Cattedre miste, un piccolo segno verso una seria comunità educativa?

di Raffaele Iosa

In questi giorni di calda estate 2023, su facebook da diversi autori è riesplosa (dopo anni di silenzio) la questione delle cd. “cattedre miste”, inerenti una diversa organizzazione più cooperativa tra docenti di sostegno e curricolari. Lo scopo, nelle intenzioni pedagogiche migliori, è di arricchire l’esperienza formativa dell’alunno con disabilità riducendo i rischi di una troppo frequente “didattica separativa” spesso racchiusa in rapporti para-privati con il docente di sostegno ed eventuale educatore fino alla diffusa forma della “copertura totale”.
Il termine dice già tutto sul rischio che l’inclusione diventi una strana isolazione.
La discussione è per ora varia, tra chi esprime entusiasmo perché si riaprano azioni di migliore comunità professionale, soprattutto nelle scuole medie e superiori, a chi ne vede le difficoltà applicative, a chi (come sempre accade) sostiene che il problema è “un altro”.
Personalmente delle cattedre miste ne penso un gran bene: la pluralità dei docenti è un valore se si fa cooperazione e integrazione per tutti i ragazzi. Per quelli con una qualche disabilità possono essere una manna cognitiva, un’esperienza di maggiore socialità, un sentirsi comunità che apprende. Molto meglio la cattedra mista che la cattedra di sostegno tout court, che tende inevitabilmente all’isolazione .
In questo mio commento non entro negli aspetti tecnici e organizzativi né giuridici di come si possano sviluppare forme più ricche di corresponsabilità e organizzazione curricolare flessibile. Vi sono da tempo (fin dal Regolamento autonomia del 1999) ampie possibilità operative di flessibilità, come ostacoli o freni dati da aspetti organizzativi, contrattuali, di abitudini. Vi sono anche, naturalmente, riserve radicali su cosa sia il “sostegno”: se un’attività didattica diffusa che tocca tutti (come insegna la Legge 517 del 1977!!) o non invece una “professione specialistica para-terapeutica” di per sé “altra” dall’educativo.

Vorrei invece qui inserire il tema cattedre miste in un quadro più ricco di questioni sul “contesto socio-pedagogico” complesso e deludente della scuola italiana nei suoi processi di inclusione a vasto spettro, da quella degli studenti con disabilità, alle diverse forme di cd. “BES” sino alla più vasta questione della dispersione scolastica. Questo perché la questione “cattedre miste” non va vista come una questione tecnica in sé, ma uno dei tanti aspetti da curare per superare la crisi di senso ed efficacia della scuola, per la quale da tempo (nei testi giuridici come in quelli contrattuali) si fa riferimento fino all’adulazione al termine “comunità educante” per accentuare la corresponsabilità e la partecipazione di tutti. Il termine comunità rischia di restare però una retorica grida manzoniana, che può voler dire varie cose come il suo contrario. Ebbene: la questione cattedre miste è di per sé un tipico oggetto da comunità educante nel suo farsi concreto. Se la scuola nel suo insieme sarà capace di leggersi e costruirsi come comunità professionale aperta e solidale, con il sano ma anche ottimistico realismo delle cose possibili.

Tre questioni d’insieme , l’intreccio del rischio de-scolarizzazione
Dunque vorrei qui collegare, in breve, la questione cattedre miste con tre grandi snodi del presente sui quali ho in questi anni scritto molto, per vedere la questione cattedre nel quadro di una scuola che va messa in movimento qualitativo per evitare possibili fallimenti fino alla de-scolarizzazione di fatto. Cioè scuole sempre più inutili e meno leve di sviluppo di tutta la società, e il destino di tutti i nostri giovani.

1. L’esplosione iatrogena
Il numero di certificazioni di disabilità è raddoppiato in meno di 20 anni, aumentano di queste la condizione di gravità (il famoso art. 3 comma 3 della Legge 104/92). Non c’è è nel nostro paese un dibattito scientifico e sociale sulle ragioni di questo strano evento di grande complessità. Le più diverse testi cercano spiegazioni a volte fantasiose. Non c’è comunque alcun dubbio che è cambiata la percezione di “difficoltà” e “malattia” sia nelle famiglie che nel mondo educativo sia in quello sanitario. Forse non è un caso che l’aumento delle certificazioni sia inversamente proporzionale al calo demografico: meno bambini che si desiderano troppo “perfetti”?. E’ comunque un tema sul quale l’assenza di ricerca e dibattito scientifico rischia di creare nelle scuole grandi incertezze e confusioni.
Ha accompagnato l’esplosione iatrogena della disabilità l’invenzione clinica dei DSA, giunti in poco più di un decennio quasi allo stesso numero dei compagni di classe 104. E anche in questo caso con una discussione spesso estremizzata da tesi opposte sulla bontà o meno di queste sindromi.
E, infine, dal 2013 la dizione BES come contenitore di diverse condizioni esistenziali, cognitive, sociali cui offrire un trattamento educativo di cura. Non facile da comprendere se BES così diventi uno strumento di aiuto o invece (come temo) uno stigma che nel tempo separa, rassegna e riduce le attese educative.
Dunque, in meno di 20 anni è mutato profondamente il panorama interpretativo e gestionale di tutti i nostri studenti con una qualche difficoltà comunque diagnosticata. Da qui norme, indicazioni, e spesso dolorose forme conflittuali tra scuole e famiglie. Da qui la nascita di “nuovi servizi” (spesso privati) con proposte “riabilitative” quasi chiavi i in mano. Siamo alla centralità del sintomo che sostituisce la persona.
Il nuovo cospicuo blocco di normative sulla disabilità, ad esempio, ha prodotto un monstrum giuridico, tra GLO di cui non è chiara la funzione e il reale potere, un ICF diventato un contatore di ore di sostegno piuttosto che un lettore olistico della persona, e infine il progetto di vita diventato cosa da servizi sociali comunali piuttosto che il quadro di riferimento di sviluppo di ogni persona.
C’è dunque molto da fare, studiare e discutere sulla qualità attuale dell’inclusione nelle nostre scuole. C’è il rischio che l’inclusione si separi dai processi di normalità del processo educativo, che si tenda cioè a forme “speciali” di scolarizzazione, cioè nel tempo a nuove forme di scuole speciali. Non solo per gli studenti con disabilità. E dunque, come non vedere la questione cattedre miste come un antidoto interessante da sviluppare per cambiare la tendenza alla separazione e all’isolazione?

