Giocare alla guerra o educare alla pace?

Stefaneldi Mario Maviglia

Nella recente Fiera del Levate di Bari l’Esercito Italiano ha allestito uno stand significativamente attrattivo, sotto lo slogan L’Esercito 4.0. Proiettati nel futuro con lo sguardo nel passato.
Particolarmente suggestive (a detta della stampa) sono apparse le attrazioni pensate per i bambini e i giovani. Gli organizzatori parlano di oltre 100 mila persone che hanno visitato lo stand. Lo scopo di questa iniziativa era evidentemente quello di promuovere l’arruolamento dei giovani, anche come prospettiva di lavoro per i ragazzi e le ragazze del Mezzogiorno.
Eppure queste manifestazioni appaiono quanto meno inopportune se si considera che in tante parti del mondo, anche a noi vicine, vi è una recrudescenza dei conflitti bellici e il ricorso alle armi sembra aver soppiantato la diplomazia e il dialogo quali strumenti per risolvere le controversie tra i Paesi.
Il fatto che a subirne le conseguenze mortali di queste contese giocate sul piano militare siano soprattutto i civili (e in modo particolare quelli delle classi popolari), rende ancor più odiosa questa deriva bellicista e guerrafondaia.
Naturalmente chi trae i maggiori vantaggi dalle imprese belliche sono i mercanti d’armi (i profitti delle aziende che producono armi sono sempre molto redditizi) e il loro interesse è quello di far sì che le guerre continuino sine die per vendere più armi e per provarne di nuove, sempre più sofisticate, sempre più micidiali (per i civili).
Lo ha ribadito più volte Papa Francesco, anche recentemente, inascoltato, affermando che “la guerra è ignobile perché è il trionfo della menzogna, della falsità”.
A fronte di questa glorificazione della guerra e di esaltazione del militarismo di marinettiana memoria, come sembra fare l’Esercito Italiano, forse è il caso di proporre invece percorsi e modelli di pace, partendo proprio dalla scuola, la quale può far maturare nelle giovani generazioni quel “ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, richiamato dall’art. 11 della nostra Costituzione.
Vi sono vari modi per “insegnare” a bambini e ragazzi come adottare concezioni e comportamenti ispirati alla pace, iniziando fin dalla scuola dell’infanzia. L’organizzazione della classe come comunità, con proprie regole e forme di responsabilità diffusa, è il presupposto per far sperimentare agli studenti il senso dello stare insieme.
Si tratta di concepire la classe (ma più in generale la scuola) come un organismo che si struttura in modo democratico attraverso il coinvolgimento attivo di studenti e docenti, con propri organi di partecipazione e di regolamentazione condivisa della vita della classe.
Se non si è assillati dall’ansia di sviluppare il programma, un approccio di questo tipo può essere molto più incisivo di tante lezioni sulla conoscenza della Costituzione.
In fondo tutto il movimento delle scuole attive e della cooperazione educativa (che si ispirava ai principi della pedagogia popolare e dell’attivismo di John Dewey e Célestin Freinet) si basava su questi presupposti per formare cittadini democratici, liberi e solidali.
Gli ordinari episodi di conflitto che sorgono tra i compagni in classe possono sollecitare l’esigenza di trovare forme accettabili per affrontare e risolvere i contrasti.
Non servono le prediche o le lezioni; è più utile analizzare insieme le ragioni del conflitto e trovare delle possibili soluzioni per risolvere e magari darsi delle regole procedurali condivise per affrontare anche nel futuro queste situazioni. Vi sono inoltre delle strategie didattiche (il Debate è una di queste) che pongono gli studenti in una particolare posizione che consiste nel difendere idee che non si condividono per convincere altri studenti che a loro volta giocano il medesimo ruolo.
Sono interessanti forme di decentramento cognitivo e relazionale che mirano a far sperimentare e consolidare forme di empatia verso gli altri, a comprendere le loro motivazioni, a ricercare modalità condivise di convivenza democratica.
Altre proposte vanno nella direzione di sviluppare la solidarietà e il senso di comunità. La strategia del Service learning, ad esempio, coinvolge gli studenti in progetti di aiuto nei confronti della comunità, sotto forma di “compiti autentici”, ossia la realizzazione di progetti che, promuovendo la partecipazione attiva degli studenti, si configurano come un servizio di solidarietà che mira a soddisfare bisogni veri della comunità.
La pace va costruita giorno per giorno non in modo astratto e teorico, ma attraverso un tirocinio attivo di conoscenza dell’altro, di confronto, di dialogo e convivenza.
D’altro canto questo è stato l’insegnamento che ci hanno lasciato i grandi pacifisti del nostro tempo (Martin Luther King, Mahatma Gandhi, Nelson Mandela, Danilo Dolci, Don Lorenzo Milani, Mario Lodi, Maria Montessori, Aldo Capitini, Gino Strada, Bertrand Russell, Desmond Tutu, Albert Schweitzer, Giuseppe Gozzini, per citarne solo alcuni) che con la loro azione e il loro esempio (in alcuni casi pagato anche con la vita) hanno indicato possibili vie per raggiungere risultati significativi senza ricorrere alla violenza, ma praticando la difficile e incisiva arte del dialogo e dell’ascolto.
Ecco, vorremmo suggerire quanto segue all’Esercito Italiano: nelle prossime edizioni della Fiera del Levante lasci stare le armi e proponga ai giovani di tutte le età esempi di servizio civile. Non mancano esperienze in questo campo: dalla cura dell’ambiente, alla cura degli animali, dal rendersi utile verso chi ha difficoltà a cercare di inserire nella comunità chi è diverso o isolato. Organizzi inoltre dei momenti di conoscenza e approfondimento delle personalità che si sono distinte per il loro impegno per la pace e il dialogo tra le persone e i popoli (come quelle citate sopra a titolo esemplificativo).
E alle scuole proponiamo di organizzare ogni anno un appuntamento simbolico dal titolo “guerra alla guerra”: in uno spazio pubblico della città o del paese (con le dovute autorizzazioni, non sia mai …) gli studenti preparano un falò con armi-giocattolo bellici di tutte le fogge di cartone, precedentemente costruiti in classe o a casa. L’esecuzione di canti contro la guerra (scelti dagli studenti) potrebbe costituire un degno abbellimento dell’evento.
Il 4 novembre potrebbe essere, simbolicamente, la data più indicata per questa festa della pace, ossia la festa della vita contro la cultura della morte, di cui la guerra è l’emblema.




