Patti territoriali per la formazione: dalle parole ai fatti

Stefaneldi Raffaele Iosa e  Massimo Nutini

Un commento pedagogico e alcune indicazioni operative sull’ampliamento dell’offerta formativa possibile, per la prossima estate, con i 150 milioni di euro previsti dal “Decreto legge Sostegni”

 

 

Dunque, dal Decreto Sostegni del governo Draghi arrivano 150 milioni direttamente alle scuole come primo segno di carattere squisitamente sociale ed educativo per i nostri bambini e ragazzi che da febbraio 2020 ad oggi hanno patito gli effetti sconvolgenti della pandemia da Covid nell’esperienza scolastica, nella vita sociale, nella dimensione esistenziale di crescita.
Tali risorse si aggiungono ad una cifra di circa 175 milioni destinabile alla stessa finalità nell’ambito del Programma operativo nazionale PON “Per la Scuola” 2014-2020.

Una novità assoluta che deve essere ben compresa e attuata

E’ una novità che rischia di non essere capita in tutta la sua potenzialità da molte scuole ed enti locali e forse anche fraintesa. Non siamo più infatti nel periodo delle passioni generose della primavera del 2020, ma in quello (con la seconda e terza pandemia) delle passioni tristi di questo anno scolastico, in cui il clima sociale ed educativo si è complicato e raffreddato anche con la nuova grande chiusura di tutte le scuole delle zone rosse, di cui oggi non è nota la fine, anche se il Governo garantisce che le scuole saranno (auguriamocelo) le prime ad essere riaperte.

Eppure questa novità arriva giusto al momento in cui emerge, giorno dopo giorno, la drammatica emergenza sociale ed educativa fatta pagare ai nostri bambini e ragazzi con ferite non solo curricolari ma anche e forse soprattutto sociali, emotive, esistenziali, proattive.
Tutti aspetti che hanno (eccome) a che fare con l’educazione e con la scuola nel suo offrire quotidianamente, e insieme, istruzione e formazione.

Lo scopo di questi 150 milioni, che si uniscono ai fondi del Programma operativo nazionale PON “Per la Scuola“, è infatti definito con precisione. Si propone alle scuole di attivarsi direttamente per “potenziare l’offerta formativa extracurricolare, il recupero delle competenze di base, il consolidamento delle discipline, la promozione di attività per il recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti” (inserendo a questo punto un “anche” un po’ pericoloso che potrebbe vanificare, almeno in parte, la finalità perseguita) “nel periodo che intercorre tra la fine delle lezioni dell’anno scolastico 2020/2021 e l’inizio di quelle dell’anno scolastico 2021/2022”.

Per tale periodo, si invitano le scuole ad ampliare l’offerta formativa ad ampio orizzonte, facendo riferimento (appunto) ad un celebre articolo del Regolamento autonomia (il 9) molto poco utilizzato (ahimè), in questi venti anni di scarsa autonomia reale, dalle scuole e spesso utilizzato per “progetti” di contorno accessorio e poco connessi alla parte hard del curricolo.

Le risorse in campo, i procedimenti e le tempistiche

Si apprende dalla Relazione tecnica che il finanziamento previsto sarà mediamente pari a circa 45.000 euro per ogni istituto scolastico, considerato che con le risorse PON 2014-2020 si darà copertura a circa il 60% degli istituti mentre il rimanente 40% sarà finanziato, appunto, con i 150 milioni del decreto sostegni.
Tali risorse saranno assegnate, sulla base di un avviso pubblico, prioritariamente alle istituzioni scolastiche statali che manifestano il proprio interesse e che non abbiano già ottenuto un finanziamento, per le medesime finalità, a valere sulle risorse del Programma operativo nazionale “Per la Scuola” 2014-2020.
Se il decreto attuativo del Ministro dell’Istruzione sarà adottato in tempi brevi, si può dire che il finanziamento, questa volta, non arriverà troppo tardi, ma tre mesi prima del suo utilizzo. C’è dunque tempo per riflettere, progettare, diffondere l’idea.

Il successo o meno di questa idea però dipenderà da molti soggetti. In primo luogo, naturalmente, si tratterà di vedere quale sarà la gestione del Ministero e quanta dose di centralismo e di burocratizzazione si vorrà continuare a seminare nel processi attuativi. Da questo punto di vista sarà un banco di prova per il nuovo Ministro e per il nuovo Capo Dipartimento per dimostrare un cambio di passo. Ma dipenderà anche dai sindacati, dagli enti locali, dalla società civile, dal terzo settore, se cioè tutti gli steackholders coinvolti a diverso titolo nell’educazione proveranno, o meno, a costruire e condividere (assieme alle scuole) sinergie significative e di qualità per tentare di restituire quanto perduto e per offrire ancora speranza e risanamento del dolore vissuto.

Risulta evidente infatti che le ferite delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi vissute in questo periodo non sono solo tema della scuola (come fosse l’unico ospedale rieducativo) ma di tutta la società adulta, a partire da quella orizzontale e del territorio composta dai tanti diversi soggetti che si occupano di educazione e giovani.

Vediamo, quindi e innanzitutto, alcuni temi squisitamente pedagogici e sociali, oltre alle prime indicazioni operative,  anche per offrire spunti e idee alle scuole che saranno interessate a candidarsi per questo finanziamento, che è di libera scelta di ogni singola scuola autonoma. Esempi riguardanti l’estate prossima, per quelli durante l’autunno ne parleremo più avanti.

L’estate, i bambini e i ragazzi

Superato il troppo demagogicamente discusso “proseguimento dell’anno scolastico a fine giugno”, il Decreto fa una svolta inedita, mai avvenuta prima e persino coraggiosa: propone alle scuole di essere aperte da metà giugno a fine agosto per realizzare (appunto) originali ampliamenti dell’offerta formativa. Lo richiede quest’epoca così dura ed emergenziale ma è una grande opportunità per praticare, dopo averne parlato tanto, una nuova progettazione e azione educativa sul territorio e con il territorio.

Ma cosa c’è nelle nostre città per l’estate dei bambini e dei giovani? C’è spesso già molto. Non sono pochi i comuni grandi e piccoli che hanno una lunga tradizione estiva di opportunità, anche se, qualche volta, un po’ appannata come qualità. Pullulano le iniziative di carattere animativo-sociali, in primis quelle delle parrocchie e della cooperazione sociale che occupano volontari e educatori, a partire da quelli che seguono gli alunni con disabilità a scuola durante l’anno.

Sono iniziative molto spesso svolte in scuole pubbliche, possibilmente con ampi spazi e giardini, concesse dalle amministrazioni comunali che, tra l’atro, sono anche un modo per mantenere a tanti educatori un salario nei mesi estivi, altrimenti perduto perché il loro lavoro è a cottimo, centrato sull’anno scolastico e sulla presenza o meno dell’alunno con disabilità.

La maggioranza delle attività estive sono a pagamento (si paga per settimana o per mese) e le tariffe variano secondo la tipologia e in relazione all’orario che prevalentemente copre tutta la giornata pur essendo presenti centri che offrono opportunità solo mattutine o solo pomeridiane. In genere si offrono uno/due giorni settimanali in piscina o in montagna o al mare, con almeno uno o due gite interessanti a mese, e varie attività sportive. Se c’è nelle vicinanze un grande parco giochi, non ci si lascia perdete l’occasione…  Spesso, le attività si interrompono nelle settimane centrali di agosto, ma possono offrire servizi anche fino alla prima settimana di settembre. La frequenza è ovviamente calibrata sulle esigenze delle famiglie e sulle loro ferie familiari.

I Comuni garantiscono un finanziamento alle attività che rispondano a determinati requisiti e, anche avvalendosi di contributi statali e regionali, aiutano le famiglie a basso reddito pagando, di fatto, una parte della quota di compartecipazione, naturalmente in base all’ISEE. Tutte le opportunità del territorio sono utilizzate, dalla visita al museo alla giornata al centro equitazione, dalla pomeriggio alla fattoria all’incontro con l’artigiano che effettua lavorazioni in via di estinzione. La maggioranza delle iniziative accolgono bambini dai 3 ai 14 anni, con diverse articolazioni di attività secondo l’età. Si può perfino creare per ogni bambino una specie di estate à la carte. Sono comunque attività a valenza di socialità, proattività, amicizia, esperienze culturali, ma anche di apprendimenti curricolari informali (es. l’inglese, l’arte).

Ci sono poi i nostri giovani da 14 anni in su, e qui la forbice si apre: i figli del ceto medio-alto si fanno la stagione al mare o vanno (andavano prima del Covid) all’estero per corsi di inglese o in vacanze ancora più raffinate in giro per il mondo. Invece I giovani degli istituti professionali e dei ceti medio-bassi si trovano lavoretti estivi (nelle zone in cui questo è possibile) e diverse attività di passatempo. Se ci sono, utilizzano spazi di aggregazione giovanile, offerti spesso dalle parrocchie e da qualche circolo, dove non è richiesto il pagamento di una tariffa.

In conclusione: attività che nulla finora hanno avuto di relazione con le nostre scuole. Tutto questo per dire che dalla fine della scuola e fino all’anno scolastico successivo non c’è il deserto educativo nelle nostre città. Ci può essere un sud (e non tutto) con un’offerta più scarsa, e qui la presenza della scuola può essere davvero determinante, ma in altre parti del paese la situazione è del tutto diversa. Il problema, ed è questa una grande occasione da non perdere, è abbattere i costi, in particolare per i più bisognosi, e far fare un salto di qualità a quest’offerta che, con l’ingresso della professionalità e dell’esperienza delle scuole, è sicuramente realizzabile.

Il rapporto tra progetti delle scuole e progetti del territorio

Dunque   la scuola si troverà nuovamente, ma con risorse proprie e alla pari, a dialogare con altri soggetti pubblici e privati che già offrono opportunità educative, già utilizzate dalle famiglie, e non è escluso che si possano verificare episodi di competizione infelice e di conflitti, anche politici.

Le alternative sono quattro:

– la scuola tende a lasciar perdere perché ritiene il “mercato locale” di opportunità già saturo e non avanza alcun progetto per chiedere il finanziamento;
– la scuola procede separatamente e si affianca alle tante iniziative separate di altri soggetti, a canne d’organo ognuna per conto suo;
– la scuola semplicemente “appalta” qualche iniziativa già pronta dalle varie cooperative e associazioni, magari mettendoci come prezzemolo qualche insegnante volenteroso;
– la scuola si offre come partner (e anche investitore) in iniziative progettare e realizzate assieme ad altri soggetti del territorio, nella logica “paritaria” del “patto di comunità”.

È evidente che la quarta alternativa è l’unica che può realizzare un ruolo della scuola nel territorio che, se non è ancora quel “sistema formativo integrato” che abbiamo imparato da Bruno Ciari negli anni 70 dello scorso secolo, ci si avvicina molto, attivando una sinergia educativa che potrà aiutare tutti i soggetti a crescere e migliorare. E così l’educazione esce dalle sole aule di scuola e attraversa le strade delle nostre città. E, ovviamente, in questa filosofia pedagogica, l’ente locale può agire come coesore di comunità, dunque il primo partner che la scuola dovrebbe avere.

Tutto questo porta a pensare che, sia al nord sia al centro sia al sud, la scuola debba fare i conti, per eventuali attività estive, da un lato con i bisogni esistenziali e le ferite dei propri alunni e studenti, ma dall’altro anche con l’offerta qualitativa del territorio già presente. Ed è per questo che appare essenziale, per dare successo alle iniziative possibili con le significative risorse che stanno per essere erogate, che le gli istituti scolastici agiscano come soggetti attivi ma non unici o solitari nel programmare le attività estive proposte dal Decreto.

D’altra parte lo dice e favorisce lo stesso articolo 9 del Regolamento Autonomia DPR 275/99 che esplicitamente afferma:

“Art. 9 (Ampliamento dell’offerta formativa)

  1. Le istituzioni scolastiche, singolarmente, collegate in rete o tra loro consorziate, realizzano ampliamenti dell’offerta formativa che tengano conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali. I predetti ampliamenti consistono in ogni iniziativa coerente con le proprie finalità, in favore dei propri alunni e, coordinandosi con eventuali iniziative promosse dagli enti locali, in favore della popolazione giovanile e degli adulti.
  2. I curricoli determinati a norma dell’articolo 8 possono essere arricchiti con discipline e attività facoltative, che per la realizzazione di percorsi formativi integrati le istituzioni scolastiche programmano sulla base di accordi con le Regioni e gli Enti locali.
  3. Le istituzioni scolastiche possono promuovere e aderire a convenzioni o accordi stipulati a livello nazionale, regionale o locale, anche per la realizzazione di specifici progetti.”

Come operare concretamente

Innanzitutto c’è da augurarsi che le circolari  ministeriali non mettano lacci e vincoli formali, che i sindacati condividano la presenza dei docenti, pur su base volontaria e contrattualmente regolata, in queste iniziative, che gli enti locali partecipino ad una progettazione condivisa portando il loro apporto di esperienza e conoscenza sull’attività educativa sul territorio ed una comune regolamentazione delle modalità di utilizzo degli edifici di cui sono proprietari e dei servizi di supporto che potrebbero essere utilizzati anche per le attività estive, che si definiscano accordi locali di integrazione e collaborazione tra i diversi soggetti istituzionali e con il coinvolgimento degli altri soggetti presenti sul territorio.

Si tratta, insomma, di una vera opportunità per iniziare a coniugare la risposta ai bisogni dei singoli (di crescita e sviluppo di ciascun individuo, di cui si occupa tradizionalmente la scuola) con i bisogni emergenti dal contesto socio economico locale (di sviluppo della comunità, appannaggio degli enti locali). Peraltro, la sottoscrizione di “Patti educativi di comunità” è oggi esplicitamente sollecitata dal Piano Scuola 2020/21, approvato con decreto ministeriale 26 giugno 2020, n. 39, contenente le indicazioni per la ripartenza delle attività didattiche in presenza dopo le chiusure obbligate dall’emergenza sanitaria.

Tali “Patti” possono rappresentare, anche in relazione a attività da svolgersi nei periodi di interruzione del calendario scolastico, un’importante occasione per potenziare e qualificare i rapporti tra le scuole e gli enti locali. Il decreto legge 14 agosto 2020, n. 104 (decreto Agosto), al comma 2, lett. a), dell’art. 32, ha già stanzia specifiche risorse per sostenere finanziariamente i “patti”. La norma prevede che “le istituzioni scolastiche stipulano accordi con gli enti locali contestualmente a specifici patti di comunità, a patti di collaborazione, anche con le istituzioni culturali, sportive e del terzo settore, o ai piani di zona, opportunamente integrati, di cui all’articolo 19 della legge 8 novembre 2000, n. 328, al fine di ampliare la permanenza a scuola degli allievi, alternando attività didattica ad attività ludico-ricreativa, di approfondimento culturale, artistico, coreutico, musicale e motorio-sportivo, in attuazione di quanto disposto dall’articolo 1, comma 7, della legge 13 luglio 2015, n. 107”.

