Uso di smartphone e tablet: istruzioni per un inconclusive know how

di Mario Maviglia

Recentemente il Ministro Valditara ha annunciato che nell’ambito delle nuove Linee guida sull’educazione alla cittadinanza, in via di elaborazione, sarà “sconsigliato l’utilizzo anche a fini didattici dello smartphone dalle scuole d’infanzia alle scuole secondarie di primo grado. Per le scuole primarie è raccomandato invece l’utilizzo del tablet esclusivamente per finalità didattiche e inclusive” (sito web del MIM, 22/02/2024).

Non ci si lasci ingannare da queste scarne note; in realtà le nascenti Linee guida del MIM ridisegneranno in modo radicale il complesso delle competenze sociali e operative da sviluppare a scuola, fondando un know how classificato come inconclusive dalla moderna letteratura scientifica. Se ne può cogliere meglio la natura e la portata di tale importante innovazione analizzando le altre istruzioni che verranno fornite alle scuole tramite le Linee guida e che siamo in grado di anticipare in esclusiva:

– il cancello automatico della scuola andrà aperto pigiando l’apposito pulsante; se il cancello non è automatico verrà aperto manualmente;

– quando gli studenti entrano a scuola il cancello dovrà essere tenuto aperto; dopo che sono entrati verrà chiuso; quando sta per arrivare il dirigente scolastico dovrà essere tenuto semiaperto in modo da poterlo aprire repentinamente e senza indugio al suo arrivo;

– per salire le scale si supera uno scalino alla volta; il salto degli scalini è consentito solo a studenti e adulti con altezza superiore a metri 1,90 (in questi casi allegare tavola auxologica di De Toni a giustificazione della deroga);

– per aerare le aule è consigliabile aprire le finestre;

– all’interno dell’edificio scolastico le bibite devono essere assunte solo per via orale;

– la scrittura a mano va effettuata da sinistra a destra, anche per i mancini. Sono consentite deroghe per il disegno libero e per l’apprendimento dell’ebraico e dell’arabo;

– le tavolette di cera (rigorosamente made in ancient Rome) sono fortemente consigliate per l’apprendimento della scrittura;

dizionari, vocabolari et similia devono essere scritti per ordine alfabetico onde agevolare la consultazione da parte degli studenti;

– i libri di testo possono contenere anche immagini e non solo testo, in deroga alla loro infelice denominazione;

– le matite devono essere appuntite per poter scrivere. A tal proposito ogni scuola dovrà disporre di un numero sufficiente di temperini;

– nello svolgimento di attività di coppia i componenti non possono essere superiori a due;

– se agli alunni vengono proposti riassunti, è bene che il docente sia sintetico nello spiegare il compito; se vengono proposti elaborati scritti (temi, relazioni ecc.) i fogli devono essere bianchi, inizialmente;

– se, in base a quanto previsto dall’art. 4 del DPR 275/1999, il collegio docenti delibera che l’unità di insegnamento coincide con l’unità oraria della lezione, significa che dura 60 minuti; in caso di dubbio, prestare attenzione al suono della campanella;

– è vietato l’ingresso a scuola da parte di estranei, ad eccezione del dirigente scolastico reggente;

– è opportuno che gli studenti diano del “lei” ai professori; se sono presenti due docenti daranno del “voi”; se si riferiscono a docenti di altre classi useranno il “loro”;

– come detto, nelle scuole primarie è raccomandato l’utilizzo del tablet esclusivamente per finalità didattiche e inclusive; nelle scuole secondarie di primo grado invece i tablet possono utilmente essere trasformati, con opportuni accorgimenti, in tavolette di cera per l’uso di cui sopra;

– nella scuola primaria nell’uso del tablet accertarsi che il pulsante principale sia posizionato su on;

– fare uso moderato di termini inglesi a scuola: potrebbero portare sfortuna (il Liceo Made in Italy ne è un esempio);

Gli esperti del Ministero non nascondono la loro soddisfazione per il proficuo lavoro svolto che sicuramente sarà molto apprezzato dalle scuole per la chiarezza e la profondità delle indicazioni. Ma questo potrebbe essere solo un passaggio di un più vasto e quasi infinito programma di istruzioni da offrire alle scuole.
D’altro canto, come diceva Einstein, “C’è una differenza fra genio e stupidità. Il genio ha i suoi limiti.”




Valutazione nella primaria, si cambia: l’idea arriva dal salumiere di Salvini e dalla fiera della polenta taragna

di Mario Maviglia

Com’è noto la luce ha una velocità approssimativa di 299.792 chilometri al secondo. È un dato accettato dalla comunità scientifica, e deriva da una serie di dati, misurazioni, controlli condotti con una certa cura. Ma non è un dato immutatile. Nuovi dati, misurazioni e controlli potrebbero portare a stabilire un nuovo valore, accettato dalla comunità scientifica.

