Il COVID19 non infetta i bambini, lo dice uno studio sul caso di Vò Euganeo

rete_numeridi Raffaele Iosa

Continuo la mia ricerca sul rapporto tra Corona Virus e bambini. In un post FB di ieri ho parlato della giornalista scientifica Roberta Villa che citava la ricerca del prof. Grisanti su Vo’ Euganeo, l’unica oggi presente in Italia a tappeto su un’intera popolazione.
Ho letto attentamente sulla piattaforma medrxiv il preprint della ricerca del prof. Grisanti Università di Padova (in inglese) contenente anche il Metodo utilizzato e i risultati.
Per chi voglia approfondire rinvio a quel testo. La ricerca dimostrerebbe che difficilmente coronavirus entra nei bambini, e nel caso di Vo’ nessun bambino era infetto!
Grisanti, che è scienziato serio, fa alcune ipotesi di questa situazione di non-contagio, e suggerisce di approfondire questo fenomeno con ulteriori ricerche.
Che pare non interessare la pubblica opinione, il Governo e il Ministero. Quindi scuole chiuse e basta. E da settembre allo studio regole severe di comportamento, quasi da riformatorio.
Fino alla ripresa della DAD magari in alternanza. La scuola del ping pong. Mah!

Riflettiamo, però: se è vero che il Corona virus non solo fa poco male ai bambini ma rarissimamente entra dentro di loro, vuol dire che il rischio che a scuola o incontrandosi si possano “contagiare” reciprocamente e infettare gli adulti è bassissimo, e a Vò Euganeo nullo.
Se lo studio di Grisanti fosse confermato da altre ricerche (ho già parlato di quelle cinesi), potremmo dire che la chiusura delle scuole si fa per gli adulti e non per i bambini.
Cioè per quella marea di genitori e nonni che li portano a scuola e per le insegnanti.
Ma il rischio contagio è questione di relazioni tra adulti non tra bambini e non tra adulti e bambini.
E qui non capisco l’Italia.
Si fa di tutto per far tornare gli adulti al lavoro, si studiano regole di contenimento e di diradamento, ed è più che giusto e necessario. Ma i bambini?  Scomparsi.
Tutti a settembre con regole carcerarie e di diradamento ansioso, cancellato il problema dell’ estate dei bambini. Qualche assessore sta pensando a riaprire i CRE, ma non pensa che anche la scuola è una risorsa e si potrebbero fare iniziative educative insieme, sotto gli alberi d’estate, anche volontarie, in una logica di sistema integrato, perché i bambini possano almeno ri-allacciare i rapporti e un po’ ripristinare la relazione educativa che pare la più bella esperienza e scoperta della didattica della vicinanza di questi mesi.
Dirò di più: forse, almeno per i bambini fino a 10 anni (a seguire Crisanti) potremmo da settembre preoccuparci meno dell’ingegneria dei piccoli gruppetti e perfino dell’alternanza tra scuola in situazione e a distanza.
La DAD è cosa interessante, è stata sostituiva per questi mesi, ma deve diventare parte organica della vita di classe come una delle attività di tutta la didattica. Non un po’ qua e un po’ là.
La ricerca–guida di Grisanti va ripetuta in altri luoghi. Non possiamo arrenderci a questa rassegnazione (un po’ cinica) che non c’è niente da fare e tutti a settembre con metodi da internato.
Se il problema sono gli adulti che portano a scuola i bambini bastano regole severe per loro, come si fa per chi va a lavorare. E ovviamente grande cura alle maestre e al personale ATA, con continui controlli preventivi.
Insomma lavoriamoci con coraggio. Vedo invece che dal Ministero non verrà nulla.
Per questo non posso tacere. Per approfndire la conoscenza dello sudio Grisanti su Vò Euganeo allego qui l’articolo,  ripreso dalla rivista online www.wired.it.
Chi vuole piò leggere qui il preprint delllo studio Grisanti su Vo’ Euganeo

Ecco cosa dice lo studio di Vo’ Euganeo sul coronavirus e i bambini

Dalla ricerca sulla popolazione del comune veneto è emerso che il 43% delle persone positive al coronavirus sono asintomatiche e che i bambini fino a 10 anni sono tutti negativi, nonostante la convivenza con adulti infetti.

Finalmente disponibile in preprint sulla piattaforma medrxiv l’ormai noto studio su Vo’ Euganeo, la località veneta in cui il 21 febbraio scorso si è verificato il primo decesso per coronavirus Sars-Cov-2 in Italia. Perché ci interessa così tanto? A parte il fatto che sembra che siano stati i suoi dati preliminari – e il parere del virologo Andrea Crisanti dell’Università di Padova, coordinatore della ricerca – a guidare l’intera strategia veneta (quella che nelle regioni più colpite del Nord ha avuto i risultati migliori), l’indagine permette di conoscere meglio il nuovo coronavirus e quindi di ragionare sulle modalità più efficaci per contrastare la sua diffusione nelle fasi successive della pandemia. Ecco dunque cosa dice lo studio.

 I risultati principali

I ricercatori hanno raccolto tamponi orofaringei della popolazione di Vo’ Euganeo in due momenti distinti: la prima tranche nelle ore successive all’imposizione della zona rossa con la quarantena obbligatorio per gli abitanti nelle due settimane successive, la seconda al termine del lockdown. In totale, dunque sono stati testati rispettivamente l’85,9% (2.812 tamponi) e il 71,5% (2.342 temponi) della popolazione.