Dal punto di vista procedurale c’è un po’ di lavoro per il dirigente scolastico e il direttore generale dei servizi amministrativi. Per prima cosa si deve fare una delibera del Consiglio di Istituto e approvare un progetto di massima che già preveda la necessità della sottoscrizione di un “patto” territoriale” e autorizzi il dirigente alla sottoscrizione, poi sarà necessario definire questo “patto territoriale” assieme all’ente locale e agli altri soggetti del territorio che potranno concorrere alla realizzazione del progetto, sarà quindi opportuno condividere con le rappresentanze sindacali nella scuola i criteri per raccogliere le adesioni del personale scolastico all’iniziativa e le modalità di incentivazione e definire, con il responsabile del servizio prevenzione e protezione, le indicazioni utili per contrastare la diffusione del contagio da Covid-19, tenendo conto dei protocollo nazionali e regionali che trattano tali questioni.

A monte, naturalmente, non appena sarà pubblicato l’avviso pubblico per richiedere il finanziamento, la scuola dovrà avanzare la sua candidatura. È un lavoro che non deve impensierire più di tanto. Si deve pensare a documenti semplici, essenziali, asciutti, e non a voluminosi e complicati elaborati che, ove necessari per la parte operativa, potranno essere rinviati ad un momento successivo e delegati a chi si occuperà dell’attuazione. Inoltre, per la stesura di alcune parti, ci si potrà avvalere di collaborazioni anche utilizzando le altre risorse messe a disposizione delle scuole con l’altro articolo dello stesso decreto sostegni che stanzia ulteriori 150 milioni per acquisti di forniture e servizi necessari ad affrontare l’emergenza sanitaria e le azioni da intraprendere da parte degli istituti.

Ma lo sguardo che dobbiamo avere per realizzare queste attività rimane quello che si muove a partire dalle bambine e dai bambini, dalle ragazze e dai ragazzi, con un’attenta riflessione sulla loro condizione esistenziale, ma anche familiare, sociale, scolastica, di reti amicali. Meglio ancora sarebbe se più attività possibili fossero condivise e progettate assieme loro, avendo però nel cuore l’onesta sensazione che siamo in un’emergenza educativa e sociale per la quale dobbiamo dare il meglio. Non una gabbia afosa a fare noiose ripetizioni, non una guardiania per farli correre nei giardini, né banalità amene per far passare il tempo. Ci vogliono idee creative, divertenti ed emozionanti anche per noi adulti, che le scuole assieme alle altre agenzie educative del territorio sapranno sicuramente trovare.

Le riflessioni contenute in questo testo sono dedicate a Francesca Sivieri, l’insegnante che nella prima ondata ha “riaperto la scuola” nei giardini pubblici della sua Città e a Iselda Barghini, promotrice della rete delle scuole senza zaino che si è detta convinta che i cambiamenti indotti dall’emergenza sanitaria genereranno una risorsa stabile e condivisa tra la scuola e il territorio.




Per una nuova valutazione mite nella scuola primaria

di Iosa Raffaele

Proposte per una “variante M”

Sto studiando attentamente tutta la normativa sulla “nuova valutazione” nella scuola primaria, nata per merito delle leggi 6.6.2020  n. 41,  e 13.10.2020 n. 126.

Accompagnano le leggi un’Ordinanza ministeriale e le “Linee guida” corrispondenti per l’applicazione a scuola.

Materia ricca e complessa, che merita scavare bene per comprendere la connessione tra le sue ispirazioni pedagogiche e i fatti attuativi richiesti nei nuovi documenti di valutazione proposti.
Sono naturalmente molto lieto del fatto che almeno nella scuola primaria si sia superata, per la seconda volta della storia contemporanea,  la logica di valutazione sommativa con voti numerici.

Ma proprio per questo, per evitare che la nuova valutazione scada in una finzione formale e non in un processo di qualità, mi permetto di approfondire alcune questioni che per me sono cruciali per garantire una qualità formativa della valutazione come processo di sviluppo vero e non sanzionatorio.

E, soprattutto, proporrò qui l’aggiunta, per la nuova scheda di valutazione,  di un nuovo “spazio testuale” per me essenziale. Aggiunto, non alternativo, per rendere più efficace  la novità valutativa.

  1. La centralità di una valutazione formativa mite

E’ sorprendente leggere i numerosi passaggi normativi che indicano nella formatività la base pedagogica essenziale della nuova valutazione. Mai prima la formatività della valutazione è stata così ampiamente descritta ed enfatizzata. Per questo mio lavoro,  registro qui le più significative frasi contenute nelle Linee Guida, che rispettano con precisione i mandati legislativi.

“La valutazione ha una funzione formativa fondamentale. E’ parte integrante della professionalità docente, si configura come strumento insostituibile di costruzione delle strategie didattiche e del processo di insegnamento e apprendimento, è strumento  essenziale…….per sostenere e potenziare la motivazione al continuo miglioramento a garanzia del successo formativo e scolastico”

“L’ottica è quella della valutazione per l’apprendimento, che ha carattere formativo poichè le informazioni ….sono utilizzate anche per adattare l’insegnamento ai bisogni educativi degli alunni e ai loro stili di apprendimento, modificando le attività in funzione di ciò che è stato osservato

“La prospettiva della valutazione per l’apprendimento è presente nel testo delle Indicazioni Nazionali, ove si afferma che la valutazione come processo regolativo non giunge alla fine di un percorso, ma “precede, accompagna, segue” ogni processo curricolare e deve consentire di valorizzare i progressi negli apprendimenti degli allievi”.

“Per gli obiettivi non ancora raggiunti o in via di prima acquisizione la normativa prevede che “l’istituzione scolastica, nell’ambito dell’autonomia didattica e organizzativa, attiva specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento (art. 2 comma 2 D.L. 66/2017). E’ dunque importante che i docenti strutturino percorsi educativo-didattici tesi al raggiungimento degli obiettivi, coordinandosi con le famiglie nell’individuazione di eventuali problematiche legate all’apprendimento, mettendo in atto strategie di individualizzazione e personalizzazione

Ce n’è quanto basta per affermare che con la valutazione formativa così esaltata:

  • è in gioco non la valutazione sommativa delle azioni di un bambino che apprende, magari facendo le medie tra le varie performance,  ma l’apprezzamento della processo di apprendimento in corso
  • è in gioco parallelamente l’azione didattica che ha messo in campo l’insegnante, per comprenderne l‘efficacia o meno rispetto alle sue attese, e trarne dunque le conseguenze con modifiche, adattamenti, miglioramenti necessari per garantire il miglior apprendimento possibile.

Non è eretico, ma saggio, affermare quindi che la valutazione formativa  significa riconoscere che:

  • il bambino impara secondo come l’insegnante insegna da cui, viceversa e di conseguenza
  • l’insegnante insegna secondo come il bambino impara

Pare quindi che si tratti di una valutazione mite, intendendo con questo aggettivo un approccio non sanzionatorio né classificatorio in scale su ogni bambino/a, ma una seria, serena e non ansiogena riflessione in azione sul fare della scuola in tutti i suoi soggetti (chi insegna e chi impara),  che approfondisca i punti di successo e quelli di difficoltà come chiave proiettiva per costruire miglioramenti e adeguamenti del processo di apprendimento/insegnamento. Insomma,  ci importa in primis il successo formativo massimo possibile per ogni singolo bambino e bambina. Non è  un caso che si accentui il valore dell’autovalutazione come strumento di crescita di motivazione al miglioramento sia nell’alunno che nell’insegnante.

Naturalmente la valutazione formativa ha senso se si fa ogni giorno in ogni attività in corso, ed è evidente che quella “formale” intermedia e finale sono il risultato di un processo riflessivo costante. Citando l’approccio di Shon nel suo  celebre “professionista riflessivo”,  la valutazione formativa quotidiana è una reflection in act, la capacità mite e attiva del docente di accorgersi man mano in ogni attività degli intoppi, dei successi, delle deviazioni, delle difficoltà emerse riaspetto alle sue attese , cui da subito porre alcuni interventi migliorativi. La  valutazione intermedia e finale prevista dalla nuova normativa diventa quindi una reflection on act, quando cioè dopo un certo periodo si riflette sull’insieme dei percorsi e si colgono in modo più sistematico i punti di forza e i punti di difficoltà emersi nel farsi della scuola. Si può anche dire che la seconda reflection senza la prima rischia di diventare un surrogato ambiguo della vecchia pagella. Ma si può anche dire che la prima reflection è utilissima per evitare di valutare troppo tardi un alunno, quando   si sono persi per strada i percorsi che hanno portato al successo o alle difficoltà. Dunque ecco perché il valore mite dell’autovalutazione, sia per l’insegnante che per l’alunno (e la sua famiglia).

Quindi  le cosiddette “schede di valutazione” previste dalla nuova norma  diventano non un documento banalmente “certificatorio”, ma uno strumento riflessivo collettivo di carattere operativo, ed insieme partecipato, che ha una funzione primaria: il miglioramento del processo didattico-educativo.

Sono affermazioni di una sana pedagogia.

  1. La “variante M”

E’ quindi giunto il momento di presentare la “variante M” che mi sento di proporre come parte essenziale del nuovo strumento di valutazione. La chiamo “variante” perché termine di moda sul  virus con varianti disastrose, pensando invece che questa sanifichi il rischio che l’attuale proposta di schede, nonostante le buone intenzioni,   imiti le precedenti  pagelle con scale  e voti camuffati.

Ricordo che la norma prevede piena flessibilità metodologica nella struttura della scheda (finalmente citato l’art. 4 del DPR 275/99 regolamento autonomia), pertanto ogni scuola avrà una propria scheda valutativa. La norma prevede come “parti necessarie” delle nuove autonome schede la presenza di tre elementi:

  1. La definizione dei “livelli” raggiunti da ogni alunno, suddivisi nelle 4 categorie da “in via di prima acquisizione” ad “avanzato” per ognuno degli obiettivi  di apprendimento individuati dalla scuola
  2. Gli obiettivi desunti dal curricolo PTOF di scuola e di classe, precisati in forma puntuale (es. non “Lingua italiana” ma “produrre testi scritti di diverso tipo”) definiti per ogni disciplina.
  3. Infine, per ogni alunno va redatto un “giudizio descrittivo”, in forma dunque discorsiva, di cui è in discussione se un solo giudizio complessivo o disciplina per disciplina.

Di questi elementi  nel prossimo capoverso 3,   suggerirò alcune proposte di merito.

Ma a questo punto mi sono accorto che mancava qualcosa, cioè che è necessaria una “variante”  perché nelle due bozze di  scheda presenti nelle Linee guida (e nei testi) non è mai presente uno spazio ad hoc di scrittura  per me  invece decisivo:  la presentazione di quelle che ho chiamato “Azioni didattiche di miglioramento” (ecco perché M) che descrivano quello che le Indicazioni definiscono sulla valutazione formativa che  “precede, accompagna, segue” ogni processo curricolare e consente di valorizzare i progressi negli apprendimenti, e le Linee guida chiamano “individuazione di eventuali problematiche legate all’apprendimento, mettendo in atto strategie di individualizzazione e personalizzazione”.

La presenza di questa variante M esalta la pratica formativa e mette nero su bianco  una valutazione che si impegna non a promuovere o bocciare ma a migliorare tutti e due, insegnante e alunno.
Sarebbe anche, per le famiglie, una migliore comprensione del vero processo didattico in gioco. E di partecipazione consapevole, di cui c’è molto bisogno.

Di questa variante M si potrebbe inserire uno spazio di scrittura sotto ogni disciplina, oppure un unico contenitore che metta insieme le diverse attività didattiche di miglioramento che si intendono realizzare. Preferisco, naturalmente, la seconda ipotesi (si capirebbe meglio il carico di impegno complessivo).
Ma ogni scuola veda come preferisce lavorare.

Ma perché inserire la variante M nella scheda e non scriverla in un testo a parte? La ragione è evidente: perché così si darebbe in modo operativo l’idea che la valutazione è davvero formativa, sia come processo mentale dell’insegnante che come azione pratica per i suoi effetti nell’ insegnamento/apprendimento.

Quattro precisazioni su questa variante M

  1. Ricordo che l’art. 4 del DPR 275/99 sull’autonomia scolastica prevede che “le istituzioni scolastiche individuano le modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale”. Poiché il modello di scheda è a libertà delle singole scuole, nulla vieta che sia presente questa  variante nell’ambito dell’autonomia. Per me è invece una scelta mite di valore civico e deontologico
  2. Questa variante renderebbe possibile descrivere le azioni concrete che l’insegnante intende mettere in campo per il miglioramento, da  compilare (ovviamente) quando si rilevino delle difficoltà. Così  il documento di valutazione diventa un atto operativo e non  banalmente certificativo. Nell’intermedio  indicano le difficoltà presenti e le strategie di miglioramento, a fine anno segnano da dove  ripartire per l’anno successivo. Dunque anche un atto per la continuità didattica da un anno all’altro.
  3. Darebbe ai genitori un’immagine valutativa motivata e partecipata. Non solo crocette sui vari livelli e buone parole sul giudizio descrittivo, ma anche l’impegno formativo che la scuola mette in campo, raccogliendo anche dai genitori  il loro altrettanto dovuto impegno.
  4. I contenuti della variante M. Nello spazio qui aggiunto e  presentato andrebbero  descritte le azioni (non le intenzioni generiche) di natura didattica che l’insegnante intende  realizzare per adeguare la sua progettazione, migliorare  l’apprendimento, percorrere vie di apprendimento nuove e diverse. Va evitato di far passare la variante M come ripasso o ripetizione, ma come individualizzazione   attiva anche con strumenti, tempi e modi diversi dal mainstream della didattica.

E’ dunque una valutazione d’impegno dell’insegnante.

Condivido pienamente i suggerimenti delle Linee guida di scrivere azioni attraverso verbi fattuali e contenuti concreti e non generiche formulazioni del solito pedagogese.
In questo modo il documento di valutazione diverrebbe strumento partecipato, come già si proponeva la Legge 517/77 che per la scheda di valutazione all’art. 4 così diceva, anticipando quindi il senso di questa mia variante (insomma, non ho inventato nulla, se non ripreso una buona pratica).

Legge 517/1977       Art. 4

L’insegnante  o gli insegnanti di classe sono tenuti a compilare ed a tenere aggiornata una scheda personale dell’alunno contenente le notizie sul medesimo e sulla sua partecipazione alla vita della scuola nonché le osservazioni sistematiche sul suo processo di apprendimento e sui livelli di maturazione raggiunti.

Dagli elementi registrati sulla scheda viene desunta trimestralmente dall’insegnante o dagli insegnanti della classe una valutazione adeguatamente informativa sul livello globale di maturazione, il cui contenuto viene illustrato ai genitori dell’alunno o a chi ne fa le veci dall’insegnante o dagli insegnanti, unitamente alle iniziative eventualmente programmate in favore dell’alunno ai sensi dell’art. 2 della presente Legge.

