piano tecnico-professionale quali sono i dirigenti tecnici ci si può affidare a esaminatori così fortemente addentro in altri ambiti collaterali? È come se un’azienda nel selezionare psicologi si affidasse a esaminatori come ingegneri nucleari o esperti di marketing o avvocati professionisti.

Una possibile ragione di tutto ciò può essere la seguente: il management politico-amministrativo che ha redatto lo Schema di Regolamento del concorso per DT ha una visione giuridico-amministrativa della scuola, e non può che essere così in quanto quello è l’orizzonte culturale all’interno del quale si muove a proprio agio. Che questo orizzonte sia in grado di selezionare i futuri bravi dirigenti tecnici della scuola è come pensare che un architetto urbanista sia in grado di selezionare i macchinisti dei tram urbani.




Scuola: sorvegliare e punire. Problemi complessi, risposte semplici

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Mario Maviglia

Nel recente decreto Caivano, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 settembre scorso per contrastare il disagio giovanile e la criminalità minorile, vi sono alcune misure che riguardano anche la scuola e i minori. In particolare, viene introdotta la pena fino a due anni di reclusione nei confronti di quei genitori che si rendono responsabili dell’abbandono scolastico dei figli; gli stessi genitori possono andare incontro anche alla revoca dell’assegno di inclusione, qualora destinatari. Com’è noto, attualmente i genitori che si rendono responsabili dell’evasione scolastica dei figli rischiano un’ammenda di 30 euro, come previsto dall’art. 731 del codice penale.

Una vasta letteratura (anche ministeriale) ha dimostrato che i fenomeni di abbandono scolastico nascono in quelle situazioni caratterizzate da degrado sociale, economico e culturale all’interno delle quali le figure che dovrebbero esercitare una funzione educativa di guida e di sostegno ai ragazzi nel loro sviluppo di crescita (i genitori, in primo luogo) non appaiono in grado di assolvere adeguatamente a tale compito. Pensare che un inasprimento delle pene previste possa risolvere o attenuare un problema così complesso è pura utopia, o, forse più correttamente, astuta demagogia.

La lotta all’abbandono scolastico implica infatti il coinvolgimento di diversi soggetti istituzionali e richiede interventi di vario tipo che vanno dall’offrire opportunità di incontro e socializzazione nel territorio per i giovani; alla possibilità di esprimere i propri interessi sportivi, musicali, culturali, ludici, espressivi, di tempo libero ecc. in spazi socialmente definiti e organizzati; alla disponibilità di edifici scolastici accoglienti e attrezzati; a una didattica attiva e personalizzata; a misure di sostegno (anche economico, es. libri di testo o di consultazione gratuiti) per chi ha difficoltà sotto questo profilo; alla possibilità di fare ricorso ad educatori di strada per creare ponti tra contesti di vita dei ragazzi e ambiente scolastico. E altri interventi ancora, che prevedano anche il coinvolgimento del terzo settore o comunque delle agenzie educative e sociali radicate nel territorio e che possono esercitare una funzione di promozione sociale nei confronti dei giovani a rischio.

La lotta alla dispersione scolastica è tremendamente complicata proprio perché non è solo scolastica, anche se la scuola purtroppo talvolta vi contribuisce attraverso forme di didattica che non riescono ad intercettare gli interessi dei ragazzi. Quando a scuola si sta seduti per ore, o si susseguono i vari docenti in un carosello di discipline il cui senso sfugge ai ragazzi, quando ci si annoia o si ha la percezione che il tempo non passi mai, o quando non ci si sente coinvolti, motivati o ascoltati nella gestione dell’impresa educativa, è facile supporre che i ragazzi più fragili o problematici si sentano estranei e la tendenza all’allontanamento dalla scuola non è solo fantasticata ma agita. E questo soprattutto quando il contesto familiare e sociale di riferimento non appaiono in grado di sostenere e motivare i giovani nel loro processo di crescita e apprendimento.

Il decreto Caivano, per la verità, prevede il potenziamento dell’organico dei docenti nelle scuole del meridione caratterizzate da alta dispersione scolastica, ma il problema – lo ripetiamo – non è esclusivamente scolastico: è soprattutto sociale e se non si interviene su questo versante si rischia di fare il solito buco nell’acqua. Le misure repressive danno una risposta semplice a un problema complesso, anche se presentano il vantaggio (sul piano politico) di offrire all’opinione pubblica l’immagine di un intervento pronto e deciso, secondo il consolidato modello pavloviano S-R (Stimolo-Risposta). D’altro canto, questo paradigma repressivo sembra informare tutto il decreto governativo: il daspo urbano, ossia l’allontanamento obbligatorio da una città, prima applicato solo ai maggiorenni, adesso può riguardare anche i quattordicenni; si abbassa anche l’età per ricevere l’avviso orale del questore (da quattordici a dodici anni) a comportarsi bene per evitare il carcere da uno a tre anni. Insomma, le decisioni in materia dell’attuale Governo, come acutamente nota Giuseppe Rizzo, “ci riportano allo splendore di quei supplizi, come li chiamava Michel Foucault, ovvero al buio della galera per i minorenni.”[1]

Si tratta, com’è intuibile, misure che danno un vantaggio effimero, che placa momentaneamente la richiesta di giustizia o di ordine dei cittadini, ma passato il blitz del momento i tanti Caivano d’Italia rimarranno con i loro endemici, irrisolti problemi. Anzi, con un problema in più, come qualcuno ha ironicamente messo in luce: nel caso in cui i genitori, in base alle nuove norme, vengano effettivamente arrestati per abbandono scolastico, chi accompagnerà i ragazzi a scuola?