L’analisi della prima campionatura ha riscontrato 73 tamponi positivi, che corrispondono a una prevalenza dell’infezione (cioè il numero di positivi sul totale della popolazione esposta in un dato momento) del 2,6%. Da sottolineare che 30 delle persone risultate positive si sono ri\velate asintomatiche e non hanno mai sviluppato sintomi di Covid-19.
Alla seconda campionatura la prevalenza è risultata essere del 1,2%, con 29 tamponi positivi, di cui 8 nuovi casi13 persone su 29 erano asintomatiche.

Un dato di particolare rilievo: i bambini non sono infetti

Questo è emersodalla tamponatura dei bambini tra 0 e 10 anni: su 234 nessuno di loro è risultato positivo al virus, nonostante alcuni (13) vivessero a stretto contatto con adulti con infezione attiva. Una spiegazione al momento non c’è e gli autori auspicano che vengano intraprese indagini in merito, anche se ipotizzano che possano essere coinvolti meccanismi immuno-regolatori specifici oppure che le vaccinazioni tipiche di quella fascia d’età giochino un ruolo così come potrebbe farlo l’esposizione a altri coronavirus dell’infanzia. Il tampone, in fondo, offre informazioni sull’infezione attiva e non dell’avvenuto contatto, per accertare il quale sono necessari test sierologici.
Per quanto riguarda la prevalenza dell’infezione nelle varie fasce d’età, i dati di Vo’ confermano quanto già si sapeva, cioè che è nettamente più alta nella fascia di popolazione oltre i 50 anni di età e che la necessità di un ricovero in ospedale va di pari passo.

 Il ruolo degli asintomatici

 I ricercatori sono stati colpiti dall’elevata percentuale di persone che pur essendo risultate positive al tampone non manifestavano nessun sintomo della malattia: il 43,2% dei positivi è asintomatico. Pertanto viene spontaneo chiedersi – come già avanzato da altre ricerche – quale sia il reale ruolo degli asintomatici nella trasmissione del virus.
Per verificarlo i ricercatori hanno intrapreso una capillare attività di contact tracing delle 8 nuove infezioni emerse tra il primo e il secondo campionamento, riuscendo a risalire in tutti i casi (tranne uno) alla fonte del contagio, che si è rivelata essere il contatto con persone infette soprattutto asintomatiche prima del lockdown (in alcuni casi anche dopo) o la convivenza con persone positive al coronavirus.
Da rivalutare dunque il ruolo degli asintomatici nella trasmissione del virus, che non sembra essere così secondario – un’idea che si fa più forte del fatto che la carica virale di una persona sintomatica è sovrapponibile a quella di una asintomatica.

 Trasmissione, lockdown, rilevamento

Lo studio conferma che le azioni intraprese a Vo’ Euganeo per contenere la trasmissione dell’infezione (il rilevamento precoce dei casi attivi e il distanziamento sociale’) abbiano consentito di sopprimere in modo efficace la diffusione del patogeno, abbattendo R0 a valori inferiori a 1 in poche settimane, con il 4,4% della popolazione esposta a Sars-Cov-2.
Dunque, suggeriscono gli autori, un aumento della sorveglianza unita all’individuazione precoce dei soggetti positivi al coronavirus in zone ancora poco colpite dall’epidemia aiuterebbero a controllare la diffusione del patogeno e a ridurre il peso dell’epidemia. Sulla scia del caso di Vo’ Euganeo.




Chiusura scuole per pandemia, cosa dicono gli scienziati di Lancet

spiralePandemic school closures: risks and opportunities
da Lancet 8 aprile 2020
(traduzione e commento di Raffaele Iosa)

 La nuova malattia del coronavirus 2019 (COVID-19) ha attraversato 210 paesi e territori con oltre 1, 2 milioni di casi e 67 594 decessi segnalati al 6 aprile 2020. La maggior parte dei paesi ha implementato misure sociali di allontanamento per frenare la diffusione dell’infezione e a minimizzare l’impatto del virus.

88 paesi hanno attivato in tutto il paese chiusure scolastiche, ma uno studio di modellistica di Ferguson e colleghi ha concluso che nel Regno Unito le chiusure scolastiche da sole ridurranno i decessi per COVID-19 solo del 2-4%.
La maggior parte dei motivi per chiudere le scuole provengono dal rischio dei focolai come la pandemia di influenza H1N1 del 2009, nella quale però i bambini sono stati colpiti in modo sproporzionato. Eppure in questo caso, gli Stati Uniti hanno chiuso 700 scuole, la risposta era locale e solo per un paio di settimane.
Invece, per affrontare COVID-19, le scuole cinesi sono state chiuse per di più di 2 mesi e molti paesi hanno chiuso anche loro per 2 mesi, ma molti paesi hanno chiuso le loro scuole e i college perfino a tempo indeterminato.