  • Altre questioni operative legate alla valutazione formativa

C’è ampia e non semplice discussione sulle questioni obiettivi didattici /livelli di apprendimento /giudizi descrittivi. Le Questioni di metodo e di merito  che qui intendo precisare sono cornice  attorno  al “cuore” della mia proposta di variante M. Lo scopo è anche di riflettere su una questione di fondo: trovare l’essenzialità della valutazione evitando alcuni eccessi di iper-scrittura che temo possano avvenire, non per una qualsiasi difesa corporativa della fatica del lavoro docente, ma anzi per favorire la necessità pedagogica e metodologica di puntare all’essenziale, perché l’eccesso invece rischia di produrre confusione e opacità. Quindi suggerisco di scrivere il giusto, evitando il “crampo dello scrivano” per troppe ridondanti formulazioni o per forme di esibizioni di “quante cose fa la scuola”, come se il tanto fosse sinonimo di bene.

  • Sugli “ obiettivi-oggetti” da valutare.

Vi sono discussioni su quali e quanti obiettivi  di apprendimento registrare per ogni disciplina,  che dovrebbero (dovrebbero) corrispondere al PTOF e alla programmazione di ogni singola classe. Vi sono varie ipotesi in campo che tra un po’ vedremo.

Condivido comunque che il repertorio degli obiettivi o altre soluzioni  debbano sempre essere oggetti fattuali (interessante suggerire  verbi e contenuti) non petizioni pedagogiche astratte. Dunque:

  1. Alcuni registrano l’intero repertorio degli obiettivi della disciplina descritto nelle Indicazioni, o i traguardi di competenze, Ricordo che gli obiettivi di ogni disciplina hanno due repertori: uno fino alla 3.a, l’altro alla 5a, mentre i traguardi di competenze sono unici per tutta la primaria  Una marea quindi di items.
    Ho visto bozze di schede di scuole che compongono lo spazio degli obiettivi semplicemente con un taglia e incolla di tutti i repertori di obiettivi disciplinari o di traguardi di competenze. Assurdo: così la scheda diventa un malloppo ridondante e le crocette da mettere su uno dei quattro livelli  comporrebbero una sommatoria illeggibile  di croci tali da sembrare una specie di cimitero valutativo  con effetto confusione. Sento anche un retro-pensiero che così si “obbligherebbero” (bonariamente, si intende) gli insegnanti  a conoscere meglio le Indicazioni Nazionali. Sadica opzione, cui spesso rispondono meglio le tante riviste scolastiche e le Guide didattiche chiavi in mano. Ma no, via: si dia fiducia e rispetto alle nostre maestre: la proposta è la selezioni giusta e misurata di obiettivi o traguardi, quelli che servono e rispondono meglio a ciò che si fa effettivamente in classe. Per me: pochi obiettivi/traguardi chiari, quelli più significativi. Non per lavorare meno ed avere meno crampi dello scrivano, ma per ergonomia mentale e interpretativa.
  2. Si potrebbero dunque registrare solo una parte degli obiettivi o traguardi contenuti nella programmazione,  i principali o quelli legati al periodo (es. primo quadrimestre).  Il rischio comunque  è che la lista degli obiettivi  diventi un elenco separato di micro-obiettivi, rischiando di perdere di vista l’insieme del bambino. Che non impara per obiettivi separati, ma per connessioni e spesso con attività trasversali.
    La lettura e la scrittura ne è un esempio, si usa in ogni disciplina o quasi.
  3. Alcuni suggeriscono di registrare come obiettivi  i  nuclei fondanti delle diverse discipline, che non sono mai molti, e dare anche alla valutazione una maggiore percezione di processualità oltre al singolo anno di frequenza. E’ un’opzione che a me affascina, perché nei nuclei c’è un’idea  delle conoscenze epistemologicamente eredi  di Edgard Morin (che poi è il maitre à penser delle Indicazioni del 2012).
    In ogni caso, questa fase sperimentale e di transizione rende possibile individuare diverse forme di aggregazione degli obiettivi, provare diverse strade, laicamente,  senza fretta di esibizionismo.
    E ricordarci che non tutto nella scuola primaria viene (grazie a Dio) separato per discipline, ma spesso aggregato e intrecciato in forme interdisciplinari attive interessanti.
  • Per gli alunni con disabilità

Sento molte discussioni su come dovrebbe essere la valutazione formativa per gli alunni con disabilità. Si sostiene, ad esempio, che inserire un repertorio di obiettivi diversi da tutti gli altri compagni sarebbe discriminante, anche se questi per la verità provengono dal PEI, che per un alunno con disabilità è strumento principe sia della programmazione che della valutazione.

Sono dell’opinione che forse il modello di obiettivi per nuclei fondanti (e anche quello per traguardi di competenze) sia il più adeguato perchè offre a tutti  più facilmente orizzonti comuni, allargano nel lungo periodo i percorsi didattici che, nel caso della disabilità, avrebbero nel documento di valutazione una voce comune ma poi nel PEI una sua più precisa articolazione.

In ogni caso la variante M  sarebbe per gli alunni con disabilità importante, perché farebbe emergere nello strumento comune di valutazione le azioni di miglioramento necessarie senza nasconderle in sedi separate.

3.3. Sui livelli e sui giudizi descrittivi

La relazione  tra i vari obiettivi da valutare a livelli e il “giudizio descrittivo” deve essere simmetrico obiettivo per obiettivo o potrebbe essere sintetico per tutte le disciplina con un solo testo?
Io non ho dubbi: meglio un solo giudizio descrittivo complessivo, magari articolato in punti di forza e di debolezza per due ragioni. La prima, più prosaica, per evitare agli insegnanti il già citato crampo dello scrivano per l’iper scrittura ridondante. La seconda, più sottile e pedagogica: per evitare che il “giudizio descrittivo” diventi una sommatoria neo-cognitiva di parole del pedagogese, piene di fumo, come spesso accadeva anche nelle schede della vecchia e cara 517.  Problema che peraltro esiste anche nel giudizio descrittivo unico, cui suggerisco di dare forma sobria, essenziale, operativa più che retorica, consolatoria o ammiccante. Al proposito allego (allegato 3) a questo mio articolo una chek list composta da una scuola simpatica sul significato e la struttura semantica dei diversi aspetti che potrebbero comporre un Giudizio descrittivo globale. Questo anche per condividere le parole e il loro significato, non tanto per dare una serie di parolette standard da usare con un puzzle di termini presi qua e là. Premetto che non è un testo perfetto, che ha bisogno di lavoro, ed ha per me alcuni aspetti da approfondire, ma può servire come base di lavoro per un testo essenziale e  utile.

  1. E infine, una novità che valorizza l’autonomia: come dividere l’anno per fasi valutative?

Segnalo qui un aspetto di cui non parla quasi nessuno e che con questa nuova valutazione  potrebbe essere interessante da sperimentare. Mi spiego: non c’è scritto da nessuna parte che la valutazione della scuola primaria debba essere suddivisa in due quadrimestri o tre trimestri, in particolare i due quadrimestri abituali e di moda che vanno da settembre a febbraio e da marzo a giugno.

E qui ci aiuta la potenza pedagogica dell’art. 4 del DPR 275 del Regolamento autonomia già citato.

Conosco alcune (poche) scuole che suddividono le fasi “formali” di valutazione  in due periodi del tutto diversi dalla tradizione quadrimestrale. Anche per dar valore alla variante M, potrebbe ad esempio essere interessante che la valutazione intermedia  avvenisse tra fine novembre a metà dicembre, cioè dopo un primo trimestre intenso, perchè rende possibile conoscere bene i propri alunni e scorgere presto pregi e limiti sia del nostro lavoro che del loro apprendimento. Spesso fare prima la reflection on act è molto utile perché rende possibile capire prima i nodi critici, e soprattutto avere dopo più tempo (5 – 6 mesi) per adattare, modificare, sviluppare, arricchire il curricolo. Darebbe flessibilità e coerenza ad un lavoro di continuo processo educativo capace di modificarsi per tempo.

La suddivisione tra prima fase in trimestre e la seconda in semestre darebbe anche ordine e simmetria all’impegno per i nostri alunni con disabilità, ai quali il PEI prevede la piena definizione del curricolo individualizzato entro i primi 3 mesi dell’anno. In questo modo anche per loro (e per gli insegnanti) un’economia temporale e di scala nei diversi documenti programmatori e valutativi da realizzare.

Non sembri strano al lettore, ma tutto questo è possibile. Impossibile è solo svolgere la valutazione finale prima che termini l’anno scolastico in classe. Ma questa proposta vuol anche suggerire una pratica di creatività e di coerenza pedagogica che l’autonomia didattica  renderebbe possibile (e per me auspicabile), molto più  di quanto si sia pensato finora.

Come si noterà, il cuore di questo articolo è la mia proposta della versione M, il resto è di contorno per una discussione e ricerca in cui conterà molto un lavoro in comune ed una sperimentazione della migliore pratica di valutazione formativa possibile. Quindi: non schedari calati dall’alto, né troppa fretta ad avere un chissà quale “pagellone” strapieno di crocette e chiacchiere, ma sostanza, una sostanza formativa che va al cuore della didattica e della qualità del lavoro docente. I maestri e le maestre non si facciano prendere dalla fretta, ma dalla serietà e da scelte oculate, capaci di sperimentare diversi modelli sapendo poi scegliere quello più utile.

In allegato

SCHEDA DESUNTA DALLE PROPOSTE, SOLO INDICATIVE,PRESENTI NELLE LINEE GUIDA DEL MIUR  CON LA VARIANTE M  disciplina per disciplina

SCHEDA DERIVATA DALLE PROPOSTE CONTENUTE IN QUESTO ARTICOLO CON LA VARIANTE M

VALUTAZIONE SCUOLA PRIMARIA INDICATORI PER IL GIUDIZIO GLOBALE




La pandemia pedagogica

di Raffaele Iosa

In questi ultimi tre giorni ho ricevuto molte telefonate e mail da dirigenti scolastici, insegnanti e genitori su cosa (di brutto) sta accadendo in molte classi a seguito del “ritorno a casa” di molti bambini e ragazzi del primo ciclo per via delle zone neo-rosse e la diffusione della “variante inglese”.
In un clima d’ansia collettiva e di forte incertezza, assisto ad una “frenesia curricolare” nelle Dad in corso ben diversa dall’epoca di primavera 2020 che ho chiamato della “didattica della vicinanza” con una generosa azione dei docenti più legata alla relazione educativa che al completare il “programma”. Oggi invece mi raccontano di una specie di una “pandemia pedagogica” di iper curricularismo online di dubbio valore.
Per esempio in una 2ª primaria a tempo pieno 8 ore di lezione online tendenzialmente frontale, con 15 minuti di pausa tra un’ora e l’altra. Sconcertante.

Provo in breve a spiegarmi il perchè di tutto questo.

1. Un’insufficiente fase di riflessione pedagogica sugli eventi scolastici febbraio-giugno 2020 ha prodotto una ripresa delle lezioni a settembre con l’ansia del “recupero del programma” e l’ansia della sicurezza limitante. Da qui in forte aumento di lezioni frontali e di compiti per casa, favoriti anche dal fatto che le regole sanitarie strette in classe riducevano di molto la flessibilità didattica e la progettualità (es. progetti interdisciplinari, uscite, ecc…). Ci vedo perfino una buona fede nei docenti, anche perché i “messaggi” sul recupero o l’allungamento dei giorni di scuola pareva implicitamente criticare gli insegnanti. Si è quindi fatto troppo di jn curricolo tornato duro e lineare.

2. Questa pandemia pedagogica sembra continuare anche adesso in questa seconda peste che inizia questa settimana ma rischia di durare a lungo. Quindi molte ore di Dad, lezioni frontali online, relazione educativa addio. Con effetti depressivi per tutti, anche dei genitori. È evidente che questa seconda primavera di Covid è più dura e pessimista della precedente, ma proprio per questo merita riflettere e rallentare, flessibilizzare e addolcire questa pandemia dell’online direttivo.

3. Lo stato d’animo, lo stress, le depressioni e le tristezze nei nostri bambini e ragazzi sono in aumento. Servirebbe anche nell’online una vicinanza dialogante e rassicurante senza l’ansia nevrotica dei programmi.
Per questo il mio messaggio è di riflettere bene su una fase più drammatica della precedente. Più relazione educativa attivistica, più I CARE donmilaniano che tabelline, capitoli di storia, compiti per casa.




Il nuovo PEI. Tra rose e spine. E un dulcis in fundo


di Raffaele Iosa

Il “nuovo PEI” previsto dal DM 182/2020, con annesse corpose “Linee Guida”, è una cosa seria. Seria e complessa perché il Ministero (di concerto col MEF)  ha messo insieme molte questioni,  alcune delicatissime,  realizzando ben  più di un semplice adattamento del PEI come strumento di programmazione, ma toccando vaste  altre questioni connesse: l’uso dell’ ICF, il calcolo delle  risorse di personale, fino ai temi della valutazione,  anche con l’interessante debutto del tema della transizione alla vita adulta nell’istruzione superiore.

Un’operazione vasta di restyling da leggere bene,  con molta (a volte pesante) scrittura, che tocca non solo la disabilità ma l’intero fare scuola. Spesso questi temi sembrano specialistici e tecnicamente difficili, almeno per gli insegnanti curricolari, e rischiano di restare cosa di nicchia. Per questo cercherò qui di esprimere con un linguaggio il più accessibile possibile un mio commento tecnico sia su questioni generali che analitiche sui punti più “caldi”  .

Esprimo da subito una mia valutazione d’insieme: è un lavoro di  spessore, con aspetti importanti di innovazione (le rose) ma contiene anche alcuni vizi e assenze (le spine) che rischiano di produrre per lo più l’ennesima “grida manzoniana”  di come dovrebbe essere l’inclusione (ce ne sono state molte in passato), con attese di qualità che potrebbero essere difficilmente mantenute.

Ne scrivo qui criticamente ma in modo propositivo sulla base della mia esperienza professionale  pedagogica, scientifica, amministrativa, a livello locale, nazionale, internazionale.

 

  1. Una struttura militarizzata?

Una prima spina di carattere generale. In tutto il testo delle Linee guida è scarsa  l’autonomia, se non piccoli e marginali spazi sulla didattica. Tutti gli elementi  inerenti certificazioni, ICF e diagnosi funzionale, GLO,  perfino la struttura  grafica del PEI,  il calcolo delle proposte di risorse, ecc… sono affidate a precisazioni e  pignolerie che trasmettono una forte ordinatività normativa,  e nessuno spazio di flessibilità. Non sono presenti mai le parole flessibilità, ricerca e creatività che sarebbero invece auspicabili se rispettano i medesimi obiettivi inclusivi.