Questo ragionamento, in fondo banale, non ha molto senso se applicato alla politica scolastica. Con un emendamento presentato dal Governo alla Commissione Cultura e Istruzione del Senato del 7 febbraio u.s. (riguardante un DDL sul voto di condotta) si propone il ritorno ai giudizi sintetici, da ottimo a insufficiente nella valutazione degli apprendimenti nella scuola primaria. Spariranno quindi gli attuali livelli di avanzato, intermedio, base e in via di prima acquisizione, introdotti dal decreto-legge 8 aprile 2020, n. 22, convertito con modificazioni dalla legge 6 giugno 2020, n. 41, e regolamentati dall’OM 172 del 4 dicembre 2020. Neanche il tempo di abituarsi al nuovo sistema e si cambia nuovamente. Più veloce della luce! Appunto.

Naturalmente il tutto avverrà senza che vi sia alla base una qualche ricerca empirica che evidenzi i motivi a giustificazione di questa decisione; ma in fondo questa ossessione di falsificare le conoscenze esistenti attraverso un approccio scientifico è un retaggio ottocentesco, di stampo positivistico. Vecchiume.
Oggi appaiono molto più pregnanti le sensazioni spannometriche del Ministro dell’Istruzione e del Merito o i commenti raccolti dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti che, in effetti, ha sentito dal salumiere sotto casa che la figlia (insegnante) dello stesso salumiere trova complesso e defaticante il sistema di valutazione introdotto con l’OM 172/2020 e che insomma sarebbe ora di cambiare.
Sempre il Ministro delle Infrastrutture (ma il dato non è confermato), durante la sagra della polenta taragna, svoltasi in Val Brembana, avrebbe raccolto lo sfogo di alcune mamme che si lamentavano della difficoltà di capire la valutazione ottenuta dai loro figlioli con il sistema vigente.

Questi elementi appaiono più che sufficienti per mettere mano all’attuale sistema di valutazione, anche perché, sempre più spesso, la politica vuole essere vicina alle esigenze dei cittadini, assumendo decisioni “di pancia”, quelle più autentiche, genuine, senza la zavorra di studi, ricerche, approfondimenti che allontanano sine die la presa di decisioni e rendono la scuola ostaggio  dei tecnici, degli esperti, degli studiosi, e, cosa ancora più grave, la legano pericolosamente al buon senso.

Qualcuno ha fatto notare che dal 1977 ad oggi il sistema di valutazione scolastica è cambiato ben 10 volte in Italia[1], e questo dimostra il grande dinamismo dei nostri governanti su questo specifico aspetto. In effetti, ad ogni cambio di maggioranza o di Ministro scatta questa forma di compulsione che porta il responsabile politico a cambiare strada, anche senza una meta precisa, a cambiare a prescindere, si potrebbe dire. Ciò che conta è cambiare qualcosa, per soddisfare l’impulso irrefrenabile volto al cambiamento.
C’è una visione poetica prim’ancora che politica in tutto ciò, ed è plausibile che il Ministro si ispiri al poeta Antonio Machado in questa ricerca del movimento (del cambiamento): caminante, no hay camino, / se hace camino al andar. Quanta profondità in questo verso! Quanta profondità nella decisione del Ministro! Che sposa in pieno questo anelito al cambiamento per il cambiamento, del cammino per il cammino. “L’esperienza del cammino non come movimento progressivo verso una meta, né come relazione visibile della partenza con l’arrivo, e neppure come piacere per il tratto già compiuto e ansia per quel che resta da percorrere, ma soltanto come esperienza tutta interiore di una condizione, che è insieme uno stato di sospensione e di conoscenza, e dunque come figura dell’esistenza umana stessa.”[2]
Si rimane abbagliati dalla profondità del sentire poetico-politico che sta alla base di questo modo di operare, che supera le anguste categorie spazio-temporali e i meschini legami con la realtà empirica, la ricerca, la comparazione dei dati e dei risultati, per librarsi nell’infinita vaghezza del pensiero.

Per la verità c’è un aspetto che non convince in tutto questo: se l’anelito quasi futurista al cambiamento, al movimento, al cammino è così irrefrenabile, perché aspettare i cambi di maggioranza politica o di Ministro per agirlo? Perché non metterlo in pratica anche quando cambia qualche sottosegretario o direttore generale?
Ma addirittura, perché non anche quando cambia l’usciere di viale Trastevere 76/A? Sì, è vero, questa proposta è oltremodo democratica e potrebbe essere tacciata di demagogia perché l’usciere non ha le competenze tecniche per prendere decisioni in tema di valutazione. Quelle competenze così debordanti e diffuse nei piani alti del Palazzo dell’Istruzione da essere quasi impalpabili ed evanescenti.

[1] https://www.ilsole24ore.com/art/giudizi-sintetici-scuola-primaria-e-pagella-meta-anno-le-superiori-AFIbJkdC
[2] https://www.doppiozero.com/antonio-machado-viandante-non-ce-cammino

 




Ma di quali valori parla la Sottosegretaria ? La virtù greca era anche pederastia e la democrazia escludeva schiavi, donne e non solo

di Mario Maviglia

Alcuni soggetti, pubblici e privati, hanno la grande capacità di rendere “straordinario” o “epocale” ciò che è assolutamente ordinario. È quanto fa fin troppo spesso la stampa quando qualifica come “storico” un evento sportivo di un certo rilievo, o come quando il Governo (di qualsiasi colore) enfatizza in modo “enfatico” l’approvazione della legge di stabilità che è un atto ordinario del Parlamento.

