Bambini ucraini nelle scuole italiane. Accoglienza e solidarietà ma con equilibrio e prudenza

di Raffaele Iosa

Dedicato a Kirill Yatsko, 18 mesi, morto per una bomba a Mariupol; ai suoi genitori Fedor e Maryna un abbraccio fortissimo

Leggo da più parti e ricevo telefonate da scuole e associazioni di volontariato già pronte all’accoglienza di questi bambini ucraini sconvolti dalla guerra nella loro patria e passati in quindici giorni da una vita normale ad un disastro umanitario. L’Italia è un paese generoso, a volte encomiabile anche fino agli eccessi.

Scrivo qui brevemente su alcuni aspetti problematici e rischi educativi-sociali che intravedo per la loro accoglienza, sui quali  i nostri italiani generosi pronti ad agire dovrebbero riflettere. Lo faccio anche sulla base della mia lunga esperienza decennale nel volontariato italiano, anche con ruoli internazionali,  verso i cd. “bambini di Cernobyl”, con circa 50 viaggi in quelle terre e molte esperienze di solidarietà e cooperazione decentrata non sempre facili,  a volte rischiose di ambiguità, ovviamente nel rispetto della buona fede di tutti.

Dunque: avremo forse 10.000 bambini e ragazzi ucraini che arriveranno da noi dopo drammatiche fughe. Effetti collaterali di una scandalosa guerra che sta sfasciando un paese. Il tutto in una decina di giorni, senza alcuna preparazione. Cioè non un progetto né una vacanza, ma un drammatico e dilaniante strappo delle abitudini e delle esperienze di vita. Strappo  che ha soprattutto lasciato in patria i loro babbi a combattere l’orso russo nemico. Dunque bambini profughi di guerra, con il groviglio di angosce, rancori, odio, paura che questo comporta. Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

Questi bambini arrivano in diverse condizioni: molti con la mamma e i fratelli, altri raggiungono nonne e parenti che lavorano in Italia, altri conoscenti ucraini paesani generosi. Ci sono poi anche gli orfani sociali, se si riuscirà a portarli da noi. Sono accolti in diversi modi: in centri di accoglienza, in famiglie, offrendo loro un appartamento, ecc… Fortunatamente con un contesto sociale italiano attorno a loro (per ora) molto disposto ad aiutarli e comprenderli.
Teniamone conto, però: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

Ma c’è di più: vengono da un paese quanto meno complesso già prima della guerra, in cui la transizione post-sovietica è stata scossa da molte turbolenze politiche, crisi economiche, vaso di coccio  geo-politico come paese di mezzo (u-Kraina vuol dire terra del confine), un’emigrazione economica a ovest cospicua,  tre chiese cristiane in guerra (religiosa) tra loro, grandi differenze tra città e campagna come in tutta l’Europa orientale dall’antica  Brest a Vladivostock. Una terra larga, dove le distanze sono dilatate, con vaste campagne, fitti boschi, larghi fiumi  paludi e laghi,  differenze climatiche cospicue, la mobilità faticosa. Ma anche un paese di grande cultura, ricchezze naturali, storia economica, risorse. Sfasciato dalle bombe.
Dunque bambini con la stessa nazionalità, ma con storie diverse, ognuno con un suo contesto culturale e sociale personale. Uniti dal passaporto e dalla fuga, in attesa ansiosa di avere notizie di vita dal padre rimasto laggiù in guerra. Ma anche bambini che vengono da una terra che sembra aver conosciuto, forse per la prima volta così forte,  una nuova identità di patria per merito di un presidente che ha dato loro  l’orgoglio nazionale.  Se fossero stati più grandi, avrebbero voluto restare in patria a combattere.
Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

E’ troppo presto, comunque, sapere quale sarà il loro destino a breve. Resteranno alcuni mesi? Resteranno anche di più? Resteranno per sempre? Chissà. L’incertezza è naturalmente grande e proprio questo mi obbliga a suggerire comportamenti riflessivi prudenti e non spontaneistici da parte degli italiani, in particolare degli insegnanti e dei servizi sociali del territorio, che siano  di matura saggezza ed equilibrio.
Questi suggerimenti per evitare errori di bontà e generosità che (in buona fede) rischiano di sradicarli dalle loro storie in una condizione esistenziale a rischio apolide. Cioè per amore e rispetto di questi bambini, per un aiuto gratuito senza pretese di “educarli” secondo i nostri stereotipi benevoli. Un aiuto capace di ascolto attento, di rispetto delle loro radici, di tenerezza e di solidità per garantire a loro il superamento del trauma, per la ripresa di un pensiero autonomo sulla speranza del proprio futuro personale.
Dunque, i bambini ucraini arrivano a scuola. Molto bene, il nostro paese ha (dice di avere) una grande tradizione inclusiva. Esce la parte migliore di noi. Siamo pronti. Ma come, con quali attenzioni e cautele?

Ne individuo, per la scuola,  in questa primissima fase, quattro in particolare.

  1. Offrire speciale normalità

Non è momento di far festa, né di attaccar bandierine di saluto,  né salamelecchi iper-affettivi né circondarli di curiosità. Non sono da esibire. Sono di passaggio, questo stanno (giustissimamente) pensando loro. Sperano in un passaggio il più breve possibile perché prima di tutto vogliono tornare (tutti) a casa.
Gentilezza, cortesia, rispetto da parte degli insegnanti e dei compagni. Meglio se sono insieme a connazionali o con lingue simili all’ucraino. Accoglienza soprattutto di conoscenza dell’ambiente scuola, meglio se in presenza di un adulto mediatore linguistico. Poi, piano piano adattamento e inclusione con le attività della classe, anche tarata sulle cose che gli piacciono di più. I primi giorni sarà dura, non scordatelo.
Temono il futuro. Teniamone conto: non è per amore e gioia che arrivano da noi.

  1. Conoscere meglio possibile le condizioni di partenza reciproche.

Se hanno la mamma o parenti è indispensabile un colloquio sereno e attivo su cosa potrebbe servire sviluppare nella sua scolarizzazione in Italia. Quindi notizie sulla sua esperienza scolastica in patria, informazioni sulla sua vita sociale, sul “chi è” del bambino/a, i suoi gusti i talenti le difficoltà, e poi individuare  cosa si potrebbe fare a scuola. Creare quindi un patto educativo temporaneo tra insegnanti  e adulti sul che fare in questo periodo, avendo il coraggio di non andare oltre alla fine dell’anno scolastico. Mi spiego bene: qualsiasi sia lo sviluppo della crisi ucraina, è evidente che nella mente del bambino e del ragazzo c’è oggi un unico desiderio: il ritorno a casa. Quindi potremmo favorire una pratica di “continuità” con quello che ha fatto il bambino finora in patria, sviluppare alcune esperienze aggiuntive nuove, ma soprattutto di “andare avanti” con l’apprendimento per non perdere l’anno. Non sembri strano: in Ucraina la scuola è una cosa seria, e lo sperdimento esistenziale del bambino  deve essere diluito dalla certezza che venendo nella nostra scuola non perderà l’anno scolastico, che sarebbe una seconda sconfitta di guerra. Potrebbe sembrare un pensiero banalmente utilitaristico, ma è invece un pezzetto di futuro che si salva.
Dunque la scuola deve condividere con la madre cosa intende fare con lui/lei e condividere le elazioni.

  1. Perdere tempo con l’ascolto

Poi, pian piano, se va meglio, passiamo con lui/lei del tempo a parlare, partendo dalle cose più semplici, anche del quotidiano, ma evitando sempre domande dirette o dando idea di curiosità improprie. Deve essere lui (se si fida) a raccontare del sé, la propria storia, i propri desideri e le proprie paure.
La cura educativa ci impone sobrietà, attenzione anche alle sfumature, feedback positivi sul proprio agire nell’apprendimento e nella relazione con i compagni. Soprattutto non diamogli alcuna idea di aver pena per la sua condizione, ma comprensione. L’ascolto attivo e a-valutativo è un aspetto delicatissimo della relazione educativa. In questa situazione traumatica va svolto con grande equilibrio.

  1. Lavorare in modo attivistico

Ovviamente, più la didattica quotidiana sarà di tipo attivistico, più il bambino/a potrà trovare forme di apprendimento e relazione anche per lui attive e quindi più facilmente collocabili in una rete di relazione tra pari, di cui dovrà sentirsi a volte “più avanti” a volte “più indietro” (secondo la scuola da cui proviene) ma sempre entro una rete di reciprocità e aiuto  che solleva l’anima, riduce la solitudine, crea amicizie.

  1. Progettare in rete

Dunque suggerisco una progettazione a breve che vada fino a giugno per la scuola, ma anche per la prossima estate se resterà tra di noi. Quini conta molto creare patti di comunità territoriali che da subito possano, oltre la scuola, offrire opportunità nel tempo libero e nella vita sociale di aggregazione, amicizie.
A sua scelta, naturalmente, non per seduzione di quanto siamo bravi noi. Sapendo che la solitudine e il pensiero triste sarà sempre presente finchè non si saprà meglio quale sarà il suo futuro più avanti, che è (ricordiamolo sempre) prioritariamente tornare a casa.
Teniamone conto: non è per amore e gioia che è arrivato da noi. Ma lavoriamo perchè torni a casa sua contento di averci conosciuti e sicuro di non aver perso ma guadagnato qualcosa anche dalla nostra scuola.




Pedagogia della cura ai tempi del Covid

di Raffaele Iosa

E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa
che ha fatto la tua rosa così importante
Saint Exupery, il piccolo principe

Ho letto il messaggio di Dario Missaglia, presidente di Proteo,  attorno a questa terribile fase di espansione del COVID e di come la scuola sembri  aver perso il senso pedagogico del suo agire, travolta da aspre discussioni solo sulle  incertezze sanitarie, il caos gestionale, le tifoserie tra “presenza” e “distanza”,  e così via.

Condivido in pieno il suo messaggio per ri-mettere al centro del nostro impegno lo sguardo pedagogico,  che rifletta  su  come stanno i nostri bambini e ragazzi e cosa servirebbe loro  come priorità educativa in questa epoca così drammatica.

Già a settembre 2020 ho condiviso il suo Protocollo Pedagogico, rimasto per molti una vox clamans in deserto, che richiamava ad un diverso impegno per fronteggiare gli effetti psicologici, emotivi, cognitivi  dati da una scuola diventata balbettante, semiaperta o più semichiusa. Raccoglievo commenti del tipo “belle parole, ma oggi il problema è un altro”. Un “altro” che si riduceva, poi, alle sedie a rotelle, o alla Dad come fosse il demonio, scordando che spesso la mitica “presenza” è, seguendo il canone della tradizione,  noiosa aria fritta, distanza fino all’ estraneità.

Ma oggi la situazione educativa, a due anni dall’inizio della pandemia,  è quanto mai peggiorata.
Dunque, è necessario il coraggio di riprendere e rilanciare un pensiero pedagogico.
Rispondo qui alla sua proposta superando d’un colpo  le mie opinioni  su quarantene, mascherine, Dad e così via. Mi soffermo invece sul cuore della scuola rimettendo  al centro la voce pedagogica. Di questo qui scrivo,  anche con alcune proposte operative.

  1. Pedagogia della cura

La relazione educativa è termine generico, registrata nelle norme scolastiche e nei contratti, ma rischia di essere una specie di insalatina di contorno alla recita del dio contenuto/disciplina, per molti  il totem della scuola italiana.  Si sente ancora dire: “a scuola si impara, non si impara a vivere; al vivere ci penserà mamma e babbo o i preti.  Al massimo l’io docente spera di trasmettere le sue simpatie, cioè che l’alunno perfetto assomigli a lui/lei”. Ma non è così.

Proviamo invece ad approfondire in modo più rigoroso: l’evento “scuola” si realizza con una relazione sempre asimmetrica tra adulti e bambini/giovani  che mette insieme certo i contenuti, ma vissuti come eventi irripetibili (di apprendimento e di vita)  entro cui le dimensioni emotive, relazionali,  affettive, di sensibilità e di identità si mescolano concretamente realizzando  lo sviluppo di ogni persona. La stessa pura “trasmissione di contenuti” avviene come un evento didattico carico di senso non solo di esito, che determina o meno interesse, passione, curiosità. Ma c’è di più: la relazione educativa avviene nel tempo reale hic et nunc  della vita di un bambino e di un adolescente, ne riflette quindi le vicende concrete del vivere in un dato momento storico. Questo attuale momento  è, inutile negarlo, del tutto dolorosamente straordinario.
Infine,  c’è una cosa più importante ancora che rende la relazione educativa centrale  nel fare scuola:  l’art. 3 comma 2 della Costituzione quando ci dice che “compito della Repubblica è di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della persona umana”.
La rimozione degli ostacoli in pedagogia si chiama “cura dell’altro come sé”. Cura non perché malato o poveretto, ma perché persona e cittadino. Cioè è quell’ “I CARE” che ci ha insegnato don Milano a Barbiana. Che vuol dire concretamente: ”Mi interessi, non ti mollo, faccio di tutto per te, cerco una soluzione se gli ostacoli ti creano guai”.  E’ una scuola seria, non lassista!