Eppure, nonostante le crescenti segnalazioni di pochissimi bambini con condizioni di base che soffrono di malattie gravi e persino la morte, la stragrande maggioranza di bambini e adolescenti manifesta sintomi lievi in risposta a SARS-CoV-2 infezione.
Con oltre il 90% degli studenti del mondo (oltre 1,5 miliardi di giovani) attualmente senza istruzione, è chiaro che le maggiori minacce da COVID-19 ai bambini e adolescenti si trovano fuori dalla clinica.
Una revisione sistematica di Russell Viner e colleghi, pubblicato il 6 aprile, ha valutato i risultati di 16 studi esaminando gli effetti delle chiusure scolastiche sul coronavirus nei focolai in Cina, Hong Kong e Singapore. Essi hanno trovato un beneficio limitato nel rallentare la diffusione del virus, e gli autori sottolineano invece che le chiusure devono essere considerate nel più ampio contesto di perdita di lavori essenziali dovuti alle esigenze di assistenza all’infanzia, restrizioni nell’apprendimento, socializzazione e l’attività fisica per gli alunni e i rischi sostanziali ai bambini più vulnerabili, compresi quelli di famiglie a basso reddito.
Dopo la chiusura delle scuole in mezzo all’epidemia di Ebola nell’Africa occidentale, sono aumentati i tassi di lavoro minorile, abbandono, abuso sessuale e gravidanze adolescenziali, e molti bambini hanno subito violenze domestiche, molti non sono tornati a scuola.

Molti bambini soffriranno per la mancanza di accesso e di assistenza sociale fornita dalla scuola, come pranzi gratuiti o acqua pulita e impianti di lavaggio. Quelli senza assistenza sanitaria facilitata dalla scuola, come le vaccinazioni e servizi di salute mentale, possono perdere la salute.
I bambini confinati a casa faranno fatica raggiungere le linee guida dell’OMS sul comportamento di movimento che raccomanda 60 minuti al giorno di attività fisica moderata-vigorosa per i bambini di età compresa tra 5 e 17 anni. Questo mette a rischio non solo il benessere mentale dei giovani e uno stato di peso sano, ma aumenta anche il rischio di stabilire abitudini pericolose, come aumentare il tempo di posture dannose che possono danneggiare il futuro della salute cardiovascolare e muscolo-scheletrica per adolescenti. Le chiusure scolastiche e l’allontanamento sociale possono essere particolarmente impegnative.
Durante l’adolescenza i giovani crescono in indipendenza e iniziano a farlo dando la priorità alle connessioni con i coetanei rispetto ai genitori. La loro interruzione può comportare sfide significative al benessere dei giovani. Anche gli adolescenti possono essere in lutto per i riti di passaggio a cui avrebbero dovuto partecipare, con una sensazione di apprensione per un incerto futuro di fronte agli esami cancellati. L’ansia potrebbe sorgere anche nei bambini e negli adolescenti mentre provano capire la pandemia e la minaccia che pone i pone loro, alle loro famiglie e amici.

I funzionari della sanità pubblica devono dare priorità ai piani nazionali per come e quando riaprire le scuole, tenendo conto di misure alternative come ore ridotte o sfalsate Lezioni. Molti bambini probabilmente avranno bisogno di sostegno mentre lo fanno ritorno alla vita normale, ecialmente quelli che hanno vissuto dei lutti.

Nel frattempo, la pandemia offre un’opportunità affinché i giovani sviluppino e perfezionino la loro capacità di recupero e adattabilità, e apprezzare il valore della responsabilità sociale e del sacrificio per la protezione dei più vulnerabile.
Molti giovani volontari si stanno muovendo per guidare la risposta COVID-19 nelle loro comunità. Xian Lu, che si è trasferito a Wuhan per cucinare 400 pasti al giorno per il personale medico durante il picco di crisi della città, è uno dei dieci giovani di recente riconosciuto dal Segretario Generale dell’Ufficio per la gioventù dell’ONU Jayathma Wickramanayake, per i loro sforzi generosi per combattere la pandemia.

È indispensabile convalidare le esperienze di giovani durante questa crisi globale, e che ascoltiamo loro soluzioni creative per far fronte alla crisi e connetterci, e autorizzarli a utilizzare le loro nuove abilità per crearne una società più solida, premurosa e connessa mentre sta emergendo un mondo che cambia.

 

Un breve commento ragionato (Raffaele Iosa)

Lancet è una rivista scientifica di carattere medico rigorosa e seria. La descrizione che fa della chiusura delle scuole per 1,5 miliardi di bambini e ragazzi nel mondo è di una sostanziale molto bassa significatività nel contenere il contagio (2%-4%) intesa nel suo complesso (cioè per il movimento che crea anche di adulti). Quindi i bambini non sono gli untori, né la scuola sarebbe il centro primario di possibili focolai. A fronte di questo, Lancet segnala invece i rischi educativi e sociali di chiusure troppo prolungate delle scuole., per tutti in generale ma soprattutto per le fasce deboli dei nostri ragazzi. La rivista è internazionale, e il racconto sugli scolari e gli studenti in Africa nell’epidemia Ebola ci fa molto riflettere.
Le conseguenze negative per lunghe chiusure per bambini e adolescenti sono descritte dal punto di vista prevalentemente clinico (è il suo mestiere) ma pone anche questioni di carattere psicologico ce sociale he ci sono note. Interessante che Lancet non citi la DAD come alternativa positiva o negativa. La questione, dunque, pare essere per la rivista la scuola come comunità fisica umana e sociale. Com’è ovvio.