 

Questa volta il merito va alla Sottosegretaria del Ministero del Merito, Paola Frassinetti, che, nel commentare la scelta del greco antico come seconda prova scritta per gli studenti del liceo classico per i prossimi esami di Stato, si è profusa in una dichiarazione dall’ampio respiro storico, sociale e retorico, anche se la scelta (non il “sorteggio”, sig.ra Sottosegretaria) della seconda materia d’esame dovrebbe essere considerato un atto di ordinaria amministrazione per il MIM.
Ma la Sottosegretaria in questa scelta ha voluto vederci “non solo [confermata] l’importanza duratura dello studio del greco antico, ma [anche] la sua rilevanza ancora del tutto attuale nell’offerta educativa della nostra Scuola.” Questa premessa offre alla Nostra il la per esibirsi in una passionale e magniloquente dichiarazione sul valore dello studio del greco antico e più in generale sulla sua “grande e multiforme eredità letteraria”.

Infatti, secondo la Sottosegretaria, lo studio di questa materia consente agli studenti non solo di acquisire “competenze linguistiche ed analitiche avanzate”, ma anche “una comprensione profonda dei valori fondamentali della civiltà europea”.
Che lo studio di questa lingua favorisca lo sviluppo di “competenze linguistiche e analitiche avanzate” è fuor di dubbio, tanto quanto studiare il latino, l’ebraico o l’arabo o il swahili o qualsiasi altra lingua, viva o morta che sia. Ma a pensarci bene anche lo studio della programmazione informatica richiede competenze linguistiche ed analitiche avanzate, tant’è che si parla di linguaggio di programmazione e se non lo si comprende e non lo si padroneggia sarebbe impossibile utilizzare qualsiasi funzione del computer o del tablet (e io stesso non potrei scrivere questo intervento…).
E d’altro canto, se chiedete ad un direttore d’orchestra se la musica richiede competenze linguistiche ed analitiche avanzate cosa credete che vi risponderà? Dirà di sì, e ha ragione, perché ogni disciplina ha una sua particolare grammatica e sintassi, come il greco antico.

Quest’idea che il greco antico (e, per estensione, il liceo classico) sia naturaliter una disciplina formativa che aiuta a ragionare e a formare la mente trova le sue conseguenziali degenerazioni nella mente di molti editorialisti che considerano il liceo classico la vera scuola e tutte le altre mera espressione dell’annacquamento della cultura e al più strutture per formare la forza lavoro del Paese.

Si può essere d’accordo con la Sottosegretaria quando afferma che il greco antico contribuisce a comprendere in modo profondo i “valori fondamentali della civiltà europea”, però bisogna mettersi d’accordo su quali siano questi valori.
Se sono quelli veicolati dalle Leggi di Norimberga del 1935 in Germania o dalle Leggi razziali del 1938 in Italia, sappiamo dove hanno condotto questi due Paesi e l’Europa intera. Probabilmente la Sottosegretaria si riferisce a quei concetti “universali di virtù, di giustizia, di eroismo, di amore per la patria e di partecipazione attiva alla sua vita politica, dalla vocazione umana alla ricerca del senso della vita e del mondo, che devono continuare a plasmare la nostra contemporaneità”.
E su questo, ovviamente, non si può che essere d’accordo, con alcune puntualizzazioni storiche importanti.

Per quanto riguarda il concetto di “virtù” non va dimenticato che “Nell’antica Grecia era praticata la pederastia intesa come relazione sessuale di un adulto con un minore in età compresa tra i 12 ed i 18 anni, considerata lecita e riconosciuta come forma educativa all’interno di un’esperienza spirituale e pedagogica, attraverso la quale l’adulto trasmetteva le virtù del cittadino. I rapporti tra adulti e soggetti appena puberi costituivano una parte di esperienza di vita, regolata da una serie di regole che dettavano i tempi e modi di questi rapporti”.[1]

Per quanto concerne la partecipazione attiva alla vita politica, può essere utile riportare quanto dice lo storico Luciano Canfora[2]: “La democrazia nella Grecia antica, a giudicare dalle fonti di cui disponiamo, fu un fenomeno dai contorni non molto definiti e, inoltre, oggetto sin dal principio di contrastanti valutazioni e interpretazioni. Consistendo, in sostanza, nell’attribuzione, a una assemblea deliberante composta di «cittadini» di pieno diritto, del potere deliberativo, la democrazia fu, di necessità, nel mondo greco, nozione troppo generica per essere racchiusa in una rigorosa definizione.
Non è del tutto arbitrario, per es., il giudizio di un pensatore politico che esercitò molta influenza nel 4° sec. a.C., l’ateniese Isocrate, secondo cui sarebbe stata Sparta la «democrazia perfetta» (Areopagitico, 61): a Sparta sono cittadini pleno iure solo gli spartiati, e sono tutti «uguali» e tutti ugualmente partecipi dell’assemblea decisionale (apella), mentre tutti gli altri (perieci e iloti) sono considerati estranei alla comunità degli «uguali», non solo perché sottomessi con la forza, ma perché considerati appartenenti a un’altra «razza» rispetto alla «purezza» degli spartiati.”
Insomma, siamo di fronte a un’idea di democrazia che esclude gran parte dei cittadini dalla partecipazione alla vita politica, oltre che, ça va sans dire, le donne, gli schiavi, gli stranieri ecc.