Se questo è vero in generale, lo è ancora di più in questa terribile fase COVID nella quale i bambini e i ragazzi vivono oggi eventi inediti, di cui non abbiamo memoria comparativa, dentro una tempesta sociale, sanitaria, ed emotiva a fortissimo impatto individuale e collettivo. Si può insegnare una qualsiasi cosa  senza tenerne conto? Anzi:  come si fa ad apprendere se dentro di noi c’è la tempesta emotiva?

La relazione educativa dunque non è semplicemente confinata da quel generico modo di dire nel profilo del docente come “competenze psico-pedagogiche”, una tra le altre competenze, ma è elemento strutturale e trasversale del lavoro  docente.

  1. La tempesta emotiva dei nostri bambini e ragazzi oggi, e i rischi iatrogeni

Le ricerche di cui scrive Dario sulle crisi emotive dei nostri bambini e ragazzi  sono cospicue:  c’è uno stato diffuso di smarrimento, di stress, di alterità, di incertezza, di solitudine, e soprattutto di incertezza sempre più forte sul domani, anche quello più vicino. Quando finirà questa tempesta?
Questo prolungarsi e  della pandemia aumenta a dismisura le crisi già presenti nel primo anno.
La tempesta produce anche  casi clinici  drammatici. In questi mesi ho seguito e raccolto storie di suicidi e tentati suicidi, di autolesionismo, di isolamento fino al fenomeno kikomori, di anoressia o bulimia. Ma questi casi sono solo la punta di un iceberg molto più vasto sotto la superfice di diversi stati emotivi, spesso più  semplici ma sempre più diffusi e ma comunque duri.

C’è oggi il rischio di pensare che ad ogni “sintomo di dolore”  basti riferirsi al medico o allo psicologo, come se per le sofferenze non servisse la relazione educativa. Il che è paradossale: nel primo periodo del lockdown (primavera 2020) si imparò nei fatti che una Dad che volesse scimmiottare online la lezione tradizionale o la “normalità dell’aula” rischiava due fallimenti: apprendimenti incerti ma anche stati d’animo più tristi, ragazzi  sperduti nella solitudine del video, cui non si chiedeva come stavano nei loro sentimenti, ma di rispondere alle domande curricolari.  Perfino con la buona fede di pensare che se si “evitava” di trattare la condizione esasperata di confinamento questo poteva essere meno doloroso. Insomma una specie di finzione amnesica.  Oggi questa contraddizione  è più importante da considerare, visto il prolungamento di questa fase pandemica “straordinaria”  (intesa come strana) con l’aumento della sofferenza.

Il rischio di una intensa medicalizzazione è elevata.  La scuola con la relazione asimmetrica adulti/ ragazzi e quella tra pari sono invece  “luoghi esistenziali” che alleviano con il   “prendersi cura”  (o sfasciano con la sua mancanza) i tanti  e diversi dolori.  Dobbiamo quindi considerare questi prossimi mesi, così ancora incerti e difficili,  come un periodo in cui lo sguardo pedagogico della cura educativa sia la base del nostro agire,  qualsiasi siano le condizioni di lavoro.

Rischiamo altrimenti  una deriva iatrogena, cioè di etichettare oltre il lecito e il giusto le diverse storie dei nostri ragazzi,  isolandoli nel cerchio della certificazione, della terapia, della “dispensa”, cioè all’assistenzialismo che produce dipendenza e abbassamento delle attese dell’io.
Penso spesso, per confronto,  a come mia mamma e mio papà erano durante la guerra. Avevano tra i 10 e i 15 anni. La guerra è passata dura nelle loro vite. Se un qualche psicologo li avesse visitati  a quei tempi avrebbe trovato molte  patologie. Eppure il dopoguerra fu un  miracolo: una generazione di bambini maltrattati dalle guerre vissero i tanto celebrati “favolosi 30 anni”.

Ci vuole dunque molta attenzione a non catastrofizzare eventi drammatici della vita. Se ne potrebbe uscire anche migliori ,con una maggiore capacità di resilienza davanti alle disavventure. E’ con questo sguardo che la nostra “cura educativa”  deve saper trovare il giusto equilibrio  tra comprendere e sollevare il dolore diffuso nello loro anime, ma anche quella di far leva nelle loro forze interiori, nei loro talenti e passioni,  nel saper dare uno scopo al dopo e al dopodomani.

  1. L’io docente nella relazione ai tempi della pandemia

Quale comportamento docente è più opportuno, in questa fase complicata, per gestire una “cura” educativamente saggia?
Trovo giusto che gli insegnanti no-vax  non insegnino  e non solo per motivi sanitari.  Il nostro paese ha scelto di adottare il principio costituzionale della priorità della salute come interesse pubblico (e quindi il vaccino). Da qui ripartiamo.
Ma ho riscontrato anche la presenza, umanamente comprensibile,   di docenti che si trovano in una fase emotivamente fragile della loro vita. Aver paura non è una colpa.
Mi raccontano a volte  di colleghi  ansiosi,  che emotivamente si isolano in una fisica e psicologica “distanza” relazionale. Penso che avremmo dovuto capire e aiutare questi colleghi.

Ma ora proviamo a precisare alcune caratteristiche di cura educativa che gli insegnanti dovrebbero, a mio avviso,  avere in questa difficile fase. Ne segnalo quattro.

Empatia.

Che, come noto non è simpatia o antipatia. E’ sentire l’altro, fargli capire che lo sentiamo, con discrezione, senza invadenza esagerata. Si può anche chiamare scaffolding, con Bruner. Uno stile relazionale dove si sta dietro non davanti all’altro,  che non si obbliga a parlare o fare, ma si incentiva ad agire, perché lui sa che se cade ci siamo noi dietro  a tirarlo su. E’ per la verità un paradigma di tutta la didattica attivistica, utile sempre, ma in questo periodo necessaria.

Equilibrio

E opportuno avere uno stile relazionale sereno, sobrio, offrendo sicurezza,  evitando eccessi sia di ansia che di superficialità. Non è un periodo facile per nessuno, ma il bambino e il ragazzo devono sentire che l’insegnante è un adulto. E solido.

Creatività e flessibilità

Le diverse e complicate situazioni di lavoro di questi mesi ci obbligano ad avere una maggiore flessibilità nell’organizzazione dell’attività scolastica. Potrebbe anche essere la volta buona di sperimentare  didattiche innovative, e soprattutto evitare che le regole sanitarie impediscano o riducano forme di didattica attiva. Forse serve una riscoperta dell’attivismo,  oggi più importante che mai perché può dare ai ragazzi una più felice pratica di  partecipazione, piuttosto che  essere passivi ascoltatori chiusi nella loro mascherina. Questa è la pedagogia della cura necessaria.

Adattamento

Questa è forse la dote più difficile da spiegare evitando equivoci. La vita a scuola è per forza di cosa diversa dal passato, e giorno per giorno possono cambiare molte cose. Significa per chi ci lavora trovare forme di adattamento positivo e flessibile secondo le diverse avversità. Un eccesso di rigidità e formalismo rende la scuola più dura per tutti, anche per chi insegna.

  1. Proposte per agire, stimoli per costruire il positivo

Ed ora, la parte che più mi interessa approfondire: cosa potremmo fare?
SI aprono sei mesi duri, con poche certezze. Potremmo avere situazioni  varie in vari periodi, dal confinamento  per positività, alla quarantena preventiva, al ricovero ospedaliero, sia per studenti che per insegnanti. Potremmo avere classi strappate a metà tra “presenza” e Dad.

Le ultime decisioni del Governo per la scuola prevedono di fatto un sistema differenziato perfino da classe a classe, cioè  non più il precedente modello del lockdown generalizzato a tutti nello stesso periodo a prescindere dalla  salute  individuale.  Questa è la novità essenziale da cui partire.

Inutile negarlo: una condizione molto difficile da gestire dal punto di vista didattico, che ha bisogno di due atteggiamenti professionali e organizzativi fuori dal canone classico dell’orario scolastico standard uguale per tutti:

la flessibilità didattica, preparandosi  a gestire diverse situazioni, periodi diversi tra loro, condizioni diverse tra gli stessi alunni. Proviamo a rovesciare il dramma in opportunità: potrebbe essere il momento di utilizzare forme di flessibilità inedite che possono perfino essere più gradite e efficaci del rito lineare tradizionale. Finalmente l’autonomia didattica prevista dal DPR 275/99 potrebbe diventare simpatica e certo utile, dopo vent’anni di amnesia e di boicottaggio. Servirebbe ai bambini e ragazzi fare una scuola sui loro tempi, non sul rito lineare settimanale.

l’accomodamento ragionevole. Utilizzo qui un ben termine ripreso dalla Carta dei diritti della persona con disabilità dell’ONU del 2006, allargata a tutti i nostri bambini e ragazzi.      Adattamento è  la capacità di fare istruzione il meglio possibile nelle condizioni  date,  che ci obbligano a mettere al centro i  ragazzi più che le discipline. Ce lo chiede la loro condizione esistenziale, che ha bisogno di  opportunità di apprendere  come lievito di curiosità, coinvolgimento, desiderio,  passione.

            Ragionevole è accettare che questo non è un periodo normale, che non si può ripetere il passato in forme ristrette,. ma che conviene puntare ai saperi e alle esperienze essenziali, non pretendendo quantità ossessive ma conoscenze e competenze fluide e interconnesse.

Partendo da queste due pre-condizioni, presenterò qui alcune proposte per una buona pedagogia della cura  attraverso alcune idee-stimolo, esempi-tipo, senza pretesa di una summa, mettendo insieme una buona cura educativa e una buona ragionevole didattica.
Ovviamente sono schegge di azioni  perché mi fido della fantasia e creatività degli insegnanti, se riacquistano  l’autonomia didattica libera, pur troppo scippata in questi anni.

4.1  Il perdere tempo

I lettori più attenti si saranno chiesti perché ho posto all’inizio una frase del Piccolo Principe.

Si parla della sua relazione con una rosa cui ha dedicato molta cura e attenzione. Il valore sta in quel perdere tempo che, come si sa dalla storia, è stato tempo intenso. Nel  perdere tempo sta la mia prima proposta di cura. Significa preoccuparsi meno del calendario  e più del tempo di cura che si passa parlando, riflettendo, creando comunità di parola e di ascolto tra noi e loro.

E’ evidente che avere cura non è perdere tempo, ma anzi guadagnarlo  nello sviluppo di significati, emozioni, confronto di esperienze, saper connettere eventi ed emozioni. E’ per me una fase essenziale della cura, diversa ovviamente secondo le diverse età. Dare tempo alla parola e al pensiero sui vissuti interiori è in questo momento centrale per una relazione educativa di cura. Non serve a fare una specie di “ricognizione indiretta” dei diversi dolori , ma invece a socializzare i diversi stati e darne una ragione e un senso. Potrebbero nascere molte connessioni anche con i saperi esterni ai ragazzi,  che avrebbero al centro non un certo capitolo di un manuale ma “un interesse” reale dei nostri studenti. Dario Missaglia sostiene che questo è tempo di lavoro, che andrebbe registrato in un diario, e sono proprio d’accordo: non è perdita di tempo, ma guadagno di senso. Un tempo professionale autentico che va riconosciuto.

Il perdere tempo è una suggestione pedagogica per il brutto tempo presente che mi affascina per la sua intrinseca utilità ma anche per il valore solidaristico e civico che produce.

  • Una cura educativa al telefono

Un piccolo suggerimento-stimolo che potrebbe avere diverse varianti e che tocca un tema centrale nella cura: il saper agire verso ogni persona partendo dall’individualità.
Accadrà ancora nei prossimi mesi che i bambini e i ragazzi debbano stare a casa o perché contagiati o perché in quarantena.
Potrebbe quindi essere una buona consuetudine se l’insegnante si fa vivo con una telefonata per salutare il suo studente, sapere come sta, fare due chiacchiere. Ovviamente anche questo  è per me tempo vero di lavoro. Questo contatto diretto e individuale, perfino sorprendente per chi lo riceve,  ha un significato pregnante a fronte di un ragazzino chiuso in casa e pieno di paure. Dà il segno dell’I CARE, dell’ “io ti penso”, del sapere che non sei solo.