L’Intelligenza artificiale secondo Valditara

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Mario Maviglia
(già docente a contratto di Metodi e Strumenti per la Sperimentazione Educativa, Università Cattolica di Brescia)

Il Ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara ha annunciato nei giorni scorsi l’avvio di una sperimentazione della durata di due anni che coinvolgerà quindici classi di quattro regioni italiane (Lombardia, Toscana, Lazio e Calabria) e che avrà come focus l’affiancamento di un assistente virtuale (IA) alle attività di insegnamento.
La sperimentazione prevedere l’utilizzo di un software installato su Google Workspace, inizialmente operante sulle cosiddette materie STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) e sulle lingue straniere. Per quel che è dato sapere, sembra che le classi coinvolte siano state selezionate dagli Uffici Scolastici Regionali di competenza e si è in attesa del parere dei dirigenti scolastici e dei docenti.

Il progetto mira a personalizzare la didattica e a migliorare il livello di istruzione di ogni studente. L’assistente virtuale, con la supervisione dei docenti, rivestirà un’importanza significativa nel differenziare i percorsi di apprendimento di ogni allievo, proponendo le esperienze più adatte e adeguate ai ritmi di apprendimento e alle caratteristiche di ognuno.

Il Ministro Valditara ha affermato che questa sperimentazione si ispira, tra le altre cose, al pensiero di Benjamin Bloom, l’autore della famosa tassonomia degli obiettivi educativi e del mastery learning.
In effetti, tra i vari strumenti a disposizione del docente per favorire l’apprendimento per la padronanza, Bloom aveva indicato anche il tutor, anche se si riferiva a un supporto individuale costante mirato all’istruzione individualizzata.

Ma qui vogliamo puntare l’attenzione sul concetto stesso di “sperimentazione” utilizzato dal Ministro per definire questo progetto. Come si sa, tecnicamente, la sperimentazione consiste nell’introduzione, in un determinato contesto, di variazioni controllate di un fattore (variabile dipendente) per studiare gli effetti su un altro fattore (variabile indipendente), neutralizzando gli effetti secondari di altri fattori. La variabile dipendente rappresenta quindi l’oggetto sul quale si rilevano e si misurano sperimentalmente gli effetti delle variazioni provocate dalla variabile indipendente.
Pertanto i cambiamenti di questa variabile dipendono dalle manipolazioni che sperimentalmente vengono operate sulla variabile indipendente. Detto in altre parole, la variabile indipendente è la variabile che viene manipolata o controllata dal ricercatore, mentre la variabile dipendente è quella che subisce gli effetti dei cambiamenti effettuati sulla variabile indipendente[1].
Sotto questo profilo una vera sperimentazione è possibile solo in una situazione fortemente controllata (es. in un laboratorio) in cui si possono effettivamente studiare le relazioni tra le due variabili principali e annullare l’effetto delle altre.
In campo scolastico la realizzazione di una sperimentazione è estremamente difficile proprio perché non è possibile avere un controllo adeguato delle variabili, e per altre ragioni che vedremo.
Peraltro l’avvio e la gestione di una sperimentazione richiede un apparato concettuale e organizzativo decisamente impegnativo, e una procedura realizzativa rigorosa e continuamente tenuta sotto controllo, oltre che risorse professionali e strumentali (anche finanziarie) adeguate.

Questi sono i motivi per cui nella cultura scolastica sono pressoché ignoti i cosiddetti disegni sperimentali[2], su cu si basa la ricerca educativa controllata in senso sperimentale. Ecco perché qualche autore afferma che in campo scolastico sia preferibile parlare di esperienze controllate, più che di sperimentazione, ossia di un sapere che “riflette, organizza in modi peculiari, funge da selettore si azioni e intenti formativi”[3].

Da quel che si è fin qui detto e da quel che si sa della proposta lanciata dal Ministro appare improbabile che essa possa essere qualificata “sperimentale”, a meno che non si voglia mettere in discussione il paradigma sperimentale finora accettato dalla comunità scientifica.

Ma vi sono altri motivi che rendono, sul piano sperimentale, molto debole la proposta.
Il Ministro parla del coinvolgimento totale di 15 classi su tutto il territorio nazionale, scelte tra quattro diverse regioni, come detto sopra. Nell’a.s. 2023/2024 hanno funzionato (dati ufficiali MIM) complessivamente 76.656 classi di scuola secondaria di primo grado e 124.871 di scuola secondaria di secondo grado; se – come sembra di capire – il progetto riguarda le classi seconde di scuola secondaria di primo grado e le classi prime e quarte delle scuole secondarie di secondo grado (sempre tenendo conto di 15 classi come campione nazionale), approssimando il totale nazionale delle classi seconde della secondaria di primo grado e il totale nazionale delle classi prime e quarte della secondaria di secondo grado, abbiamo un campione che dai numeri forniti dal Ministero è così quantificato: classi prime di secondaria di primo grado 0,05% rispetto alla popolazione; classi prime e quarte di secondaria di secondo grado 0,03% rispetto alla popolazione.
Da un punto di vista tecnico il problema più delicato in questo caso è quello della rappresentatività del campione rispetto alla popolazione considerata. Detto in altre parole, e sempre in senso tecnico, il numero di scuole prescelte (campione) “dovrebbe rappresentare adeguatamente la popolazione [di riferimento], nel senso che l’informazione ottenuta esaminando [il campione] dovrebbe possedere lo stesso grado di accuratezza di quella che avremmo ottenuto esaminando l’intera popolazione”[4].
Altrimenti, se la dimensione del campione non è adeguata, osserva Bailey, “il ricercatore ha un campione, ma un campione di che cosa?”[5]
Il progetto “sperimentale” del Ministro Valditara presenta proprio questa pecca, o meglio non è dato sapere quanto le 15 classi siano rappresentative delle classi italiane e se il principio di rappresentatività non viene soddisfatto viene meno anche la possibilità di generalizzare i risultati, ossia di estenderli a tutta la popolazione di riferimento.

I medesimi problemi riguardano la scelta del gruppo di controllo, ossia il gruppo che presenta le medesime caratteristiche del gruppo sperimentale ma che non viene sottoposto a sperimentazione e che funziona da termine di confronto rispetto al gruppo sperimentale: con quale criterio viene individuato? Da quanto detto dal Ministro non è dato sapere; anzi, non se ne fa alcun cenno. Viene solo detto che se dopo i due anni di sperimentazione, dal confronto dei risultati delle 15 classi “sperimentali” con quelli delle altre classi (genericamente intese), misurati sulla base degli esiti Invalsi, questi risultati dovessero risultare positivi, l’utilizzo dell’IA verrà esteso a tutte le classi a partire dal 2026.
Ma chi garantisce che i risultati positivi siano da ascrivere all’assistente virtuale e non ad altri fattori non tenuti sotto controllo dalla procedura sperimentale ma che possono esplicare effetti più significativi rispetto all’IA? Ad esempio, la non rappresentatività del campione (e del correlativo gruppo di controllo) può portare a scegliere unità di analisi[6] (i singoli individui del campione) che per le loro condizioni di partenza e le loro caratteristiche potrebbero ottenere risultati comunque sovra o sottodimensionati con la conseguente impossibilità di fare alcuna generalizzazione.