La mia opinione è già nota. Io sono favorevole a riaprire le scuole, quanto meno in estate per i bambini del primo ciclo in progetti condivisi con gli enti locali (insegnanti + operatori locali + associazioni) per ridare ai nostro giovani libertà e sviluppo tra pari, in cui tutta la città educativa si muove in sinergia per loro. Con tutti gli opportuni adattamenti che ci vogliono.
Il tasso di rischio è così basso che con un po’ di attenzione secondo Lancet si può fare, a fronte in negativo di una chiusura prolungata delle scuole.
Molto interessante, però è anche l’idea che per i giovani possa essere un’opportunità di offrire la propria disponibilità civica in forme di volontari. Con un effetto sociale grande per la comunità e immenso sul piano educativo per il ragazzo che si coinvolge direttamente nella solidarietà. Perché qualche studente superiore o universitario italiano non potrebbe fare come i 10 ragazzi cinesi citati nell’articolo. Sento nel nostro paese odore di provincialismo. E nel nostro Ministero solo un pensiero restaurativo della scuola del passato con numeri ridotti di alunni, mascherine e guanti.

A viale di Trastevere e a Palazzo Chigi non leggono Lancet. E da due mesi le televisioni sono sommerse da scienziati litigiosi tra loro, e da scene tragiche e scene ridicole di cattiva gestione.
Il 73% degli italiani dopo il lavaggio quotidiano di paure, vorrebbe continuare la quarantena. Capisco, ma non mi adeguo, almeno del tutto: per i bambini e per i ragazzi una qualche via d’uscita si impone, con tutte le regole sanitarie del caso. Vale come per il lavoro e la ripresa del commercio. Ma la scuola ha un valore ben diverso e prezioso dell’economica ripresa, è educazione tra pari e sviluppo individuale e collettivo interrotto troppo a lungo. Per questo: liberiamoli presto. Anche perché il loro sacrificio chiusi in casa serve a ben poco.




Bambini e dottori dopo il Coronavirus

io_noidi Raffaele Iosa

Una previsione facile per la fase 3 del corona virus.
Ci saranno dottori strizzacervelli allupati pronti a vendere per i bambini diagnosi invalidanti e terapie consolatorie e disabilitanti. Avremo ricerche su neuroni specchio intimiditi dal confinamento in casa.
E scoperte genetiche di qualche combinazione nel DNA che diagnosticherà la noia biologica.
E teorie epigenetiche per cui il coronavirus avrebbe modificato il fenotipo dei bambini. Vedrete quante certificazioni da “stress post traumatico” arriveranno. Proprio ai bambini, che invece hanno una resilienza ben migliore di noi grandi. Bambini che sanno distrarsi e giocare con poco. A fronte di genitori narcisi che si attenderebbero dai piccoli manie adultistiche. Ci saranno miracolosi “farmaci del rientro”.
Ci vuole invece l’ I CARE don milaniano (prendersi cura) educativo e non il TO CURE medicale. Vedrete che ci saranno 5 deputati (uno di sinistra, uno di destra, un altro di centro e due di sopra e di sotto) che proporranno una legge per “tutelare” con dispense e compense a gogò bambini affetti da DCC (disturbo da casa chiusa).
Genitori ansiosi a frotte per avere la cartina medica giusta dal titolo “meglio un po’ malato che bocciato”.
Liberiamo i bambini da questi vicini pericoli. Liberi di star bene, di star male, di star così così.




Per liberare i bambini dal confinamento serve la “scuola in comune” (sostantivo avverbio aggettivo)

spiraledi Raffaele Iosa

E’ sconcertante che per la progettazione della fase 2 e anche 3 le cosiddette “commissioni nazionali” non abbiano al loro interno competenze ed un punto di vista attivo sul ritorno dei bambini e dei ragazzi alla vita sociale, e non solo a quella scolastica. Come se il tema fosse solo materia da ministeriali, a settembre. Cioè il passare dal chiuso delle case al chiuso delle aule. E gli enti locali?

Insomma l’agenda sul futuro dei bambini non c’è. Viene lasciata ai genitori e al rischio di un assistenzialismo da 100 euro al mese per la babysitter.
Ma non funziona così, perché la scuola è parte significativa della vita non solo dei bambini, ma delle città e la sua chiusura protratta rischia di aumentare divari sociali e diseguaglianze.
Si deve quindi riflettere su cosa accadrà nelle nostre comunità civiche se le fasi 2 e 3 del dopo-coronavirus non saranno lette assieme alle esigenze dei bambini in tutte le opportunità di vita, tema che verrà aggravato dal probabile (e auspicato) ritorno dei genitori al lavoro.

Non c’è dubbio quindi che si debba lavorare insieme per costruire, sistema scuola e sistema dei comuni, un piano integrato non solo per la riapertura delle scuole, ma anche e soprattutto per la liberazione dei bambini dal rischio di regredire come solo figli confinati e per riprendere ad essere bambini tout court, quindi anche oltre la scuola, in quel territorio comune (“Comune” appunto) dove il bambino vive 24 ore al giorno. Insomma per tornare ad essere piccoli cittadini in comune (avverbio) per fare cose comuni (aggettivo) in quell’ambito civico che mette tutti insieme e che si chiama Comune (sostantivo).

Dunque è grave e dannosa la scelta di tenere i comuni fuori dalle riflessioni sul futuro, sia quello macro (la commissione Colao) che micro (la commissione Bianchi).
E’ un segno, tra i tanti di errori strategici che si stanno compiendo, perché il futuro si apra bene, avendo appreso da questa pandemia drammatica che solo se c’è collaborazione, o meglio governance tra i diversi soggetti del territorio, sarà possibile operare efficacemente per i bambini.