Quest’idea me l’ha data un bambino triste di 5.a primaria che ha scritto a maggio 2020 alla maestra un messaggino che mi ha commosso. Scrive così: “Maestra, scusami se ogni tanto ti telefono. Te dici sempre che dobbiamo essere ottimisti. Allora quando  sono nervoso ti chiamo. Sento la tua voce e mi calmo”.  Questo si aspettano i bambini da noi: l’ascolto e la calma.
Se ogni ragazzo chiuso in casa per quarantena ricevesse una telefonata dal suo prof non se la dimentica più. Forse studierà anche più volentieri al ritorno a scuola.
”Sento la tua voce e mi calmo”. La voce capite? Non le tabelline o la storia. Straordinaria lezione di quanto possiamo contare per loro.

  • Lavorare per curricoli adattati e ragionevoli: l’autonomia creativa

E’ probabile che il calendario delle lezioni verrà spesso travolto dalle varie vicissitudini del COVID.  Potrebbero essere assenti anche alcuni insegnanti.
E’ forse giunto il momento  del coraggio della flessibilità curricolare, adattata secondo le diverse condizioni,  ore utili e flessibili secondo la situazione di fatto. Questo non è difficile in una scuola primaria e facilissimo in una dell’infanzia. Ma è ora che ci provino anche le medie e superiori.  Porto qui alcuni esempi da sviluppare. 

  • pratiche di flessibilità organizzativo-didattica

Si potrebbero sperimentare curricoli con didattiche brevi aggregando più ore di una disciplina per settimana.

Si potrebbe lavorare per centri di interesse che coinvolgono più insegnamenti, in cui l’intercambiabilità dei docenti facilita il lavoro, anche con una ricerca degli snodi essenziali.

Si potrebbe lavorare più frequentemente per gruppi laboratoriali, in cui la questione presenza e distanza potrebbe essere adattata a gruppi che condividono un comune lavoro

Più in generale, è opportuno che in questo periodo si utilizzino il più possibile pratiche di didattica attiva,  in forme flessibili. Proprio la cura necessaria ci chiede di dare ai ragazzi opportunità di apprendimento come protagonisti, interagenti,  ricercatori e comunità.   Potrebbero essere moduli interdisciplinari, ma comunque (nel rispetto delle regole) momenti e eventi in cui il ragazzo fa con gli altri, non solo ascolta.

  • Pratiche di metodologica didattica attiva

Ed ora alcuni suggerimenti di carattere metodologico-didattico, tra le molte possibilità, spesso già note. Sono alcune proposte-stimolo nel vasto panorama didattico, che mettono insieme l’innovazione didattica  con una migliore “cura” della fase emotiva e sociale dei nostri ragazzi.

Tutti i suggerimenti qui proposti hanno carattere di attivismo, di comunicazione interpersonale, di ricerca e possono avere adattamenti di grande flessibilità, anche potendo realizzarsi in forme “miste” con ragazzi in presenza e contemporaneamente in Dad.

            Flipped classroom.  Cioè le classi rovesciate, dove i ragazzi si documentano e fanno ricerca su un certo tema prima che se ne parli a scuola. Poi, nell’aula virtuale o fisica, discussione e presentazione da parte dei ragazzi del loro punto di vista, con un lavoro di scaffolding socratico del docente che lievita ed alimenta la discussione   per  giungere ad una consapevolezza comune.

            I brevetti alla Freinet. attività individuali di studio-ricerca autonomamente scelte che ogni ragazzo approfondisce partendo dalle proprie passioni e interessi, che poi presenta nel gruppo di pari, come esperienza di comunicazione orizzontale, effetti di cooperazione,  e auto-valutazione possibile da parte dello studente.  Scrivendo questa proposta, mi sono ricordato della mia antica scuola media (anni 63-66) in cui il prof. faceva un po’ il Freinet, probabilmente non conoscendolo. In geografia in prima ci ha fatto scegliere una regione da far diventare ”nostra”, in seconda uno stato europeo, in terza uno extraeuropeo. Curiosa è la mia scelta: in prima il Friuli VG (terra dei miei nonni), in seconda l’Austria (perchè mio padre era andato a Vienna a veder la finale di coppa campioni Inter – Real Madrid, gol di Mazzola), la terza l’Argentina perché avevo lì uno zio prete salesiano. In tutti e tre gli anni ricordo ricerche appassionate (dai libri alle foto alle cartoline, ecc..), dall’Argentina mio zio mi scrisse una lunga lettera geo-politica e materiale. Nel lavoro d’aula ad ognuno di noi veniva chiesto di presentare “la sua” regione o nazione. Questi tre luoghi geografici mi sono ancora oggi un po’ rimaste nel cuore.

            Freedom writer. Se qualcuno ha visto il film mi capisce: una classe di ragazzi di una zona disperata della California, un’insegnante intelligente  propone loro di scrivere un diario personale con tutte le cose che gli passano nella loro tormentata mente. Ne esce un capolavoro didattico e l’incontro con…Anna Frank e il suo diario. La scrittura come comunicazione e riflessione è aspetto importante dello sviluppo, individuale e collettivo.  Vi possono essere molte varianti che oggi con la tecnologia si possono fare a prescindere dall’aula fisica e dall’orario settimanale. Penso alla corrispondenza scolastico con classi e scuole di altri luoghi. Ma potrebbe essere anche la ripresa del giornalino scolastico, che oggi i computer rendono possibile colorati e ricchi.

            la scrittura collettiva. Più seriamente, amo proporre la scrittura collettiva di don Milani e di Mario Lodi: un lavoro che parte da testi individuali, costruisce con una discussione collettiva un testo comune condiviso. Un’operazione cooperativa di grande efficacia relazionale, e di civismo.

            La cura  tra pari.  In questa fase la relazione con i compagni di classe e di scuola è già di per sé un evento di cura. Dunque, sia che siano a scuola sia che siano a casa, si devono favorire forme di comunicazione, di solidarietà  e di auto-aiuto tra compagni di classe come forma comunitaria  di uscirne insieme. Sarebbe anche un eccellente modo di sostituire quelle cose orrende dette “recuperi”  con pratiche di apprendimento dove ci si aiuta a vicenda.

            Questo è il momento di rovesciare la sventura del COVID con una nuova avventura pedagogica, che non solo aiuti i ragazzi, ma dia anche un senso di cambiamento  positivo per gli insegnanti. Anche loro hanno bisogno di passare dalle isole separate per discipline a comunità realmente educanti, non a parole.

  1. Non dimentichiamo la disabilità

Gli alunni con disabilità hanno pagato i diversi lockdown e le restrizioni legate al COVID molto più di tutti gli altri compagni di classe. Su di loro una pedagogia della cura deve essere ancora più attenta e di adattamento ragionevole.
Nella crisi complessiva dell’inclusione nelle nostre scuole, il COVID ha reso ancora più isolati e soli questi bambini e ragazzi. Sarebbe grave se si tornasse a circolari ministeriali  che rendevano possibile il loro ritorno a scuola “da soli”, tanto per fare badantato,  o magari (se la scuola è buona) con alcuni altri bambini o (peggio) con altri disabili . Cioè l’anticamera delle scuole speciali.
Molte delle proposte-stimolo sulla flessibilità didattica sopra presentate possono facilitare l’accoglienza dei nostri studenti con disabilità, ognuno titolare di un pensiero, di desideri e passioni, ma anche dolori.  Perché l’accoglienza diventi invece un’appartenenza a pieno titolo.
Questi sei mesi sono importanti per costruire  azioni di una nuova gruppalità solidale tra pari. Ne hanno bisogno tutti, anche gli altri.  Perché la solidarietà serve a tutti reciprocamente, aiutare e aiutarsi. Perché, come sempre, sortirne insieme è la Politica.

Qui mi fermo. Non parlo qui del futuro più lontano dei prossimi sei mesi. Mi pare già tanto provare a non perdere o sfasciare la scuola  in questo breve periodo. Breve ma delicatissimo, perché la crisi COVID rischia di lasciare troppi segni  permanenti. E’ adesso l’ora di reagire e di ripensare al pedagogico. La pedagogia della cura è il nostro orizzonte  attuale.




Le 25 ore di formazione sull’inclusione: come farle fallire nell’indifferenza generale

L’amico e collega Mario Maviglia, in un recentissimo articolo su Nuovo Pavone Risorse dal titolo “Come uccidere la formazione senza essere scoperti” descrive criticamente le 25 ore di formazione “obbligatoria” sulla disabilità previste dalla Legge finanziaria 2021 (10 milioni di euro) che sta insabbiandosi per i niet sindacali sul “contratto dovere-diritto”, cioè il nulla e per una organizzazione arruffata e frettolosa che dovrebbe concludersi….da oggi entro metà novembre, perché i ragionieri del MIUR devono rendicontare.
Riprendo il tema con grande tristezza.

Ad un anno dalla finanziaria, dopo discussioni infinite esce un corso militarizzato e generico offerto ai docenti curricolari che nulla sanno di disabilità. Lo scopo sarebbe quanto mai nobile: sensibilizzare anche i curricolari su un tema inclusivo delicatissimo perché troppo spesso “delegano” ai poveri “sostegni” l’inclusione facendo finta di nulla. Nel suo piccolo, sarebbe stata un’occasione d’oro, se pensata bene, di un primo dovere deontologico da espletare ampliando la conoscenza per tutti di un tema molto delicato. Mi sarei atteso dai sindacati (almeno quelli confederali, quelli dei soi disant “diritti”) un’attenzione diversa dei niet a priori, ma invece un’attenzione maggiore alla qualità formativa, visto la delicatezza “sociale” del tema.
Il Ministero è così “strano” che nell’ ultima circolare “invita” gli insegnanti curricolari a partecipare e con questo verbo crea confusione massima se si deve o si può. Insomma il rischio è di corsi in fretta e furia (la sveltina pedagogica) e realizzata nel caos gestionale sul diritto/dovere.


Si fa presto a riderci sopra, ma che tristezza. Il dilemma diritto/dovere alla formazione resta una burla, e il rischio è di un flop, che pagheranno (come sempre) gli alunni con disabilità.
Preso dalla rabbia civile, racconto qui due storie che ho raccolto in Europa su come si fa formazione. Non per invidia di chi è più bravo di noi, ma per capire come siamo fuori dal mondo.

Storia Germania: racconta un collega ispettore tedesco, in un incontro anni fa in Italia, che “tutti gli insegnanti da loro fanno almeno 15 giorni all’anno di formazione su temi comuni ed elettivi. Sono ospitati in alberghi ad hoc, spesso castelli recuperati, con una buona cucina perché si cura l’ospitalità degli insegnanti”. La riunione avviene negli anni in cui in Italia c’era per contratto il “bonus formazione” che rendeva possibile uno scatto di carriera. Più di un italiano presente fa la domanda delle domande: “Ma è davvero obbligatorio? Cosa ci guadagnano a fare questi corsi? E se un insegnante tedesco dice no cosa gli succede?”. Il collega tedesco fa fatica a capire, non sa del bonus. Poi risponde “Gli insegnanti hanno il viaggio pagato e il soggiorno gratuito, in alberghi molto belli. Non serve altro”. Non so perché ci tiene anche a ricordare la buona cucina. Poi continua “Se un insegnante tedesco non partecipa gli accade la cosa peggiore che può capitare ad un insegnante tedesco: la riprovazione dei colleghi!”. Ah, la terra del beruf di Lutero!

Storia URSS: una sindacalista sovietica, ai tempi di Gorbaciov, mi racconta cosa succede agli insegnanti sovietici: “ogni sette anni circa, hanno tre/quattro mesi di soggiorno gratuito in Crimea, organizzati dal sindacato”.
Finalmente al caldo: pensate un insegnante che viene da Irkutsk o Arckangels”.
Poi continua: “In quei mesi, si rifà i denti se serve, fa le terme, si fa curare se ha particolari malattie. E intanto fa dei corsi di formazione su diversi temi”.
Poi alla fine un esame: “Promosso (aumento stipendio), rimandato (rifà i corsi al freddo nella sua città), bocciato: cambia mestiere”.
A me l’idea della Crimea-sanatorio del corpo e della mente fa un simpatico e salutare effetto. PS. I paesi dell’ex Urss (tutti, dal Kazakistan alla Lituania) considerano gli insegnanti con grande rispetto e stima. Non c’è la divisione tra maestri e professori (sono tutti chiamati “maestri”), vengono da lauree pedagogiche prima che disciplinari.
Non a caso sono gli unici che vengono chiamati col patronimico, che neppure verso Putin si usa quasi più.