Non è un caso che nel campo della letteratura scientifica si affermi esplicitamente che “non è facile condurre bene una ricerca sperimentale”[7]. Dubbi, questi, che non sembrano sfiorare il Ministro.

Si possono, conclusivamente, fare due considerazioni:

  1. sconcerta la disinvoltura con cui vengono utilizzati termini (come sperimentazione) che nel campo della ricerca educativa, e non solo, rimandano a protocolli e procedure rigorosi e fortemente controllati;
  2. è facile immaginare che l’impostazione così smaccatamente ideologica più che tecnico-scientifica di questa “sperimentazione” porterà sicuramente – da qui a due anni – a risultati inconfutabilmente positivi e tali da giustificare l’introduzione generalizzata dell’IA in tutte le classi. Ma se questo è l’obiettivo finale (e non può che essere questo data l’assenza di ogni traccia di disegno sperimentale) tanto vale introdurre da subito l’IA nelle classi in quanto scelta politica (come di fatto sembra essere), senza nascondersi dietro improbabili paraventi “sperimentali”. E senza scomodare Benjamin Bloom, il cui rigore metodologico viene incautamente accostato a un progetto che – allo stato dei fatti e per quel che si sa – appare tanto rigoroso quanto i ragionamenti deliranti e sconclusionati di Lars Hertervig, il protagonista del romanzo di Jon Fosse, Melancholia, Premio Nobel per la Letteratura 2023.

[1] R. Viganò, Pedagogia e sperimentazione. Metodi e strumenti per la ricerca educativa, Vita e Pensiero, Milano, 2002
[2] L. Calonghi, I disegni sperimentali nella ricerca scolastica, in E. Becchi, B. Vertecchi (a cura di), Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa, Franco Angeli Editore, Milano, 1988
[3] E. Becchi, Disegni sperimentali e esperienze controllate, in M. Maviglia (a cura di), La sperimentazione nella scuola dell’infanzia, Edizioni Junior, Bergamo, 1995, p 13; E. Becchi, Sperimentare nella scuola, La Nuova Italia, Firenze, 1997.
[4] K.D. Bailey, Metodi della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 7
[5] Ibidem
[6] Ibidem
[7] E. Gattico, S. Mantovani (a cura di), La ricerca sul campo in educazione. I metodi quantitativi, Bruno Mondadori Editore, Milano, 1998, p. 64




Concorsi scuola: istruzioni per rendere infelici

di Mario Maviglia

L’Italia è un Paese meraviglioso, vitale, ricco di creatività e di trovate genialmente concepite per complicarsi la vita, ma soprattutto per complicarla ai cittadini e a gli operatori dei vari settori. Prendiamo l’esempio del concorso per dirigenti scolastici, la cui prova preselettiva si svolgerà su tutto il territorio nazionale il prossimo 23 maggio.
Il bando (DD 2788 del 18/12/2023) all’art. 3 comma 9, con puntigliosa e leguleia precisione, ricorda che “la vigilanza durante le prove di cui al presente bando è affidata all’USR secondo quanto stabilito dall’articolo 9, comma 5 del DPR 487/1994”.
E che cosa stabilisce questo comma?
Semplice: “Nei casi in cui le prove scritte abbiano luogo in più sedi, in ognuna di esse è costituito un comitato di vigilanza, presieduto da un membro della commissione e composto almeno da due dipendenti di qualifica o categoria non inferiore a quella per la quale il concorso è stato bandito. I membri del comitato sono individuati dall’amministrazione procedente tra il proprio personale in servizio presso la sede di esame o, in caso di comprovate esigenze di servizio, anche tra quello di sedi o amministrazioni diverse.”

Ai più questo riferimento è passato inosservato, ma non a qualche USR che, in ossequio a quanto stabilito da questa norma del 1994, sta procedendo a nominare i comitati di vigilanza utilizzando i dirigenti scolastici in servizio in quanto appartenenti a “qualifica o categoria non inferiore a quella per la quale il concorso è stato bandito” (3 DS per ogni sede d’esame). Attenzione!
Qui si sta parlando del Comitato di vigilanza non della Commissione d’esame, ossia di persone che devono sorvegliare che i candidati non consultino libri, non utilizzino dispositivi elettronici (a parte il computer della sede d’esame per l’espletamento della prova preselettiva), non comunichino tra di loro ecc. Un compito, diciamo così, che non richiede una grande competenza dirigenziale e che qualsiasi addetto, anche di “qualifica inferiore”, opportunamente informato, può agevolmente svolgere. Ma la legge, ça va sans dire, va rispettata.

C’è solo un piccolo particolare da considerare: il concorso viene svolto proprio perché non ci sono dirigenti scolastici in numero adeguato (altrimenti non verrebbe bandito…), e quelli che ci sono, in questo periodo o sono già impegnati in analoghi concorsi (per il reclutamento dei docenti) o sono alle prese con le incombenze di fine anno scolastico. Si procederà, com’è prevedibile, con nomine d’ufficio, con inevitabili malumori tra i dirigenti “prescelti”.

Il Ministro in questo periodo è particolarmente attivo sul piano della comunicazione: ha annunciato la nomina di una Commissione per la revisione delle Indicazioni Nazionali; ha anticipato che sta lavorando per introdurre nuove forme di welfare per il personale della scuola per agevolare l’accesso a mutui per la casa o per prestiti personali o altri servizi bancari. Orizzonte Scuola del 20 maggio 2024 afferma che “a partire da martedì, il ministro Valditara inizierà un tour in tutta Italia per incontrare docenti, studenti e personale amministrativo, tecnico e ausiliario. Il viaggio ha l’obiettivo di promuovere una maggiore consapevolezza sull’importanza degli sforzi congiunti per migliorare il sistema scolastico. Valditara ha sottolineato che “una scuola che mette al centro le persone è fondamentale per la ricostruzione del paese”.

Senza affaticarsi così tanto, al Ministro basterebbe fare un tour per gli uffici del suo dicastero per individuare quegli elementi di disfunzionalità che creano così tante criticità nella vita delle scuole. Una di queste è proprio la norma che abbiamo citato prima sulla composizione dei Comitati di vigilanza. Le leggi possono anche essere cambiate, se si conosce l’impatto che hanno sulle istituzioni. Per la verità, anche l’aver fissato il 23 maggio come data per l’espletamento della prova preselettiva del concorso ordinario per DS denota una scarsa conoscenza dei vari adempimenti che le scuole italiane devono sbrigare in questa fase finale dell’anno scolastico. E considerato che il Ministro dichiara che “una scuola che mette al centro le persone è fondamentale per la ricostruzione del paese”, queste “disattenzioni” dimostrano una chiara disconferma di queste impegnative affermazioni, oppure una implicita insensibilità verso la fatica che le scuole devono gestire durante tutto l’anno ed in particolare nei momenti più ritualizzati come la conclusione dell’anno scolastico.