Ciò rappresenta per me la crisi di una normazione  che preveda nel Ministero istruzione il soggetto titolare delle finalità generali ( Reg. Autonomia DPR 275/99, norma di rango costituzionale)  e alle scuole l’autonomia necessaria ad adattare le finalità con diverse vie anche originali. Non mi pare questione da poco, e dovrebbe allarmare non solo chi si occupa della nicchia “inclusione”.

In sostanza una normazione che chiede alle scuole  “l’applicazione” e non “l’interpretazione responsabile”. Non è una scelta qualsiasi, e non era l’unica possibile. Dunque i temi e i problemi non sono nuovi, ma diverse sono le forme di risoluzione.
Sarà certo un segno dei tempi, con la crisi delle autonomie,  ma nel caso della disabilità questa direttività è data da una questione di fondo più “culturale” e  “pedagogica” che amministrativa.
Il fatto è che queste norme escono, a mio parere,  in una fase di “declino dell’inclusione”, in cui sono stravolte   le ispirazioni inclusive degli anni 70. Alle nuove ampie difficoltà inclusive si pensa a risposte con abbondanti dosi di direttività e burocrazia.  In breve  gli elementi principali:

  • In meno di 20 anni le certificazioni di disabilità sono raddoppiate, i posti di sostegno sono di più di questo raddoppio, il rapporto alunno h/docente sostegno è passato dai 2,4 del 1999 a 1.6 di quest’anno.  Gli assistenti all’autonomia dei comuni da 4.000 a 60.000 di quest’anno. Stiamo cioè assistendo ad un fenomeno di medicalizzazione che pesa nell’imaginario delle famiglie e degli insegnanti. Non c’è in Italia nessuna ricerca seria sui motivi e gli effetti dal punto di vista clinico, sociale, demografico e in educazione: una meta-epidemia? Una lettura  ansiosa del dolore umano? La moda legata al mito del ben-essere come perfezione?
    Si  sommi a questo la Legge sui DSA e  l’invenzione dei BES (entrambe  iatrogene) per individuare una profonda mutazione dell’idea di persona, delle relazioni,  dell’apprendere.
  • Questa mutazione accompagna un cambio di paradigma per cui la “clinica” (in primis comportamentista) si impone con terapie paradidattiche dure, riducendo l’educativo  comunitario,  in un qualche modo imponendo agli insegnanti di togliersi il grembiule e di mettersi il camice.
  • Le due questioni sopra descritte hanno determinato l’emergere di una conflittualità nuova tra famiglie  e scuole, il mito del “sostegno” non come “attività di tutti i docenti” ma come azione specialistica separativa  totalizzante. Di fatto lontana dal mainstream della classe. Da qui  cause, tribunali, conflitti. Qualsiasi intervento per regolare le certificazioni  o la ripetizione del mantra sempre più retorico  “il sostegno lo fanno tutti” sono in gran parte falliti.
    Tutti i decreti usciti in questo periodo risentono di questo conflitto trasversale di tipo pedagogico che produce due aree di pensiero in conflitto: quella che chiamo degli “scolasticistici”,   erede della tradizione degli anni 70 (sostegno diffuso azione di tutti) contro gli “specialistici”   (tecniche separative  centrate sui sintomi e non sulla persona). Si pensi, ad esempio,  allo scontro sulla formazione dei  docenti di sostegno: una laurea ad hoc o corsi post-laurea? Grembiule o camici?
  • Accompagna questo conflitto una degradante gestione dei posti di sostegno e la totale assenza di formazione seria per  i docenti curricolari. Quando un figlio cambia sostegno ogni anno, magari precario che non sa nulla di disabilità non ci sono attenuanti. Il degrado è garantito.

Dunque, è il recente passato complesso, mal gestito, con un aumento della spesa fuori controllo, disattenzione al fatto che l’inclusione è di tutti i docenti,  che forse ha portato i ministeriali autori di questi documenti a scegliere una via  così militarizzata: la speranza che mettendo “le braghe al mondo” si riducano i conflitti, un modello imposto renderà  le scuole più brave,  e così si migliorerà (sigh) l’inclusione. Paradossale opzione se si tiene conto che oggi la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità parla invece della loro inclusione come “accomodamento ragionevole”, diverso da caso a caso.

Temo  che queste Linee guida produrranno il fiorire di nuovi quesiti,   un contenzioso infinito che già oggi è fiorente (basta leggere nei social). D’altra parte i malumori di famiglie o insegnanti non chiedono  soluzioni ragionevoli per  un qualche  conflitto, ma “in quale norma”   si precisi pignolescamente una certa questione.  Un  piccolo caso sul quale chiedo  ai lettori di non ridere: un’insegnante di sostegno della primaria mi scrive: “una mia collega mi ha detto che bisogna passare dallo stampatello al corsivo con il bambino perché poi alle medie, quando avrà l’esame,  dovrà per legge scrivere in corsivo. Mi potete dire quale norma prescrive il corsivo?”

Nessuna applicazione obbediente migliorerà la qualità dell’inclusione. L’obbedienza non è sempre una virtù e può mortificare la passione e la fantasia. Rischia invece di produrre soluzioni formalistiche e pesanti.  Ci lavoreranno autori di manuali e avvocati.

  1. Un testo cui manca il prima e il dopo

Questo DM  e Le linee Guida escono prive di altri elementi presenti nella delega della Legge 107/15, tali da rendere insicura oggi la sua applicazione.

2.1 Manca ancora il  “profilo di funzionamento” nella logica bio-psico-sociale ICF, strumento  importante per una nuova modalità di interpretazione della disabilità. Questo profilo è la base e la premessa su cui costruire il PEI, viene prima. La classificazione ICF ci descrive ogni persona con disabilità nella sua natura complessa,   superiore al “sintomo” e al di là della confusa  dicotomia dell’art. 3 della Legge 104/92 tra “lieve” e “grave”. Ogni ragazzino con disabilità viene letto attraverso l’ICF  come “Antonio” o come “Maria” in tutte le sue dimensioni e non solo in base alla mera diagnosi clinica. Non tutti i ragazzi con la sindrome di Down sono gravi e neppure gli autistici. Molte variabili concorrono alla gravità, anche quelle personali e ambientali. L’ICF supera lo stigma della “malattia” e individua le “barriere”, anche esterne, che ostacolano l’inclusione e  i “facilitatori” interni ed esterni che aiutano ad un progetto di vita individuale più congruo ad ogni persona.  Quindi una base teorica e pratica decisiva per realizzare un buon PEI.

L’ICF e il conseguente profilo di funzionamento però non ci sono ancora perché il Ministero Sanità non lo ha ancora scritto. Dunque le citazioni dell’ICF presenti nel DM e nelle Linee guida e persino il sostenere che il PEI deve essere realizzato nella “logica ICF” pecca di  precipitazione e incertezza.

Dovremmo chiederci perché il Ministero Sanità non ha completato il profilo, e non mi pare sia solo causa il carico di lavoro del COVID: c’è perplessità nei clinici nei confronti dell’ICF. E’ più semplice fare diagnosi secche dei sintomi con l’ arido DSM V  che ti dice “cos’ha”  ma mai “chi è”.

2.2 Ma c’è dell’altro. Manca ancora un Decreto sulla governance della disabilità a livello locale, per intenderci dai vecchi “accordi di programma provinciali” della Legge 104/92  a logiche di governance nello stile dei piani di zona della Legge 328/2000.

2.3 Mancano infine i profili professionali degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione di competenza dei comuni, il cui profilo vago e generico non offre una competenza precisa su cui contare. Ma nel PEI si dovrà scrivere se serviranno per l’inclusione di un certo alunno, nella vaghezza piuttosto che nella precisione degli obiettivi per cui si utilizza.
Questo lavorare a sprazzi, senza una visione armonica tra diverse norme sullo stesso tema è grave, rischia una fatica alle scuole immeritata, un’incertezza del mai completato.

Se penso al povero insegnante di sostegno senza titolo che sarà costretto (com’è d’uso in moltissime scuole) a farsi carico di scrivere questo malloppo pesante e direttivo del PEI, mi tremano i polsi. Rischiamo la parodia.  Il PEI è cosa seria, se mancano i contorni di contesto  l’unica soluzione è…copiare da uno dei tanti manuali che usciranno. E sperare in Dio che a qualcosa serva.

  1. Mediazione versus controparti

E’ sorprendente il fatto che nelle pubbliche amministrazioni, in particolare in quelle che erogano servizi di carattere sociale e alla persona,  siano del tutto assenti sedi e modalità di mediazione dei conflitti a fronte del pullulare di malessere, disagio, litigiosità sempre più vivide. L’amministrazione pubblica segue vie giuridiche  o di controllo prevalentemente legate alla forma o ispezioni che devono rilevare se esistono lesioni o errori. Il tema conflitti nella scuola è caldissimo, al punto  che ormai molti genitori considerano spesso la scuola controparte. Nel mondo della disabilità il tema è ancora più caldo ed ha la sua ,massima espressione nei ricorsi ai tribunali sulle ore di sostegno, da cui ricevono sentenze spesso non pedagogicamente fondate.

Basta leggere nei siti le tantissime lamentele di carattere prevalentemente relazionale.

Il nuovo PEI contiene così tante e delicate decisioni e confronti tra istituzioni che pensare alla soluzione per via giudiziaria o amministrativa mi pare dolorosamente ingiusto.
Sulla base della mia lunga esperienza di ispettore considero gran parte dei conflitti tra genitori e scuola frutto di divergenze dove non c’è necessariamente un colpa in senso stretto, ma la compresenza di punti di vista, atteggiamenti, approcci diversi se non divergenti. Molto spesso  in entrambe le “controparti” vi sono aspetti di ragione e di torto, soprattutto sugli aspetti educativi, ma non ci sono strumenti precisi per portare ad una ricomposizione se non la buona volontà.

Io penso sia giunta l’ora di pensare invece a sedi, professionalità e modalità di mediazione tra erogatori ed utenti che sia predisposta da tecnici terzi non in forma giudiziaria ma, appunto, in forma mediativa. E che sia necessaria sempre prima di ricorrere al tribunale.

So bene che non era  tema centrale dell’oggetto PEI,  ma propongo si cominci a pensarci anche con sperimentazioni come un importante passo in avanti. Altrimenti ognuno avrà il suo difensore, si sentirà sempre controparte. La mediazione aiuta anche a migliorare il senso civico e delle responsabilità individuali e collettive.

  1. I dolori del giovane GLO

Il GLO è la nuova sigla del vecchio GLI, con le stesse persone. Il DM e le Linee guida  precisano fino alla pignoleria  regole, puntigli, lacci di cui capisco in parte le ragioni: finora in molte scuole il GLI non esisteva di fatto, il PEI veniva redatto dall’insegnante di sostegno  e i genitori coinvolti solo per la “firma”. Dunque bene richiamare un impegno collettivo. Ma forse si è esondato.

  • In una prima bozza il GLO era stato ridefinito “organo collegiale”. Ne capivo le ragioni per responsabilizzare tutti i suoi componenti, dagli insegnanti, alle famiglie ai servizi sociosanitari.
    Ma è nata una violenta querelle sulla questione del “voto” che ogni organo collegiale prevede per le decisioni da assumere, al punto che la collegialità è scomparsa nella versione finale.  Però merita  una riflessione  il tema delle “decisioni” negli organi  a diversa composizione com’è il GLO.  Se anche fosse rimasto  il GLO “organo collegiale” va ricordato che, a parte il Consiglio di Istituto che è di natura elettivo,  tutti gli altri “organi” della scuola  non sono democratici  in senso politico ma organi tecnici competenti cui compete individuare soluzioni tecniche. Dunque il concetto di “maggioranza” in questi organi nasce dal bisogno di prendere una qualche decisione ma niente più. Se un genitore o un insegnante non condividono una certa scelta va registrata e può avere effetti per comporre il conflitto o per ricorrere. Questa confusione sugli organi collegiali come il ,collegio docenti se sono o no democratici è vecchia come i decreti delegati. Negli organi collegiali dove chi ci sta c’è d’ufficio, il cosiddetto “voto” è una via solo decisionale. Dunque professionale di carattere deontologico. Ciò vuol dire attenzione alla necessità di cercare sempre più ciò che unisce di ciò che divide. Questo è ancora più vero perché nel GLO i genitori sono una parte non qualsiasi, sono di fatto utenti diretti.
    Riflettiamo quindi di più su come costruire un PEI davvero condiviso e ben praticato, che non è questione di forma ma di sostanza relazionale e pedagogica.
  • C’è poi la  complicata questione della “proposta di risorse” del GLO per le ore di
    sostegno, assistente autonomia, ATA per assistenza di base, strumenti e strutture.
    Cerco di spiegare il nuovo metodo che il GLO dovrà adottare evitando il più possibile al lettore le vertigini. Per quanto riguarda il sostegno, finora le “proposte di ore di sostegno dei GLI”  derivavano  più  dalla diagnosi clinica e sulla presenza di “gravità” (art. 3 comma 3 Legge 104/92).   Poi interveniva l’USR   che assegnava ore in più dell’organico di diritto in una specie di “rabbocco di ore” un po’ discrezionale simile alla vecchia “deroga”, ore che venivano date a docenti a tempo determinato.  Per effetto di una certa Sentenza della Corte Costituzionale questo “metodo” è stato in parte cassato sul principio del considerare diversamente la “gravità”.  I tribunali coinvolti dai genitori per ottenere più ore di quante assegnate dall’USR giudicano la proposta del GLI quella “necessaria” cui riferirsi perchè frutto del progetto educativo. Ma spesso fanno di più: se l’alunno in causa è “grave” la decisione dei tribunali è quasi scontata: a tutti il rapporto 1 a 1, magari più di quanto avesse proposto il GLI nel PEI.  E così tante cause perse dal MIUR.
    Con il nuovo GLO, sostanzialmente, cambia poco: decide sempre l’USR! Ma  cambia il metodo di calcolo di ore della proposta del GLO.  E’ stata inserita nella scheda PEI  una tabella  in cui il nuovo GLO (ex GLI) “ spacchetta” la gravità o meno dell’alunno con disabilità su cinque “dimensioni”  desunte dall’ ICF e dal profilo di funzionamento dell’alunno  (relazione, interazione, comunicazione, autonomia, cognitivo neuropsicologico). Per ognuna di queste dimensioni, il GLO  pesa i cd.  “debiti di funzionamento” (brutto termine, ma pazienza), intesi più prosaicamente come “difficoltà-barriere per l’inclusione”. Pe ognuna di queste dimensioni il GLO propone  la quantità di ore necessarie a recuperare il “debito”  in una progressione a 5 livelli  di “ore di sostegno necessarie a settimane”.  Ogni livello contiene un  range di + o – ore. Per esempio il  range lieve” nella scuola dell’infanzia corrisponde a una gamma tra  0-5 ore/settimana,  il “range  molto grave” oscilla tra 20 a 25 ore settimana per la scuola dell’infanzia. La media dei 5 range individuati  è la proposta di range delle ore di sostegno settimanali proposte dal GLO.  Poi tocca all’USR la finale definizione delle ore settimanali scegliendo la cifra entro il  range proposto dal GLO.  Sperando che  chi mi legge sia ancora sveglio, faccio notare come  la proposta del GLO sia ben più articolata di prima e anzi va ben oltre alla solo generica dizione di “grave”.