2. La dispersione scolastica, disavventura italiana
Come non bastasse, i dati sugli esiti scolastici dei nostri studenti sono infelici, e le differenze regionali tra nord e sud gridano vendetta ad una società più equa e dinamica. L’Italia ha la più elevata percentuale di NEEDS in Europa. E la povertà è tema conflittuale del dibattito politico con t4ensioni e disparità tra zone del paese intollerabili. Comunque il tema dispersione avrebbe molti interventi, riceve numerosi finanziamenti di cui il recente PNRR ha il massimo sviluppo. Eppure anche questo tema rischia di diventare questione separata dalla scuola nel suo insieme. Si può comprendere, ad esempio, la necessità di professioni più elettivamente capaci di aiuto, ma c’è anche alto il rischio di nuovi “tutor-interventi speciali” o l’utilizzo esagerato del terzo settore come salvatori e delegati, capaci però di produrre loro malgrado (paradossalmente) forme “isolanti” piuttosto che “comunità educanti” in cui tutti, docenti studenti e famiglie, si fanno comunità reale, bella nella sua eterogeneità . Soprattutto non delegando ad altri “esperti” i problemi, e continuando la gran massa a vivere con la propria spicciola “normalità”.

3. Verso il deserto demografico

Quest’anno nasceranno meno di 380.000 bambini. Il calo demografico è ormai clamoroso. Sappiamo già che nei prossimi 10 anni dovremo fare i conti con lo sviluppo territoriale dei singoli istituti, dalle scuole dell’infanzia alle superiori, con il rischio di conflitti per visioni localistiche senza una visione realistica della condizione infantile e della crescita. Penso si debba avere il coraggio di un ripensamento collettivo della geografia scolastica che unisca il numero degli alunni con il territorio nel suo insieme (es. servizi sociali, opportunità, relazioni tra servizi). Meno bambini avremo in un territorio più si dovrà stare attenti ad offrire più opportunità integrate possibili perché il calo demografico non diventi un deserto, in cui bambini soli crescerebbero con poche opportunità intorno a sè. Anche in questo caso, quindi, serve una visione da comunità educativa, in questo caso con la responsabilità di tutti, dagli enti locali alla società civile, all’economia del territorio. Sarà dura. Ma altrettanto sarà realistico comprendere che avere pochi bambini rende necessario perderne il meno possibile. Da qui i tre punti di questo breve testo si sommano nel dovere di una visione integrata e unitaria che abbia a cuore la comunità civica nel suo insieme.
Per queste ragioni io penso che tutte le azioni in cui si costruiscono nei territorio forme di comunità attiva saranno sempre più necessarie, e perfino convenienti. Non solo per i nostri giovani, ma per un patto tra le diverse età della vita che nel prossimo futuro sarà più complesso che ai tempi dell’alta natalità.
Lo scambio tra generazioni sarà più delicatamente complicato, sarà necessario evitare “sprechi” umani e sociali, sarà quindi indispensabile e perfino conveniente fare il più possibile comunità.
Ecco perché, partendo da un aspetto particolare dell’inclusione scolastica qual è la “cattedra mista” , si comprende come ogni più piccolo gesto di partecipazione, corresponsabilità, creatività sarà utili al nostro non lontano futuro.




Non ci sono più bambini

Il calo demografico ha ormai raggiunto livelli drammatici e le conseguenze sul sistema scolastico non sono forse state ancora ben comprese da tutti.
In realtà la questione non è recente e, a ben vedere, ha origini lontane nel tempo: se ne parlava già negli anni ’90, poi l'”ondata” migratoria ha attenuato non poco gli effetti della diminuzione delle nascite di bambini italiani.
Adesso il problema si sta ripresentando in tutta la sua evidenza.
Sul tema pubblichiamo un vecchio articolo di Raffaele Iosa uscito sulla rivista Valore Scuola nell’ottobre del 1993, ma ancora molto attuale.

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Bambini di Ukrajna in Italia. Oltre lo sconcertante silenzio sulla pedagogia del ritorno

di Raffaele Iosa

Ho aspettato fino alla riapertura delle scuole, sperando che qualcosa si dicesse. Capisco la complicata situazione italiana di questi ultimi tre mesi, dal caldo torrido, alla crisi di governo, al rincaro delle bollette. Capisco tutto,  ma il silenzio del Ministero Istruzione sui bambini e ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole da marzo scorso  è sconcertante. Per carità, non sempre è necessario che il Ministero dica qualcosa perché le scuole lavorino con buon senso (anzi!), ma toccano a lui gli accordi internazionali con il governo ucraino per eventuali collaborazioni pedagogiche sul destino dei ragazzi da noi accolti, in attesa del ritorno.

E’ dunque per me necessario risollevare la questione, per comprendere se il neologismo  “pedagogia del ritorno”,  condiviso da molti come chiave  di questa accoglienza, fosse ancora vivo o se si pensasse che ormai, da questo autunno, si dovesse accoglierli come emigranti definitivi o peggio lasciarli in un limbo.

Un doveroso promemoria

Facciamo prima di tutto il punto sulla situazione ucraina,  con le notizie di questi ultimi mesi.
Si conferma che questi bambini e ragazzi (e le loro mamme) si sentono solo di passaggio dal fatto che un buon numero è tornato a casa in estate, soprattutto se provenienti dal zone nord e ovest ucraino, e dal 1 settembre sono tornati a scuola, magari in locali di fortuna se le scuole sono state distrutte.
L’arrivo di nuovi profughi ucraini si è fermato. Resta quindi non elevato il numero di scolarizzati in Italia, già basso a primavera perché preferivano fermarsi  in paesi confinanti  (in primis la Polonia).
Anche questo un segno del desiderio del ritorno.
Il nostro governo ha prestato a tasso zero all’Ukrajna circa 200 milioni di euro per pagare gli insegnanti ucraini. Un buon segno che il nostro paese non invia lì solo armi.