Revisione Indicazioni Nazionali: la mania di lasciare tracce

di Mario Maviglia

 Si sa ancora poco di cosa voglia fare esattamente il Ministro Valditara riguardo la revisione delle Indicazioni Nazionali del 2012, su cui dovrebbe lavorare un’apposita commissione di esperti. Per la verità, come osserva il Manifesto on line del 4 maggio 2024, già lo scorso 12 ottobre il Ministro, rispondendo in Senato a un quesito sull’insegnamento della storia e della geografia, aveva annunciato la costituzione di un gruppo di lavoro per rinnovare la didattica: “La modifica della progressione dei contenuti, degli obiettivi e dei traguardi per le discipline di storia e geografia sarà valutata nell’ambito della revisione delle predette Indicazioni nazionali”.
Adesso che si conoscono i nomi dei componenti la Commissione e ci sono già le prime critiche, il Ministro ha dichiarato attraverso i social: “Si rilassino i contestatori e i polemisti di professione, non appena il decreto di nomina della Commissione di studio sarà registrato, sarà avviata una consultazione ampia del mondo della scuola.”

Lungi da me l’intento di rientrare tra i “contestatori e polemisti di professione” richiamati dal sig. Ministro, però vorrei sommessamente indicare a Valditara alcuni interventi che potrebbero “rinnovare la didattica” senza necessariamente intervenire sulle Indicazioni nazionali di cui, per la verità, non si sente la necessità.

Un primo intervento riguarda la qualità dell’insegnamento e dunque degli insegnanti. Il sistema di formazione e reclutamento degli insegnanti attualmente vigente è quanto di più lontano si possa immaginare per garantire un rinnovamento della didattica. A parte la querelle sui 24/30/60 crediti per poter insegnare, dal sapore più kafkiano che pedagogico, siamo sicuri che i test siano gli strumenti più idonei per selezionare i migliori candidati docenti? Sono sicuramente molto “economici”, ma che siano in grado di conseguire l’obiettivo per cui vengono utilizzati è tutto da dimostrare. A ciò si aggiunga che la stessa individuazione dei commissari di concorso è diventata un’operazione quanto mai macchinosa e difficoltosa in quanto coloro che accettano questo tipo di incarico (docenti e dirigenti scolastici particolarmente masochisti) non sono esonerati dal servizio e questa prestazione aggiuntiva viene retribuita con compensi talmente irrisori che suonano offensivi.
Difficile che questo sistema sia in grado di selezionare i migliori docenti. E d’altro canto fare l’insegnante in Italia non è una professione così attrattiva, né sul piano economico né su quello sociale, come avviene in altri Paesi occidentali e non solo. Ecco una bella sfida che il Ministro potrebbe accogliere se volesse davvero “rinnovare la didattica”: valorizzi la professione docente!

Un secondo intervento riguarda la sburocratizzazione della scuola. Difficile forse chiedere questo a chi di burocrazia vive. Però ci solo livelli di decenza sotto i quali non si può scendere. Se il Ministro volesse passare alla storia potrebbe cominciare a mettere il bavaglio (non quello che la sua maggioranza mette alla stampa che nelle classifiche internazionali è passata dal 41° dal 46° posto in quanto a libertà) alla produzione di atti amministrativi rivolti alle scuole.
Misura ed essenzialità: questi potrebbero essere i principi guida dell’apparato amministrativo del MIM. E soprattutto: non molestare le scuole con richieste di dati che l’Amministrazione ha già, in un modo o nell’altro.
Certo, anche le singole scuole (e particolarmente i dirigenti scolastici) devono stare attenti a non andare oltre la misura del lecito nel processo di burocratizzazione. L’attenzione va rivolta al lavoro d’aula e alla cura dei processi di apprendimento, non alla produzione di rapporti, relazioni, verbali, progetti, piani et similia che nessuno legge. Ma l’esempio deve essere dato dal management amministrativo: il Ministro può fare molto sotto questo profilo, anche senza il supporto di alcuna Commissione…

Un terzo intervento riguarda la cura dei risultati scolastici e, dunque, delle azioni politiche da attivare a questo fine. Ogni anno l’Invalsi provvede a rilevare lo stato dell’arte delle conoscenze e competenze degli studenti delle canoniche classi filtro. Invece di elucubrare sulla possibilità di inserire i risultati Invalsi di ogni alunno all’interno della scheda di valutazione (decisione tecnicamente scellerata in quanto le prove Invalsi nascono con un altro fine), bisognerebbe considerare piuttosto tutti i risvolti “politici” dei risultati e su questo un Ministro avrebbe molto da dire (e da lavorare).
Così, ad esempio, se dall’analisi dovessero emergere situazioni particolarmente critiche su alcuni apprendimenti in determinate aree del Paese (come succede), il decisore politico dovrebbe farne oggetto di attenta analisi e provare a mettere in atto interventi di vario tipo per invertire la rotta.
Ad esempio, possono essere definiti interventi di tipo formativo per incrementare le competenze metodologico-didattiche dei docenti negli ambiti considerati, oppure l’adeguamento della strumentazione didattica o altri interventi di diverso segno. In ogni caso, il decisore politico dimostrerebbe di saper intervenire per tentare di dare una risposta ai problemi rilevati. Qui invece si interviene sulle Indicazioni nazionali senza sapere quasi siano i problemi rilevati.

È tipico di molti animali marcare il territorio per lasciare il segno della loro presenza; spesso si ha l’impressione che alcuni Ministri adottino questo comportamento etologico per marcare a loro volta la loro presenza, per lasciare traccia del loro passaggio.
E su come gli animali marchino il proprio territorio preferisco non approfondire.

 

 

 

 

 

 

 




E la chiamano estate … educativa

Stefaneldi Mario Maviglia

Vogliamo dare credito al Ministro Valditara e al suo Piano estate per il biennio 2023-2024 e 2024-2025. Sul sito del MIM il Ministro sostiene che l’obiettivo del Piano è quello di considerare la scuola come “punto di riferimento per gli studenti e per le famiglie anche d’estate, con sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento, ricorrendo a tutte le sinergie positive possibili, dagli enti locali alle associazioni del terzo settore. Una scuola che sia sempre più un luogo aperto, parte integrante della comunità per tutto l’anno, realizzando attività di aggregazione e formazione soprattutto per i bambini e i ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari”.
Parole assolutamente condivisibili.
Il problema è valutare se le misure proposte (e i comportamenti del Ministero stesso) sono in grado di conseguire questi obiettivi tenendo conto della specifica realtà delle scuole, che hanno tempo fino al 24 maggio 2024 per avanzare la loro candidatura (l’adesione al piano è, com’è noto, su base volontaria).