Non si tratta di avere qualcuno in più nelle Commissioni tanto per fare, ma per questioni dirimenti sia sul piano scolastico ma soprattutto di educazione in generale e di integrazione di tutte le opportunità del territorio, a partire dai bambini e dalle famiglie più deboli. E soprattutto per i bambini da 1 a 11 anni, cui le possibilità di autonomia come di uso delle DAD sono per forza di cose inferiori.
Quindi, è nel Comune, visto come soggetto attivo di integrazione di tutte le opportunità e non solo erogatore di meri servizi, che si colloca la cabina di regìa per liberare i bambini dal confinamento in casa, per esempio attraverso la vivibilità degli ambienti sociali, il tempo libero, le attività culturali, quelle aggregative, del volontariato e dell’associazionismo.
Tutto ciò che serve, messo insieme, a crescere. Il Comune che mette in comune tutte le risorse per offrire a tutti i bambini (tutti) le giuste opportunità.

D’altra parte l’art. 3 del Regolamento Autonomia (DPR 275/99) prevede espressamente che nella realizzazione del POTF i dirigenti scolastici siano obbligati a sentire gli enti locali, a raccogliere le loro proposte, perché la scuola autonoma è prima del tutto del e per il territorio e non del Ministero. Ce lo siamo dimenticati?

La necessità di un sistema integrato tra scuola e Comuni è dovuta non solo in epoche normali, ma più che mai oggi in quest’epoca tragica dove i rischi di regressione e depauperamento (sia economico che culturale) dei bambini sono molto alti.
Ecco dunque perché è indispensabile che sia a livello orizzontale (tra scuole e amministrazioni locali) che nazionale (per un ritorno alla normalità sano e intelligente) si operi per una progettazione coraggiosa che abbia in mente i bambini come risorse del nostro civismo, non come peso da scaricare ai soli babbi e mamme, in attesa che arrivi il vaccino.
Non parlo qui di guardianìa o babysitteraggio di massa per supplire i genitori al lavoro. Parlo di qualcosa di più importante: esistono le condizioni, o almeno un ragionamento su come crearle, per offrire ai bambini opportunità di rientro alla vita sociale “da bambini” prima che “da figli”, il più presto possibile, con le dovute protezione? Dobbiamo fare un mito catastrofico della loro corporeità vivace come “impossibilità ad uscire di casa?
La questione prima che scolastica è psicologia, sociale, direi politica, nel cercare regole che permettano di uscire e reincontrare i coetanei perché da “figli” possano ri-tornare ad essere “bambini”, perché è solo così che si cresce.

Sta accadendo purtroppo, che il rientro alla loro vita pubblica sia per ora prevista solo come tema scolasticistico, roba da calendario scolastico e quindi “da riparlarne a settembre”. L’esito di questo errore di prospettiva è che ci ci limiti a coinvolgere solo il Ministero Istruzione. Intanto confiniamoli in casa… Intanto che i babbi e le mamme tornino a lavorare…
Però in Europa va diversamente: Macron in Francia apre le scuole dell’infanzia, In Danimarca le scuole infanzia e primarie sono aperte da ieri, la Norvegia aprirà asili nido e scuole dei piccoli il 20 aprile, Il Lussemburgo il 4 maggio, la Grecia il 10 e l’Estonia il 15. La Spagna, nonostante stia peggio di noi, ci sta pensando altrettanto. Sono tutti matti? Non hanno anche loro scienziati esperti di epidemie? Ma cosa significa che tutti questi paesi abbiano pensato prima ai bambini più piccoli?

Alcuni giorni fa ho lanciato l’idea di realizzare “progetti territoriali integrati” scuola-enti locali- associazionismo-educatori delle cooperative sociali per attivare ciò che ho chiamato (tanto per dargli un nome) “scuole del sole” tipo CRE educativi allargati in spazi il più aperti possibile, in cui ci aiuta l’estate. Per prudenza epidemiologica pensavo da metà giugno ad agosto, cioè fra due mesi, periodo superiore a quello passato finora nella Fase 1, visto anche che probabilmente ben poche famiglie potranno permettersi le ferie.

E subito all’inizio di questa benedetta fase 2, per prima, gli assistenti educativi per l’autonomia e la comunicazione (variamente denominati in Italia) devono tornare fisicamente vicini ai loro alunni con disabilità perché tutti sappiamo quanto è difficile realizzare a distanza una didattica veramente inclusiva. Sarebbe anche il tempo di pensare, sulla base del caos che è accaduto con le norma che si sono sovrapposte, che queste figure educative rientrassero nell’organizzazione e nell’organico delle scuole, a pieno titolo.
Capisco che sono questioni delicate, ma pensare che per i bambini debba pensarci solo la scuola, e a settembre, senza alcuna alternativa a me pare assurdo. Le ragioni non sono quindi tanto legate solo ai genitori e al lavoro (anche se non è tema da poco), ma prima di tutto alla condizione infantile che è quella che sta pagando di più questo confinamento. Con tutte le cautele del caso, perché non pensare anche a questa ipotesi fin dai centri estivi? Perché non pensare che potrebbero esserci anche gli insegnanti, magari come volontari, per ri-prendere la vita di relazione e anche un po’ di ricostruzione di legami.

E comunque qualsiasi sia l’epoca del rientro alla vita, sarebbe ridicolo che a questo ci pensasse, per i bambini, solo la scuola. Per farlo bene il ruolo del Comune è evidente: non c’è solo la scuola, c’è una città o paese interi che deve dare tutte le opportunità per ri-vitalizzare la loro crescita in ogni luogo.