Intanto ci arrivano notizie dure dalle aree ucraine di sudest ancora occupate militarmente dai russi. Sono stati licenziati molti insegnanti locali, sostituiti da “colleghi” russi; dal 1 settembre i ragazzi iniziano le lezioni  con l’alzabandiera bianca blu rossa di Mosca, hanno libri importati dalla Russia con le “cose giuste” da insegnare e si parla-scrive rigorosamente solo in russo.  Ma c’è di più: alcune migliaia di orfani sociali degli internati  sono stati deportati (altro termine non trovo) in Russia in modo forzato. Uno dei tanti modi che ha la terra di Putin di sopperire al suo deserto demografico. Penso con dolore a questi bambini, spesso con babbi e mamme fragilissimi e poveri ma viventi. Bambini portati via dagli orfanotrofi senza rispetto, con fratture esistenziali  lancinanti. E ancora: non si sa più nulla di centinaia di preadolescenti portati con la forza in Crimea durante l’estate (le vacanze “coatte”) e non più tornati. Nelle zone di campagna tornano i cd. besprizornye,  ragazzi randagi  che vivono alla macchia. Un lascito noto nella storia sovietica che si ripete,  nato nei primi anni della rivoluzione d’ottobre, di cui ci resta memoria in “Poema pedagogico” del pedagogista ucraino Makarenko e della sua colonia Gorky.

Si rifletta su cosa voglia dire essere bambini e ragazzi da quelle parti in questo settembre: se non si muore per le bombe, si sopravvive in un contesto allucinato col rischio del negarsi la memoria e l’identità. Effetti non collaterali ma voluti di una guerra che non è solo distruzione materiale, ma esistenziale.

Ricapitoliamo ora la nostra memoria sull’Italia. Sono uscite in primavera tre note del Ministero italiano sull’accoglienza dei ragazzi ucraini.

Una prima nota di marzo 2022 li chiama erroneamente “esuli” e invita ad accoglierli, seguendo le solite regole  amministrative  e di collaborazione a livello locale tra servizi.
La seconda nota n. 576 del 24 marzo li chiama finalmente “profughi” (come sono), e invia ottime riflessioni di carattere pedagogico.  Si suggerisce accoglienza mite, riconoscimento dell’ identità di bambini e ragazzi “di passaggio” con il forte desiderio del ritorno, un impegno di ascolto rispettoso della loro condizione esistenziale. Notevole è l’idea di “cura pedagogica” non diversa dall’ Y CARE donmilaniano, operando con una pedagogia che aiuti al ritorno. Appunto, il ritorno. Finalmente un respiro alto.
La terza e ultima nota, invece, la 781 del 14 aprile, scade in uno sconcertante formalismo. A fronte del “canone” scolastico italico sul rito valutativo e curricolare (altro che autonomia scolastica) si suggerisce  di considerare questi ragazzi come BES stranieri appena arrivati,  quindi con dispense e compense, consolando i buro-pedagoghi del formalismo cartaceo. Ma c’è di peggio: circa la questione della loro straordinaria Dad che, nonostante la guerra, i loro insegnanti coraggiosamente realizzato da marzo a giugno da laggiù (con immensa gioia dei ragazzi che si sentono così un po’ a casa), la terza nota suggerisce con un linguaggio senz’anima di considerarla come “eventuale arricchimento  dell’offerta formativa” in aggiunta (solo in aggiunta) alle tradizionali lezioni italiche, e sempre che i docenti italici vogliano. Dunque, la più straordinaria avventura pedagogica di questi mesi (la Dad sotto le bombe) non trattata per il giusto rango di un’esperienza educativa arricchente tutti, in primis  loro, e con la quale iniziare un dialogo pedagogico tra colleghi coinvolti qui e lì, ma un mero accessorio transitorio.

Questa sconcertante nota mi ha fatto sospettare una sottovalutazione della fase in un’attesa astratta di cosa sarebbe accaduto della guerra, lasciando ad un indefinito tempo il trattare cosa fare dal settembre.

E infatti sul che fare da settembre il più allarmante silenzio. Il nulla.

Ricordiamo infine che i  nostri amici ucraini accolti sono stati in tutto circa 30.000 (molto meno del previsto),  che i mesi da marzo a giugno sono stati una sorta di accoglienza d’attesa, la migliore possibile. Adesso, invece, con un anno scolastico intero davanti, le cose si fanno ben più serie.

Restiamo in attesa, o ripartiamo con l’autonomia?

Ricevo numerose telefonate  da colleghi e scuole di diverso tipo che mi chiedono cosa fare adesso. Ho scritto molto in primavera sulla pedagogia del ritorno e svolto affollati webinar, quindi molti mi conoscono. I loro racconti non sono sempre felici: ci sono bambini e ragazzi ancora scossi dagli eventi, qualcuno in estate è diventato orfano, di un buon numero di loro non si sa se è rimasto o no. Fortunatamente l’accoglienza racconta anche segni di umanità e solidarietà. Ma le domande sull’oggi sono molte, soprattutto (e non è un caso) sulla loro Dad ucraina: continua o no? Come e se collegarla alle lezioni italiane? Ricevo anche richieste sulla dimensione pedagogica delle relazioni e sul tema della guerra. L’incertezza è anche nelle famiglie ucraine che chiedono notizie alla scuola italiana.

Finchè non arriva la notizia che scuote le famiglie ucraine e che l’Italia non ha ancora dato: le scuole ucraine intendono proseguire anche quest’anno con la loro Dad sia sincrona che asincrona, in tutti i modi possibili e per il miglior tempo possibile. E quindi prendono contatto virtuale con i singoli bambini e ragazzi di cui hanno un indirizzo telefonico o elettronico. Insomma, non intendono  perderli.

Ho fatto un giro di telefonate a colleghi ucraini con cui ho ancora contatti e confermano: “si riparte, non li abbandoniamo. In tutti i modi possibili e nei tempi possibili”. Ma chiederebbero, anche, di sapere un po’ di più su cosa accade ai loro ragazzi in Italia. D’altra parte ho rarissimi racconti di contatti tra colleghi italiani e ucraini in primavera: è sembrata a molti un’esperienza quasi “privata”, di cui non si è sempre colto il valore educativo e anche un’opportunità solidaristica su cui meritasse costruire rapporti. Se poi il Ministero italiano aggiunge che la loro Dad è solo un “accessorio”, lo scadimento  nella banalità è naturale.