 I tempi

Questo è già un primo problema, sia nel breve che nel medio periodo. Pensare che le scuole abbiano lo spazio mentale, prim’ancora che progettuale, di condurre una progettazione adeguata delle attività estive in collaborazione con le agenzie del territorio in questa fase conclusiva dell’anno scolastica (già affollata da altri adempimenti rituali) vuol dire non conoscere le scuole e l’affanno che vivono in questo periodo dell’anno scolastico, oppure considerare l’intero Piano come un’operazione per spendere soldi perché debbono essere spesi. A prescindere.

La durata biennale del Piano, peraltro, non dà alcuna garanzia che – esaurito questo arco temporale – le attività possano proseguire. Questo limite temporale del progetto e l’adesione volontaria delle scuole potevano avere senso all’interno di una esperienza controllata in vista di una generalizzazione nel prossimo futuro. Infatti è plausibile immaginare che anche fra qualche anno si porrà il problema di dare l’opportunità a quei “bambini e ragazzi che, in estate, non possono contare su altre esperienze di arricchimento personale e di crescita a causa delle esigenze lavorative dei genitori o di particolari situazioni familiari” di fruire delle attività previste dal Piano estate. La mancanza di una visione a medio-lungo termine (se non è dettata da verifiche empiriche che suggeriscano la necessità di abbandonare determinate scelte per gli accertati esiti negativi) rischia di trasformare queste iniziative in spot sospesi nel vuoto.

Peraltro i tempi così ristretti nella progettazione delle attività si trasformano, ancora una volta, in una sorta di tour de force per quelle scuole che intendono aderire al Piano. Un progetto di questo tipo deve essere annunciato a settembre, non nel mese di aprile. I tempi di reazione della scuola non sono quelli delle aziende private; al Ministero ciò dovrebbe essere noto.

Le scuole e i docenti

In che cosa si distinguono le attività proposte dalla scuola all’interno del Piano estate rispetto a quelle tradizionalmente realizzate dai centri ricreativi estivi gestiti dagli enti locali o da altre agenzie del territorio? O rispetto ad altre forme aggregative estive come summer camp, campi scout ecc.? La domanda non è peregrina per almeno due ordini di motivi: se non si definiscono le caratteristiche dell’offerta ministeriale rispetto alle altre proposte estive non si rischia di fare concorrenza a queste ultime?  E perché l’utenza dovrebbe scegliere le proposte della scuola, a parte gli eventuali vantaggi economici? L’altro aspetto riguarda la preparazione professionale dei docenti: essi sono “formati” per trasmettere conoscenze in modi più o meno formalizzati e attraverso percorsi più o meno strutturati, spesso privilegiando approcci comunicativi unidirezionali (la lezione); quando il Ministro parla di attività quali “sport, attività ricreative, laboratori o attività di potenziamento”, sembra alludere ad ambiti del fare e dell’agire non così presenti nella liturgia scolastica canonica. I docenti sono in grado di gestire attività di questo tipo al di fuori della ritualità consolidata che costituisce il loro normale contesto professionale?

Insomma, se i docenti affrontano queste attività da “animatori” o “educatori” evidentemente fanno riferimento ad una serie di competenze del tutto specifiche e personali, non certo istituzionali (e dunque non diffuse allo stesso modo all’interno delle scuole); se invece le gestiscono secondo le loro abituali competenze allora c’è il fondato rischio che vengano “scolasticizzate” con tutto ciò che ne consegue in termini di sostenibilità e appeal per gli studenti. Si può obiettare (giustamente) che vi sono tante scuole in cui l’approccio laboratoriale è fortemente presente e dunque non dovrebbero sorgere problemi nella gestione delle attività previste dal Piano estate; ma queste scuole aderiranno al Piano estate?

In realtà, se si va a leggere l’Avviso pubblico con il quale il MIM invita le scuole a proporre la loro candidatura per i “percorsi educativi e formativi per il potenziamento delle competenze, l’inclusione e la socialità nel periodo di sospensione estiva delle lezioni negli anni scolastici 2023-2024 e 2024-2025” (prot. 59369 del 19/04/2024) si ricava una generale impressione di impostazione fortemente “scolasticistica” e verticistica in ordine alla progettazione delle attività. E infatti vengono individuati 9 moduli di intervento: Lingua madre, Matematica, scienze e tecnologie, Lingua straniera (inglese per gli allievi della scuola primaria) Competenze in materia di cittadinanza, Competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare, Competenza imprenditoriale, Consapevolezza ed espressione culturale, Educazione motoria, Pensiero computazionale e creatività e cittadinanza digitali.
E se una scuola intende agire su altri ambiti in relazione alle specifiche esigenze della realtà in cui opera?

Per ogni modulo è prevista una durata di 30 e 60 ore, a scelta della scuola proponente, nel limite del massimale di spesa; i soli percorsi di lingua straniera possono avere durata anche di 100 ore. Viene specificato che “i moduli rappresentano l’unità minima di progettazione e sono contraddistinti da una specifica configurazione in termini di ambito disciplinare/tematico, durata e figure professionali coinvolte (alcune obbligatorie – “esperto” e “tutor” – e altre facoltative).”  Anche in questo sarebbe interessante capire se questo perimetro temporale scaturisce da un’analisi tecnico-scientifica riguardo lo sviluppo di un modulo o da ragioni amministrativo-contabili o da altre imperscrutabili ragioni. Definito un tetto di spesa (sulla base del numero di studenti iscritti ai moduli) le scuole non sono in grado di stabilire la durata dei moduli stessi? Non hanno il know how adeguato? Il MIM ce l’ha?

Più in generale, c’è da chiedersi che fine ha fatto l’autonomia delle scuole. Ma anche che fine hanno fatto quei “progetti che prevedono attività di potenziamento didattico, sportive, musicali, teatrali, ludiche e ricreative, a tema ambientale e, più in generale, tutte quelle iniziative che favoriscono la relazionalità, l’aggregazione, l’inclusione, la socialità, l’accoglienza e la vita di gruppo” richiamati dal Ministro nella nota prot. 56244 dell’11/04/2024. Sembra quasi che nel passaggio dall’ufficio politico del Ministro a quello del management amministrativo il Piano estate sia diventato un sottoprodotto della normale attività scolastica con lacci, lacciuoli e ammennicoli vari che ormai contraddistinguono la vita della scuola nell’impostazione mentale e operativa del MIM. Ma che problemi ha il Ministero con l’autonomia delle scuole? Ha paura che non siano in grado di partorire idee in autonomia? O teme che sperperino il pubblico denaro? Sembra che, parafrasando un incipit molto pericoloso, “uno spettro si aggira per viale Trastevere: lo spettro dell’autonomia scolastica.” Non sia mai!