Per quanto concerne infine “l’amore per la patria”, richiamato dalla Sottosegretaria, è difficile sottrarsi al pensiero delle centinaia di migliaia di soldati italiani che nella Seconda Guerra Mondiale il regime fascista ha mandato in giro per il mondo a farsi ammazzare per la Patria (ma la Russia, l’Albania, la Grecia, i Balcani ecc. facevano parte della Patria?).

Un umile consiglio vogliamo dare alla Sottosegretaria: la prossima volta, quando verrà scelta (scelta, non sorteggiata…) la seconda prova scritta dell’esame di Stato dia solo notizia della materia prescelta, senza inoltrarsi in considerazioni troppo complesse e che forse non sono alla sua portata. Si ispiri al detto latino: Sutor, ne ultra crepidam! (ops! non è greco antico…).

[1] M. Arrivas in https://www.bibliotechedap.it/rassegnapenitenziaria/cop/65999.pdf

[2] L. Canfora, La democrazia nella Grecia antica in https://www.treccani.it/enciclopedia/la-democrazia-nella-grecia-antica_(Dizionario-di-Storia)/




Giornata della Memoria, il Ministero teme “iniziative che possano turbare gli studenti”. Ma a cosa si riferisce?

di Mario Maviglia

La direttrice generale dell’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio ha inviato ai “dirigenti scolastici degli istituti scolastici di ogni ordine e grado del Lazio” una nota “riservata” (talmente “riservata” che la si può tranquillamente trovare sui social) che recita testualmente così: “Oggetto: Svolgimento delle attività didattiche. Nell’approssimarsi della Giornata della Memoria ed alla luce degli scenari internazionali di crisi si raccomanda le SS.LL. di porre la massima attenzione per prevenire iniziative o comportamenti che possano turbare la serenità degli studenti e delle studentesse nonché il regolare funzionamento delle attività scolastiche. Ogni eventuale elemento di novità al riguardo deve essere rappresentato allo scrivente Ufficio con la massima tempestività. Il direttore generale” ecc. ecc.

Non sappiamo se la nota nasce da qualche sollecitazione del Superiore Ministero o se è stata una iniziativa della direttrice regionale; in ogni caso merita qualche osservazione, che (lo anticipiamo) forse non sarà politicamente corretta, ma speriamo eticamente irreprensibile. Innanzi tutto non si comprende quali possano essere quelle “iniziative o comportamenti che possano turbare la serenità degli studenti e delle studentesse.” Utilizzando un approccio ermeneutico-inferenziale abbiamo provato a indicare alcune di queste iniziative potenzialmente “turbanti”:

  • I ragazzi e le ragazze inneggiano alle Brigate Rosse et similia (ma la cosa appare inverosimile in quanto gli studenti odierni non sanno neppure cosa fossero le Brigate Rosse).
  • Gli studenti e le studentesse manifestano pubblicamente a favore delle camere a gas naziste (ma queste manifestazioni sono tipiche di CasaPound et similia e dunque la nota andrebbe rivolta a questi centri di estrema destra, ma in questo caso è competente il Ministero dell’Interno, non il MIM).
  • I giovani manifestano contro la guerra (e questo sarebbe “turbante” per i giovani?).
  • I giovani manifestano a favore della pace (e anche questo sarebbe “turbante” per i giovani?)

L’espressione “manifestare” va qui intesa in senso lato (discussioni, dibattiti, proiezioni di filmati e altre iniziative che le scuole possono organizzare per l’occasione all’interno della scuola o all’esterno con il coinvolgimento della comunità locale).

Si può, ovviamente eccepire che la Giornata della Memoria è stata istituita per commemorare le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei e dei deportati militari e politici italiani nei campi di concentramento nazisti e dunque questo è il perimetro all’interno delle quali collocare le attività didattiche. Tutto ciò che va oltre questo perimetro è in contrasto con il significato e il senso della Giornata della Memoria. Ma questo non è ampiamente già noto alle scuole? Perché inviare una nota di quel tenore?

Ci può essere un’altra ragione, considerato quello che sta succedendo in Italia in questo periodo: probabilmente il MIM vuole prevenire manifestazioni di sostegno al popolo palestinese da parte degli studenti. Potrebbe essere questo l’”eventuale elemento di novità” da segnalare all’USR? In ogni caso, poiché l’oggetto della nota è “svolgimento delle attività didattiche” non risulta che il DPR 275/1999 (Regolamento dell’Autonomia) e le altre norme vigenti prevedano che le istituzioni scolastiche debbano segnalare al Superiore Ufficio quali attività didattiche hanno in programma di realizzare, anche se queste dovessero contenere “elementi di novità” (peraltro non ben specificati).