Proposte realistiche e rigorose: per un curricolo binario

Non è  necessario, come dicevo all’inizio, che il Ministero mandi per forza chissà quali norme o stringenti indicazioni operative. Le scuole hanno (avrebbero) ampi spazi di autonomia didattica e organizzativa per poter costruire ognuna una propria positiva pedagogia del ritorno. Basta volerlo e crederci.

Per queste ragioni, rompo lo sconcertante silenzio romano  con alcune proposte di lavoro aperte a diverse soluzioni, per offrire alle scuole una proposta pedagogica per far crescere con quest’esperienza solidale la capacità di farsi soggetto progettuale libero e creativo.

Suddivido queste proposte in quattro passi, con un passo zero necessario.

  1. Niente BES

Una premessa necessaria. Si eviti di trattare questi ragazzi nella categoria BES, anche per i rimandi simbolici che questa determina con frequenti effetti iatrogeni e di abbassamento delle attese.
Sono infatti bambini e ragazzi come i nostri, ce n’è di bravi e meno bravi, di più sicuri e più timidi, di più aperti e più chiusi, con  mamme e  papà non tutti eguali. Vivono il dolore del profugo in diversi modi.
Li lega però l’uno all’altro il fatto che sono dentro una tragedia più grande di loro,   stanno vivendo una grande incertezza sul futuro, nell’ansia che il padre non muoia in guerra.
Hanno voglia di tornare a casa e voglia di vivere. Desideri terribilmente normali.
Guai a noi farne una categoria generale psico-pedagogica di sindrome da profuganza educativa di guerra.  Non hanno bisogno di insegnanti di sostegno post-traumatico, né di sacerdoti scientifici del trattamento obbligatorio del trauma. Hanno invece bisogno di vicinanza educativa, di rispetto, di ascolto. E soprattutto di riprendere a  credere nel futuro, per il quale un pezzo di scuola fatta bene anche in Italia  è un primo mattone utile per ricostruire. Non cura pietosa ma speranza. La stessa speranza che esprimono i nostri coraggioso colleghi ucraini che non abbandonano i loro ragazzi sparsi per l’Europa, ma stanno loro dietro in tutti i modi possibili. Possiamo scindere in modo autistico le ore di scuola in Italia dal loro encomiabile impegno via etere? A me pare una bestemmia . Ecco perché la pedagogia del ritorno.

  1. Un necessario dialogo scuola-genitori di prospettiva

In questo primo mese di scuola è  importante che vi sia un colloquio riflessivo e serio tra i nostri insegnanti e le mamme o i parenti che accolgono il nostro alunno o studente ucraino.
E’ un momento necessario per fare il punto di come va la scolarizzazione e di cosa fare a scuola, soprattutto comprendendo la prospettiva in cui si sta muovendo la famiglia per il ritorno in Ukrajna.
Ci sono mamme che pensano di tornare per capodanno: il babbo sta mettendo a posto la casa (Kjiv).

Ci sono mamme rimaste vedove che pensano di tornare dai genitori-nonni  in campagna a rifarsi una vita l’estate prossima (Karkiv). Ci sono mamme ancora per aria perché la loro città è  distrutta (Mariupol) e attendono dove risistemarsi. Storie molto diverse tra loro, fatte spesso di molti se…allora, che senza morbose curiosità dobbiamo condividere per tarare bene quale sia la più corretta scolarizzazione per questo anno e quali elementi della pedagogia del ritorno siano da perseguire.

Soprattutto dobbiamo sapere dalle mamme di Kjiv, Karkiv, Mariupol, ecc.. se prevedono per il loro figlio/la loro figlia la prosecuzione del contatto Dad con gli insegnanti ucraini, quanto e come.
Quest’ultimo aspetto è decisivo per armonizzare la nostra offerta educativa. So infatti  di numerosi casi in cui i genitori ucraini, magari  all’oscuro delle offerte della nostra scuola, preferiscono tenerli a casa e fare tutta la scolarità via Dad. Perdendo così quegli elementi di socialità, relazione, apertura culturale che invece potrebbe dare la frequenza nelle nostre aule,  convivendo con bambini e ragazzi italiani senza perdere il filo della loro carriera scolastica in patria.
E’ ovvio che i diversi obiettivi di vita per le diverse situazioni rendono diversa la domanda educativa. Una buona pedagogia del ritorno non può che considerarli centrali per il nostro impegno.

  1. Il contatto con la scuola ucraina

Nel caso (frequentissimo dalla classe 4 alle 11/12) di desiderio dei ragazzi e delle loro famiglie di mantenere la Dad  ucraina è opportuno che la scuola cerchi il più possibile un contatto con i nostri colleghi ucraini.
E’ molto meno difficile di quanto si pensi. So peraltro che sarebbe molto attesa: gli insegnanti ucraini vorrebbero  entrare in un circuito collaborativo. Lavorare insieme, insomma. Nella speranza del ritorno.
Quasi tutti gli zvitelky (insegnanti) ucraini parlano bene l’inglese, un buon numero anche l’italiano (meno bene), ma hanno tutti skype e la mail, a volte gli manca solo l’elettricità.  Pensate alla loro condizione e alla solitudine di avere le scuole vuote e distrutte, pensate al desiderio di rivedere i loro ragazzi. Pensate all’epoca delle passioni generose nel primo duro lokdown italiano di primavera 2020, in cui migliaia di insegnanti italiani senza aver bisogno del Ministero hanno creato spontaneamente un qualche intenso contatto con i loro ragazzi, anche loro chiusi in casa. In modo ancora più drammatico, sotto le bombe e con le case sfasciate, lo stesso spirito educativo  muove i colleghi ucraini, non i comandi  ministeriali. Non prendono una grivna in più per la Dad, ma nessuno si è tirato indietro. Almeno chi è ancora vivo.