Il territorio

Attivare “sinergie positive possibili” con gli enti locali e le associazioni del terzo settore per realizzare il Paino estate sembra costituire il mantra del Ministro. Prospettiva suggestiva, senza dubbio, e va sottolineato che non si parte da zero, anche se la situazione appare molto differenziata a livello nazionale, con punte di eccellenza e altre di grande difficoltà. Per la verità, perfidamente, si potrebbe far notare che è lo stesso Ministero a non ricercare queste “sinergie positive”. Infatti il DM 11/04/2024 n. 72 che lancia il Piano estate non sembra sia stato concordato con gli Enti locali; e d’altro canto, quasi contemporaneamente all’emanazione di questo decreto, il Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella, in un’intervista ad un giornale nazionale, rassicura le famiglie e i Comuni che i centri estivi saranno finanziati anche nel 2024 con 60 milioni di euro. Un supporto concreto, dice il Ministro per la Famiglia, che si aggiunge alle attività estive organizzate dalle scuole. Insomma, nella compagine governativa non sembra esservi quella sinergia di interventi che pure viene richiesta alle scuole. “Fate quel che dico, non quel che faccio!”

La verità è che i rapporti con il territorio rappresentano un rebus molto complicato e le “sinergie” non si creano in un mese. Non è un caso che lo stesso Ministero è ondivago al riguardo. Infatti, mentre nelle dichiarazioni ufficiali (sito web MIM) si dice “nell’ambito dell’autonomia organizzativa di cui dispongono, le istituzioni scolastiche potranno ulteriormente arricchire l’offerta del Piano Estate, singolarmente o in rete tra loro, grazie alle alleanze tra la scuola e il territorio, gli enti locali, le comunità locali, le Università, le associazioni sportive, le organizzazioni di volontariato e del terzo settore, nonché attraverso il coinvolgimento attivo delle famiglie e delle loro associazioni”, nell’Avviso pubblico richiamato sopra si afferma, in maniera più lasca e indefinita, che “è favorita la collaborazione con gli enti locali, le associazioni del Terzo settore, le organizzazioni e i centri di volontariato, le associazioni sportive, gli attori del territorio, le comunità locali, gli enti, le università e i centri di ricerca, nonché il coinvolgimento attivo di studenti universitari e delle famiglie e delle loro associazioni”. Anche in questo caso troviamo una progressiva diminutio nel passaggio dalle enunciazioni di principio alle istruzioni operative.

Probabilmente il Piano estate produrrà buoni risultati grazie all’impegno e alla competenza delle scuole che vi vorranno aderire. Ma quanta fatica e quanto merito ci vuole per educare un Ministero dell’Istruzione e del Merito!

 

 

 

 




Fissiamo un tetto alle sgrammaticature di Valditara

di Mario Maviglia

Ha ragione il Ministro Valditara a scagliarsi contro chi ha stigmatizzato i suoi errori linguistici contenuti in un tweet in cui parlava della necessità di costituire classi con la maggioranza di italiani, allineandosi alle posizioni del suo capopartito Salvini, nonché Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Questa vicenda ci fa capire tante cose interessanti:

  • Valditara dice: “Quando si detta un tweet al telefono non si compie un’operazione di rigore linguistico e si è più attenti al contenuto”. Verissimo! Però dall’altra parta del telefono ci si aspetta che chi prende la telefonata (ossia un collaboratore di Valditara, da lui stesso scelto, immaginiamo) abbia almeno la licenza di scuola media…
  • Il Ministro del Merito aggiunge che il processo di assimilazione degli alunni stranieri “avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani, se studieranno in modo potenziato l’italiano…”. Ecco, sarebbe opportuno che anche Valditara e l’ignoto suo collaboratore potenziassero a loro volta il loro italiano. La lingua italiana sarebbe loro grata.
  • Secondo il Valditara-pensiero (preso a prestito dal suo capopartito Salvini) questo processo di assimilazione degli studenti stranieri avverrà “se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana…” [Si noti la finezza sintattica di quel “si insegni”, una vera chicca e licenza poetica. Non è ancora licenza media, ma la strada è tracciata. Con il potenziamento di cui sopra ce la possiamo fare…].
    Ma qui il Valditara-pensiero denuncia qualche défaillance (tranquillo, sig. Ministro: vuol dire “debolezza”): infatti i risultati peggiori – almeno stando alle classifiche internazionali come OCSE-PISA – gli allievi delle scuole italiane li conseguono nelle scuole superiori dove la presenza degli alunni stranieri è più bassa. E allora come la mettiamo? Forse questa necessità di “approfondimento” non riguarda solo gli studenti stranieri, ma anche e soprattutto quelli italiani.

  • Senza nascondere una certa stizza, il Ministro (Valditara, lo dobbiamo specificare sempre sennò sembra che si voglia parlare del suo capo, Salvini…) fa notare “ai tanti critici dall’indignazione facile, che in queste ore si stanno scatenando nella caccia all’errore, che così facendo ignorano la questione da me posta…”. Per la verità il Ministro (Valditara) e il suo capo (Salvini) sono i primi ad ignorare che la questione del tetto massimo degli alunni stranieri per classe era stata già oggetto di una circolare all’epoca del IV Governo Berlusconi, Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.
    Si tratta della CM n. 2 dell’8 gennaio 2010, che fissava appunto al 30% la percentuale di “alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe”. Una circolare emanata quindi da un governo di centro-destra, come quello attuale.
    Ma è comprensibile che quando si hanno tanti tweet da fare o annunci da proclamare alla Nazione non si abbia poi il tempo di documentarsi rispetto al contenuto, quel contenuto che il Ministro (Valditara) dice di aver attenzionato a scapito della forma. Non si vuole essere cavillosi, ma qui, con tutta franchezza, sembra mancare sia la forma che il contenuto. È plausibile che ciò possa succedere al Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture (a proposito: da quando i Ministri di tale Dicastero si interessano in modo così insistente di politica scolastica? Il Ponte sullo Stretto non è già abbastanza impegnativo?), ma che un Ministro dell’Istruzione non sappia cosa ha prodotto il suo Dicastero in materia è abbastanza allarmante.
  • Volutamente abbiamo più volte parlato del Ministro Salvini come il “capo” del Ministro Valditara: non si tratta di una svista o di una nota polemica. Sia a proposito della vicenda della scuola di Pioltello che nel caso della percentuale di alunni stranieri nelle classi il la è stato dato da Salvini a cui si è accodato, come un mansueto cagnolino, o se volete come un coscienzioso corista, il Ministro Valditara.
    Insomma, sembra di capire che il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture detta la linea della politica scolastica e il Ministro Valditara la mette in atto con sottomessa dedizione.
  • Sempre a proposito di contenuti, è facile prevedere che una norma sulla percentuale massima di alunni stranieri per classe (20 o 30% che sia) non troverà mai attuazione perché richiederebbe una concertazione di azioni tra più soggetti istituzionali, come d’altro canto ben specificava la CM 2/2010 che sottolineava l’importanza di “realizzare le conseguenti intese tra soggetti disponibili sul territorio per una gestione coordinata delle iscrizioni dei minori stranieri fra l’Amministrazione scolastica, le Prefetture, le Province e i Comuni”. Difficile pensare che oggi sia possibile un’azione di tale complessità.
  • D’altro canto, sempre citando la CM 2/2010, “non va dimenticato che a influire sulla presenza più o meno significativa di minori stranieri in un determinato territorio contribuiscono sì le capacità attrattive delle scuole che in esso insistono, ma pure – e in termini non certo irrilevanti – le disponibilità di alloggio e le offerte di lavoro in esso presenti. Il che fa immediatamente emergere il ruolo cruciale che le prassi degli accordi e delle alleanze territoriali possono svolgere per affrontare i problemi suddetti.”