Questo artificio tecnico sembra esser uno dei tanti modi per superare la secca simmetria grave = posto intero sostegno. Naturalmente vedo una richiesta del Ministero Economia di trovare metodi più documentati per diminuire le cause giudiziarie,   e ovviamente i rischi di spreco e disparità.

E’ evidente  che il metodo creerà non poche discussioni tra i componenti del GLO, in primis la famiglia  con reciproche accuse  di sottovalutare o drammatizzare il debito di funzionamento. Temo però che questa soluzione, di per sé interessante non basterà a ridurre a sufficienza i contenziosi, e la sua applicazione sarà  complessa da scuola a scuola e da classe a classe.

Per la verità, le commissioni regionali USR che assegnano in via definitiva le ore di sostegno per i gravi utilizzano criteri comparativi e range simili a questo proposto nelle linee guida.

Mi pare giusto che si chieda al GLO un impegno più analitico di valutazione dei bisogni dell’alunno, anche se quello inventato dai ministeriali mi pare oneroso. Ma nello stimare  il range più opportuno c’è sempre una discrezionalità quasi naturale. E, quindi, temo che continueranno ad esserci (anche se in minor numero) avvocati che chiedono l’accesso agli atti dei nostri PEI. Perché, a questo punto, la responsabilità non è più dei soli USR, ma anche dei GLO se a parere di un giudice hanno sottostimato i debiti di funzionamento.

4.3  E infine faccio notare come questo nuovo GLO avrà un carico di impegno certo maggiore e più complicato di prima. In alcune classi vi sono anche 2 disabili, nei primi anni delle superiore perfino 4 a classe. Quindi una miriade di GLO, riunioni, carte da compilare, Teniamone conto.

  1. L’errore della separazione tra “progetto di vita” e PEI

Con la normativa sul nuovo PEI si persevera nell’errore di separare il PEI dal Progetto di vita previsto dalla Legge 328/2000. E’ una separazione sbagliata, nata dagli equivoci tra il MIUR e i Comuni  che separano educazione da assistenza. L’ispirazione del concetto di “progetto di vita” è che tutti (tutti) i soggetti locali che agiscono verso una persona interagiscano tra di loro condividendo i diversi percorsi educativi, clinici e sociali con una comune visione interdisciplinare, tale da rendere il soggetto  protagonista partecipe del proprio progetto di vita. Questa visione coincide anche con il concetto di “accomodamento ragionevole” previsto dalla Convenzione Onu sulle persone con disabilità, che prevede appunto una governance attiva locale come strumento per facilitare  lo sviluppo armonico di ogni persona. Invece in questa strana separazione tra “progetti individuali” di carattere “assistenziale”  dei comuni soggetti ai piani di zona della Legge 328/2000 e il nostro PEI si prevedono solo “dialoghi diplomatici” qualora serva e qualora lo richiedano le famiglie. Non solo, il “progetto clinico” verso la persona rimane lontano, al punto che i clinici nel GLO “supportano” le scuole se serve e non necessariamente condividono. Assurdo.

Occorre a questo proposito ribaltare del tutto il punto di vista che non si è mai riusciti a modificare in venti anni. Per me il PEI è semplicemente una parte, quella scolastica, del progetto di vita della persona con disabilità in età scolare.   Essere una parte vuol dire “essere compreso” da una visione unitaria e multidisciplinare in cui tutti i soggetti che erogano servizi alla stessa persona dialogano e condividono le diverse pratiche, cercandone armonia e connessione.

In termini eleganti si chiama governance centrata sulla sussidiarietà e al servizio della persona.

Invece, niente da fare. Nel nostro caso al clinico spetta compilare l’ICF, parlare ogni tanto con i docenti e le famiglie, se serve “sostiene” il GLO,  ma nulla dice di ciò che intende fare di terapeutico sul bambino. Altrettanto il Comune è presente al GLO se serve nei casi particolari.
E infine perché manca il gran mondo del territorio, fatto da volontariato, aggregazioni sociali ecc.. che agisce verso il nostro alunno con disabilità? Non abbiamo nulla da dirci?.

In un’esperienza di ricerca-azione che ho fatto a Jesi (Ancona) alcuni anni fa abbiamo prodotto un percorso che non a caso si è chiamato “progetto di vita-PEI” in cui tutti i soggetti coinvolti  nella “cura della persona” condividevano e  registravano in un unico strumento tutti gli interventi di inclusione che ogni soggetto prevedeva nel suo settore, cercandone una sintesi e una correlazione. Dal punto di vista del genitore uno strumento formidabile: la scuola scrive la sua parte, la clinica racconta quali terapie ha in corso, il Comune quali azioni di sostegno vuol realizzare, se si vuole  gli scouts raccontano cosa faranno col nostro ragazzo nella sua esperienza scoutistica in corso.

Vorrebbe dire governance effettiva e non questa mania della canne d’organo dove ogni istituzione pensa solo al suo pezzetto di impegno.  Mescolare insieme vuol dire costruire anche una comunità multiprofessionale, dove tutti imparano dagli altri e si connettono a cercare la quadra. E dulcis in fundo… anche ai genitori a Jesi toccava scrivere il loro impegno familiare verso il figlio. Perchè i genitori sono importanti e occorre anche  dar merito alle loro competenze in atto.

Questo modello è radicalmente diverso da questo PEI monumento della scolasticità. Pensa a servizi capaci di progettare la vita per la persona “con la persona” e non ognuna per conto suo.

  1. La privacy e la trasparenza

C’è una questione surreale che sta creando molte discussioni sulla produzione del nuovo PEI.

Dunque: nel nuovo PEI si devono scrivere le ore effettive che ogni alunno/studente con disabilità frequenta davvero e le materie scolastiche effettive che apprende. La cosa ha creato molte critiche e sa anche di un “controllo” indiretto di certi presunti abusi.  Si teme anche che rendere trasparenti l’esonero da ore o discipline favorisca la legittimazione di un abuso.  Il tema è delicatissimo perché tocca una grande varietà di situazioni, alcune periodiche, altre stabili, in cui  ci si trova a lavorare nei diversi anni scolastici.  Eppure è un tema vero e molto serio. Se abbiamo alunni con disabilità iscritti al tempo pieno della primaria che escono alle 14 dopo il pranzo  piuttosto che alle 16 si deve scriverlo o nasconderlo? Se un bambino è costretto, per colpa dei servizi terapeutici, a fare logopedia di mattina che colpa ne ha? I casi sono più di quanto si creda, possono servire per fare una statistica delle diverse forme di inclusione, ma niente più.

Eppure questo tema tocca una questione delicata sulla flessibilità didattica e organizzativa della scuola, legata anche alla sua autonomia. Bizzarro  che il modulo PEI chieda le ore effettive ma non le ragioni pedagogiche o cliniche di questo evento.

Sulle discipline, invece, ricordo che fino all’esame di terza media gli studenti con disabilità vengono formati e valutati secondo il PEI che potrebbe anche valorizzare alcune discipline e considerare meno significative altre. Ma anche qui le Linee guida si prolungano su questioni legate alla frequenza e agli esami.

Piuttosto meriterebbe rilevare quante ore uno studente con disabilità sta in classe e quante nei ghetti delle aule h. Lì c’è il principale problema educativo da considerare, perché una frequenza totale in una classe-ghetto non è inclusione ma isolazione pura.

Si veda, quindi, come questioni collegate alla cd.. “trasparenza” nascondano non tanto la risposta giusta o la bugia, ma il bisogno (prima di tutto pedagogico) di conoscere le diverse condizioni di scolarità e le ragioni delle scelte delle scuole, se pedagogicamente fondate o solo forme di difesa o di sconfitta di una buona scolarizzazione. Il tema riguarda, ad esempio, le troppe scuole che suggeriscono ai genitori di tenersi a casa i figli all’inizio anno se non c’è ancora l’insegnante di sostegno, o ai tanti bambini “cattivi” che si tengono a casa non con una “sospensione” ma come “aiutino” per calmarsi, sia loro che i compagni di classe.

La scuola è per molti bambini e ragazzi molto comp0lessa, sia per quelli con disabilità che gli altri, a volte non c’è spirito comunitario tra famiglie. C’è di tutto, e non solo il bene.

Infine, non comprendo un’ansiosa apologia della privacy sui documenti scolastici degli alunni con disabilità. Spesso insegnanti nuovi non vengono messi in condizione di leggere i PEI dei loro nuovi alunni perché c’è “la privacy”. Sui documenti c’è sempre discussione sulle formulazioni da mettere. In genere chi si vergogna meno e chiede poca privacy è proprio la famiglia del nostro alunno con disabilità, che sa bene come sta il proprio figlio, ma che vorrebbe che tutti gli adulti che operano col figlio fossero messi in grado di conoscere e agire insieme per la qualità dell’inclusione. Dunque, almeno questo nuovo GLO sia un luogo aperto di conoscenza e dialogo, in cui le “carte” non siano strumenti top secret, ma piani di lavoro da condividere serenamente.

  1. Novità sull’inclusione sul secondo grado, un po’ rose un po’ spine

Trovo una bella rosa per l’istruzione secondaria di 2° grado la presenza della questione “transizione alla vita adulta” per il loro PEI. Per un ragazzo con disabilità spesso questa scuola rischia di essere l’ultima che condivide con coetanei, e per lui il passaggio alla vita adulta è certamente più difficile.

E’ un tema appassionante, ho iniziato a lavorarci più di venti anni fa all’Agenzia europea per i bisogni educativi speciali e finalmente si dice qualcosa. Anche se non basta, è per esempio poco marcata la necessità di connessione con la Legge 68/99 sull’inserimento lavorativo agevolato per le persone con disabilità.

Si tratta di avere una visione dell’alunno non solo scolastica, ma integrale delle competenze di autonomia e responsabilità di ogni studente, con percorsi di orientamento, inclusione effettiva, esperienze sul campo,  collegamento con i servizi territoriali che seguono la disabilità adulta. Il rischio altrimenti è che troppi nostro studenti con disabilità finiscano nei cronicari o strutture protette pur avendo abilità maggiori da sviluppare. C’è dunque un vasto campo di crescita della qualità inclusiva del nostro sistema secondario.

Ricordo che se i nostri ragazzi con disabilità frequentano l’istruzione superiore non è merito di una legge ma di una sentenza della Corte Costituzionale. Per il resto la scuola è rimasta la stessa, con quella ridicola separazione tra “percorso equivalente” e percorso differenziato”, cui il MIUR non ha mai messo mano. Anzi, è stupefacente (una vera spina) il tormentone nelle linee guida sulla valutazione dei disabili nella secondaria, dove si arriva  a dire “i disabili hanno il diritto allo studio, ma non il diritto al titolo di studio”. Frase quanto mai sgradevole e persino offensiva, come se i ragazzi con disabilità fossero “ladri” di titoli. Si sa bene che la questione è ben altra, e cioè che ad ognuno va dato il massimo di sviluppo delle potenzialità individuali, cognitive e sociali,  e ad un ragazzo con disabilità il sogno di un futuro migliore possibile, non una carta col timbro.

  1. Dulcis in fundo

Qualche anno fa, in un istituto professionale alberghiero della mia regione.
Viene in visita ufficiale la direttrice generale del Ministere de l’education national di Francia. E’ qui per preparare il viaggio del suo ministro nella nostra regione,  dedicato all’inclusione.
Al tavolo per il pranzo ho la preside a sinistra e la direttrice francese a destra. All’antipasto ci serve un ragazzo di terza, giacca e cravatta, e la preside gli chiede: “Come va, Giovanni?” (nome di fantasia). E Giovanni risponde: “Molto bene, preside!”.  E poi sottovoce mi dice: “Giovanni è arrivato con una diagnosi psichiatrica pesante, una brutta bipolarità, e timori di autolesionismo, ma mi pare che qui stia bene”. Traduco alla ,collega francese che mi ascolta stupita.  Al secondo giro, la preside dice a Giovanni “ma stai davvero bene, Giovanni? Cosa abbiamo fatto qui per farti star bene?” E Giovanni risponde “Da quando mi avete nominato tutor di un ragazzino di  prima sono felice. Devo farmi veder bravo per lui”.

Dunque: ad un ragazzo psichiatrico grave, art. 3 comma 3, la scuola affida (cioè si fida, da fiducia) un ruolo tipico di queste scuole: i ragazzi di terza si prendono in cura un ragazzino di prima facendo loro quasi da fratello maggiore. E questa scuola di affidarne uno a Giovanni!  Che si è accorto che forse non tutto in lui è follia, che anche lui può dare non solo ricevere.

Racconto brevemente questo piccolo caso per suggerire a tutti coloro che avranno a che fare col nuovo PEI un approccio certamente attento  ai suoi diversi aspetti formali, ma con uno sguardo di fondo squisitamente pedagogico. Servono carte ben scritte che hanno al centro non l’adempimento ma una spinta  di impegno a farne un progetto di inclusione davvero utile  per tutti i nostri vari Giovanni. Dunque che sia  la ricerca di soluzioni positive, di scambio, di apertura alla partecipazione di tutti.

L’esempio di Giovanni dimostra che una buona inclusione è ancora possibile.  L’esperienza italiana di inclusione, nonostante le difficoltà e regressioni, è ancora un valore, va salvaguardata.
Per questo mi offro volentieri a  fare formazione con chi vorrà accogliermi per gestire bene questo nuovo PEI con gli occhi di Giovanni. Per la qualità pedagogica vera fatta sul concreto, senza arrendersi alla forma e alla ritualità.




Dalla pandemia alla sindemia. E la pedagogia? La lezione di Lancet

di Raffaele Iosa

Richard Horton, direttore di The Lancet, prestigiosa rivista scientifica, ha pubblicato un editoriale lo scorso 26 settembre di grande interesse non solo scientifico ma anche sociale e politico. Per me anche pedagogico. Pubblico qui il suo breve ma ricco scritto, anticipato da un mio commento.

 

L’ abstract come si direbbe, ci dice:
“…Due tipi di malattie stanno interagendo all’interno di popolazioni specifiche (gli anziani): una infezione con grave sindrome respiratoria coronavirus 2 (Sars-CoV-2) e una serie di malattie non trasmissibili (NCD), tra cui diabete, ipertensione, obesità, patologie cardiache, tumori, ecc.
La combinazione di queste malattie su uno sfondo di disuguaglianza sociale ed economica accentua gli effetti negativi di ogni singola malattia. L’attuale visione clinica che mette al centro solo il vaccino è ristretta. Covid-19 non è una pandemia. È una sindemia…”

L’ editoriale di Horton mette in discussione l’attuale approccio “scientifico” al Covid-19 come se si trattasse di una semplice pandemia, e punta invece il dito sull’importanza delle malattie non trasmissibili nella sua diffusione, e sulla matrice sociale di queste ultime.