A cosa serva questo contatto tra docenti e scuole è perfino superfluo spiegare: condividere  un comune programma di lavoro, spartendosi un possibile curricolo e soprattutto creando anche ai ragazzi l’emozione di sapere che (Italia o Ukrajna che sia) gli insegnanti si pre-occupano di loro con dedizione e collaborazione. Le straordinarie potenzialità del digitale sono in questo terribile caso, un evento straordinario di pedagogia attiva. Un’esperienza che matura scambi professionali di avvincente valore formativo anche per gli adulti. E fa sentire i genitori dei nostri ragazzi anche loro meno soli in un paese straniero.

  1. Il curricolo binario

Chiamo “curricolo binario” il possibile esito di questo “dialogo professionale” tra colleghi italiani e ucraini. Può realizzarsi anche se saranno difficili i contatti. Il sito del Ministero ucraino abbonda di materiale virtuale, e potrebbe essere seguito da professionisti ucraini in Italia.

Nella logica della pedagogia del ritorno, visto che ai ragazzini ucraini vengono offerte in contemporanea due opportunità curricolari,  tanto vale  non separarle o ignorarsi l’un l’altra. Nei casi più felici, si potrebbe quindi immaginare, caso per caso (i ragazzi non sono nella stessa classe in Italia) cosa potrebbe fare l’insegnante ucraino e cosa l’italiano. Va tenuto conto che chi è in difficoltà (anche materiali) sono loro, non noi. E dunque, buona cosa a partire dalle disponibilità della Dad ucraina, costruire con flessibilità e intelligenza un curricolo personale di Alioscia, Dimitri, Eugenj, Katiuscia, ecc.. nel quale si possano sviluppare alcune attività curricolari in lingua ucraina e altre  nella scuola italiana. Le opzioni sono le più vaste e differenti tra loro. Facciamo alcuni esempi per capirci.

Non c’è dubbio che l’insegnamento della lingua ucraina sia basilare che continui. Qualche ora di ucraino alla settimana sarebbe solo salutare. Sulla storia e geografia forse un insegnamento misto sarebbe interessante, sia per i ragazzi ucraini che italiani, perchè aprirebbe la mente alla scoperta di altri mondi, altre storie, altri luoghi, come de-centramento dal nostro comune solipsismo. Potrebbe invece essere meno significativo l’insegnamento dell’inglese perché più o meno si fa simile sia qui che lì, ma merita eventualmente confrontare le metodologie e gli obiettivi previsti di anno in anno. Per quanto conosco le scuole post-sovietiche penso che l’insegnamento della matematica potrebbe essere affidato alla scuola ucraina, che ha una lunga eccellente tradizione. Il che non vuol dire non mescolare eventualmente i metodi, che potrebbero persino essere utili ai nostri italiani.

Forse le discipline artistiche potrebbero essere meglio affidate alla scuola italiana. Ma non voglio dire di più, perché ogni scuola e ogni classe è diversa, e credo nella creatività e sensibilità degli insegnanti.

  1. Bagatelle formali

Naturalmente un curricolo binario apre questioni “formali” di cui la nostra scuola italica abbonda per eccessi burocratici spesso inventati. Ricordo a chi mi legge che l’art. 4 del DPR 275/99 Regolamento Autonomia prevede esplicitamente la flessibilità didattica, che l’art. 8 dello stesso DPR prevede il curricolo locale, che sempre l’art. 4 prevede forme particolari di valutazione diverse da scuola a scuola. Cose presenti e legittime ma dimenticate nel noioso tran tran di una scuola che non cambia mai.

Per quanto riguarda la valutazione,  ricordiamo che i ragazzi ucraini desiderano diplomarsi in patria, non in Italia, e che la nostra valutazione deve diventare nel tempo un aiuto alla scuola collega quando torneranno a casa, non a fare scale e misure formalistiche. Quindi anche su questo un dialogo con i colleghi ucraini sarebbe quanto mai utile per crescere reciprocamente.

Infine, una questione delicata  riguarda la classe di frequenza dei nostri ragazzi, perché in primavera si sono fatti molti pasticci per la fretta e per la non conoscenza della loro scuola. Sempre nella logica della pedagogia del ritorno, dobbiamo tener conto che la loro scuola primaria termina alla classe 4 e che dalla classe 5 alla 9 c’è una lunga scuola media unitaria.  Poi ci sono 2/3 anni di scuola superiore. Tutti questi 11/12 anni obbligatori. Quindi i ragazzi ucraini hanno l’obbligo fino a 17/18 anni ed entrano all’università un anno o perfino due prima dei 19 enni italiani.  Possiamo farli rallentare solo perchè sono in Italia? Per questo ho suggerito spesso di utilizzare con lucidità quello che le norme italiane sugli studenti stranieri al loro accesso in Italia prevedono: che siano inseriti anche o in una classe prima o in una dopo dei cicli tradizionali italiani.  In particolare per quanto conosco delle loro scuole e dei diversi curricoli, penso che sia delicata la situazione dei bambini di classe 5, che in Ukrajna  è la prima classe della serednja skola (scuola media) e da noi invece è ancora nella primaria.  L’esperienza mi ha fatto proporre spesso un “salto” in avanti di un buon numero dei nostri arrivati in primavera, perché palesemente adeguati ad inserirsi nella nostra prima media. Ogni caso va visto a sé, anche questo è tema da considerare con le loro famiglie.

Lascio qui altre questioni, per esempio quella dei mediatori linguistici se sono o meno necessari (ovviamente dipende), o se sia possibile utilizzare studenti universitari (o insegnanti anch’essi profughi) ucraini per svolgere il curricolo binario qui proposto come adattamento della loro scuola in Italia nel caso non sia possibile un qualche collegamento con la scuola ucraina. Caso che può essere residuale visto l’impegno dei nostri colleghi  laggiù.




Standogli accanto (a proposito di dispersione scolastica)

di Raffaele Iosa

Nel sito www.proteofaresapere.it Dario Missaglia ha pubblicato un coraggioso articolo sulla cosiddetta “dispersione scolastica” e il PNRR dal titolo “La variante semantica”.
Una critica dura e convincente sulle diffuse contraddizioni circa l’interpretazione, le ragioni e i possibili interventi per ridurre in Italia le bocciature e gli abbandoni scolastici fino ai NEET, e sui rischi di un welfare compassionevole che sta invadendo l’educativo con varie forme di “assistenzialismo riparativo” di incerta e quanto meno dubbia efficacia.