Sindaci, per piacere, fatevi sentire. I bambini sono di tutti e necessari a tutti, non solo ai loro genitori. E lo sono ancora di più per chi ha una disabilità, chi è povero, chi rischiamo di perdere.
La scuola vi aspetta per lavorare insieme, ha bisogno di voi.




La Fase 2 dell’emergenza dimentica i bambini?

spiraledi Raffaele Iosa

Riprendo qui una giustissima critica che l’amico Stefano Stefanel ha sollevato ieri sulla sua pagina FB sul fatto che nella “Commissione Corrao” sulla programmazione del rientro alla vita pubblica nella cosiddetta Fase 2 non sia presente nessuno che si occupi dei bambini, dei loro diritti di crescere in libertà, del rientro a scuola e/o alla vita di relazione quando e come.

E’ bizzarro, d’altra parte che si pensi a pianificare (con regole sicure) il rientro al lavoro dei genitori e non di come saranno seguiti i loro figli se ancora confinati in casa.
Non parlo qui di una specie di guardianìa o babysitteraggio di massa per supplire i genitori al lavoro. Parlo di qualcosa di più serio e importante: esistono le condizioni o almeno un ragionamento su come offrire ai bambini (soprattutto ai piccoli da 1 a 11 anni) opportunità di rientro alla vita sociale “da bambini” prima che da figli il più presto possibile, con tutte le condizioni garantite di protezione?


Dobbiamo fare un mito negativo catastrofico della loro corporeità vivace come “impossibilità ad uscire di casa” fino alla scoperta del miracoloso vaccino? La questione prima che scolastica è invece sociale, psicologica, di adattare ai bambini regole sanitarie che permettano loro di uscire e reincontrare i coetanei perché da figli possano tornare ad essere bambini, perché è così che si cresce. Sta accadendo purtroppo, che il rientro alla loro vita sociale sia per ora prevista solo come tema scolasticistico, cioè roba da calendario scolastico e quindi da settembre, con tanti distinguo e chiacchiere su mascherine, classi sdoppiate e bla bla.
L’esito di questo errore di prospettiva è che per i bambini ci penserà solo l’istruzione, c’è tempo: fino a settembre confiniamoli in casa. Intanto che babbi e mamme tornino a lavorare.
Leggo però cose in Europa diverse: Macron in Francia aprirà presto le scuole dell’infanzia (vedi: prima i bambini!) anche con opportunità flessibili e regolate negli spazi locali.
In Danimarca le scuole infanzia e primarie sono aperte da ieri, la Norvegia aprirà asili nido e scuole dei piccoli il 20 aprile, Il Lussemburgo il 4 maggio, la Grecia il 10 e l’Estonia il 15.

La Spagna, nonostante stia peggio di noi, ci sta pensando altrettanto. Sono tutti matti? Non hanno anche loro scienziati esperti di epidemie? Come mai lì hanno detto sì? Non è significativo che tutti questi Paesi abbiano pensato prima ai bambini più piccoli? Solo per “becere” questioni economicistiche o non anche per un’analisi sociale della condizione claustrofobica dell’infanzia?
Tre giorni fa ho lanciato l’idea di costruire progetti integrati scuola-enti locali- associazionismo-educatori delle cooperative sociali per attivare quelle che ho chiamato (tanto per dargli un nome) “scuole del sole” cioè CRE educativi in spazi più aperti possibile, in cui ci aiuta l’estate.

Per prudenza epidemiologica pensavo per luglio e agosto, cioè fra due mesi e mezzo, periodo superiore a quello che abbiamo passato finora nella Fase 1, visto anche che probabilmente ben poche famiglie potranno permettersi le ferie.

Marco Rossi Doria ha ieri su Repubblica espresso un’opinione simile, Dario Missaglia presidente di Proteo altrettanto propone di pensarci.
Sulla mia proposta ho ricevuto molti consensi ma anche molte critiche, il che è naturale perché è tema delicato, ma pensare che per i bambini debba pensarci solo la scuola a settembre senza alcuna altra alternativa a me pare non vada bene, come se per i nostri bambini il problema fosse solo i programmi, il restare indietro, le tabelline e così via. La questione dei nostri bambini chiusi in casa è invece questione prima di tutto SOCIALE e PSICOLOGICA.
Il loro essere tornati a fare i figli a tempo pieno fa perdere la bambinità orizzontale che è straordinariamente importante a questa età.
Rischiamo che la benemerita e volonterosa “didattica a distanza” (io preferisco non a caso chiamarla “didattica della vicinanza”) diventi un comodo surrogato a questa mancanza di riflessione sui bambini ridotti solo alla scolarità. Le ragioni non sono affatto legate solo ai genitori e al lavoro (anche se non è tema da poco), ma prima di tutto alla condizione infantile che è quella che sta pagando di più questo confinamento. Con tutte le cautele del caso, e tenendo conto che abbiamo tempo due mesi per prepararci (calerà questa maledetta gaussiana!), perché non cominciare a pensare anche a questa ipotesi estiva?
Perché non pensare debbano esserci anche i nostri insegnanti, magari come volontari e pagati, per ri-prendere la vita di relazione e anche un po’ di ricostruzione di un legame (non “recupero”, per carità) con la scuola?
E non sarebbe opportuno pensarci in primis per i bambini con disabilità e poveri confinati due volte nell’isolamento? Proviamo almeno ad avere la voglia di pensarci? Se qualcuno ha alternative le dica, ma restare fermi al metafisico ritorno alle scuole tradizionali a settembre mi pare corra il rischio di aumentare le diseguaglianze e i problemi evolutivi dei bambini. Se gli scienziati sanno scrivere regole serie per gli operai, non possono farlo anche per i bambini? Meglio all’aria aperta con la mascherina che chiusi nel loro confino quasi eterno.
Chiediamo dunque che la Commissione Corrao ne parli, la veda come questione strategica e non accessoria o sentimentale. E che in questa Commissione ci sia chi sa qualcuno che sa dei bambini e dell’educazione (non solo della scuola) mi pare il minimo.