Questo detto/non detto, questo giocare sull’ambiguità della comunicazione nasconde chiari intenti di controllo e di ricatto e tende a fare in modo che le scuole si autolimitino nella loro libertà espressiva e di ricerca. Nulla di nuovo sotto il sole: in fondo il MinCulPop era basato su questo sistema: fare in modo che le persone si autocensurassero attraverso un controllo serrato dei loro comportamenti. E, in quel caso, per la verità, anche attraverso azioni repressive. In questa dinamica l’USR rischia (consapevolmente o meno) di proporsi come un novello Argo Panoptes che attraverso i suoi cento occhi controlla continuamente i suoi sottoposti, forse per tranquillizzare (per non “turbare”?) il suo committente, ossia il Superiore Ministero.




Il manifesto per una scuola eugenetica di Galli Della Loggia

di Mario Maviglia

Questo intervento intende sviluppare in modo coerente e organico quanto ha enunciato qualche giorno fa sul Corriere della Sera un noto editorialista che denominerò EGDL per ragioni di economia di caratteri avendo egli un cognome troppo lungo per essere riportato per intero e anche per le ragioni che, in modo subdolo e implicito, verranno esposte nel corso di questo intervento.
In sostanza EGDL sostiene che la scuola italiana funziona male e i risultati scolastici sono quelli che sono perché nelle classi assieme agli “allievi cosiddetti normali” convivono anche “disabili gravi con il loro personale di sostengo (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo.”

Questa fotografia di EGDL è ampiamente incompleta: a scuola infatti ci vanno anche rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, sfigati di ogni genere. Tutta questa congerie di soggetti subumani o al limite dell’umanità reca un grave danno a chi invece (gli allievi normali) ha diritto di seguire il corso di studi con profitto e regolarità e a prendere in mano, un domani, la guida del Paese.

EGDL esprime, in modo peraltro non del tutto chiaro ed esplicito (ci vuole coraggio talvolta anche per riconoscersi nelle proprie idee), ciò che probabilmente c’è in tanta parte dell’opinione pubblica italiana, presumibilmente quelli a cui piace “il mondo al contrario”. A lui e alla parte di questa popolazione “normale”, è rivolto questo intervento che ha lo scopo di tradurre in termini più espliciti ciò che il Nostro non ha avuto (ancora) il coraggio di esprimere ma che è una logica e coerente conseguenza delle sue pennellate editoriali.

Si tratta di pochi principi che disegnano un modello di scuola dove finalmente chi ci va viene messo nella condizione di apprendere e di imparare le cose che veramente contano nella vita senza intralci o ritardi causati da ragazzi/e che non hanno voglia di studiare o che, per natura, non sono in grado di frequentare proficuamente la scuola e intraprendere studi seri. Per ragioni espositive i principi vengono presentati sotto forma di decalogo, ma non ci si lasci ingannare da questa scelta stilistica: dietro ogni principio c’è una profonda riflessione sul senso della scuola e, in fondo, sul senso della vita e della convivenza tra gli umani.

  1. Le materie più importanti della scuola così concepita sono italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti). Tutte le altre materie sono subordinate a queste e il curricolo è costruito tenendo conto di questa gerarchia gnoseologica.
  2. Le scuole sono organizzate e classificate secondo il tasso di eccellenza umana che esprimono. Pertanto abbiamo:
    2 a: Scuole A+: riservate a tutti i ragazzi/ biondi e con occhi azzurri (A sta per Ariani) e con QI geniale o alto.
    2 b: Scuole A: riservate a ragazzi/e ariani ma non biondi e senza occhi azzurri e con QI medio-alto.
    2 c: Scuole H: riservate agli handicappati di ogni genere (l’attuale denominazione di “disabili” è mistificante, oltre che demagogica).
    2 d: Scuole S: riservate agli stranieri, ma con qualche eccezione nei confronti dei ragazze/i che potrebbero rientrano nella categoria A+ o A.
    2 e: Scuole B: riservate ai ragazzi/e Bes.
    2 f: Scuole AS: riservati agli altri sfigati oltre ai Bes (rom, sinti, ebrei, ragazzi provenienti da famiglie veterocomuniste, atei, ragazzi nati in provetta, figli di separati in casa e fuori casa, ecc.).
  3. Ogni scuola così denominata è distinta dalle altre ed allocata in un edificio a se stante (denominato block). Va da sé che ogni edificio sarà adattato architettonicamente secondo il modello Panopticon, secondo la geniale intuizione di Jeremy Bentham e rivisitato in termini sociologici da Michel Foucault.
  4. Il curricolo completo imperniato su italiano, latino, greco e aramaico (quest’ultimo per gli studenti ancor più eccellenti) e sulle altre materie ruotanti intorno a queste, è riservato solo alle scuola di tipo A+ e A (ma in queste ultime non può essere insegnato l’aramaico). In tutte le altre scuole si provvederà a dare un’alfabetizzazione di base di lingua italiana e soprattutto si insegnerà ai ragazzi/e ad apprendere un lavoro (il motto di queste scuole sarà infatti “Il lavoro rende liberi”).
  5. Ad esclusione delle scuole di tipo A+ e A, in tutte le altre scuole ci sarà un curricolo maschile e uno femminile. Infatti i ragazzi saranno avviati ad apprendere un lavoro per mantenere la famiglia, mentre le ragazze si occuperanno soprattutto di lavori domestici, nozioni di puericultura per l’allevamento dei figli, nozioni di economia domestica per fare la spesa e far quadrare i conti della famiglia, nozioni di tecnologia per far funzionare gli elettrodomestici come lavatrice, lavastoviglie et similia.