È lapidaria, al proposito, una citazione che Dario riprende da un recente saggio di Alberto Alberti (nostro comune amato maestro) che demolisce la bizzarra variazione che hanno oggi le parole utilizzate per spiegare il fenomeno con l’ormai invasivo termine “dispersione”. Parola da fumo atmosferico, in cui si descrive il “disperso” come una malattia individuale.

Malato è (sempre) il disperso, non la scuola che lo boccia. Scrive Alberto Alberti:
Gli interventi comunitari garantiscono aiuto alle scuole ma in maniera esclusivamente aggiuntiva … Il problema da interno si sposta all’esterno. Non si mette in causa la scuola che boccia e allontana. Si mette sotto accusa il territorio sbagliato … la scuola è quella e rimane tale, non può adeguarsi alle esigenze degli allievi. Sono sbagliati gli allievi.

Per questi ragazzi sbagliati servirebbero cure che solo alcuni professionisti dell’abbandono possono garantire. Che siano del Terzo settore, e che la scuola sia obbligata a fare con loro i cd. patti di comunità è solo la parte venale della questione (i soldi…), quella più grave è la questione ideologica di questo obbligo, cui le neo-parole sui “bisogni” che diventano “problemi”  che si fanno “deficit” intende dare un vestito persino scientifico.  Parole che favoriscono la delega della scuola all’esperto, che se è perfino (a modo suo) un volontario assume un carisma missionaristico.

A questa “malattia” il PNRR proporrebbe alcuni interventi di “recupero riparativo” in cui un soggetto professionale “esterno” pare indispensabile in quanto (solo lui)  esperto. Certo, con la scuola, ma un soggetto asimmetrico soi disant competente. Il rischio che il tutto diventi una delega in bianco ai sacerdoti del welfare compassionevole è alto.  Il rischio che la scuola non cambi nel profondo stili di insegnamento e abitudini educative (cioè quelle che bocciano) è perfino maggiore: tanto ci sono loro a pensare agli sfigati e ai poveracci. Un po’ come con i nostri studenti con disabilità l’esaltazione del docente di sostegno come unica opzione inclusiva.


Questo mio commento vuole solo aggiungere poche cose ai ragionamenti di Dario, su alcuni aspetti che mi stanno a cuore, tra cui la deriva iatrogena che questa neoideologia dei dispersi produce assieme a molte altre dominanti oggi nelle nostre scuole. E cioè neo-parole e interpretazioni che imputano all’altro la sconfitta per una sua propria inadeguatezza (sociale, biologica, genetica, ecc..), cui il sacerdote del dolore offrirà lenimento, liberando la scuola dal dovere onestamente autocritico di interrogar-si sul proprio agire educativo, disciplinare e sociale,  per garantire a tutti lo sviluppo di tutti i possibili potenziali esistenziali e cognitivi.

Nel fantasioso mondo dei bes

Ho tra le mani un vecchio libretto di Ivan Illich (1977) dal titolo radicale  Disabling professions(1),  profetico sul nascere di vaste aree di neo-professionisti del dolore che partendo da alcuni “bisogni” riconvertiti in “problemi” costruiscono diagnostiche, terapie, seduzioni compassionevoli e assistenziali di dubbia efficacia, se non la dipendenza del “bisognoso” cui non si offre autonomia ma un banale adattamento delle attese (la cura “recuperante”), con un proprio status per non essere estraneo al mondo ma mai cittadino del tutto libero del proprio sé.

La profezia si è avverata: in Italia gli studenti con disabilità sono raddoppiati in soli 20 anni, i cd. DSA ormai, a 12 anni da una legge iatrogena, li hanno sorpassati. Ma c’è di più: forse non è un caso che proprio lo stesso Marco Rossi Doria della “questione delle questioni” sul PNRR sia l’autore di una direttiva del 2012 che ha introdotto nella scuola una neo-lingua diagnostica che definisce i bambini e ragazzi che abbiano un qualche “bisogno” come bes, cioè educativi speciali. Gli effetti sono stati quanto meno discutibili, e producono un effetto stigma (anche se in buona fede) che può produrre più effetti indesiderati di quanto si pensi. Il principio pratico del bes è la logica della dispensa e della compensa, cioè di una pratica isolante dove si può dare al nostro bes meno cose da fare o cose adattate per varie vie.  Ma è una dispensa e una compensa dal mainstream classico di molti insegnamenti, mai messi però in discussione come la fonte invece dei malanni educativi.

Trovo sconcertante che per i ragazzini ucraini a fronte dell’imbarazzo di molti buro-pedagoghi delle scuole sul che fare (le prove invalsi si o no? Se fanno la loro Dad di mattina devo considerarli assenti o presenti?) il Ministero abbia suggerito alle scuole di considerarli bes, di farci sopra un PDP, così le carte sono a posto. E le persone?
Questa esplosione neo-epidemica l’ho chiamata criticamente in diversi saggi “La Grande Malattia”, non un fenomeno solo italiano, e rappresenta una riconversione del welfare  da strumento di sviluppo olistico e autonomo a trattamento isolante dei  sintomi, visti appunto come disturbi.
È noto come questa esplosione di nuove sindromi non abbia affatto migliorato la qualità degli interventi educativi né ridotto la vasta conflittualità tra gli insegnanti e i genitori.
È in questo humus ideologico che rischia di collocarsi anche la politica del PNRR nei confronti della dispersione scolastica, con cure adattative delle singole persone partendo non dai loro potenziali e talenti, ma dai loro sintomi problematici cui offrire la nostra benevola terapia.