Terza settimana di scuole chiuse. La scuola della vicinanza

arcobalenodi Raffaele Iosa

Inizia stamattina la terza settimana, in qualche regione la quarta, di scuole chiuse. Il corona virus imperversa. Ai nostri ragazzi tocca non solo stare a casa da scuola ma anche stare a casa e basta. Questo isolamento e assenza dalle strade quotidiane costa molto a noi ma ancora di più a loro.

E più si va avanti nel tempo più costerà. Ma anche insegnerà nuovi e antichi valori dell’esistenza, come il dolore, la speranza, la resilienza assieme alla rabbia, alla noia, all’anomia.

In questo periodo sono tornato a modo mio a lavorare: decine di messaggi fb, molte telefonate, ho letto l’iradiddio di idee, visto materiali i più vari mandatimi da insegnanti. Detesto questa maledetta pensione che mi vorrebbe “in quiescenza”. Quindi fin che posso parlo e scrivo, appassionato dallo straordinario (inatteso e unico nella storia) evento collettivo di apprendimento sul campo che la grandissima parte degli insegnanti sta facendo per rispondere all’emergenza, inventandosi cose di tutti i colori per salvare una relazione con i loro bambini e ragazzi. Uno slancio pedagogico vero, che rende questa fase opposta rispetto alla tradizione: impariamo facendo non ascoltando, lavoriamo più che a scuola, non riusciamo a levarci via l’assenza. Di loro.

 

Per questo ho chiamato questa fase non quella “ufficiale” di didattica a distanza, ma della didattica della vicinanza.
Lo scopo dell’uso di queste strepitose (ma anche pericolose) macchine virtuali è apparso a moltissimi centrato sul ricreare la vicinanza ai ragazzi più che scimmiottare la scuola normale (e peggio tradizionale) ma fatta con il computer. Insomma didattica della vicinanza non (tanto o solo) per evitare che i ragazzi perdano l’anno scolastico ma per evitare che si perdano davanti all’assenza di un mondo di relazioni, scambi, conoscenze condivise date dall’emergenza covid 19. Perché si impara insieme, insieme si cresce, chiusi in casa si sfiorisce.
Ma l’emergenza e la virtualità ci obbligano a ripensare criticamente alle nostre tradizionali didattiche, altrimenti possono diventare solo noiose e trite lezioni. Forse questa fase avrà l’effetto che dopo, tornati a scuola, si sia migliori. Miracolo dei momenti di crisi. D’altra parte le più grandi innovazioni didattiche e pedagogiche sono figlie di crisi: Jean Itard e il suo fanciullo selvaggio, Maria Montessori e i suoi bambini disabili, Decroly e i figli dei minatori belgi, Celestin Freinet e i bambini campagnoli della Provenza, Don Milani con il suo I care. Abbiamo una storia, non veniamo dal nulla.

Mi piacerebbe quindi che la “scoperta” della didattica virtuale come risposta all’emergenza diventasse anche una ri-scoperta (al ritorno in classe) di un attivismo didattico e pedagogico che in questi anni è andato perduto per modelli quantitativi di apprendimenti direttivi, precocismi, schede su schede e lezioni frontali a tutto spiano.

DAL FAST ALLO SLOW

In queste settimane, presi dall’ansia amorevole di coprire l’assenza, moltissimi insegnanti hanno forse esagerato. Col cuore, si intende, non per cinismo. Con quello che gli insegnanti erano prima adattato alle macchine. Da qui forse troppe lezioni virtuali ancora frontali, e troppi compiti mai questa volta “per casa”. Ha accompagnato questo rischio di una scuola fast l’irrompere magico dell’uso di queste macchine grasse e veloci di contenuti, facilmente copiabili e accessibili, una sterminata mole di documentari, giochetti, foto, testi, immagini e così via tali da far correre il rischio di una bulimia didattica. Presi dalla tristezza di sentirli a casa smarriti, forse troppi insegnanti hanno annegato i loro ragazzi nel troppo. E si sono fatti sedurre dalla quantità mostruosa che Internet ci offre. Con il rischio non di navigare ma di annegare nelle onde del tanto. Tipico e umanissimo atteggiamento in stile Candy Candy: dargli tanto e di più. Sta capitando anche nelle scuole francesi (me lo dicono colleghi dell’esagono), e il rischio è quello di ragazzi affannati per ore davanti allo schermo, genitori imbarazzati a fare con loro troppi compiti.