Il tempo della scuola, il tempo della disabilità

di Raffaele Iosa

Mi sento obbligato a riprendere l’analisi delle querelle nate dalla recente sentenza del TAR Lazio del 13 settembre che annulla il DM 182, detto del Nuovo Pei.

In un recente articolo del 15 settembre (Azzeccagarbugli e nuovo PEI) ho già dato una valutazione complessiva delle Sentenza, del Decreto annullato e gli effetti nel presente e nel prossimo futuro.

Ho lì scritto sulla dura lezione prodotta dalla Sentenza sul modo di produrre normazione secondaria da parte del Ministero, su un Decreto troppo militarizzato e bulimico di ordini, sulla “crisi” dell’ICF che come un’araba fenice c’è e non c’è. Sento tensione, e accese incomprensioni se non litigi tra  diversi esperte di inclusione, che determinano sconcerto negli insegnanti e nelle famiglie.  C’è confusione, che non fa bene al futuro del tema PEI e dintorni, né ad una  serena e più sobria ricomposizione della questione, con il rischio che il tutto slitti alle calende greche.

C’è però una ragione per cui mi sento in dovere di riprendere il discorso e riguarda  la CM n. 2044 del 17.09.2021 a firma del dg. Ponticello che invia  prime indicazioni  di comportamento alle scuole per via degli effetti della sentenza del TAR Lazio.
Una circolare necessaria, ovviamente, ma che a mio avviso contiene un travisamento della Sentenza e un irrigidimento non richiesto sul tema (delicatissimo) del tempo di frequenza da scuola degli alunni con disabilità.

La frase che mi pare discutibile è la seguente:

Non può essere previsto un orario ridotto di frequenza alle lezioni dovuto a terapie e/o prestazioni di natura sanitaria – con conseguente contrasto con le disposizioni di carattere generale sull’obbligo di frequenza – in assenza di possibilità di recuperare le ore perdute”.

Temo che anche in questo caso, per contrasto degli opposti col prima,  il Ministero esageri.

  1. Il tempo della disabilità

Prima di precisare  cosa a mio avviso la Sentenza del Tar Lazio dica su questo tema, è utile un approfondimento pedagogico, altrimenti non comprendiamo la complessità di questo argomento.

  • Il tempo per una persona con disabilità è questione importante, delicata e complessa.

Si pensi alle attese per i dolorosi e lunghi tempi di attesa per visite, terapie; o il tanto tempo a cercare, da parte delle famiglie, aiuto, comprensione, proposte, attenzione.
Si pensi all’angoscia di sapere che se non si fa bene tutto quando i figli con disabilità sono piccoli  (educazione, terapie, riabilitazione, ecc..) si rischia che la vita adulta (quella sì oscura e lunga)  sia più drammatica. Si pensi alle tante notti in bianco sul destino del loro figlio.

1.2 Non esiste un tempo uguale per tutti i disabili perché nessun disabile è uguale all’altro. La disabilità è parola astratta, esistono persone, ognuna nella propria condizione, diversa anche se afflitta da un medesimo stigma diagnostico. Esistono diverse fasi della vita, diverse opportunità secondo tante variabili, dal reddito familiare, la zona di residenza, e così via.

1.3 Il rapporto tra tempo della scuola e di vita di una persona con disabilità è per natura variabile secondo la condizione hic et nunc di ognuno.  Intanto: i bambini e ragazzi con disabilità che incrociano insieme scuola e terapie non sono tanti come si crede,  in prevalenza negli anni della scuola dell’infanzia (lì il tempo è volatile per tutti, tra malattie frequenti e regressioni di attaccamento) e nel primo ciclo. Riguardano condizioni esistenziali, fisiologiche, neurologiche, di coscienza e di comportamento in genere  gravi se non gravissimi. cioè proprio i  casi in cui  il tempo è determinante, drammatico e pieno di attese. Per ognuno esistono percorsi clinici ed educativi individualizzati, non a caso anche a scuola c’è la necessità di un PEI!

La variabilità scuola/terapia è immensa, nella mia lunga esperienza ne ho viste di tutte i tipi.

C’è il bambino gravissimo che, in carrozzina e in condizione di semiveglia riesce a stare a scuola due ore al giorno, ma la scuola e la famiglia sono felici di offrire spicchi di umanità e  comunità. Cosa volete che importi a babbo e mamma se si farà “matematica” o che voto prenderà? Volete che si preoccupino del tormentone giuridico del cd. “esonero”? Ma via.
C’è il bambino che fa terapia al mattino perché ci sono pochi terapeuti (si sa, no?). E il problema dov’è: nell’eterea e agnostica “norma” della frequenza o non invece di come si correla  il tratto “educativo” e quello “terapeutico”, cioè se i due si parlano, agiscono o no in parallelo, se l’uno supporta l’altro e viceversa? E’ questione “formale” del tempo scuola o non invece questione sostanziale della governance professionale che ci chiede la Legge 328/2000, troppo scordata, e se il PEI e il Progetto di vita sono due facce della stessa medaglia e non invece –come spessissimo accade- due atti che non si incontrano?

E’ nella governance locale che si deve trovare quell’accomodamento ragionevole che ci chiede la dichiarazione ONU del 2006. Cioè fare in modo che i diversi tempi si armonizzino e rispettino i tempi della persona con disabilità, non  quelli dei diversi professionisti, per evitare il più possibile che il bambino perda scuola e il più possibile faccia terapia in tempi necessari.
Ed è proprio questo, come si vedrà avanti, che per la verità suggerisce la Sentenza del Tar!

Ci sono infine quelli che io chiamo (con estrema empatia) i “bambini cattivi”,  con stigmi clinici a sigle forti tipo ADHD o DOP, ecc.. Bambini che creano trambusto, con le famiglie (degli altri) che ne chiedono o sospensione o  trasferimento, e che a volte (per sfinimento) si tengono a casa alcuni giorni per “decongestionare” la crisi  che non è mai di uno ma di tutti.

Insomma il tempo della scuola e il tempo della disabilità sono in natura  un’armonia complessa, a volte drammatica,  e non riesce a stare dentro alcun comma algido valido per tutti.
Dunque, come si fa a trattare un tema così’ delicato con soluzioni radicali e formalistiche?
Posso capire la querelle sulle ore di sostegno date alla scuola se non siano troppe rispetto al tempo reale di frequenza, ma in questo caso sta alla scuola non imbrogliare la richiesta. Come se poi questo tema fosse così vasto e così accanitamente da misurare!

  1. Cosa dice al proposito la Sentenza del Tar

Veniamo ora ad una riflessione attenta alla Sentenza. Ho già detto che a mio avviso la CM Ponticello ha travisato su questo punto.
Ho letto attentamente la Sentenza, ma anche il ricorso del ricorrenti e mi pare di poter dire serenamente quanto segue.
La Sentenza del TAR, tra le varie previsioni presenti nel Decreto annullato in quanto “esorbitanti dalla delega ricevuta” e addirittura “in contrasto con le norme internazionali in materia di tutela della disabilità” , cita la “facoltà di predisposizione di un orario ridotto di frequenza alle lezioni”.
Nel citare questa previsione, al punto 7.2. del documento, utilizza un’espressione che vuol porsi evidentemente quale sintesi del contenuto del ricorso avanzato. Infatti le parole esatte utilizzate per introdurre la questione sono: “Per quanto riguarda gli innovativi istituti contemplati dal decreto impugnato… devono trovare accoglimento le doglianze contenute nella sesta, nella settima e nell’ottava censura del gravame, con particolare riferimento alle previsioni contenute nel decreto impugnato, e nei suoi allegati, relative a:”.
Poi prosegue infatti, sempre allo stesso punto 7.2, elencando le varie questioni, e sintetizzando l’essenza dell’esposto che il Tribunale ha ricevuto registrando le parole dei ricorrenti, tra cui esattamente quelle inerenti la frequenza scolastica.
L’espressione positiva giurisprudenziale è però contenuta nel successivo punto 7.2.1, dove la Corte invita a “garantire la piena inclusione degli studenti disabili, cui la personalizzazione delle misure di sostegno rappresenta lo strumento cardine” nel rispetto delle “norme internazionali di rango pattizio, quali la Convenzione O.N.U. per i diritti delle persone disabili, ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18/2009”, che impongono “l’adozione degli adattamenti necessari per assicurare alle persone affette da disabilità il godimento e l’esercizio, in condizione di uguaglianza con gli altri consociati, dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in ossequio al principio dell’accomodamento ragionevole”.

In base a tale principio, il TAR esorta al rispetto della ratio in essa contenuto ovvero “che debba essere il contesto, inteso come ambiente, procedure, strumenti educativi ed ausili, a doversi adattare agli specifici bisogni delle persone disabili, e non viceversa.”.
Questa parte della Sentenza è sorprendentemente chiara e di grande spessore propositivo. In sostanza chiede “accomodamenti ragionevoli” non di autorizzare qualsiasi uscita da scuola,  nè  la naja obbligatoria di tutte le ore obbligate a scuola, né chissà quali recuperi di ore.
Ma c’è di più, anche in senso lato erga omnes. Le assenze per terapie e/o prestazioni di natura sanitaria sono sempre ammesse e valgono per tutti gli alunni della scuola italiana; tali regole, sulla base di quanto stabilito dai Collegi docenti, incaricati di “definire i criteri generali e le fattispecie che legittimano la deroga al limite minimo di presenza”, a fronte di “casi eccezionali, certi e documentati” (fra questi sono annoverati: “gravi motivi di salute adeguatamente documentati o terapie e/o cure programmate” (CM 20/2011), non sono quantificate neppure per il raggiungimento del tetto minimo di frequenza finalizzato a rendere valido l’anno scolastico. Tetto che, peraltro, non è previsto nella scuola dell’infanzia e neppure nella scuola primaria.

Anche la questione relativa alla “possibilità di recuperare le ore perdute” è legata a un’espressione ripresa, dal TAR, dall’esposto dei ricorrenti, ma è risolta, nella stessa sentenza, con l’esortazione ad applicare il principio dell’accomodamento ragionevole e non con una ragionieristica e solo quantitativa contabilità. Ove vi siano molte assenze, l’unico discrimine presente in normativa è quello che prevede che il consiglio di classe possa disporre di sufficienti elementi di valutazione ai fini di decidere l’ammissione all’anno scolastico successivo. Altro non c’è.

Davvero non si arriva a capire perché seminare preoccupazioni tra i genitori degli alunni con disabilità quando le assenze per terapie e prestazioni sanitarie sono di fatto consentite e, ove ciò sia necessario, non saranno conteggiate ai fini della validità dell’anno scolastico, coerentemente con quanto stabilito dalla  normativa vigente in materia (DPR 122/2009, Nota Prot. n. 7736, 27 ottobre 2010, CM 20/2011).

Altra questione, invece, è sostenere, com’è giusto, che si dovrebbe evitare, ogni volta che ciò è possibile, di collocare le terapie in orario scolastico. Inoltre deve essere chiaro che quello che il TAR ha bocciato non è la possibilità di assentarsi giustificatamente per i motivi anzidetti ma le “decisioni arbitrarie” di ridurre l’orario scolastico sulla base di motivazioni che possono spaziare dalla necessità di terapie fino alla non programmabile presenza del docente specializzato o altre ancora non indicate e “non indicabili” E aggiungerei a volte indicibili…, comunque connesse alla condizione dell’alunno con disabilità e, quindi, discriminanti. Non è quindi stata proibita neppure la progettazione, da sempre utilizzata nelle migliori pratiche, di percorsi graduali per gestire in flessibilità le particolari situazioni che si devono affrontare, anche dal punto di vista dei tempi, per realizzare il diritto, senza operare però “lesioni a monte” dello stesso. Si deve trattare appunto di progettazione e non di predeterminazione!

Questo è il mio punto di vista, detto serenamente e con onestà intellettuale.




“Nuovo PEI” annullato: azzeccagarbugli e scuole in difficoltà

Disegno di alunna del primo anno della primaria di Vistrorio (TO)

di Raffaele Iosa

Il TAR Lazio il 14 settembre scorso ha letteralmente annullato il Decreto interministeriale n. 182 del 29.12.2020 e le linee guida allegate,  chiamato in gergo del ”Nuovo PEI” per gli studenti con disabilità. Un testo molto atteso e su cui molti hanno lavorato in questi mesi.