Su questo la questione che a me come educatore turba di più  è l’effetto-paradosso che questa filosofia delle cure speciali sembra produrre. È argomento di numerosi studi(2) critici che però in Italia non hanno particolari effetti di ripensamento. Questi studi rilevano come la definizione dell’altro come “problema-deficit” cui offrire una “cura speciale” produce spesso nell’operatore (educatore, assistente sociale, insegnante, psicologo, ecc..) un ridimensionamento della possibile “zona prossimale di sviluppo” vigotskijana della persona: cioè  (per motivi clinici, di stigma, persino di assistenzialismo benevolo) ci si attende meno da questo altro, anzi si ritiene buona cosa non esagerare stimolando troppo i suoi (magari pochi) potenziali. E così pare di fargli persino un piacere adattativo. Col che passa anche all’altro (e alla sua famiglia) un “abbassamento delle attese dell’io”. Dunque lo sviluppo viene ridimensionato e non realizzato come sarebbe invece possibile. È l’effetto iatrogeno che produce spesso negli interventi sociali ed educativi degli adattamenti al ribasso con conseguente consolidamento della cronicità e quindi di una condizione assistenziale perpetua.

Questo effetto iatrogeno lo si sente anche  nelle discussioni sulle iniziative di contrasto alla dispersione. Cure assistenzialistiche di un difficile “recupero” col rischio di uno sperpero di impegno (prima professionale che economico) senza cambiamenti veri ma solo parziali e incerti adattamenti. E soprattutto il rischio che questo Intervento del PNRR resti come un una tantum, questo sì disperso in una scuola che non cambia profondamente il suo fare quotidiano. Il rischio, insomma,  è che ancora una volta l’assistenzialismo compassionevole venga calato sull’altro dall’alto, abbassandone i potenziali e accentuando il diventare un eterno paziente di qualcuno.

A proposito di povertà educativa

Uno dei segni di rischio iatrogeno che si possono produrre negli interventi ad hoc sulla dispersione è l’abuso che oggi si fa del termine “povertà educativa”, che diventa l’icona entro cui collocare tutti i bocciati e abbandonati con basso reddito. Qui davvero la variante semantica è grave.
Ho già scritto altre volte che per don Milani poveri non erano i suoi ragazzi ma i loro insegnanti di scuola media che li bocciavano senza alcun pentimento.

Comunque perché non diciamo lucidamente che in Italia la dispersione continua ad essere semplicemente la tradizionale e mai superata selezione di classe? Perché così è: l’aumento della povertà economica è un accidente grave del nostro paese,  e non c’è alcun dubbio che un ragazzo povero che magari vive in zone disagiate ha meno opportunità. Ma perché aggiungere al termine povertà quell’altro (molto più delicato e complesso) di educativo? Come se i figli dei ricchi fossero tutti gentili, cortesi, aperti, ecc. E come sei i poveri fossero tutti maleducati e sporchi.

Non è difficile qui trovare un pregiudizio illuministico del rapporto tra ricchezza e felicità. E un pregiudizio che contiene una sorta di metafora rieducativa per la quale i sacerdoti del dolore dovrebbero ri-educare al bene e al bello il povero maleducato estirpando le brutte abitudini culturali date dalla povertà. Qui le parole pesano come pietre e ottengono effetti perversi.
I ragazzi poveri hanno meno opportunità, ma un’educazione ce l’hanno, potrebbe essere a volte più profonda e creativa dei signorini  di città. Basta star loro accanto e scoprire i loro talenti.
Forse avere anche una politica di contrasto alla povertà economica più coraggiosa, per esempio con un aumento dei redditi da lavoro. Circa il rapporto tra ricchezza e felicità, forse merita ricordare sempre, a proposito delle famiglie, l’incipit di Anna Karenina di Tolstoj  “Tutte le famiglie felici si assomigliano, quelle infelici invece lo sono ognuna modo suo”.

Infine,  la categorizzazione del rapporto tra povertà e educazione in una neo-lingua unitaria rischia di produrre un mucchio opaco di stigmi compassionevoli dove si mettono dentro tutti i ragazzi poveri come fossero tutti uguali, a scimmiottare con tutor, mentor, e altri anglicismi che ripetono a tutti la stessa bonaria paternale.
Naturalmente, non si tratta solo di neo-parole controverse, ma di una visione del mondo, della società e del ruolo dell’educazione che ha oggi un contrasto vivo tra diversi punti di vista.

La nostra differenza dai sacerdoti della povertà educativa è chiara. Per questo dobbiamo però avere il coraggio di ragionare con maggior forza sui cambiamenti radicali necessari nel sistema educativo, nel fare scuola quotidiano. È li che nasce la malattia, assieme al bisogno di una comunità sociale quasi scomparsa (e da far rinascere) attorno alla scuola che sia dialogante, coinvolta, attiva, per una sussidiarietà orizzontale che non sia la delega a qualcun altro, ma l’impegno duro e difficile a migliorare insieme (scuola, comune, società civile, famiglia) la qualità della vita con una comunità di reciprocità, con l’umiltà di sapere che la vita è difficile, ma che ci resta solo una via: un’umanità che pensi al futuro dei nostri figli e nipoti con partecipazione attiva.

Standogli accanto

Un noto passaggio della Lettera a una professoressa ci può dare un primo piccolo ma essenziale paradigma trasformativo di cosa potrebbe voler dire davvero contrastare la dispersione. L’ho letto la prima volta alle magistrali, scuola che ho fatto perché figlio di poveri (durava quattro anni), e questo brano ha segnato la mia vita e i miei sogni professionali di maestro e privati.

Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non lo sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio.
Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e in seguito non lo sono più, è colpa nostra e tocca a noi rimediare.

È questo standogli accanto la chiave trasformativa di una buona educazione. Genitori o insegnanti o operatori sociali o volontari che siano. E la scuola la chiave per innalzare le attese e le passioni nella vita di ogni bambino e ragazzo. Standogli accanto, non sopra, non dietro. Non guidarlo con le nostre cure, ma aver cura del nostro ascolto e dei nostri miti e ragionevoli stimoli a lui.

Questo per i bocciati di ieri da aiutare e per quelli a rischio bocciatura di oggi. Con l’umana umiltà che fa l’onore del nostro mestiere quando sentiamo viva la responsabilità adulta di un’educazione buona per tutti, qualsiasi sia la loro condizione.