In sostanza: il COOVID 19 è letale in grandissima parte per quelle popolazioni relativamente povere affette da malattie non trasmissibili (in sigla NCD) quali diabete ed ipertensione, tumori ai polmoni, ecc…nella quali l’età avanzata è (per natura) l’elemento veicolante. Ma non si tratta di co-morbilità (questo termine lo riprenderò dopo), ma di “sinergia clinica” (l’un problema spinge l’altro, non si somma). Si chiama appunto sindemia.
Parola nuova, a me sconosciuta fin a ieri, che intende appunto gli effetti letali di una infezione se si “aggiunge” e accelera processi patologici già in atto. Se non ci sono patologie già in atto accentuate dall’età avanzata il rischio di letalità è quasi assente, come una normale influenza.
I giovani fumatori o diabetici non hanno ancora avuto tempo di sgretolare le loro difese immunitarie, mentre se sono in atto da molti anni è letale. Ecco perché colpisce in gran parte gli anziani, non per motivi anagrafici astratti ma per ragioni della loro storia sociale e clinica più lunga sulle diverse NCD. E dalla loro condizione economica.

Se si studiano gli effetti quanto mai differenziati della sua diffusione, a seconda che si tratti di individui appartenenti alle classi elevate (i Trump, i Berlusconi, i Johnson, etc. rapidamente riportati dalla terapia intensiva alla vita abituale, senza bisogno di alcun vaccino), e gli effetti nella più vasta popolazione, si ha la percezione che la sindemia non sia un termine come un altro ma un indicatore significativo del rapporto tra condizione fisica, storia personale e condizione sociale, fino alla stratificazione economica. E fino al destino di morte, che, come è noto non è legato solo al “caso” infettivo o all’incidente clinico ma all’intera storia di un individuo. La visione che emerge è la consapevolezza che la “salute” è una variabile legata non solo a meccanismi cellulari o microcellulari ma anche a stili di vita, abitudini elementari, abitudini igieniche, condizioni sociali ed economiche.
Per fare un esempio, è noto che l’obesità è molto più frequente nei bambini poveri che in quelli ricchi, per via di un’alimentazione di poco prezzo con cibi spazzatura ipercalorici, gli Junk food.

La lettura del COVID 19 solo come pandemia a sé non fa comprendere sufficientemente la relazione (si potrebbe dire “ecologica”) tra tutti gli aspetti dell’esistenza che producono salute o malattia, non solo quello squisitamente cliniche ma anche quelle sociali ed economiche.

E dunque, se è opportuno che si trovi il vaccino “salvifico” che ci liberi tutti (ricchi e poveri, magri e grassi) non possiamo non riflettere sul rapporto tra virus, natura, malattie, vita sociale che il caso COVID 19 ci insegna. Riconduce persino ai temi dell’educazione agli stili di vita, a quella ecologica, a quella complessivamente della responsabilità. Cioè parla anche a noi in quanto educatori.

Per affrontare Covid-19 come una sindemia servirà avere una visione più ampia, che comprenda anche l’istruzione, il lavoro, l’alloggio, il cibo, e l’ambiente.
Non sarà quindi un vaccino che ci salverà, questa volta, dalla morte e dalla crisi economica, ma anche una visione ed un approccio diverso e interagente sulla vita contemporanea, gli stili di alimentazione, mobilità, lavoro, ambiente. La crisi non è biologica, o almeno non solo, ma culturale, economica, politica, intorno ai nostri modelli di vita dominante.

SINDEMIA E PEDAGOGIA

Questa visione direi quasi “olistica” della persona e della società mi interessa, per analogia scientifica, sul tema di cui mi occupo da molti anni: quelle dei nostri alunni con disabilità. Domina da tempo una visione solo sintomatologica dei comportamenti, siglata e racchiusa in codici, sigle, scale di gravità. La centralità parossistica del “sintomo” restringe la persona in ghetti interpretativi che non comprendono l’insieme (olitstico) di ogni individuo, ma lo spezzettano in sintomi e quindi in specifiche cure. La genetica e la neuropsichiatria moderna godono con queste letture un prestigio classificatorio e terapeutico spesso illusorio, sminuendo invece strategie inclusive diverse e più consone ad una giusta vita personale (’accomodamento ragionevole della Carta Onu del 2006) e persino alla riduzione effettiva dei deficit presenti. Tormentare il sintomo e dimenticare il resto (ad esempio ciò che va) produce quell’isolazione di cui ormai parlo da anni.
E’ quanto dice Horton criticando la visione esclusivamente bio-clinica per il COVID19.

Su questo tema nel nostro paese girerebbe da quasi 20 anni un altro modello interpretativo della persona, guarda caso promosso proprio dall’OMS, chiamato ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) che interpreta la persona in chiave bio-psico-sociale. Cioè leggendo la persona nell’insieme non solo in ciò che accade in un certo organo, ma anche nelle sue relazioni sociali, negli stili di vita. Un approccio distante dai metodi sintomatologici, che stenta in Italia ad essere non solo applicato ma soprattutto “vissuto” nelle pratiche sia terapeutiche che educative. Non è un caso, al proposito, che come per il COVID 19 secondo Horton, nelle diagnosi si presentino ampiamente definizioni di “co-.morbilità” nei comportamenti di un bambino (ad esempio ADH e Disturbi oppositivi provocatori) come se la “somma” di sintomi serva ad avere più ore di sostengo o più cure e si perda invece la connessione profonda tra le due sigle diagnostiche, inerente l’insieme della persona, che ama o odia, soffre o cerca pace. La giustificazione “genetica” spesso esaltata consola babbo e mamma perché incolpevoli, ma non aiuta ad andare oltre una “terapia” asimmetrica che non ha sguardi onnicomprensivi dell’altro.

Più in generale, la teoria della sindemia ci insegna a scoprire visioni sistemiche di interconnessione tra tutti gli eventi che definiscono l’umano, in cui ad esempio quello sociale conta. Tema per certi versi scontato per chi ha una visione “progressiva e democratica” del ruolo dell’educazione, ma difficile da gestire nelle pratiche scolastiche, soprattutto quando tra scuola, servizi sociali, sanitari, famiglie, territorio si va a canne d’organo (ognuno per conto) suo e non con una visione strategica comune. Visione pedagogica e sociale che è anche politica, politica pura, su ciò che intendiamo per esempio con l’articolo 3 della Costituzione, che non prevede “diagnosi” ma “compiti della “Repubblica rimuovere…..”. Come si sa ma non si fa.

Ed ecco ora il testo, tradotto in italiano

OFFLINE: COVID IS NOT PANDEMIC
RICHARD HORTON
Published September 26 2020

Mentre il mondo si avvicina a 1 milione di morti per Covid-19, dobbiamo renderci conto che stiamo adottando un approccio quanto mai ristretto alla gestione della espansione di un nuovo coronavirus. Abbiamo inquadrato la causa di questa crisi come una malattia infettiva. Tutti i nostri interventi si sono focalizzati sulla interruzione delle linee di trasmissione del virus, per mettere sotto controllo la diffusione di questo agente patogeno.
La “scienza” che ha guidato i governi è stata trainata principalmente da esperti costruttori di modelli di epidemie e da specialisti in malattie infettive, i quali comprensibilmente inquadrano l’attuale emergenza sanitaria in termini di peste secolare. Ma quello che abbiamo appreso finora ci dice che la storia di Covid-19 non è così semplice.
Due tipologie di malattie stanno interagendo all’interno di popolazioni specifiche – una infezione con grave, acuta sindrome respiratoria coronavirus 2 (Sars-CoV-2) e una serie di malattie non trasmissibili (NCD). Queste condizioni sono raggruppate all’interno dei gruppi sociali secondo modelli di disuguaglianza profondamente radicati nelle nostre società.
La combinazione di queste malattie su uno sfondo di disuguaglianza sociale ed economica accentua gli effetti negativi di ogni singola malattia. Covid-19 non è una pandemia. È una sindemia. La natura sindemica della minaccia che stiamo fronteggiando richiede un approccio più sottile, se vogliamo proteggere la salute delle nostre comunità.

La nozione di sindemia è stata concepita per la prima volta da Merrill Singer, un antropologo medico americano, negli anni ’90. Scrivendo su The Lancet nel 2017, insieme con Emily Mendenhall ed altri colleghi, Singer ha sostenuto che un approccio sindemico porta alla luce interazioni biologiche e sociali che sono importanti per la prognosi, il trattamento delle malattie e la politica sanitaria. Limitare il danno causato da Sars-CoV-2 richiederà di dare un’attenzione di gran lunga maggiore alle malattie non trasmissibili e alle disuguaglianze socio-economiche rispetto a quanto finora è avvenuto. Una sindemia non è semplicemente una co-morbilità, una compresenza di più malattie. Le sindemie sono caratterizzate da interazioni biologiche e sociali tra date condizioni [sociali e personali – n.] e stati di salute, interazioni che aumentano l’esposizione di una persona a vedere danneggiate o peggiorate le proprie condizioni di salute. Nel caso di Covid-19, attaccare le malattie non trasmissibili è un prerequisito per contenere in modo efficace la sua diffusione. Come ha mostrato il nostro NCD Countdown 2030 pubblicato di recente, sebbene la mortalità prematura da malattie non trasmissibili stia scendendo, il ritmo del cambiamento è ancora troppo lento. Il numero totale delle persone che vivono con malattie croniche sta crescendo.

Affrontare il Covid-19 comporta affrontare l’ipertensione, l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari e respiratorie croniche, e il cancro. Prestare maggiore attenzione alle malattie non trasmissibili non è una priorità solo per le nazioni più ricche. Le malattie non trasmissibili sono una causa trascurata dei cattivi stati di salute anche nei paesi più poveri. Nella loro Lancet Commission, pubblicata la scorsa settimana, Gene Bukhman e Ana Mocumbi hanno descritto un’entità da loro chiamata NCDI Povertà, che aggiunge ferite a una serie di malattie non trasmissibili — condizioni come morsi di serpente, epilessia, malattie renali, e anemia falciforme. Per il miliardo di persone più povere nel mondo di oggi, le NCDI rappresentano oltre un terzo del loro carico di malattie. La Commissione ha mostrato come la disponibilità di interventi sostenibili ed economici potrebbe scongiurare nel prossimo decennio quasi 5 milioni di morti tra le persone più povere del mondo. E questo senza considerare la riduzione del rischio di morte a causa di Covid-19.

La conseguenza più importante di inquadrare Covid-19 come sindemia è quella di sottolineare le sue origini sociali. La vulnerabilità dei cittadini più anziani; dei neri, degli asiatici e delle “minoranze etniche”; nonché dei lavoratori che sono in genere mal pagati e hanno meno protezioni sociali, sottolinea una verità che è stata finora a stento riconosciuta – e cioè che non importa quanto sia efficace un trattamento o sia protettivo un vaccino, la ricerca di una soluzione puramente biomedica a Covid-19 non avrà successo. A meno che i governi non individuino politiche e programmi per invertire le profonde disparità sociali oggi esistenti, le nostre società non saranno mai realmente al sicuro da Covid-19. Come hanno scritto Singer e altri colleghi nel 2017, “Un approccio sindemico fornisce un orientamento molto differente alla medicina clinica e alla salute pubblica dimostrando come un approccio integrato alla comprensione e al trattamento delle malattie può avere molto più successo di un semplice controllo della [diffusione della] malattia epidemica o della cura dei singoli pazienti.” Aggiungerei un ulteriore vantaggio. Le società hanno bisogno di speranza. La crisi economica che avanza verso di noi non sarà risolta da un farmaco o da un vaccino. È necessario nulla di meno di un risveglio nazionale. Affrontare Covid-19 come una sindemia ci inviterà ad avere una visione più ampia, che comprenda anche l’istruzione, il lavoro, l’alloggio, il cibo, e l’ambiente. Al contrario inquadrare Covid-19 alla stregua di una semplice come pandemia, ci impedisce di avere uno sguardo più ampio e necessario.




Per un ri-torno mite a scuola. Proposte pedagogiche di accomodamento ragionevole

di Raffaele Iosa

A poco più di due mesi dalla ripresa, nulla si sa di concreto sul ritorno a scuola a settembre. Il protocollo sanitario è uscito come cornice, ma potrebbe cambiare (spero in meglio) secondo l’evoluzione del virus. Intossicano il clima anticipazioni che durano lo spazio di un giorno, come la bizzarria del plexigas.
Il ritardo della politica può determinare confusione paranoica e fretta dannosa a prepararsi per settembre.
Potrebbe ridursi in calcoli ingegneristici tra numeri studenti / aule / orari senza uno sguardo e una progettazione pedagogica, che dovrebbe invece essere la pre-condizione di ogni soluzione organizzativa.

Questo ritardo è il sintomo di un paese che spesso nelle catastrofi ha una grande generosità iniziale, ma poi per la ricostruzione torna il paese peggiore, confuso e lento. Generosa è stata la “didattica della vicinanza” che gli insegnanti hanno donato ai ragazzi, perché consapevoli del dramma vissuto non solo per la scuola chiusa ma anche perchè chiusi in casa.
Ma adesso? L’anno scolastico si è concluso con stanchezza, sono accadute cose traumatiche, ma anche utili fratture tra gli insegnanti sulla didattica, per esempio sulla valutazione formativa. Ed ora il vuoto?

Intanto girano proposte varie, tra chi spera che rinasca d’amblè una “scuola inclusiva democratica”, chi dice che nulla sarà come prima e chi no. In un documento di presidi si descrive la scuola come “ “erogatore di servizi che produce apprendimento” e a me pare una pedagogia idraulica. Oppure ci sono associazioni professionali che propongono idee grondanti attivismo pedagogico. Se potessi ringiovanire e tornare maestro farei tutte le cose lì scritte, ma l’età senile mi porta anche a temere che ottime proposte restino solo in felici enclaves. Temo il gattopardismo italico, ma spero anche che ci saranno nuovi conflitti pedagogici. Girano intanto demonizzazioni della Dad, quando forse servirà una ragionevole mediazione tra il pensiero analogico e digitale. Sul desiderare il ritorno in presenza, ricordo che molte classi erano a già febbraio didatticamente “distanti”. Non tutto il prima era buono.

Però una cosa mi è evidente: il ri-torno migliore possibile si realizzerà solo con una forte partecipazione di comunità, non solo docenti e presidi, ma con gli alunni stessi, i genitori, i sindaci, la società civile.
Se ne esce bene partendo da una concreta pedagogia, non applicando solo ordini o algoritmi organizzativi. Sarà un bene se ogni scuola agirà in creativa autonomia, perché ogni scuola è diversa. Ma c’è chi invece si aspetta dal MIUR regole fino alle minuzie, per l’atavica tradizione pronta solo ad “applicare”.