A chi conosce poco le tecniche giuridiche di normazione secondaria (cioè quelle delle amministrazioni in applicazione di una legge) o non è esperto di disabilità può sfuggire la gravità di un evento di questo tipo, che è a modo suo eccezionale ed irrituale.

Naturalmente la sentenza ha fatto clamore per ora solo in quei pochi che o per mestiere o per destino si occupano di disabilità.
Ma c’è di più: sia le associazioni di disabili ricorrenti (ovviamente contente) sia quelle che avevano in un qualche modo condiviso il Decreto (ovviamente preoccupate) stanno in queste ore gettando acqua sul fuoco, sostenendo che in fondo non cambierà molto, che ci sono già gli strumenti per continuare nella migliore prassi possibile finora attuata.
E’ nelle cose che il Ministero ricorrerà al Consiglio di Stato per una diversa sentenza o comunque un atto di “emergenza” per salvare il salvabile. In attesa delle prossime puntate, però, una riflessione senza veli è necessaria, perché è mia opinione che per quanta acqua si butti su questo incidente, la vicenda invece butta molta benzina sul fuoco in una fase di gestione dell’inclusione scolastica sempre più turbolenta, litigiosa e confusa non solo sul piano amministrativo ma anche (e soprattutto) pedagogico, che ha già avuto negli anni Covid tante dolorose difficoltà. Quanto meno accentua l’incertezza, delude chi si aspetta soluzioni di qualità. Dopo centinaia di webinar, conferenze, libri e articoli prevalentemente apologetici, chi si fiderà più di quale norma, regola o articolo seguire nella prassi inclusiva?

Una sentenza del TAR erga omnes, una rarità

 Una breve spiegazione è utile per comprendere la gravità della sentenza. Per prassi il TAR interviene sugli atti amministrativi accettando o respingendo i ricorsi dei singoli soggetti che ritengano leso un qualche diritto/interesse per presunti errori o inadempienze. Dunque una sentenza è in genere valida per il singolo caso/soggetto trattato.
Questa volta invece il TAR Lazio, con una lunga premessa giuridica (provate a leggerla, è quasi arabo, ma fidatevi) sostiene una tesi suffragata da pronunciamenti del Consiglio di Stato e della Suprema Corte, per cui si attribuisce la piena titolarità di annullare erga omnes e subito per tutti un intero Decreto Ministeriale!
Nella mia lunga esperienza di ispettore e responsabile anche di uffici inerenti l’inclusione non ricordo un evento simile. Dunque è una cosa seria, molto seria.

Perché l’annullamento del Decreto

Vediamo le due principali motivazioni della sentenza di annullamento.

1.La prima motivazione è che il Decreto 182 l’ha fatta fuori dal vaso, ha cioè normato e prescritto regole che non avevano la delega da parte della Legge 107/15 in quei commi  (c. 180 e segg..) in cui si definivano atti delegati e amministrativi su importanti questioni per la qualificazione dell’inclusione scolastica.  Dunque cosette tipo “abuso di potere”. Beh, niente male!

2. La seconda motivazione, più delicata e tecnica, è di aver introdotto il Nuovo PEI senza che fosse completato un altro decreto delegato richiesto dalla Legge 107 inerente il Profilo di funzionamento secondo l’ICF (classificazione internazionale della funzionalità), che nella logica dei processi di inclusione precede obbligatoriamente la produzione del PEI.
Come noto ai più, il PEI si basava prima sulla diagnosi funzionale e sul profilo dinamico funzionale, strumenti clinici di carattere multiassiale, indispensabili prima di costruire un buon piano educativo.

Al posto della diagnosi funzionale e del PDF la Legge 107 prevede appunto l’ICF e il conseguente “profilo di funzionamento”, una delle novità più significative a livello internazionale per una conoscenza più evoluta della persona con disabilità in chiave bio-psico-sociale,  non solo meramente clinica.
Ma c’è di più. Il Decreto 182 nell’ammettere l’assenza ancora degli atti inerenti l’utilizzo dell’ICF per colpa (come altro chiamarla dopo sei anni dalla Legge?) del Ministero Sanità, indicava l’utilizzo “nelle more” ancora delle vecchie diagnosi funzionali e PDF. Ma c’è di più ancora: nella parte inerente la richiesta di ore di sostegno da parte della scuola (o meglio dal cd. GLO) si inserivano categorie interpretative desunte (solo desunte) dall’ICF chiamate “dimensioni di funzionamento” (sono tre nell’ICF, ma poi nel Decreto diventano…quattro) per ognuna delle quali per ogni alunno con disabilità la scuola propone un “range” di ore di sostegno necessarie.
La somma minima o massima dei quattro range presentati componeva il totale di ore di sostegno settimanali richieste, entro cui l’amministrazione decide l’assegnazione.

Il tutto senza che dalla Sanità arrivassero gli atti di gestione dell’ICF nelle strutture sanitarie deputate. Il complicato metodo di calcolo delle ore di sostegno, peraltro, cercherebbe di razionalizzare il rapporto tra domanda della scuola e offerta dell’amministrazione di ore di sostegno, e si augurava così di superare la iattura delle tante cause presentate dai genitori (soprattutto quelli art. 3 comma 3 –gravi- della Legge 104/92) che in genere grossolanamente impongono all’amministrazione (senza tanti discorsi pedagogici) il rapporto 1:1. Che come noto non è mai un 1:1 sul tempo di scuola dell’alunno ma una cattedra di 25, 22,18 ore settimanali di sostegno secondo gli ordini di scuola.
Un metodo contraddittorio e alla lunga (e paradossalmente) fonte di iniquità distributiva.

Ma proprio questa parte del Decreto, così delicata ed innovativa, non aveva alcun supporto giuridico e soprattutto tecnico-scientifico in assenza della normazione sul Profilo di funzionamento ICF da parte del Ministero Sanità. Dunque il Ministero istruzione l’ha fatta davvero fuori dal vaso.

Tra le righe, ho letto in anteprima l’unica bozza di decreto preparato finora dal Ministero Sanità, un testo sconcertante, confuso e del tutto fuori tema, che è già stato oggetto di conflitto tra i due Ministeri.
Dunque siamo per l’ICF ancora in pieno alto mare, perfino burrascoso.

Dunque poteva il Ministero Istruzione decidere come fare il PEI prima di questo (nella logica procedurale) precedente atto per la certificazione di disabilità e l’inclusione scolastica?

Se qualcuno fa fatica a seguire lo capisco.  Si tratta di questioni di lana caprina o di merito vero? Insomma roba da azzeccagarbugli o temi strategici?  Purtroppo c’è materia per soffrire.

La sentenza poi si sofferma su altre questioni critiche più specifiche, tra cui il termine “esonero” presente nelle linee guida, che aveva prodotto vive discussioni tra le associazioni e gli insegnanti.
Un normale lettore si chiederà cosa c’è sotto questo clamoroso svarione.
C’è, purtroppo, una crisi della politica che non dà stabilità ai Governi (tre ministri in questa legislatura), c’è un’amministrazione che lavora a vista, c’è un’iper-produzione di testi amministrativi super regolatori che dimenticano l’autonomia delle scuole nella didattica e nell’organizzazione, c’è ormai nella disabilità (come in altri luoghi delle rappresentanze) una litigiosità e una continua richiesta di regolazioni rigide per la sfiducia su un sistema scolastico in affanno.
Io ad esempio ho subito interpretato il Decreto come una “militarizzazione” dell’inclusione, con una serie di minuzie regolativa esagerate che rispondono ad un’idea di “giuridizzazione” dell’inclusione, cioè che basti il comma e l’articolo perché tutto vada bene.
Tutte frutto di “trattative” in tempi di forte conflittualità.

Per lunga esperienza, so invece che le norme debbono dire lo stretto necessario e dare fiducia alla pedagogia e all’autonomia delle scuole. Così le tante pressioni delle associazioni, il disinteresse dei sindacati (se non toccano l’orario degli insegnanti…), e forse anche (mi si dice) il desiderio della ministra Azzolina (già insegnante di sostegno) di mettere il sigillo su questo importante atto, hanno prodotto un testo sovrabbondante, che non fa mai riferimento all’autonomia delle scuole (DPR 275/99 remember), ma produce l’ingessatura di procedimenti pesanti e complicati. Posso persino pensare alla buona fede o alla voglia di produrre, ma al livello di un Ministero ciò che conta è la competenza raffinata nel produrre norme evitando errori, la saggezza di saper fare correttamente tutti i passi necessari senza ricerca per forza del consenso ma del buon senso, per un ministro l’equilibrio di governo con azioni in cui si opera armonicamente tra diversi dicasteri. Insomma di evitare pasticci come questo.

Ma chi pagherà questo guaio? Tutti innocenti?

A proposito dell’esonero

La sentenza del TAR si sofferma su un tema che mi sta a cuore, e su cui in conclusione evidenzio la mia critica verso un Decreto sovrabbondante e militarizzato, poco pedagogico molto legalistico.
Il TAR considera grave che nel Decreto si chieda in tutti i PEI le discipline in cui un alunno con disabilità sia esonerato per i più svariati motivi. Il termine, ammettiamo è sgradevole, ma è anche fuori luogo.
I presentatori del ricorso l’hanno chiamato discriminatorio e a rischio di legittimare questi esoneri. Eppure questo aspetto, certamente sgradevole, e che sembra messo più per calcolare le ore di sostegno che per elementi pedagogici, nasconde un vulnus che riflette su quanta confusione vi sia oggi nelle scuole circa l’idea di curricolo. E quanto si siano scordarti gli articoli dal 4 all’8 del Regolamento autonomia DPR 275/99.
L’esonero messo nel testo rivela la mancanza di conoscenza (e promozione) di un’idea di curricolo non spezzettato in discipline separate l’una dall’altra. Ricordo, in più, che dalla scuola dell’infanzia alla terza media non esistono le discipline in senso separato ma le “indicazioni nazionali” entro cui ogni curricolo di scuola può avere mescolamenti, integrazioni, interdisciplinarietà, specificità le più ricche e diverse.
Ricordo in più che ogni alunno con disabilità ha il “suo curricolo” nel PEI e che su questo verrà valutato non sulle discipline in senso stretto. E’ proprio questa la qualità dell’autonomia, perché garantisce flessibilità a tutti gli alunni, non solo a quelli con disabilità.  Dunque l’esonero non esiste, se non nei docenti vecchio stampo della lezione frontale, del manuale e dell’interrogazione. Per questo la parola “esonero” mal posta nel Decreto dimostra anche un’ignoranza e una speranza sul valore profondo dell’autonomia didattica, che ricordo è norma di rango costituzionale.
L’esonero non esiste, esistono le attività che l’alunno realizza nella flessibilità didattica auspicata e prevista dall’autonomia. Dunque una richiesta sbagliata dal punto di vista pedagogico ma che riflette un’idea tradizionalista di scuola pre-autonomia. Diverso, ma solo in parte, è il tema nel secondo ciclo, ma qui l’inclusione è nata per sbaglio (una sentenza della Suprema Corte) e mai compresa fino in fondo in rapporto all’autonomia.

Errori di questo tipo sono frequenti nella normazione sia di legge che ministeriale.  Cito al proposito la grave dizione di “dispensativo” e “compensativo” presente nella Legge 170/2010 quella degli alunni DSA dove la legge “obbliga per diritto” ad avere azioni didattiche “speciali” che speciali non sono ma sarebbero già previste (per tutti) già dalla flessibilità didattica del DPR 275/99.
Ma questa flessibilità è gesto pedagogico di consapevolezza, mentre la dizione della Legge 170 produce una “contrattazione” continua tra famiglia e scuola su “quanta dispensa” e “come compensa” perché fondata su un diritto astratto. Invece dispensa e compensa sono opportunità pedagogiche che è necessario pensare per tutti gli alunni, qualora serva, ma con la coscienza e la deontologia didattica dell’insegnante caso per caso, non sotto la mannaia di avvocati e cause.




Patti territoriali per la formazione: la cassetta degli attrezzi

Stefaneldi Raffaele Iosa e Massimo Nutini

 Indicazioni metodologiche, operative e amministrative sull’ampliamento dell’offerta formativa, sulla progettazione, la coprogettazione e la gestione, per la prossima estate educativa.