In sintonia con quanto implicitamente espresso da EGDL, questi semplici principi dovrebbero essere in perfetta sintonia con i valori democratici espressi dalla Costituzione: infatti, è garantito il diritto all’istruzione per tutti (art. 34 cost., comma 2) e nel contempo solo i capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ossia i ragazzi/e frequentanti le scuole A+ e A (art. 34 cost., comma 3).

 

 




Dimensionamento scolastico: non esiste un numero “giusto” di alunni, ma bisogna decidere quale scuola vogliamo

di Mario Maviglia

Quando si parla di dimensionamento e razionalizzazione della rete scolastica si usano di solito parametri meramente ragionieristici finalizzati al risparmio della spesa pubblica.
Naturalmente, di per sé questo non è un male, anche se sarebbe opportuno che i medesimi parametri venissero applicati anche per altri capitoli di spesa del bilancio dello Stato (ad esempio quelle relative alle spese militari o alle spese per il funzionamento degli apparati politici del Parlamento o ancora alle spese per i contributi pubblici ai giornali, per citarne solo alcuni a titolo esemplificativo).
Raramente si fanno ragionamenti riguardanti la funzionalità dell’adozione di questi parametri e gli effetti che producono sul piano organizzativo e sul funzionamento del servizio scolastico. Com’è noto la legge finanziaria 2023 (L. 197 del 29 dicembre 2022) al comma 557 ha innalzato a 900 il numero minimo di studenti per riconoscere l’autonomia alle istituzioni scolastiche (in precedenza il numero minino era di 600), fatta eccezione per le scuole situate nelle zone di montagna o nelle piccole isole o caratterizzate da specificità linguistiche.
Questo significa che alle istituzioni scolastiche che si trovano al di sotto di questi parametri (scuole cosiddette sottodimensionate) non potranno essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato, ma solo dirigenti con incarico di reggenza. E lo stesso vale per i DSGA. Ovviamente questo meccanismo non riguarda i plessi scolastici in sé, la cui apertura o chiusura o dislocazione è di pertinenza degli enti locali, ma il numero di “presidenze” di titolarità che vengono attivate.

È plausibile immaginare che le istituzioni scolastiche sottodimensionate, e dunque senza un DS e un DSGA titolare, ma affidate in reggenza, siano condannate a una progettualità più precaria e a una continuità più frammentata nella gestione della scuola.
Ma, più in generale, il problema di fondo è quello di definire quale è il numero ottimale di studenti di una istituzione scolastica che consenta di garantirne una gestione efficace ed efficiente del servizio scolastico, tenendo conto che all’aumento del numero degli studenti corrisponde un correlativo aumento delle unità di personale scolastico occorrente per far funzionare la scuola.
Probabilmente non esiste una risposta univoca a tale quesito, ma è significativo che esso non venga mai posto nel dibattito riguardante questo problema e nelle decisioni che vengono assunte. D’altro canto finché la politica scolastica in Italia verrà definita dal MEF è difficile aspettarsi ragionamenti orientati in questa direzione.

Sappiamo d’altronde che mentre si è particolarmente attenti ad evitare che le istituzioni scolastiche funzionino con un numero di studenti inferiore alla soglia minima stabilita (salvo le eccezioni riportate sopra), non altrettanta solerzia viene dimostrata nei confronti di quegli istituti che nel tempo hanno assunto dimensioni così ampie per numero di studenti iscritti da diventare dei veri e propri monstre.
Ma anche in questo caso occorre chiarire il senso di questa affermazione. In teoria un istituto con 3500 studenti potrebbe non essere in sé un’aberrazione (ne ho visitato personalmente uno in pieno centro a Pechino che contava questa popolazione studentesca), ma si tratta di chiarire che tipo di scuola si vuole perseguire e il ruolo che è chiamato a svolge il dirigente scolastico all’interno di istituti così concepiti.
Infatti, se si opta per un ruolo essenzialmente gestionale e manageriale del DS, probabilmente il numero di studenti può essere molto elevato in quanto il dirigente si occupa essenzialmente di problemi macro; se invece si punta ad un ruolo più caratterizzato nel senso della leadership educativa, allora una dimensione più ridotta dell’istituto può favorire meglio lo svolgimento dei compiti connessi.
La tendenza che si è diffusa nel tempo in Italia è stata quella di puntare su un identikit di figura dirigenziale di tipo manageriale (almeno sulla carta e per i compiti che vengono richiesti) e dunque in grado di dirigere istituti anche di grandi dimensioni, tendenza che, guarda caso, meglio si sposa con le politiche di contenimento della spesa pubblica.