[1] https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/giuseppe-rizzo/2023/09/11/decreto-carcere-minori; M. Foucault, sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976

 




Diplomi facili e lacrime di coccodrillo

di Mario Maviglia

Puntuale come un orologio atomico di ultima generazione, ogni anno, a conclusione degli esami di Stato, scopriamo che alcuni istituti paritari registrano un andamento anomalo nel numero di diplomati. Una sorta di bolla speculativa ciclica, ampiamente prevedibile, drammaticamente tollerata. Il fenomeno è ben noto ed esiste da decenni; io stesso (quando ero in servizio come ispettore scolastico) presi parte come consulente tecnico, nel 2004, all’operazione “Diplomi no problem”, coordinata a livello nazionale dalla Procura di Verona (magistrato Papalia) e coadiuvai gli inquirenti ad Agrigento nell’indagine che interessò una delle 32 scuole superiori oggetto di indagine in tutta Italia.
Ecco perché è quasi commovente la meraviglia con cui i vari commentatori ancora oggi presentano notizie simili e desta empatica vicinanza la rituale promessa del Ministro di porre fine allo scandalo[1].

La rivista Tuttoscuola[2] dà un resoconto ben documentato di quanto è successo quest’anno in occasione degli esami di Stato 2023. I risultati sono stati ripresi dal quotidiano Repubblica[3], soprattutto in riferimento alla particolare situazione di alcuni istituti paritari della Campania, e segnatamente di Napoli.
Il meccanismo è molto semplice e, peraltro, del tutto legittimo, oltre che ampiamente noto. In sostanza, nel passaggio dalla classe quarta alla classe quinta (ossia, la classe terminale del secondo ciclo di istruzione) alcuni istituti paritari registrano un andamento del tutto anomalo nelle iscrizioni (la bolla speculativa di cui sopra).
In particolare, Tuttoscuola ha individuato 92 istituti paritari (che rappresentano il 6,5% dei 1.423 istituti paritari che portano studenti all’esame di maturità) dove gli iscritti tra il quarto e il quinto anno registrano incrementi che vanno da +1.500% a +6.800%. (Avete letto bene! Da  1.500 a  6.800% in più di incremento).

È facile immaginare che per questi istituti paritari gli esami di Stato costituiscono un vero e proprio business, e infatti il costo per conseguire un diploma va da 2.500-4500€  (sempre secondo i dati forniti da Tuttoscuola), ma in alcuni casi si arriva a 8.000 o addirittura 10.000 €.
Se a tutto ciò si aggiunge che tra recupero degli anni scolastici (da 1.500 a 3.000, più tassa di iscrizione da 300 a 500 €) ed esami di idoneità (da 1.500 a 3.000 €), c’è da chiedersi se questi istituti più che fornire istruzione non siano meri (e costosi) distributori di diplomi, con buona pace del “merito” così di moda in questo periodo. Questa situazione arreca danno non solo al sistema nazionale di istruzione in sé, in quanto “droga” il mercato (per usare una metafora economicistica), ma soprattutto a quelle scuole paritarie (e sono tante) che svolgono un lavoro serio e di qualità e che rischiano di essere percepite dall’opinione pubblica come centri di malaffare a causa di queste mele marce.

La cosa interessante, peraltro, è che le scuole “palancaie” sono ampiamente conosciute e dunque potrebbero (volendo) essere tenute sotto stretta sorveglianza, anche per quanto concerne il piano fiscale o altri aspetti inerenti il funzionamento.
Ma più in generale si potrebbero introdurre delle modifiche legislative per stroncare il mercimonio dei diplomi; una, ad esempio, potrebbe prevedere una percentuale massima di iscrizioni nelle classi finali in rapporto agli iscritti della classe precedente (10% in più?). Per essere concreti: chi ha solo 11 studenti in classe quarta può accogliere solo il 10% in più in classe quinta (ossia uno studente in più). In tal modo verrebbe rotto l’artificioso meccanismo dell’aumento degli studenti nel passaggio dalla classe quarta alla quinta e correlativamente il giocattolino del produci-soldi.
C’è da chiedersi però quale Ministro abbia voglia di intraprendere un’azione moralizzatrice di questo tipo, mettendosi contro gruppi di potere consolidati. Il problema è politico. Ed è per questo che l’anno prossimo, di questi tempi, saremo ancora qui a presentare e discutere i risultati scandalosi di questo mercimonio. Il merito può attendere.

[1] https://tg24.sky.it/cronaca/2023/07/29/diplomi-facili-ministero-indagine

[2] Tuttoscuola, Maturità, boom di diplomi facili, 14 agosto 2023 in https://www.tuttoscuola.com/maturita-boom-diplomi-facili-dossier/

[3]ttps://napoli.repubblica.it/cronaca/2023/08/25/news/scuola_la_campania_felix_della_maturita_facile_linvasione_dei_23_mila_iscritti_solo_al_quinto_anno-412181393/