1. La progettazione della scuola per il ristoro educativo

1.1. Progettare in libertà

Lo sanno bene gli insegnanti saggi: un progetto educativo segue sempre un’idea e un fine. C’è la scuola, il mondo attorno, uno spazio, un tempo… e dentro ci sono loro: le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi.
Un progetto educativo mette in gioco tutto e tutti, non si rivolge a un pezzetto. Ecco perché i modelli predeterminati, i moduli prestabiliti o i progetti acquistati chiavi in mano ci stanno sempre stretti.
La schematizzazione non si adatta all’educazione. La grande intelligenza abbraccia, la piccola discrimina (Chuang-tzu in Zhuang-zi). Ecco perché l’insegnamento ha il dovere deontologico di essere libero (al pari dell’arte e della scienza).
Per la prossima estate e per il rientro a scuola a settembre progettiamo dunque in libertà e rifiutiamoci di progettare su carta millimetrata. 

1.2. Rientro alla vita della scuola e del sé

Tocca prima di tutti agli insegnanti il dovere professionale di svolgere una seria riflessione pedagogica, sociale, curricolare, esistenziale sulla condizione dei loro bambini e ragazzi dopo 18 mesi del tutto eccezionali, inediti e drammatici.

Tocca loro ri-pensarli dopo un periodo che li ha resi altri dal passato e ideare, desiderare, costruire una matassa di idee che sappia produrre un tessuto di azioni positive per un “rientro alla vita della scuola e del sé”, capace di ristorare le ferite educative del periodo Covid ed anzi, il più possibile trar frutto da un’esperienza complicata sia per i giovani che per gli adulti per migliorare la qualità dell’istruzione.

Dunque è dentro questa matassa composta da tanti fili da tirare uno ad uno che si può trarre una trama per svolgere attività didattiche ed educative a partire dalla vicinissima estate. Non un tassello casuale chiuso in sé, fatto tanto per fare, né un risarcimento emotivo, ma qualcosa di più profondo e utile.

La prossima estate potrà avere una scuola attiva come mai accaduto in passato. Attiva e non solo aperta, perché non sarà tanto l’uso fisico delle aule per imitare la solita scuola a darne il senso e il valore, ma l’attivazione di esperienze in ogni luogo possibile dove sia utile fare comunità, apprendimento in situazione, esperienza di vita e di relazioni. Recuperare cioè la vita e ridarle slancio come la giovinezza chiede naturalmente.
Ovviamente ogni scuola avrà una sua lettura specifica della condizione degli allievi. Ben diversa sarà la riflessione sulla condizione tra i bambini di un istituto comprensivo periferico e quella di un istituto tecnico di città. Ma vorremmo tutte legate da un’idea e un fine che risponda ai bisogni effettivi e diversi con risposte originali e proprie di ogni realtà. 

1.3. Puntare alla qualità

Per il collegio dei docenti e per il consiglio d’istituto, va bene (deve andar bene!), all’inizio, un progetto di massima, che sappia individuare e selezionare le idee più importanti e i fini primari da realizzare attraverso una diversa estate.
Per la scuola un progetto iniziale che già intraveda anche cosa potrebbe essere l’anno scolastico prossimo nella loro comunità educante, di cui l’estate in arrivo è il primo tassello.
Il progetto educativo non può essere stabile come un progetto edilizio. In edilizia è un caso raro che le caratteristiche del terreno si modifichino sensibilmente durante la costruzione di un fabbricato.

In educazione è normale invece che tutto cambi, cresca o regredisca, durante l’esperienza formativa: è un effetto desiderato. Certe volte si deve lavorare molto sull’ambiente, sul contenitore, sul contesto, che necessariamente si fonde con i contenuti.
Nel progetto educativo “quel che sarà” non si può sapere prima perché si lavora allo sviluppo di un qualcosa che non conosciamo mai fino in fondo e che non può e non deve essere manipolato: la persona.
Progettiamo con questo spirito anche le attività di recupero delle competenze di base, di consolidamento delle discipline e di ritrovamento della socialità, della proattività, della vita di gruppo, durante dopo il terribile periodo della pandemia.
Lavoriamo con la qualità che siamo abituati a conoscere e spendiamo meno tempo possibile a riempire moduli. 

1.3. La regia deve rimanere alla scuola

I governanti, locali, nazionali ed europei, prima o poi, dovranno imparare che la standardizzazione nella scuola equivale alla sua negazione (solo per dirne una: anche la modalità di rendicontazione europea adottata dai PON non va bene per la scuola e deve essere cambiata).
Anche per questa estate pensiamo a progetti dinamici, flessibili, personalizzabili, modulari e modulabili in relazione a tutti i variabili fattori che incideranno sui processi educativi che potranno essere messi in atto, dalla quantità di risorse che avremo a disposizione alle persone tutte, piccole e grandi, che concretamente faranno parte dei gruppi con i quali potremo trovarci a operare.
Ecco che la scuola, in un progetto come quello di cui stiamo parlando, può fare un pezzo e non il tutto ma dovrebbe tenere per sé la regia metodologica orientando le diverse attività a realizzare percorsi di sviluppo cognitivo, formativo ed esperienziale.
Infatti, nella produzione di idee e azioni per la prossima estate, la scuola ha da subito la necessità di confrontarsi con ciò che già c’è o è in cantiere nel proprio territorio. Questo per iniziare da subito a pensarsi come comunità dialogante, evitare doppioni, saper calibrare i tempi delle diverse possibili esperienze di vita e socialità dei nostri ragazzi.

Se il periodo è dal 15 giugno al 15 settembre, la scuola può gestire una piccola parte del tempo estivo, distribuita nei modi più diversi, ma può anche partecipare ad una cabina di regia pedagogica di supervisione e condivisione di tutte le attività, comprese quelle gestite da altri.
E poi, non è detto che da questi altri non possa anche arrivare qualche insegnamento per la scuola stessa. D’altra parte nessuno è più capace di noi nell’essere ricettivo. 

1.3. L’analisi del contesto e le situazioni di partenza

In questa primissima e decisiva fase di riflessione e ideazione, è anche utile realisticamente svolgere un’analisi onesta dei potenziali effettivi che la scuola si sente in grado di realizzare.
Conterà, ad esempio, molto quali e quanti insegnanti saranno disponibili volontariamente a dare corpo pedagogico a queste esperienze. Inutile negarlo, questa variabile condizionerà la quantità e la tipologia di moduli di esperienze possibili.
Conterà, inoltre, a quanti e quali bambini e ragazzi si intenderà rivolgere la proposta educativa, se a tutti o no, a partire naturalmente da chi ha più pagato il confinamento di questi 18 mesi.
Conterà anche l’adesione delle famiglie, e certamente sarebbe quanto mai prezioso se le “idee” e le iniziative in cantiere fossero condivise e magari (nel limite dell’età) co-progettate con i bambini e i ragazzi stessi. Non persone-pacchetti da spostare di qua e di là, ma persone (qualsiasi sia l’età) con desideri e pensieri da rispettare e coltivare.
Conterà, naturalmente, l’appetibilità sociale, il significato umano e di comunità che l’idea pedagogica di base diffonderà come finalità e pratica delle esperienze estive.

E a questo punto, definito in linea di massima il progetto pedagogico, conterà il dialogo interistituzionale che questa progettazione–base aprirà con l’ente locale, il territorio, la società civile, l’associazionismo per trovare le alleanze giuste, in un quadro il più armonico e unitario (la trama del tessuto di cui sopra) con tutte le iniziative locali del periodo.

2. La coprogettazione nella più recente normativa

2.1. La coprogrammazione e coprogettazione con i soggetti del terzo settore

Per quanto attiene al significato pedagogico e metodologico vale, per la coprogettazione quanto appena detto per la progettazione educativa.
Dal punto di vista amministrativo, invece, la coprogettazione apre ad un futuro che permetterà di realizzare una progettazione integrata con gli altri soggetti del territorio, anche permettendo facilitazioni importanti dal punto di vista procedurale.
Al momento non è un procedimento semplice da utilizzare perché non sempre sono presenti le normative regionali e i documenti di coprogrammazione quadro che dovrebbero essere adottati a livello di zona. Non si esclude però che sia possibile, anche in assenza di tali provvedimenti, effettuare, per chi volesse intraprendere questa strada, delle prime esperienze. 

2.2. La coprogettazione nel Codice del Terzo settore

La norma di riferimento è il Codice del Terzo settore (decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, artt. 55 e 56) il quale stabilisce che “In attuazione dei principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare, le amministrazioni […] assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di coprogrammazione e coprogettazione e accreditamento”, specificando che “La coprogettazione è finalizzata alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti”.

A tal fine “l’individuazione degli enti del Terzo settore con cui attivare il partenariato avviene anche mediante forme di accreditamento nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della pubblica amministrazione procedente, degli obiettivi generali e specifici dell’intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso nonché dei criteri e delle modalità per l’individuazione degli enti partner”.

2.3. L’espressione della Corte Costituzionale

Vale la pena di ricordare anche una recente espressione della Corte costituzionale (sentenza 26 giugno 2020, n. 131) nella quale è stata affermata l’aderenza al dettato costituzionale della previsione del codice del Terzo settore, rilevando che la coprogettazione, “rappresenta una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma, Cost.” in quanto “valorizzando l’originaria socialità dell’uomo […], si è voluto superare l’idea per cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale e si è riconosciuto che tali attività ben possono, invece, essere perseguite anche da una «autonoma iniziativa dei cittadini”.

Il rapporto fra Codice del Terzo settore e Codice dei contratti pubblici è stato oggetto di un’ampia discussione negli ultimi anni. In particolare, si è dibattuto circa l’utilizzo di istituti quali la co-progettazione e la convenzione, con i quali la pubblica amministrazione può coinvolgere i soggetti del privato sociale nella gestione di servizi che avrebbero altresì potuto essere affidati con procedure contrattuali.

2.4. I riferimenti alla coprogettazione inseriti nel Codice dei Contratti

Su questo è intervenuto il decreto legge Semplificazioni (decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, come convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120, art. 8, comma 5) ha inserito alcuni riferimenti al Titolo VII del Codice del Terzo settore – quello appunto che disciplina i rapporti con gli enti pubblici – nel corpo del Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50).
In particolare: il comma 8 dell’art. 30, che reca i “principi per l’aggiudicazione e l’esecuzione di appalti e concessioni” precisa oggi che, per quanto non espressamente previsto dal Codice stesso, “alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici nonché di forme di coinvolgimento degli enti del Terzo settore previste dal titolo VII del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241”; il comma 1, dell’art. 59, che disciplina le procedure di scelta del contraente, il quale afferma che “nell’aggiudicazione di appalti pubblici, le stazioni appaltanti utilizzano le procedure aperte o ristrette”, ha adesso un inciso iniziale di questo tenore “Fermo restando quanto previsto dal titolo VII del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117”; La stessa clausola viene inserita al comma 1 dell’art. 140, che disciplina gli appalti dei servizi sociali.

2.5. Una nuova modalità da utilizzare, in particolare per il futuro

Si apre ora una nuova possibilità per l’utilizzo della coprogettazione, che permetterà il coinvolgimento di numerosi soggetti operanti sul territorio e che permetterà di confrontarsi con la sfida della misurabilità del valore apportato da tali soggetti.
La coprogettazione, quindi, non deve essere intesa unicamente come una scorciatoia per evitare l’evidenza pubblica nella scelta del concessionario di un servizio, bensì come un istituto teso a valorizzare l’esperienza e la vocazione della sussidiarietà nella progettazione e realizzazione degli interventi, nell’ambito di una procedura che dovrà comunque essere caratterizzata di principi di trasparenza, pubblicità e non discriminazione, anche nel momento della scelta del soggetto o dei soggetti con i quali avviare un’esperienza di partenariato.

3. I patti comunità

3.1. Tra sussidiarietà e corresponsabilità educativa

Il “Documento per la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le Istituzioni del Sistema nazionale di Istruzione – Piano scuola 2020-2021” (decreto ministeriale 26 giugno 2020), contiene la seguente indicazione: “Tra sussidiarietà e corresponsabilità educativa. […] Per la più ampia realizzazione del servizio scolastico nelle condizioni del presente scenario, gli Enti locali, le istituzioni pubbliche e private variamente operanti sul territorio, le realtà del Terzo settore e le scuole possono sottoscrivere specifici accordi, quali «Patti educativi di comunità»… Dando così attuazione a quei principi e valori costituzionali, per i quali tutte le componenti della Repubblica sono impegnate nell’assicurare la realizzazione dell’istruzione e dell’educazione, e fortificando l’alleanza educativa, civile e sociale di cui le istituzioni scolastiche sono interpreti necessari, ma non unici…”.