Tutto il ragionamento fatto fin qui può essere confutato con l’osservazione che la buona scuola in fondo la fanno i buoni insegnanti e questo a prescindere dalle dimensioni dell’istituzione scolastica. Infatti, si può obiettare che è all’interno del rapporto d’aula che si esprime una buona didattica con il correlativo conseguimento di risultati scolastici significativi e positivi.
Questa osservazione, non banale, trascura però che le “prestazioni” dei docenti risentono anche del clima complessivo che si crea all’interno della scuola e dei rapporti che si stabiliscono con la dirigenza.
Non a caso A. Paletta rimarca che “la leadership è una qualità distintiva tanto più di valore quanto più è strettamente connessa alla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ovvero quanto più valorizza studenti e docenti nella cui interazione si sostanzia lo sviluppo della persona umana.”[1]
Ma c’è da chiedersi in quali tempi e con quali energie un dirigente di un istituto di grandi dimensioni può garantire la tenuta complessiva del sistema e una interazione non episodica con i docenti (quando questi superano abbondantemente il numero di cento), atteso che proprio gli insegnanti costituiscono la principale risorsa professionale su cui si gioca la qualità della didattica e della relazione educativa.

L’aspetto interessante da sottolineare, a riprova del paradigma esclusivamente ragionieristico che ha caratterizzato le scelte di politica scolastica, è che all’aumento del numero degli studenti per istituto, che comporta una maggiore complessificazione nella gestione della scuola, non corrisponde, sul piano formale, una ridefinizione di alcuni istituti contrattuali come ad esempio il riconoscimento giuridico ed economico delle figure intermedie incaricate di garantire, insieme al DS, la tenuta del sistema.
Una maggiore complessità del sistema (e il numero degli addetti di un’organizzazione è un fattore che crea di per sé maggiore complessità) richiede forme più complesse e articolate di gestione. E invece, almeno formalmente, un istituto con 2000 studenti (situazione non così infrequente) si trova equiparato ad un istituto con 900 studenti. D’altro canto questo è quanto succede anche nell’attività d’aula in riferimento ai docenti: non vi è alcuna differenza, sul piano formale, tra il lavorare in classi con 18 alunni o con 30, anche se i carichi di lavoro e i potenziali fattori stressogeni sono di peso diverso.

Per tornare al quesito posto prima (quale sia il numero ideale di studenti per ogni istituto), la questione in realtà è mal posta in quanto probabilmente non esiste un numero ideale; semmai il problema è un altro: che idea di scuola traspare dalle scelte di politica scolastica che vengono portate avanti rispetto al dimensionamento? E correlativamente: che idea di dirigente scolastico viene veicolata? La mia ipotesi è che la tendenza ad ampliare i parametri quantitativi delle istituzioni scolastiche, a parte l’onnipresente mantra della razionalizzazione (leggasi: risparmi di spesa, ma con le contraddizioni segnalate in apertura), nasconda un’idea essenzialmente burocratico-gestionale della scuola, con una certa indifferenza verso i processi che sottostanno all’impresa educativa. È la scuola del merito (il merito dei migliori, quelli provenienti dai ceti sociali più abbienti), più che della cooperazione, della competitività più che della solidarietà. In sostanza, è la scuola del profitto, fatta a immagine e somiglianza del neocapitalismo. A questa scuola non serve un dirigente che curi le relazioni umane, o che garantisca che lo sviluppo dei processi di apprendimento costituisca un diritto per tutti gli studenti; a questa scuola serve un manager che si occupi essenzialmente degli aspetti burocratico-gestionali. Il libero mercato completerà l’opera intrapresa da questa scuola, selezionando diligentemente i Gianni dai Pierini.

[1] A. Paletta, Dirigenza scolastica e middle management, Bononia University Press, Bologna, 2020, vol I, p. 9.




Concorso ispettivo: legulei ed esperti di contabilità dovranno accertare competenze socio-pedagogiche

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Mario Maviglia

A breve (la locuzione avverbiale “breve” nel lessico della burocrazia ministeriale ha un significato del tutto diverso dal linguaggio comune degli umani…) dovrebbe essere emanato il bando di concorso per l’assunzione a tempo indeterminato di 145 dirigenti tecnici con funzioni ispettive del Ministero dell’istruzione e del merito. Data la rarefazione di questo evento (paragonabile, nel nostro sistema politico-istituzionale, alla nomina, ogni sette anni, del Presidente della Repubblica…), l’attesa è quanto mai spasmodica, e infatti molti studi legali si stanno già organizzando per assistere efficacemente i candidati che verranno “bocciati” nell’inevitabile contenzioso che ne scaturirà.

Tutti si augurano, ovviamente, che le cose si svolgano nelle forme più regolari possibili per evitare ricorsi e contenziosi vari, ma siamo in Italia, patria del diritto, e insomma un contenzioso non lo si nega a nessuno.