Di questi problemi non vi è traccia negli interventi dei due Ministri dell’Istruzione (Valditara) e del Merito (Salvini). E allora facciamo una facile e cassandrica previsione: qualora questa coppia di Ministri dovesse partorire una norma su questa materia, la responsabilità di accogliere o non accogliere gli alunni stranieri, rispettando la quota percentuale stabilità formalmente, ricadrà interamente sulle istituzioni scolastiche e i dirigenti scolastici resteranno, ancora una volta, col cerino in mano. Parafrasando Brecht, possiamo dire che si siederanno nella parte più disagevole perché gli altri posti saranno occupati.




Valditara: gravemente insufficiente

di Mario Maviglia

 Un caro amico, che non cito per decenza, mi ha omaggiato dell’ultimo libro del Ministro Valditara (La scuola dei talenti, Piemme, Segrate, 2024) con il vincolo di scriverci sopra qualcosa (il termine recensione suonerebbe troppo pretenzioso). Per una inveterata forma di buona creanza mi accingo a pagare il fio, abbandonando momentaneamente la lettura dei Vangeli apocrifi, a cura di Marcello Craveri, Einaudi, Torino, 1969. Ci tengo a riportare i dati bibliografici completi di queste opere perché una delle cose che salta immediatamente agli occhi per chi è avvezzo a leggere saggi è la pressoché totale mancanza di riferimenti bibliografici nell’opera del sig. Ministro. Anche quando il sig. Ministro riporta passi testuali di altri autori (con tanto di virgolettato) non fornisce i riferimenti bibliografici. Ci si aspetterebbe di vedere la bibliografia completa nelle ultime pagine del volume, ma anche questa attesa va incontro a una cocente delusione.

La cosa è ancor più sconvolgente in quanto il sig. Ministro risulta essere professore ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità (SSD: IUS/18) presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino.[1] Ora, chiunque abbia dimestichezza con il mondo accademico (in quanto docente e soprattutto in quanto studente) sa che una delle principali raccomandazioni che i docenti fanno agli studenti è proprio quella dell’uso appropriato dei riferimenti bibliografici, tanto che ogni università di solito pubblica le norme redazionali per la scrittura della tesi (ma il discorso vale per relazioni scritte, rapporti di ricerca, essay ecc.), distinguendo financo tra stile continentale e stile anglosassone nell’uso delle citazioni bibliografiche.[2] Forse il sig. Ministro è da troppo tempo che non esercita la professione di docente universitario e avrà dimenticato questo costume.

L’opera (184 pagine, tutto sommato una lettura sopportabile) può essere definita una sorta di pot-pourri in quanto il sig. Ministro ha gettato l’occhio un po’ dappertutto, dando la sua versione sui vari aspetti della vita della scuola italiana (passato, presente e futuro) con alcune osservazioni ricorrenti che diventano dei veri e propri mantra:

  • Il Sessantotto ha distrutto la scuola con il suo voto politico e la teorizzazione della scuola facile e della “soddisfazione senza limiti dei desideri e la riduzione della felicità a questa continua rincorsa” (p. 138). Sarebbe interessante conoscere quanti studenti negli anni del Sessantotto hanno fruito del 6 o del 30 politico; io ho frequentato l’Università in quegli anni e non sono riuscito a fruire di questa opportunità. Altri compagni hanno vissuto lo stesso trauma.
  • Le riforme realizzate nel passato hanno fallito; l’attuale Governo di centro-destra è l’unico ad avere imboccato la strada giusta. Il sig. Ministro dimentica di dire che nel passato vi sono stati parecchi Governi a marca centro-destra, ma sembra di capire dal suo ragionamento che i danni maggiori siano stati fatti da quelli di centro-sinistra. Ad esempio la valorizzazione dell’istruzione tecnica e professionale è merito del sig. Ministro in quanto la “sinistra comunista e quella di matrice sessantottina, [hanno] variamente considerato la scuola tecnica e professionale come una scuola di classe, ovvero una scuola funzionale agli interessi della organizzazione capitalistica della produzione e del lavoro.” (p. 148). E dire che in Unione Sovietica le scuole più prestigiose erano i politecnici…
  • La scuola costituzionale è la scuola del merito, finalizzata a far sì che ognuno possa “tirar fuori i propri talenti e abilità” (p. 39) in sintonia con “l’idea di tipi multipli di intelligenza che si rivela molto utile proprio in ambito scolastico perché permette di differenziare la proposta educativa in base al modello di intelligenza individuale, che, detto altrimenti, è la predisposizione di una offerta formativa in linea con i talenti e le abilità di ciascun giovane” (p. 24). Il sig. Ministro cita esplicitamente Gardner a questo proposito. Il paragone evidentemente è pindarico ma forse il sig. Ministro ritiene che aver aggiunto “Merito” alla denominazione del suo Ministero fa della scuola italiana una scuola sintonica con la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner. Può essere imbarazzante in questa sede far notare al sig. Ministro che se c’è una scuola in Italia che effettivamente si è ispirata a tale teoria (per ammissione dello stesso Gardner) sono le scuole dell’infanzia di Reggio Emilia, fondate da Loris Malaguzzi e a gestione comunale (amministrazione di centro-sinistra, detto incidentalmente…).[3]
  • Ciò che sta salvando la scuola italiana (e la salverà sempre più) è, nel dream martinlutherkinghiano del sig. Ministro, l’introduzione del docente tutor e del docente orientatore (D.M. 22 dicembre 2022, n. 328): il primo “in collaborazione con gli altri colleghi del gruppo classe, ha il compito di progettare una didattica personalizzata a seconda delle esigenze e potenzialità di ogni studente” (p. 41). Visto? Ci si stava incagliando nel penoso dilemma di come fare per realizzare (ad esempio nella scuola superiore) una didattica personalizzata e la risposta è a portata di mano grazie al sig. Ministro: la risposta si chiama docente tutor. Il docente orientatore, invece, ”ha il compito di raccogliere dal territorio le varie opportunità formative e lavorative e portarle a conoscenza delle famiglie e degli studenti per una scelta coerente con quelle abilità, con quei talenti che la scuola ha fatto emergere e valorizzato” (p. 42). Si raccoglie e si porta a conoscenza di famiglie e studenti e il gioco è fatto. Certe volte si pensa che i processi siano complessi e difficili da gestire (sarà la sinistra che instilla queste falsità?) e invece con piccoli accorgimenti tout va bien!