Mi consolo leggendo lettere e racconti che scrivono insegnanti e presidi sui siti, soprattutto dedicate ai ragazzi, segnate dalla consapevolezza che si sono costruiti pensieri nuovi, in cui è forte l’empatia (diffusa perfino la parola “amore”) di un destino comune. Abbiamo scoperto valori, non solo problemi.
C’è sapore di pedagogia seria. Ri-partiamo allora da qui!
Il prossimo sarà un anno complicato in cui dovremo usare creatività e ragione, perchè il ritorno non si riduca ad una scuola-lager, né a un anno di gite, né all’arido triangolo ingegneristico di combinare aule, spazi, orari. Un anno che sarà nel paese molto difficile dal punto di vista economico e sociale.
Alla scuola tocca un angolo non piccolo di ricostruzione della speranza.

Propongo qui alcune idee operative per un ritorno mite a scuola, che metta finalmente al centro la pedagogia (cioè il nostro mestiere), per i bambini e i ragazzi, verso i quali siamo pieni di debiti morali.
Con la priorità pedagogica, ci sono cose utili che la scuola può fare subito, da adesso a settembre, per prepararsi bene a creare “accomodamenti ragionevoli” tra esigenze sanitarie e qualità didattica.
Sull’ accomodamento ragionevole ho già scritto (vedi nella mia pagina fb) cui rinvio se si vuol sapere di più.

Dunque, propongo qui tre prime idee fattibili in questi mesi, senza bisogno di attendere dall’alto, come azioni pedagogiche per me essenziali per il ri-torno a scuola. Ne sto preparando altre sei, che invierò via via, per facilitare la lettura nei social. Per un ri-torno mite perché rinvia al dialogo, all’ ascolto, alla reciprocità, ad uno sguardo condiviso. E ri-torno col trattino: non si parte o si arriva una sola volta, ma tante e diverse. Questa volta del tutto diverso.
Su queste proposte sono pronto a dare una mano se qualche scuola vuole lavorarci.

1. GRUPPI RIFLESSIVI PROFESSIONALI, PRIMA DI RI-PARTIRE

C’è il rischio che il periodo del confinamento diventi una parentesi da rimuovere. Penso invece che questi mesi senza scuola siano un patrimonio drammatico da metabolizzare e comprendere, per i vissuti intensi, le esperienze esistenziali, le didattiche inedite, tra scoperte e delusioni. Per esempio riconoscere la nostra resilienza come “formazione sul campo”. C’è un patrimonio professionale sparso che merita condividere senza disperderlo. E’ stato infatti anche un periodo di apprendimento collettivo dal basso, anche se in solitudine. Mi pare utile riflettere su tutto questo come sviluppo della professione e del sé pedagogico.

Il cd. “gruppo riflessivo” (poco praticato –ahimè- a scuola) descrive una pratica (meglio se in presenza) di riflessione professionale tra colleghi, senza un o.d.g. rigido e neppure un verbale, centrata sulla condivisione degli “oggetti-azione” di interesse comune sui quali si riflette dialogicamente cucendo una “memoria condivisa” e ricercando soluzioni nuove ai problemi. Quindi non lezioni dall’alto di un seduttore ma formazione tra pari. L’oggetto di ingresso è perfino banale (cosa ci è successo in questi cinque mesi?) ma lo scambio di narrazioni, di pensieri, e di emozioni porta a nuove domande: cosa ho imparato? Cosa ho scoperto di nuovo? Cosa non farò mai più? Cosa farò di nuovo? Cosa faremo tutti insieme?. Cioè riflessioni operative quanto mai utili per settembre. E un sedimento di memoria generativa da non disperdere.
Donald Schön nel suo ormai classico “Il professionista riflessivo” (1993) sostiene che nella riflessione sull’azione il professionista si fa ricercatore per comprendere le dinamiche inattese accadute nel suo lavoro (e il corona virus è proprio il nostro caso) ma fuori dai canoni della Ragione Tecnica (burocrazia, procedure, abitudini, ecc…). Ricerca per comprendere cosa è mutato nell’ approccio al lavoro, cosa si è scoperto, cosa sia utile salvare delle precedenti abitudini e quali nuove azioni stimola a creare.
La riflessività è una meta-competenza importante. Ce lo diceva già Dewey nel suo “Come pensiamo”.
Ecco: pensieri di ricerca in comune mi sembrano un’ottima formazione sul campo, senza dimenticare.

Ma c’è di più. Il gruppo riflessivo può servire anche come percorso di auto-aiuto sui nostri tratti rimasti dal confinamento: paura e ansia diffuse forse più del virus stesso. Ci sono colleghi che hanno avuto lutti e ricoveri. Aver avuto paura è naturale. Non nascondiamolo, condividiamo invece come uscirne insieme.
Senza cadere nel terapeuticismo, un gruppo riflessivo può rendere possibile mettere insieme le sofferenze nella forma dell’auto-aiuto per alleviarle (Anche tu? Anch’io!). Una presa di coscienza comune delle nostre paure aiuta a cercare insieme vie di rasserenamento, valorizzando la nostra resilienza e quella di tutti.
Trovo utile questo aspetto della pratica riflessiva perché dobbiamo mettere in conto lo stato d’’animo con cui ogni insegnante tornerà a scuola a settembre. E un insegnante traumatizzato che non ha rielaborato il proprio dolore rischia, in buona fede, di travasare stati emotivi negativi negli alunni. Ci sarà bisogno per i nostri ragazzi di trovare invece insegnanti rassicuranti, solidi emotivamente, non superficiali nei rischi in corso ma neppure freneticamente ansiosi. Dunque un buon gruppo riflessivo può svolgere un ruolo di “auto-aiuto tra pari”. Per uscirne più rafforzati anche nei comportamenti a scuola.
Sento parlare troppo di “psicologi” assegnati a questo compito. Nulla contro di loro, ma vorrei fin che è possibile evitare il rischio di medicalizzazione che a volte queste esperienze comportano.

Questi gruppi riflessivi, da fare prima possibile (altrimenti sfuma la memoria) potrebbero essere l’occasione numero uno per la ri-partenza. Il gruppo riflessivo ha anche valore di ricostruirsi come comunità solidale che apprende dai fatti, insieme a capire come stiamo, come stiamo insieme, come potremo star meglio, se il recente passato difficile ci ha insegnato qualcosa. Ri-tornare così ad essere un gruppo professionale educativo che riflette su ciò che è accaduto e progetta insieme il vicino futuro.
Quando farli? Certamente prima del ri-torno a scuola. Nei tempi che servono. Anche adesso. Per chi ne sente l’esigenza. Senza tempi rigidi. Considerati a pieno titolo “formazione in servizio”. Non è necessario che sia tutto un collegio, ma meglio che siano colleghi che lavorano insieme. Sulla quantità e durata non esistono limiti se non l’utilità. Preferirei in presenza, se possibile anche con una pizza tutti insieme (se possibile) per festeggiare il ritorno.
Un suggerimento. Forse potrebbe servire un “esterno” come rispecchiamento e rilancio della riflessione. Basta che sappia di scuola e che abbia la vostra fiducia. Ovviamente non può essere uno psicologo, non siete ammalati. E neppure il preside, che non è un esterno, ma è in gioco anche lui come gli insegnanti.
Non vedo perché non sia allargabile anche a tutto il personale della scuola, tecnico e amministrativo.

2. AZIONI DI ASCOLTO DEI BAMBINI, RAGAZZI E LORO GENITORI

Un giorno o l’altro i nostri bambini e ragazzi torneranno a scuola. Può importarci davvero solo quali “ritardi scolastici” hanno accumulato? Preoccuparci solamente del recupero? C’è invece altro da fare? Si, c’è altro. Più importante. Nei mesi passati senza scuola, in una bufera emotiva senza precedenti, chiusi in casa per forza, obbligati a vederci al video se andava bene, i nostri alunni hanno vissuto, imparato. Hanno imparato a resistere, a far passare il tempo, a tirar fuori resilienza. Ma hanno anche letto, sognato, litigato in casa, si sono fatte domande (tante), hanno vissuto scene dolorose. Hanno appreso la vita quando si fa dura.
Per questo non è possibile che al rientro si riprenda dalla pagina del libro dove erano arrivati con la Dad. Sembra ovvio: i bambini oggi sono “altri” da come li abbiamo lasciati, e la Dad non ci ha detto tutto di loro. Questi sei mesi sono una formidabile esperienza da cui ripartire, dai loro sentimenti e saperi coltivati nella loro naivetè. Hanno soprattutto bisogno di parlare con noi e i loro compagni, non solo di ascoltarci.
Quindi per me base essenziale di un buon ritorno è una robusta, seria azione di ascolto. Potremmo scoprire cose molto interessanti, basi utili per ripartire bene perfino sul piano organizzativo.
Propongo di realizzare una serie di azioni d’ascolto da iniziare subito e da sviluppare al rientro a settembre.

a. UN CONTATTO INDIVIDUALIZZATO DI ASCOLTO alunno/insegnante, meglio in video, con la
solennità emotiva che ci vuole, per ascoltarlo con tre semplici (in apparenza) domande essenziali:
1. Come ti autovaluti oggi? L’autovalutazione è strumento di ascolto potente. In questo caso l’ascolto è necessario per comprendere il sé bambino/ragazzo nella sua auto percezione. Interessante compararlo con la nostra valutazione. Le assonanze e le differenze sono decisive. Potrebbero esserci sorprese.
2. Come hai passato questi mesi? Come stai? La narrazione del periodo trascorso dal punto di vista esistenziale ed emotivo è importante. Aiuta molto a tarare i nostri comportamenti al ritorno a scuola.
3. Come vorresti fosse la scuola quando tornerai? Ci puoi dare dei consigli? Questa è una domanda chiave per raccogliere suggerimenti e attese cui rispondere. E anche qui potremmo avere sorprese.
Come esempio di ascolto, suggerisco la magnifica esperienza di Enrica Ena, maestra di Iglesias e della sua classe di 2.a primaria. Bambini di 7 anni che si auto-valutano e raccontano. Una miniera che renderebbe quasi inutile qualsiasi task force per sapere come ripartire a settembre! Maestra Enrica tra l’altro scrive:
“Ciò che ho visto sono bambini di sette anni – non posso prescindere un attimo dalla loro età – completamente consapevoli di ogni cosa: di ciò che è accaduto, del perché sono state chiuse le scuole, di come ci siamo organizzati e di che effetti hanno avuto le nostre scelte, del ruolo della classe virtuale e degli appuntamenti sincroni, delle differenze tra tutto questo e la scuola vera.
Nessuna parola entrata per caso, ogni cosa un nome, il suo, che, probabilmente, tre mesi fa non era mai entrato nel loro vocabolario. Li ho visti cresciuti, maturati. Ho visto che questo tempo gli ha regalato quella capacità grande di dare voce alle cose che vivi, che senti. Forse perché era davvero l’unico modo di condividerle con tutti noi.

b. ASCOLTO PARTECIPATO A SCUOLA TRA RAGAZZI E INSEGNANTI
A questo punto, non è difficile progettare almeno la prima settimana di scuola: basata sull’ ascolto collettivo dei ragazzi tra loro e con noi. Occasione sana di farsi comunità simile ai gruppi riflessivi proposti prima. Ma anche occasione interdisciplinare per discutere di coronavirus, con ricerche attive. E per condividere le regole sanitarie e organizzative, che possono anche diventare “gioco“ (per i più piccoli) e coscienza civica.
L’ascolto partecipato va preparato, gestito bene nel tempo e nel modo. Non è atto spontaneistico. E’ la base pedagogica di una buona ripartenza sapendo cosa serve ascoltando i nostri studenti.

c. ASCOLTO E PARTECIPAZIONE DEI GENITORI
Le stesse tre domande vanno poste ai genitori. Se si vuole con questionari aperti o al telefono, figlio per figlio. Raccoglieremo così molte informazioni ma soprattutto si darà loro la percezione di una attenta cura al rientro a scuola che sarà senza dubbio apprezzato per il loro coinvolgimento.
Poi con i genitori una curata riunione prima dell’inizio della scuola, per tirare le somme di attese e timori, assieme alle prime ipotesi di attività che la scuola ha in mente, approfondendo anche le regole sanitarie e organizzative da rispettare. Su questi aspetti la loro partecipazione e collaborazione è essenziale.
Ciò vale anche per le forme di rappresentanza e gestione della scuola nel suo insieme. Questa è una fase storica in cui più che le forme conterà la sostanza, educativa in primis, delle nostre decisioni. Dunque, che il ri-torno a scuola sia un processo partecipato da tutti è questione di assoluto buon senso. Iniziare senza informazioni e coinvolgimenti sarebbe un delitto. E farebbe male a tutti.

3. UNA SCUOLA SPARSA PER LE STRADE
Il rapporto tra ritorno a scuola e gli “spazi” in cui collocare gli alunni (se continuerà il distanziamento) non può essere risolto con lavoretti edili in due mesi, magari con gazebo nel cortile, se c’è. E non si avrà il tempo di fare nuove aule, se non recuperando spazi abbandonati, con rischi di precarietà e bruttezza.
Da molte parti si propongono invece l’utilizzo di spazi della città “strutturati” e ricchi di opportunità come occasioni non solo logistiche ma anche (per me soprattutto) pedagogiche di una scuola diversa.
Questa è una strada interessante: sviluppare l’ idea educativa degli anni 70 del cd. “sistema formativo integrato” (De Bartolomeis, Ciari, Rodari, Frabboni) in cui il fare scuola non avviene solo nella classica aula, (banchi in colonna e insegnante frontale) ma con esperienze didattiche attive sul campo, in cui si fa cultura come ricerca dai ragazzi, con la capacità perfino di offrire proposte per il territorio. Quindi non didattica fatta in una altra aula qualsiasi, ma invece in una aula “altra”, spazio di ricerca, relazione, creatività.
Questa suggestione voglio qui proporre. Ha bisogno di creatività, soprattutto di un rapporto intelligente con gli enti locali attraverso quei “patti di comunità” di cui si sente positivamente parlare oggi.
Ricordo, per la verità, che queste esperienze si possono già fare da anni, e forse questa è l’occasione per cominciare. Non servono nuove norme ministeriali. E’ già scritto tutto nell’art. 4 (autonomia didattica) del DPR 275/99 Regolamento Autonomia, con tutte le forme creative previste anche per i curricoli.
Questo vorrebbe dire però alcune scelte qualitative di fondo:
a. Non stiamo parlando di “gite scolastiche” o di visite “guidate. Dobbiamo pensare ad altro di più lungo, didatticamente pregnante. Dunque un progetto curricolare concreto, non un parcheggio.
b. Per quanto si dovrà dividere le classi in gruppi, sarebbe opportuno che la “classe” in quanto tale, quella fermata a febbraio 2020 per il confinamento, abbia a volte occasione di ricostituirsi, perché c’è un legame tra ragazzi che va mantenuto. Fuori scuola, in spazi più ampi, potrebbe anche farsi.
c. Le attività “per le strade” devono avere un tempo lungo, non quello di una gita. Propongo qui
attività che durino almeno una settimana, tali da rendere possibili laboratori, ricerca attiva sul campo, interdisciplinarietà. Liberando intanto aule della scuola, che a rotazione ridurrebbero la sola fame di spazi.