C’è un aspetto che però i vari legulei forse non considereranno abbastanza nelle loro azioni legali (non si chiede alcun compenso per il suggerimento che ne facciamo qui…) e riguarda la correlazione (match, direbbero gli anglofoni) tra le competenze richieste per svolgere la funzione tecnico-ispettiva (per come si evince dalla bozza di Schema di Regolamento che il MIM ha trasmesso al CSPI per il previsto parere) e la composizione della Commissione giudicatrice del concorso (sempre secondo quanto previsto dallo Schema di Regolamento). Infatti, se si analizzano le competenze richieste ai candidati dirigenti tecnici, troviamo sei settori di competenze molto ben strutturati sul piano tecnico-professionale e che fanno riferimento essenzialmente ad ambiti di tipo socio-psico-pedagogico: a) competenze in ambito educativo, pedagogico e didattico; b) competenze finalizzate al sostegno, alla progettazione e al supporto dei processi formativi; c) competenze finalizzate a supportare il processo di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche; d) competenze – sotto il profilo tecnico-scientifico – nelle attività di analisi, studio, ricerca sui processi educativi nazionali e internazionali a supporto dell’Amministrazione; e) competenze nell’ambito degli accertamenti ispettivi, con particolare riferimento agli aspetti didattici, organizzativi, contabili e amministrativi, anche nell’ambito del monitoraggio, del controllo e della verifica della permanenza dei requisiti previsti per il funzionamento delle istituzioni scolastiche paritarie e delle scuole non paritarie; f) competenze nell’ambito relazionale.

In realtà le prove d’esame, come sottolinea lo Schema di Regolamento, sono volte anche ad accertare le conoscenze del candidato in vari ambiti e materie, puntigliosamente riportati negli Allegati B) e C) dello Schema, e fortemente marcati in senso giuridico-amministrativo, tanto che il CSPI nel suo parere ha suggerito, in vari passaggi, di dare maggiore spazio a materie quali didattica generale, pedagogia generale e sociale, pedagogia e didattica speciale, sociologia generale, a scapito di materie afferenti lato sensu al diritto. Ma è facile immaginare che saranno soprattutto le conoscenze di tipo giuridico a fare la parte da leone nell’economia complessiva della valutazione dei candidati e questo per un motivo molto semplice legato alla composizione della Commissione d’esame. Infatti, dei cinque membri previsti dallo Schema di Regolamento, tre sono scelti tra i dirigenti appartenenti ai ruoli del Ministero che ricoprano o abbiano ricoperto un incarico di funzioni dirigenziali generali ovvero tra i professori di prima e di seconda fascia di università statali e non statali, i magistrati amministrativi, i magistrati ordinari, i magistrati contabili, gli avvocati dello Stato, i prefetti; e due vengono scelti fra i dirigenti non generali dell’area delle funzioni centrali appartenenti ai ruoli del Ministero. Non viene contemplata esplicitamente la presenza di un dirigente tecnico tra i commissari d’esame, anche se può essere fatta rientrare tra i “dirigenti non generali”. In ogni caso, c’è da chiedersi come può la Commissione verificare il possesso dei sei ambiti di competenze descritti sopra se al proprio interno non vi sono le competenze professionali specifiche. Il problema sembra peraltro tenuto presente dalla stesso Schema di Regolamento laddove prevede che “la commissione esaminatrice e le sottocommissioni possono essere altresì integrate ciascuna anche da membri aggregati esperti in selezione e valutazione del personale e/o in psicologia e/o in risorse umane.” Ma allora perché non inserire questa figura già all’interno della Commissione in forma stabile e non solo come possibilità?

Per tutti questi motivi, è facile prevedere che – come al solito – ciò che maggiormente interesserà i commissari sarà l’apparato burocratico delle conoscenze dei candidati, con buona pace del complesso delle competenze socio-psico-pedagogiche descritte sopra. D’altro canto, se tra i commissari figurano magistrati amministrativi, ordinari, contabili, avvocati dello Stato, prefetti o dirigenti amministrativi, non è azzardato supporre che il loro orizzonte professionale è costituito da norme, leggi e architetture istituzionali. Risulta difficile immaginare che abbiano dimestichezza con Dewey, Vygotskij o De Bartolomeis, o con campi del sapere come il socio-costruttivismo, la pedagogia attiva, le neuroscienze in campo educativo, o la valutazione di sistemi complessi ecc., a meno che, per strane alchimie epistemologiche, nel loro percorso professionale non siano venuti a contatti con questi ambiti. Ma nella selezione di figure così fortemente contrassegnate sul piano tecnico-professionale quali sono i dirigenti tecnici ci si può affidare a esaminatori così fortemente addentro in altri ambiti collaterali? È come se un’azienda nel selezionare psicologi si affidasse a esaminatori come ingegneri nucleari o esperti di marketing o avvocati professionisti.

Una possibile ragione di tutto ciò può essere la seguente: il management politico-amministrativo che ha redatto lo Schema di Regolamento del concorso per DT ha una visione giuridico-amministrativa della scuola, e non può che essere così in quanto quello è l’orizzonte culturale all’interno del quale si muove a proprio agio. Che questo orizzonte sia in grado di selezionare i futuri bravi dirigenti tecnici della scuola è come pensare che un architetto urbanista sia in grado di selezionare i macchinisti dei tram urbani.