Vi sono poi delle chicche che vanno riprese perché testimoniano la profondità delle riflessioni elaborate dal sig. Ministro:

=la scuola facile (ereditata dal Sessantotto, ça va sans dire) ha portato alla scomparsa delle bocciature (p. 44), mentre nella scuola sognata dal sig. Ministro “le bocciature [vanno considerate] come uno stimolo e un rimedio” (p. 52).
Nulla da eccepire, ma alcune pagine precedenti sempre il sig. Ministro aveva evidenziato che i risultati scolastici più insoddisfacenti (ossia quelli che portano alla bocciatura) li ottengono gli studenti che provengono da contesti socio-economico-familiari disagiati ed anzi – aggiunge sempre il sig. Ministro – è compito della Repubblica (alias della scuola) rimuovere gli ostacoli che non consentono la piena realizzazione della persona umana (art. 3 Cost.). Ma allora, sig. Ministro, se continuiamo a bocciare quegli studenti che sappiamo già trovarsi in condizioni disagiate senza averle risolte (le condizioni disagiate) non si cade nella classica situazione del cane che si morde la coda?

= Parlando della scuola paritaria, il sig. Ministro afferma in modo perentorio che il significato di “senza oneri per lo Stato” (art. 33 Cost.) vuol dire che “lo Stato può finanziare scuole private, ma non è tenuto a farlo.” (p. 137). Fermi tutti! Chi parla è un professore ordinario di diritto, ancorché romano e dell’antichità, e dunque una qualche forma di cultura giuridica si presume che l’abbia acquisita. Pertanto, chiediamo al professore (non al sig. Ministro, in questo caso): “Professore, come mai la Costituzione non ha usato la sua espressione se voleva esprimere quello che lei ha espresso?” Il fatto che la scuola privata (ma più correttamente, dopo la legge 10 marzo 2002 n. 62, la scuola “paritaria”, sig. Ministro) sia finanziata dallo Stato è il risultato di una serie di compromessi politici trasversali che hanno portato a questa situazione, ma far dire alla Costituzione quello che non dice non è ammissibile, soprattutto da parte di uno studioso di diritto!

= Nel sottolineare l’importanza di tenere viva la memoria del passato e dunque di coltivare gli studi classici, il sig. Ministro annota: “Si è visto come persino[4] i più importanti personaggi della storia del Pci, da Gramsci a Togliatti a Concetto Marchesi, dessero allo studio della civiltà classica, della storia e delle letterature classiche un rilievo del tutto particolare” (p. 168). Persino loro! E voi, cari lettori, pensavate che i militanti del Pci si dedicavano solo a mangiare i bambini! E invece no! Si dilettavano anche di letteratura classica. Vabbè, magari prediligevano le favole di Fedro e di Esopo, quelle dove un animale mangia l’altro… Comunque sempre di letteratura classica si tratta.

=Nel ribadire saggiamente la necessità di educare l’io ponendo delle regole, il sig. Ministro statuisce che “la cultura della regola è stata messa in crisi fin dai primi anni di scuola con la svalutazione stessa della grammatica e della sintassi, che di quella cultura della regola sono un prezioso baluardo” (p. 89). Sì, lo so: qui occorre fare una profonda riflessione per capire il nesso tra la svalutazione della grammatica/sintassi e la crisi delle regole. Infatti, se questa “regola” fosse vera dovremmo dedurre che chi ha una buona padronanza grammaticale/sintattica della lingua è un buon cittadino in quanto rispetta le regole. I registri degli indagati sono però pieni anche di nominativi di persone che conoscono alla perfezione le regole della grammatica e della sintassi, un po’ meno le altre. Oppure le conoscono, ma preferiscono non rispettarle. Questo ragionamento va forse perfezionato, sig. Ministro. Almeno ci metta delle attenuanti generiche…

=E infine, il sig. Ministro prevede il futuro, anzi lo vede. Un po’ come lo storico e filosofo israeliano Yuval Noah Harari (citato dal sig. Ministro), che ha dedicato dei saggi proprio allo studio del futuro; ma Harari si limita a immaginare ipotetici quadri di come si potrà presentare la realtà nel prossimo futuro, il sig. Ministro invece questa realtà futura ce l’ha davanti, reale, ancorché solo in nuce. Forse è un sogno (in tedesco sogno si dice traum…).
Vediamo alcuni esempi:
a) coinvolgimento dei privati nell’edilizia scolastica, secondo il sistema del project financing (un privato costruisce una scuola e per un lungo periodo, anche 20 anni, gestisce i servizi scolastici (p. 162);
b) dal settembre 2024 le supplenze brevi saranno pagate in modo puntuale (p. 177);
c) lo studio del latino aiuterà lo sviluppo del ragionamento logico (soprattutto le regole grammaticali) nel percorso della scuola media comune a tutti (p. 180);
d) con l’ultimo rinnovo contrattuale sono state pressoché azzerate le distanze tra gli stipendi dei docenti italiani e quelli degli altri insegnanti UE (p. 133);
e) i docenti supplenti di sostegno possono permanere nella stessa scuola per tre anni, se la famiglia lo richiede e se l’insegnante è disponibile (p.102);
f) la scuola d’estate, oltre a offrire un eventuale potenziamento, deve soprattutto creare occasioni di ritrovo positivo organizzando attività sportive, teatrali, culturali, di educazione al lavoro, ludiche, a seconda delle varie fasce di età (p. 141); uno strumento praticabile per salvaguardare il potere d’acquisto dei docenti è il sostegno per l’affitto e i trasporti (p. 134);  occorre puntare sulla formazione dei docenti e sulla formazione in carriera di ogni  docente che deve essere obbligatoria e possibilmente accompagnata, per chi abbia conseguito buoni risultati formativi, da riconoscimenti economici e di crediti professionali (p. 49).

E infine la visione (sogno/traum) in assoluto più importante: la scuola è una priorità per l’attuale Governo (tutto il testo).
(Cari lettori, per favore, abbandonate in silenzio questa pagina. Il sig. Ministro sta sognando. Non svegliatelo… potrebbe avere un traum.)

[1] https://www.dg.unito.it/do/docenti.pl/Alias?giuseppe.valditara#tab-profilo
[2] https://www.cfs.unipi.it/wp-content/uploads/2018/05/CDS-FIL-Norme-Redazione-Tesi.pdf
[3] C. Edwards, L. Gandini, G. FormanI cento linguaggi dei bambini. L’approccio di Reggio Emilia all’educazione dell’infanzia, Edizioni Junior, Bergamo, 2014
[4] Corsivo mio