Ma come utilizzare in chiave pedagogica gli spazi del territorio? Qui, piuttosto che proporre teorie, presento alcuni casi-tipo, in qualche caso volutamente bizzarri. Che servano come stimolo per chi sia interessato a darsi una propria autonoma soluzione secondo il suo territorio.
1. Siamo a Udine. Terra di vini prestigiosi e del tajut de vin come cultura. Una settimana intera in unagrande azienda vitivinicola con spazi coperti e punto ristoro. Ed una classe anche intera. Una settimana interdisciplinare dedicata alla cultura del vino, alla tecnologia, al lavoro, alla natura, alle stagioni…
Ci sono tutte le discipline compresenti. Basta utilizzare metodi di ricerca attiva.
2. Siamo sempre a Udine. Stadio Friuli, sede dell’Udinese. Spazi coperti e attrezzati sotto le tribune.
Una classe intera per una settimana ad allenarsi e parlare con i giocatori, a studiare lo sport come fenomeno sociale e storico, e tante altre cose educative a pensarci. Ovviamente con ricerca attiva.
E magari biglietto gratis ai ragazzi per la prossima partita in casa, se saranno possibili gli spettatori.
3. Siamo a Ravenna. Museo storico di Classe. Un grande zuccherificio riadattato, grandi spazi coperti, percorsi museali interattivi. Soprattutto uno scantinato con centinaia di cassette di reperti archeologici alla rinfusa dove mettere le mani. Guide e operatori per aiutare gli insegnanti. Serve indicare le diverse discipline coinvolte? Non è evidente una vasta possibilità didattica di ricerca attiva?
Il museo è così grande che potrebbero starci anche più gruppi, mantenendo le giuste distanze.
4. Siamo a Strà (Venezia) riviera del Brenta, Villa Pisani, dove dormì Napoleone quando soppresse la Repubblica di Venezia. Grandi spazi coperti e strutture di servizio. Una classe a lavorare tra sale piene d’arte, tra storia e curiosità. Un famoso parco con la ghiacciaia ed un labirinto in cui perdersi. Attività di ricerca didattica interdisciplinare: infinite. Dal barocco ai viali di rose, alle cineserie conservate.
5. Siamo a Padula (Salerno). Una classe (anche di più) una settimana presso la prestigiosa certosa di San Lorenzo. Tre chiostri, un giardino, un grande e sontuoso complesso barocco. Ospita un museo archeologico, dal 1998 patrimonio dell’umanità UNESCO. Ricerche storiche, artistiche, dei costumi: infinite.

Questi casi, apposta provocatori, desiderano alimentare un occhio curioso a cercare nel proprio territorio le risorse non come spazi qualsiasi ma come opportunità educative, utili anche oltre l’epoca del virus.
Per fare esperienze di questo tipo serve prima di tutto pedagogia, poi una capacità intelligente di utilizzare a fondo l’autonomia didattica, e lavorare con un buon senso di squadra tra gli insegnanti. Non per fare gite o parcheggi, ma per una democrazia educativa partecipata con patti di comunità seri con il territorio.

Nei prossimi giorni pubblicherò altre sei proposte miti per il rientro

– L’accoglienza dei novelli
– Il curricolo autonomo flessibile tra classi e gruppi
– Non serve recupero, serve sviluppo educativo
– Idee re-inclusive per gli alunni con disabilità
– Educatori e altri operatori sociali per un anno migliore
– Come si fa un patto di comunità scuola e territorio




Accomodamento ragionevole e determinazione. Proposte per il rientro a scuola

ripresa_scuoladi Raffaele Iosa

 Abstract
Il saggio precisa le ragioni per cui la riapertura urgente delle scuole e dei servizi educativi fin dai centri estivi sono un’emergenza educativa di carattere prioritario, non accessorio, per il futuro del paese.
Le cinque emergenze educative descritte sono presupposti politici, culturali e istituzionali per realizzare con determinazione scelte intelligenti e chiare di ripresa della scuola.
Il saggio propone di adottare il metodo dell’ “accomodamento ragionevole” (ONU 2006), una mediazione scientifica attiva tra ragioni pedagogiche e ragioni epidemiologiche in rapporto all’evoluzione nel tempo della pandemia nei diversi territori del paese e alle esigenze sociali e pedagogiche sempre più urgenti.
Questo approccio interdisciplinare (e ragionevole) suggerisce di non adottare un unico modello rigido di riapertura delle scuole per i tempi, per i modi didattici e organizzativi, per l’utilizzo delle risorse, per le regole di sicurezza, tenuto conto della pluralità e autonomia delle diverse scuole nel paese, e in relazione all’evoluzione della pandemia nel tempo e nei territori. Naturalmente la riapertura deve essere realizzata solo dopo la predisposizione di tutti gli strumenti di prevenzione e tracciamento territoriale. Si propongono qui le alternative possibili al modello rigido unico, suggerendo un meta-metodo di lavoro interdisciplinare che parta dal livello nazionale fino a quello locale, con pratiche di governance continue di corresponsabilità.
Soggetti centrali sono le scuole e gli enti locali, cui è affidata la gestione e responsabilità diretta.
Si suggeriscono anche utili soluzioni originali e innovative sull’utilizzo del personale, degli ambienti del territorio e delle risorse sociali e culturali. Opportuna è la massima chiarezza sugli aspetti contrattuali.
La politica deve con determinazione e coraggio saper scegliere, sulla base integrata delle indicazioni dei diversi approcci tecnico-scientifici e le diverse condizioni territoriali, individuando più scenari da adottare.

 Il rientro a scuola è prima di tutto questione di emergenza pedagogica

Questo studio intende offrire proposte e suggestioni circa l’auspicato rientro a scuola di tutti i bambini e i ragazzi italiani che da fine febbraio 2020 hanno perso l’esperienza comunitaria della vita scolastica a causa della pandemia da Covid-19. Bambini e ragazzi che assieme alla chiusura della scuola hanno vissuto contemporaneamente per mesi la dura esperienza della loro chiusura in casa. Questo doppio confinamento esistenziale, sociale, cognitivo, relazionale è lo sfondo cui il rientro deve essere pensato in chiave formativa e di ripristino delle giuste condizioni di crescita dei nostri figli nella comunità sociale.
Vi è dunque, fin dall’inizio della progettazione di questo ritorno, la necessità di un incontro non facile ma da sviluppare in contemporanea tra due approcci, entrambi necessari: il pedagogico e il sanitario.

  1. L’approccio pedagogico

 Le scienze della formazione, con le loro articolazioni interdisciplinari di carattere pedagogico, psicologico evolutivo, sociologico, antropologico, epistemologico, sono una cosa seria. Sono la pre-condizione del senso della scuola nel suo sviluppo concreto di apprendimenti, di pratiche didattiche, di socializzazione, di educazione alla vita all’autonomia della persona.
La scuola è un sistema pubblico che ha al centro del suo agire la pedagogia, in tutti i suoi aspetti.
Non è dunque possibile che le regole sanitarie non si incontrino dialogicamente con le esigenze educative, è necessario invece un incontro parallelo di mutualità che abbia chiaro gli obiettivi del rientro a scuola come premessa necessaria di qualsiasi regolazione. Ad esempio, se la riapertura fosse centrata solo sul bisogno di guardianìa per i genitori tornati al lavoro basterebbero forme di babysitteraggio educativo, senza ulteriori preoccupazioni. Ma lo sguardo pedagogico ci segnala ben altro di necessità per i nostri figli e nipoti.

E’ questo ben altro pedagogico che il rientro a scuola considera prioritario, in particolare su questi punti:

  • Tornare alla vita. La doppia chiusura delle scuole e dei ragazzi in casa per tre mesi è un evento straordinariamente complesso e difficile, che va compreso e non sottovalutato. Non si tratta solamente degli eventuali segni dolorosi psicologici emersi, ma anche del senso esistenziale ed emotivo che i bambini e i ragazzi danno a questi eventi, sia nei segni negativi emersi sia nelle doti di resilienza che siano stati in grado di realizzare. Si tratta di eventi straordinari di grande portata sociale. SI tratta di bambini e ragazzi tornati prevalentemente figli, con rischi di regressione e di incertezza che vanno risolti il più presto possibile. E’ quindi un’emergenza educativa di fondo la nostra priorità.
  • Garantire eguaglianza delle opportunità. Il confinamento è stato ammorbidito (ma non risolto del tutto) dallo straordinario impegno di migliaia di insegnanti che si sono mossi in tutti i modi per ristabilire la relazione educativa. Perché questo ha voluto dire la Didattica a distanza: non tanto “tradurre la scuola ordinaria con altri metodi a distanza”, ma creare attraverso le macchine virtuali la vicinanza umana e deontologica ai nostri ragazzi. Lo si è fatto in mille modi, ha funzionato meglio quando si è cercato di fare cose diverse dal scimmiottare la lezione tradizionale, ed ha aperto radicali riflessioni negli insegnanti su aspetti fondativi dell’educazione (il valutare, la didattica in sé, il valore dell’ascolto dell’altro, il senso di comunità, ecc..). Insomma una didattica della vicinanza con la nostalgia dell’altro. Non è un caso che le migliori esperienze sono rappresentate dalle soluzioni in cui adulti e bambini si “vedevano e parlavano” attraverso il video. Un’esperienza di massa, nata dal basso, di grande valore civico in cui gli insegnanti hanno espresso un moto professionale che Spinoza avrebbe chiamato di “passioni generose”. Un ricco patrimonio di apprendimento professionale nato dalla necessità, che sarà utile in futuro quanto meno a ri-scoprire la relazione educativa come fondamentale. E anche una mediazione tra analogico e virtuale nell’insegnare e apprendere che non potrà mai essere la Dad sostitutiva della scuola fisica e umana, ma l’e-learnig e le ICT come strumenti di arricchimento degli apprendimenti, non e mai di sostituzione della vita comunitaria in un luogo chiamato scuola (e dintorni).

Detto ogni bene possibile dell’impegno determinato degli insegnanti, è onesto ammettere che l’esperienza ha invece rilevato gravi limiti sui principi fondativi della scuola democratica. L’esperienza ha accentuato il gap tra i ragazzi mainstream e quella fascia di nostri alunni che per varie condizioni (economiche, familiari, di lontananza culturale, per povertà di stimoli, per condizioni di disabilità, disagio sociale e così via) hanno pagato lo scarto in diversi modi e intensità, fino all’abbandono, pur con tutto l’impegno profuso dai docenti. C’è dunque ragione per riaprire quanto prima e meglio possibile le nostre scuole per un’emergenza democratica, pena il dimenticarci dell’art. 3 Costituzione (comma 2…Compito della Repubblica è rimuovere gli ostacoli…che impediscono la realizzazione della persona umana, ecc..). La scuola garante delle opportunità per tutti , capace di non perdere nessuno è una priorità nazionale. Tornare a scuola si deve, quanto prima per loro. Forse anche una scuola diversa da quella di prima della chiusura, scuola in cui non sempre l’eguaglianza delle opportunità veniva effettivamente garantita.

  • Ripristinare la cittadinanza sociale. I bambini e i ragazzi non sono solo studenti o scolari. Sono cittadini a loro modo attivi nella comunità sociale. Dunque è opportuno che non solo la scuola, ma tutto il territorio (famiglie, ente locale, società civile, soggetti sociali, sportivi, culturali del territorio) apra una progettazione del ritorno alla vita. Non può che essere fatto insieme e contemporaneamente alla scuola, pena il rischio che la scuola diventi un’isola in un deserto di incertezze bassa vita comunitaria.

Ci vuole dunque uno spirito attivo di governance locale tra i diversi soggetti, piani integrati territoriali di ricostruzione della vita sociale dei nostri bambini e giovani. Possono esserci molte soluzioni che rispettino le regole sanitarie, ma liberino i ragazzi dalla chiusura. Questa è una vera emergenza di cittadinanza sociale di altrettanta priorità. Scuole, ente locale, società civile insieme.

  • Tornare ad apprendere insieme. Il rientro a scuola non può essere solo un ripasso e un rabbocco dei curricoli non del tutto realizzati quest’anno. Certo si dovrà pensare anche a questo, con modalità flessibili secondo i ragazzi e le scuole, ma è un errore ripartire “da dove eravamo rimasti…”.

E’ successo qualcosa di significativo in questi mesi, si è imparato anche a vivere. Si riportano in classe i vissuti, non solo le tabelline imparate a memoria. C’è dunque da prevedere una fase transitoria (almeno fino a novembre?) di “accomodamento ragionevole” della condizione di ogni alunno ma soprattutto di ritorno all’apprendimento comunitario, cioè “in presenza attiva”, anche con l’utilizzo di tecnologie, questa volta non sostitutive ma complementari. Ciò che conta davvero è la natura dell’apprendere insieme, che prima della chiusura delle scuole non era sempre dignitoso e attivo, ma a volte direttivo e separativo. Questa volta l’insieme che apprende ha anche cose da dire, da raccontare. Sa di più e di diverso. C’è quindi una necessità data dall’emergenza di vita comunitaria di apprendimento tra pari che va compresa e risolta anche con modalità didattiche nuove.

  • Dietro ogni alunno, una famiglia. Anche i genitori hanno vissuto con difficoltà questa difficile fase, sia per la crisi del lavoro, sia per il confinamento, sia per un rapporto con i figli per i quali spesso sono stati tramite attivi con la scuola. Una ri-scoperta di dialogo ma anche un impegno, inutile negarlo, faticoso. E che ha diversi esiti secondo le condizioni delle diverse famiglie. Oggi che i genitori tornano al lavoro, li si carica di un problema complesso e duro circa chi seguirà i figli a casa. Le soluzioni di aiuto modello baby sitter sembrano non risolvere il problema non solo per i costi (e le differenze tra famiglie) ma anzi accentuano l’isolamento dei figli e rappresentano una soluzione posticcia. Dunque anche alle famiglie serve il ritorno a scuola, non come guardianìa, ma come ripristino della massima normalità della vita possibile. I genitori tornano a lavorare, e i loro figli tornano ad essere anche bambini e ragazzi, non solo figli.

Dunque, in sintesi, cinque emergenze pedagogiche (e politiche) impongono la predisposizione del piano di rientro a scuola a settembre 2020, con la presenza attiva di uno sguardo e una priorità pedagogici che accompagnino un positivo rientro dei nostri bambini e ragazzi alla vita da bambini e ragazzi:

  • emergenza educativa di ritorno alla vita da bambino e ragazzo
  • emergenza democratica delle opportunità educative
  •  emergenza di cittadinanza sociale
  • emergenza di vita comunitaria di apprendimento tra pari
  • emergenza delle condizioni familiari

Insomma, un vasto programma, di alta valenza politica istituzionale. Per sanare quella “ferita nel paese” espressa dal presidente Mattarella a fronte della chiusura delle scuole e delle sue conseguenze.

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