I Patti educativi di comunità trovano il loro fondamento nei principi costituzionali di solidarietà (articolo 2), comunanza di interessi (articolo 43) e sussidiarietà orizzontale (articolo 118, comma 4), per irrobustire alleanze educative, civili e sociali di cui la scuola è il perno ma non l’unico attore. Mediante i Patti educativi di comunità, le scuole “possono avvalersi del capitale sociale espresso da realtà differenziate presenti sul territorio – culturali, educative, artistiche, ricreative, sportive, parti sociali, produttive, terzo settore – arricchendosi in tal modo dal punto di vista formativo ed educativo” (Idee e proposte per una scuola che guarda al futuro, 13 luglio 2020, rapporto finale del comitato di esperti istituito con decreto ministeriale 21 aprile 2020, n. 203), 

3.2 Natura e contenuti dei Patti

I Patti di comunità sono libere intese che possono essere sottoscritte fra cittadini (singoli o associati) e amministrazioni pubbliche per la realizzazione di collaborazioni volte alla promozione dell’interesse generale, mediante la tutela e la promozione di beni e servizi funzionali allo svolgimento della vita sociale delle comunità, permettendo di coinvolgere i membri della comunità stessa nelle decisioni e nelle azioni che li riguardano. La scuola è uno dei principali beni di comunità e, pertanto, costituisce ambito privilegiato per possibili collaborazioni fra cittadini e Amministrazioni comunali.

I Patti educativi di comunità: “1) favoriscono l’esercizio del principio di sussidiarietà; 2) sono fonti del diritto pubblico (tipicamente regolamenti comunali); 3) costituiscono occasioni di costruzione di comunità fra i cittadini; 4) realizzano un potente fattore di innovazione sociale, culturale e anche amministrativa. Ovviamente, i Patti di comunità (per loro natura stipulati fra soggetti pubblici e privati) differiscono dalle intese fra pubbliche Amministrazioni miranti a stabilire fra loro, mediante conferenze dei servizi, forme di cooperazione volte a snellire l’azione amministrativa. Differiscono pure dalle intese che le istituzioni scolastiche possono siglare in ragione del DPR 275/1999”. (Ufficio Scolastico Regionale dell’Emilia Romagna, 19 agosto 2020, nota n. 12.920)

Il “Piano scuola 2020-2021” suggerisce la stipula di patti per favorire la messa a disposizione di strutture o spazi (parchi, teatri, biblioteche, archivi, cinema, musei, etc) al fine di potervi svolgere attività didattiche complementari a quelle tradizionali e, più i generale, per sostenere la costruzione di collaborazioni con i soggetti territoriali che possono concorrere all’arricchimento dell’offerta educativa.

Il livello territoriale può essere molteplice: dal patto della singola scuola con il singolo Comune ai patti di quartiere, di reti di scuole e altri enti pubblici e privati, per ambiti tematici o territoriali, anche sovracomunali.

3.3 Le condizioni per la stipula di un Patto efficace

Come suggerisce un’importate documento predisposto e diffuso dalla rete EducAzioni, i Patti, per essere efficaci, dovrebbero essere preceduti da un lavoro preliminare relativo a:
“- ricognizione delle risorse sociali, civiche, culturali presenti nel territorio e disponibili a contribuire alla costruzione della «comunità educante», dalle organizzazioni del terzo settore e dell’associazionismo civico alle parrocchie, ai centri sportivi, fino ai vigili urbani e ai negozi di prossimità, senza limitarsi ai soggetti di rappresentanza istituzionale e sociale;
– analisi dei bisogni e delle specifiche necessità del territorio sotto il profilo dei diritti delle bambine, dei bambini e degli adolescenti, e del contrasto alle diseguaglianze educative, con una chiara definizione degli obiettivi da raggiungere, attraverso una integrazione tra i percorsi educativi curriculari ed extracurriculari; piena condivisione tra gli attori coinvolti, a partire dalle scuole – che hanno un ruolo guida nel processo – gli enti locali, le aziende sanitarie, gli studenti, le famiglie, il terzo settore, i soggetti attivi sul territorio in campo culturale, sportivo, ricreativo e soggetti del mondo produttivo interessati;
– condizioni organizzative che rendano concretamente possibile l’operatività del Patto, favorendo la flessibilità nell’utilizzo degli spazi e degli orari del personale a diverso titolo coinvolto, e la chiara definizione del quadro delle responsabilità di ciascun soggetto;
– quantificazione delle risorse finanziarie che consentano l’ampliamento non solo del tempo scuola, ma anche del tempo educativo, a cui ciascun bambino o adolescente ha diritto”

(Reti di associazioni che convergono sul documento EducAzioni, Condizioni per un buon patto educativo di comunità, 27 luglio 2020) 

3.4. La centralità della scuola

Le attività che potranno essere organizzate in quest’estate, nel periodo di interruzione del calendario scolastico, potranno essere gestite collettivamente, nel loro insieme, da tutti i soggetti, oppure gestite in parte dalla scuola e in altra parte da altri partecipanti al Patto.
Qualsiasi modalità organizzativa sia adottata è necessario che il ruolo della scuola sia rafforzato e valorizzato per la sua professionalità nel programmare e gestire progetti con valenza educativa e di ampliamento dell’offerta formativa.
Le scuole come luogo fisico, inoltre, potranno rappresentare un prezioso punto di riferimento, già conosciute dai/dalle bimbini/e e dai/dalle ragazzi/e, e dai loro genitori, per essere base logistica di tutte le attività, comprese quelle che poi potranno comportare uscite sul territorio.

 3.5. L’estate inclusiva

E tuttavia, i Patti educativi di comunità contengono due valori di grande valenza civile e politica, che vanno bel oltre la prossima estate, cui dobbiamo necessariamente soffermarci.
Fortunatamente, e se ci si crede, questa estate strana, con le scuole attive nel territorio, potrebbe creare condizioni sociali ed educative tali che le diverse azioni che si realizzeranno potrebbero risvegliare e valorizzare un pensiero fecondo che il tempo ha logorato, ma molto vivo nella pedagogia degli anni ’60 e ’70: il sistema formativo integrato.
I Patti educativi di comunità potrebbero essere il prologo non solo per una buona estate collaborativa ma anche di un sistema di relazioni e collaborazioni stabile tra le scuole e il loro territorio. Significa considerare tutto il territorio, nelle sue diverse forme e pratiche, come spazio educativo comune e la scuola come attore del e nel territorio per la costruzione del civismo, della relazione tra generazioni, della cultura diffusa. Una scuola che sa trarre dal territorio ispirazione, spazi e opportunità per uscire dalla aule mentali delle didattiche frontali e isolate dal contesto e farsi invece soggetto attivo di produzione culturale orizzontale.
I Patti educativi di comunità sono inoltre una spinta obiettiva a “fare squadra” a fronte delle tante e diversificate condizioni di difficoltà ed emarginazione già presenti nel territorio e accentuate dall’epidemia. Un territorio che in diverse forme, cioè, si prende in carico e in comune (avverbio, sostantivo, aggettivo) tutte le situazioni di maggiore fragilità individuali e familiari (disabilità, alunni stranieri, povertà educativa, ecc..).

L’occasione, insomma, per ristabilire, o rafforzare, una migliore alleanza per non lasciare indietro nessuno neppure i più dotati anche perché le doti richieste nell’estate potrebbero non essere le stesse di quelle dell’inverno…
Dunque, la presa in carico delle tante eterogeneità che diventa sfida culturale e civica che la scuola da sola o il territorio da solo mai potrebbero garantire.

4. Il percorso amministrativo

4.1. Le delibere necessarie

Le segreterie degli istituti scolastici dovranno mettere in atto le procedure amministrative affinché le attività si possano realizzare al meglio, anche dal punto di vista formale.
Sia il POF annuale sia il PTOF triennale dovranno essere variati e quindi il primo atto sarà una delibera del Collegio dei Docenti. Nella delibera del Consiglio d’Istituto, infatti, quando si approverà il progetto, si inizierà con “vista la delibera del collegio dei docenti del etc etc”.

 4.2. L’impiego del personale della scuola e la contrattazione d’istituto

L’approvazione da parte del Collegio, in questo specifico contesto come in generale quando si tratta di ampliamento anche quantitativo dell’offerta formativa, non significa assolutamente un vincolo per i docenti di partecipare all’attività che rimangono, per loro, facoltative. È peraltro evidente che, con molta probabilità, una buona parte delle attività saranno affidate a soggetti esterni all’amministrazione scolastica.
Ciò, naturalmente, non esclude che il dirigente scolastico abbia gli strumenti per garantire che alcuni spazi (orari? giornalieri? settimanali? un solo periodo in tutta l’estate?) siano riservati ad attività gestite dai docenti, o anche dai docenti, la cui prestazione aggiuntiva dovrà essere retribuita secondo le modalità e i termini del contratto di lavoro.

Diversa, invece, la modalità di impiego del personale ATA. Una volta definita, e approvata, la progettazione di massima, si dovrà svolgere una contrattazione con le RSU di istituto per definire le modalità di organizzazione e distribuzione delle attività extra mansionario e delle intensificazioni di lavoro richieste al personale amministrativo, tecnico e ausiliario, ed il salario accessorio che ne consegue.

Ci sarà molto lavoro per i collaboratori scolastici ma, in particolare in quest’anno, è molto probabile che la proposta trovi la loro favorevole adesione perché (tra presenza di organico Covid e sospensioni delle attività in presenza) non hanno accumulato quel numero di ore di straordinario che permettevano loro di recuperare qualche giorno di riposo in più da aggiungere alle ferie estive. Loro non potranno sottrarsi, dovranno lavorare, ma potranno ottenere qualche compenso aggiuntivo.
La gestione logistica dovrebbe in ogni caso rimanere alla scuola che potrà effettuare l’accoglienza, con i collaboratori scolastici, e non delegare il tutto (concedendo unicamente l’edificio) altrimenti non sarebbe un reale ampliamento dell’offerta formativa della scuola.

4.3. Protocolli di sicurezza

In relazione all’andamento epidemico dei prossimi mesi, potrà essere necessario anche rivedere il DVR aggiuntivo Covid-19 che gli istituti hanno già elaborato.
Per le attività estive, sempre in relazione alla situazione in cui saremo nel periodo interessato, saranno necessarie precise indicazioni nazionali, supportate da un parere tecnico del Comitato Tecnico Scientifico, affinché siano chiare le modalità da adottare per contrastare la diffusione del contagio.
In particolare, sarà necessaria massima chiarezza in relazione ai protocolli da adottare ovvero se le misure raccomandate rimangono quelle specifiche per la attività scolastiche ovvero se devono essere adottate quelle elaborate per i centri estivi ovvero, infine, se sarà predisposto un documento dedicato.

 4.4. Il Patto e la progettazione esecutiva

Una volta definiti i progetti e gli accordi sindacali, che sono condizioni preliminari di fattibilità, se è previsto il coinvolgimento degli enti locali, in relazione agli obblighi loro spettanti per legge oppure in relazione alla definizione condivisa di modalità e contenuti del progetto, sarà necessario relazionarsi con l’ente locale di riferimento e definire gli opportuni accordi nelle forme che saranno ritenute, congiuntamente, utili o necessarie. Se vi sono altre realtà operanti nel territorio, si potranno definire protocolli e accordi di massima anche con questi.

Quando saranno noti i finanziamenti di cui si potrà disporre e le altre risorse a disposizione, anche assegnate dagli altri soggetti partecipanti all’iniziativa, si disporrà di un quadro ben definito delle finalità (collegio dei docenti), degli indirizzi generali (Consiglio d’Istituto), dei vincoli sindacali (Accordo con RSU), delle risorse interne (Personale disponibile e risorse economiche ottenute) ed esterne (accordi con enti locali e terzo settore) e si potrà procedere alla progettazione esecutiva dell’iniziativa.

Una volta definito il progetto nel dettaglio si potrà passare al reperimento di quanto necessario per la realizzazione dell’iniziativa. A parte gli approvvigionamenti di beni, di consumo e non, che tutti gli uffici amministrativi sono in grado di effettuare con relativa semplicità, c’è il reperimento di risorse umane, specifiche professionalità o servizi.

Se vi sarà necessità di un esperto, non è necessario utilizzare il codice dei contratti perché sarà sufficiente utilizzare l’art. 7 del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il quale prevede che “per specifiche esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire esclusivamente incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione” che impartisce unicamente questa indicazione: “Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione”.
Si tratta di procedure molto semplificate.