Mi permetto quindi, con l’umiltà del vecchio maestro, di suggerire alcuni pensieri anche igienici e per me necessari man mano che l’emergenza continua e la solitudine a casa persiste:
– Create eventi didattici fatti in modo che i ragazzi vi facciano domande non invece cui si
chiede risposte. Cioè una didattica interattiva della ricerca comune non del travaso di saperi. Il momento è questo: una comunità in cammino non un gregge controllato dal cane pastore.
– Fateli parlare tra di loro. Scambiarsi stati d’animo, ma anche ironia, tristezza, gioia di
vedersi, scambio di cosa si è imparato da questo evento. Non è difficile, lo facciamo anche noi con i nostri amici e parenti quando li chiamiamo per sapere come stanno.
– Rompete lo schema tayloristico di una materia dopo l’altra, mettetevi d’accordo tra di
voi per non sovrapporvi l’uno con l’altro a riempire i ragazzi di troppi compiti. E’ ora di azioni più multidisciplinari possibili, quanto meno di una relazione pensata tra diverse discipline.
– Tenete fuori il più possibile i genitori. Non per cattiveria e neppure perché anche loro
sono affaticati, ma perché babbo e mamma sono utili magari ad aprire le macchine, ma le attività nelle classi virtuali possibili sono buone se i ragazzi si sentono liberi e capaci di autonomia, altrimenti creiamo nuove inutili dipendenze.
– Valutate sempre, ma non come rito stanco della scuola dei voti (quante chiacchere su
questo tema). I ragazzi hanno bisogno di sapere come va, di fare domande su se stessi
come sul mondo. La didattica della vicinanza aiuta a creare belle strategie di autovalutazione. Non preoccupatevi della pagelle, alimentate tra di voi e loro la valutazione formativa, che valuta sia loro che voi, perché tutti in questa nuova esperienza didattica stiamo imparando, e anche i ragazzi ci insegnano. Avrete tempo dopo di fare una sintesi numerica complessiva, ma adesso conta il rinforzo non il giudizio, la scoperta dell’errore come leva per migliorare non il suo stigma numerico, la differenza di performances come valore non come scala.
– Cercate insomma di fare una scuola slow, non solo più lenta ma anche più profonda,
gustosa, che non riempi per forza di immagini, video, scritti, ma solo quelli giustamente necessari. Il resto se lo cerchino loro, da soli.

ATTENZIONE A CHI NON CE LA FA

Vedo ancora molte difficoltà nei confronti dei ragazzi con disabilità e di quelli che non hanno a casa supporti informatici sufficienti. Sarebbe paradossale e vergognoso che l’emergenza facesse male a chi ha più bisogno.

Dunque
– Per i nostri ragazzini con disabilità: non è questione solo degli insegnanti di sostegno, non lasciateli nell’isolazione, create eventi dove siano tutti presenti e coinvolti, qualche roba di individuale può anche andar bene, ma questo è il momento della cooperazione tra ragazzi dove tutti aiutano tutti. Guai alla formazione di aule virtuali h. Ne fanno già troppe e scuola.

– Per i ragazzini in difficoltà economiche e senza strumenti: cercate tutti i modi di
procurarveli, anche con le collette, nessuna scuola è giustificata a rassegnarsi. Chiamate il sindaco, il parroco, il volontariato, i ricchi pieni di rimorsi per le evasioni fiscali del passato (se ce ne sono). O ci salviamo insieme o siamo tutti perduti.

Ho scritto queste cose all’alba di un lunedì un po’ livido. Sto imparando anch’io perchè per quanto abbia studiato questo nuovo è nuovissimo anche per me. Quindi è normale che io possa aver detto anche qualche sciocchezza, che in qualche punto io sia troppo lirico e poco prosaico, che altri abbiano idee diverse ma comunque interessanti da confrontare, E’ il momento di non perderci tutti e di restare soli davanti al nostro video, di scambiarci fraternamente saggezze e sciocchezze.
Perché la Pedagogia è così: l’arte delle prove ed errori in un orizzonte di comune umanità: non salvare l’anno scolastico ma l’ educazione democratica come necessario patrimonio per il futuro in questo martoriato paese




Questa fase richiede fantasia e passione, e non “linee guida”

maestradi Raffaele Iosa

Da vecchio maestro quasi settantenne (quindi costretto a filare la lana in casa) mando un grosso bacio simbolico (non si può baciare!) tutti i PRESIDI, tutte le MAESTRE, le PROF, gli EDUCATORI che in tutti i modi virtuali e di varia fantasia (fino ai piccioni viaggiatori) stanno agendo attivamente per tenere in tutti i modi un qualche rapporto con i loro bambini e ragazzi.
Prima ancora del modo, prima ancora dei contenuti, il valore grande di questo impegno è offrire LA VITA ai loro alunni, la RELAZIONE umana continua ai loro alunni a casa in un periodo che non è vacanza ma di difficile e inquietante fase sociale, in un momento in cui la natura oscura sembra attentare alla nostra umanità e libertà. Non lasciare soli i ragazzi è essenziale. È pedagogia pura. Trovo disdicevoli e ridicoli i rancorosi proclami di insegnanti contrari a qualsiasi cosa si faccia con mille scuse para sindacali di pessimo gusto corporativo. Quelli che chiedono solo i commi bizantini, mentre i loro bambini e alunni hanno bisogno di sentire che li pensiamo, che li vogliamo, che ci dispiace non stare fisicamente con loro. Che queste “vacanze” non ci piacciono. Ci vuole solidarietà educativa vera. Che sia col computer, col telefono, col piccione viaggiatore va bene tutto.
E non servono “linee guida” del MIUR (ovviamente concertate coi sindacati) che dicano cosa sì e cosa no fare. L’epoca chiede fantasia e passione per una straordinaria solidarietà, non regole da pattume burocratico.