Se il progetto, o una parte di esso, dovrà essere realizzato da altri soggetti si potrà tentare il percorso della coprogettazione e corealizzazione (si veda la parte di questo scritto a ciò espressamente dedicata) oppure potrà essere affidato a enti del terzo settore e imprese sociali, svolgendo una procedura aperta con un avviso pubblico nel quale l’istituto renda note quali sono le necessità e informi dell’intenzione di attribuire un punteggio alla qualità (es: sviluppo della progettazione, esperienza dell’impresa, degli operatori, certificazioni possedute, etc.) ed un punteggio, di molto inferiore, al prezzo. Anche questa è una procedura semplice. Ove necessario, non è escluso che, già nell’avviso, si informi il soggetto cui sarà affidato il servizio che dovrà lasciare degli spazi per l’inserimento di attività che saranno svolte e gestite da docenti che si rendono disponibili. 

4.5. Modulistica amministrativa

Per quanto riguarda i modelli di atti, il Ministero ha già fornito modelli di deliberazioni, di determinazioni, etc., che potranno essere adattate anche alle attività di cui stiamo parlando.
Recentemente, con nota 10 marzo 2021, n. 5465, l’Amministrazione ha informato di aver avviato un percorso per supportare le Istituzioni scolastiche nell’espletamento delle attività amministrative di maggiore complessità e ha reso disponibile il nuovo applicativo SGA (Sistema di Gestione degli Acquisti) che supporta le scuole per le fasi di Programmazione, Avvio delle procedure, Aggiudicazione, Stipula del contratto, Esecuzione del contratto, consentendo di predisporre una documentazione automatizzata, con riferimento a: Determina di acquisto per affidamento diretto, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. a), del D.L. 76/2020, mediante richiesta di preventivi); Determina di acquisto per affidamento diretto, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. a), del D.L. 76/2020, mediante trattativa diretta MEPA; Verbale di regolare esecuzione per approvvigionamento di beni, acquisizione di servizi e esecuzione di lavori.

 4.6. Rendicontazione

Una volta conclusa l’attività ci sarà da fare la rendicontazione qui viene un nodo dolente. Se sono soldi del Ministero si dovrebbero poter evitare le infernali modalità di rendicontazione cui gli istituti scolastici sono obbligati dai PON.

Per la rendicontazione di tutte le risorse stanziate per le iniziative di ampliamento dell’offerta formativa, quindi, sarebbe importante che fossero adottate le stesse procedure semplificate che sono state disposte per i 150 milioni che sono andati ad incrementare il fondo per il funzionamento e che prevedono l’utilizzo della piattaforma PNSD (piano nazionale scuola digitale), già utilizzata per le rendicontazioni dei diversi finanziamenti Covid-19, confermando anche la previsione secondo la quale i Revisori dei Conti accedano informaticamente alle documentazioni e appongano il visto con la stessa metodologia senza la produzione di alcun documento cartaceo.

Non sarebbe male, inoltre, che una semplificazione del genere fosse realizzata anche per i fondi PON in quanto la complessità di rendicontazione di tali fondi produce, alla fine, minore attenzione alla qualità e, qualche volta, anche rinunce a realizzare iniziative.




Una nuova sindrome: DSC, disturbo da scuola chiusa

di Raffaele Iosa

Questo venerdì di Pasqua mi ricorda stati d’animo della mia infanzia in un paese cattolico. Non c’era la pubblicità in tv, si parlava sottovoce, alle 3 del pomeriggio si ricordava la croce, si mangiava di magro. L’effetto nella mia piccola testa era di straniamento, di essere cioè ”strano” (straniante, straniero) quel giorno, tra gli adulti che giravano tra i vari sepolcri delle chiese.
Lo straniamento mi pare la parola giusta per definire oggi lo stato d’animo di milioni di bambini e ragazzi che frequentano un anno scolastico tormentato. Straniamento che sfiora la tristezza, l’inquietudine, l’incertezza.
Almeno io da piccolo sapevo per certo che poi arrivava la Pasqua.
Pur essendo uno psicologo di formazione, non utilizzo le parole di quel gergo quali depressione, stress e ansia. Temo la clinicizzazione di questi straniamenti e il comodo scarico dei ragazzi al lettino del terapeuta o dal farmacista.

E’ già tanta la medicalizzazione che temo nasca una nuova sintomatologia: il DSC, disturbo da scuola chiusa, con mirabolanti soluzioni terapeutiche.
Penso invece che per la grandissima parte dei nostri figli e nipoti si tratti di una condizione esistenziale che una buona educazione può alleviare, valorizzando anche la naturale resilienza. Buona educazione secondo l’I CARE di don Milani, naturalmente, non quella del TO CURE dei moderni strizzacervelli.


Ho fatto in questi mesi decine di webinar sulla valutazione e sul clima a scuola, sentito decine di insegnanti e dirigenti, parlato anche con molti alunni e studenti. Senza voler fare una statistica puntuale mi pare che appunto lo straniamento sia l’esprit di quest’epoca infelice.
Approfondisco da dove nasce lo straniamento sia per evidenziare alcuni comportamenti ambigui delle scuole, sia per sollecitare una riflessione più attenta per i prossimi mesi e il prossimo anno scolastico.

Ecco quelli che per me sono i punti dolenti dal punto di vista scolastico.
1. Dalle passioni generose alle passioni tristi
Ho già scritto molto sulla fase primaverile di lockdown in cui migliaia di insegnanti, senza ordini superiori precisi né strumenti sufficienti hanno “inventato” di sana pianta quella che io ho chiamato didattica della vicinanza. Si è insomma messo al centro della relazione educativa nel lockdown la sofferenza di alunni e studenti non solo per la scuola chiusa ma anche perché chiusi duramente in casa, come “centro” dell’impegno a creare comunque un contatto educativo. Sono fiorite moltissime esperienze le più varie, tra chi ha cercato di scimmiottare online la lezione frontale a chi si è inventato di tutto. Alla fine si sono promossi tutti e “santo virus” ha permesso il ritorno dei giudizi descrittivi al posto dei voti almeno e purtroppo solo nella scuola primaria.
Il webinar è diventato una diffusissima moda di contatto, formazione in itinere, scambio, quasi a colmare anche la solitudine degli insegnanti davanti all’inedito e al tragico.

2. La scuola nella bolla
Si è tornati a settembre piedi di ottimismo e speranze. Forse con scarsa riflessione pedagogica su ciò che era avvenuto nelle menti e nei cuori di tutti noi. Pareva bastasse tornare, i nostri ragazzi erano gli stessi di prima, scordando l’effetto grande di ciò che era accaduto. No, erano altri.
L’Azzolina ha puntato poco su questi aspetti, nascondendo per esempio il documento Bianchi, che almeno proponeva i patti di comunità per disseminare le classi in luoghi altri dalle aule, utilizzando per esempio musei e sale da concerto.
Il che avrebbe forse favorito anche una commistione didattica tra testi e contesti dell’apprendere. No, tutte le classi chiuse nella bolla della scuola, tra mascherine, finestre da spalancare, disinfettanti, uscite diversificate. Si è cioè sottovalutato l’effetto psicologico e pedagogico dei tanti limiti posti dalle regole sanitarie, come l’assenza di relazioni intense, di uscite da scuola, visite a musei, gite scolastiche. No, sempre chiusi in classe mascherati e regolati negli spostamenti.
Solo un’associazione professionale, Proteo, ha suggerito un serio “protocollo pedagogico” per il rientro che metteva al centro la questione educativa”. Ha ricevuto i complimenti di Mattarella, ma nessun ascolto a viale di Trastevere né nelle scuole. Poche scuole hanno realizzato gruppi riflessivi su questi temi.

3. Un anno scolastico nella tristezza.
Da qui l’inizio di un anno scolastico sempre più triste, quando la curva pandemica ha cominciato a salire, l’arrivo delle frequenti quarantene, l’incertezza sui tamponi, i guai dei trasporti. Pian piano la scuola si è declinata in una passione triste piena di insicurezze e sempre più faticosa.
L’incertezza dell’anno ha visto regioni con frequenze quasi regolari, anche se super limitate nelle didattiche attive, e regioni che hanno aperto ole scuole solo per poco più di un mese, il resto in Dad. E non è certo bastato il calembour della cd DDI a migliorarla. Poi quest’ultima terza fase, di cui non è chiara la fine. Un anno fortemente disturbato, che lascia un segno di straniamento.

4. L’iper-curricolo hard
E’ sorprendente, invece, ciò che è successo in moltissime scuole in relazione agli insegnamenti.
A fronte della scuola-bolla, da cui non si poteva neppure andare in giardino, sia in aula che online sono fortemente aumentate lezioni frontali hard, compiti per casa, interrogazioni di diverso tipo.
Almeno per chi a scuola ci è andato e per chi a casa era attrezzato, la scuola ha risposto allo straniamento dei ragazzi irrigidendo la propria azione didattica, fortemente ridimensionando la relazione più squisitamente educativa. Quindi aumentando lo straniamento e l’estraneità.
La prossemica d’aula, i distanziamenti e l’online a microfoni spenti hanno impedito dialoghi interpersonali, lavori di gruppo, azioni attive. Non restava altro da fare che lezioni frontali.
Non è quindi del tutto vero che i ragazzi “sono indietro” nel programma, anzi sono stati (aridamente) abbuffati di nozioni, capitoli del manuale, esercizi da svolgere. Hanno invece subito spesso un iper curricolo hard con scarsissima ricerca personale, accompagnato da un aumento spropositato di compiti per casa, mai come quest’anno.
Ha accentuato questa frenetica direttività il timore che i ragazzi fossero rimasti “indietro” dall’anno scorso. Ed anche che almeno li si teneva “impegnati”. Un apprendimento lineare, spesso monotono, poco creativo. C’è dunque una sconfinata stanchezza in molti bambini e ragazzi, ed anche nei loro insegnanti. Ma intanto, mentre scrivo in questo luminoso venerdì, i nostri studenti in vacanza sono oberati di compiti a casa dati perfino per questi pochissimi giorni di stacco attorno a Pasqua. Straniamento anche in vacanza.

5. Gli ultimi sempre più ultimi
Naturalmente hanno perso di più i ragazzi già deboli l’anno scorso, quelli con pochi strumenti informatici a casa, quelli persi per le ragioni più tristi, e i ragazzi con disabilità che si trovano spesso in quest’ultimo periodo soli come cani nelle aule deserte, segnando drammaticamente come l’inclusione non sia passione di tutti (anche degli altri studenti) ma il sostegno isolante. Per tutti questi l’anno scolastico ancora più triste, senza flessibilità organizzativa e didattica, costata un ulteriore passo indietro rispetto agli altri. Più che straniati, spesso persi.

Conclusioni e alcune piccole speranze
Ci si può augurare che prima del prossimo anno scolastico sia data agli insegnanti l’opportunità formativa di una seria riflessione pedagogica ed educativa su queste esperienze così drammatiche e complesse. L’anno prossimo, vaccino permettendo, non può che essere quello della rinascita, non certo quello che segue questo come se nulla fosse successo.
Intanto vorrei che dopo Pasqua si frenasse la frenesia dell’iper-curricolo, si riprendessero tutte le forme possibili di dialogo e relazione, che insomma si cerchi in tuti i modi di consolidare quella comunità che si è perduta nei mesi scorsi.
Infine si avvicina il tempo della valutazione finale e sento molti timori non tanto sul bocciare o meno ma sui rischi di ricorsi da parte della famiglie. Come se il tema valutazione fosse roba da avvocati. Meriterebbe invece una seria ed onesta valutazione formativa sul tutto della scuola, non solo su quello prodotto dai ragazzi ma anche dagli insegnanti e su tutte le opzioni di recupero e sviluppo da predisporre per l’anno prossimo, anche partendo dalle iniziative interessanti offerte dal decreto Sostegni per la prossima estate.

Per i ragazzi perduti e a rischio di essere persi, suggerirei quanto meno di pensarci molto e di riflettere su questa durissima frase di don Milani nella Lettera a una professoressa: “Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le famiglie. Vi svegliereste la notte con il pensiero fisso su lui a cercar un modo nuovo di fare scuola, tagliato su misura sua. Andreste a cercarlo a casa sua se non torna. Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna d’essere chiamata scuola”.
In questa fase terribile e inedita della storia della nostra scuola servono gesti generosi, non regali né sanzioni ma attenzione pedagogica attenta alla tante stranianti storie dei nostri ragazzi.