¹Ivan Illich et al., Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Trento, Erickson
²Allen Frances, Primo, non curare chi è normale, Torino, Bollati Boringhieri
Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli

 

 

INTORNO ALLA VARIANTE SEMANTICA. QUALCHE RIFLESSIONE.
– di Eliana Romano, presidente Proteo Fare Sapere Sicilia.
7 luglio 2022

Quel che scrive il nostro presidente, Dario Missaglia, come sempre ravviva il lume del mio intelletto; costringe a porsi domande, ad interrogarsi, con la sua stessa modestia intellettuale e la medesima fermezza. Domande sui tanti problemi della scuola italiana e sulla piega con cui li si affronta.
È una piega sempre gualcita che nasconde, da qualche parte, la volontà di affrontare ritardi, disagi, distonie sempre superficialmente, a vantaggio magari di qualcuno che solo ogni tanto è la scuola reale.

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Un premio Nobel per insegnanti e studenti ucraini

di Raffaele Iosa

Giorno 43 di guerra.
Continuo a scrivere sui nostri bambini e ragazzi ucraini profughi nelle nostre scuole. In questi pochi giorni ho raccolto decine di storie, seguito varie accoglienze (belle e brutte), avuto contatti (difficili) con vecchi amici delle terre slave. Ho fatto una decina di webinar a gruppi di scuole.

E sono giunto ad alcune considerazioni che qui ora è per me doveroso raccontare.

  1. Sono insegnanti da Nobel (della pace)

Sono stato il primo in Italia, a metà marzo,  a scrivere di questa strana  “Dad di guerra” che avevo scoperto per caso dai primi racconti (ancora incerti su cosa volesse dire) di alcuni nostri insegnanti e presidi.
Oggi sappiamo molto di più:  questa Dad non è un fatto casuale ed episodico  ma intenzionale. Già in un mio post su fb del 17 marzo,  “Pedagogia dell’infosfera”,  ne parlavo come uno straordinario evento educativo. Lì avevo segnalato anche il sito del ministero ucraino con un settore  intitolato education in wartime, in inglese, finora ancora troppo poco aperto dagli insegnanti italiani.

Ecco in sintesi essenziale di cosa si tratta. Prima che iniziasse la  guerra, il ministero istruzione ucraino si era preventivamente preparato,  utilizzando l’esperienza di Dad svolta anche da loro ai tempi del COVID.19, e l’ aveva prevista nell’eventualità della “chiusura fisica” delle scuole per guerra.  valorizzando le diffuse competenze digitali dei docenti ucraini. Ha poi accompagnato la proposta della Dad nel wartime, affidata alle singole scuole, con una vasta mole di “lezioni asincrone” da scaricare dal loro  sito, suddivisi classe per classe dalla 1 alla 12, approfondendo soprattutto quattro discipline: ucraino, matematica, scienze, storia. Dice il sito che è un “primo apporto di strumenti, nell’intenzione di ampliarli”. Poi il 24 febbraio parte la guerra ed  esplode un’esperienza pedagogica senza alcun precedente storico.

La Dad “sincrona” funziona più o meno così: sulla base di un “calendario” predisposto dagli insegnanti della scuola che siano ancora viventi e in grado di connettersi, i ragazzini di ogni classe vengono contattati in genere ogni mattina, per circa tre ore al giorno di “lezione”. A volte danno anche “compiti” se possibile farli e hanno anche  strumenti di una qualche verifica. Mettiamoci nei loro panni:  ad esempio una certa insegnante Svetlana 15 minuti prima manda un sms ai suoi ragazzi, poi si collega. I ragazzi sanno che se suona la sirena (bombe in arrivo) Svetlana spegne, ma restano in attesa se poi riprende.

Lei può essere ancora in Ucraina ma anche profuga in un paese europeo. Come i suoi ragazzi, uno in Italia, due in Polonia, altri in Slovacchia, Germania. Perfino in Spagna. Svetlana si collega…e parte una meraviglia. Ho seguito due “lezioni” in Dad, seduto in un angolo quasi nascosto, e mi sono commosso. Era evidente al mio cuore di vecchio pedagogo che certo contava la lezione, ma centrale era “la relazione” per  quelle anime sparse in Europa, fatta di calorosi saluti, sospiri, chiacchiere, fino ai baci lanciati online.

Nel secondo caso non ce l’ho fatta a tacere, e poiché Svetlana parlava un po’ di italiano l’ho  salutata con poche parole (troppe fa compassione) dandole un affettuoso ciao e soprattutto un complimento immenso per il suo coraggio, realizzato in uno scantinato semibuio di dove non posso dire e neppure so. Svetlana mi ha detto “spassiba per i nostri bambini”. E ovviamente, dasvidanje, Svetlana. Tra noi non finisce qui.

Per chi non riesce a connettersi e nei casi in cui l’insegnante sia in un luogo senza elettricità, per tutte le situazioni complicate, si scaricano le lezioni asincrone, con un piano ordinato di svolgimento.

Gli insegnanti italiani che ho contattato e le mamme ucraine incontrate mi confermano che tutti (ripeto: tutti) i ragazzi non vedono ora che ci sia il contatto. Mi raccontano che nessun insegnante si è tirato indietro a questo nuovo arduo compito, che anzi offre anche alla sua anima segni di speranza e di vita.

A questo punto un commento serio si impone. Questa guerra  sconvolge non solo l’Ucraina, ma di riflesso anche noi, però sono dispiaciuto del fatto che di questa straordinaria esperienza didattica se ne parli troppo poco e che resti in ombra come un fatto minore. Capisco che inorridisce e sconcerta la miriade di ucraini ammazzati nel fango, e preoccupa se questa estate dovremo usare meno il condizionatore. Ma un qualsiasi umano che sappia di bambini non può non  riconoscere in questa formicolante azione digitale che corre nella nostra infosfera un “poema pedagogico” inatteso, con  una valenza educativa e anche politica che rende onore agli ucraini.
Dalla terra  dell’ucraino Makarenko una storia altrettanto grandiosa.

Senza fare troppe esegesi geopolitiche, in questo impegno degli insegnanti  trovo la stessa  coraggiosa “resistenza civile” con cui il popolo ucraino risponde all’aggressione brutale dell’orso russo. Un’identità nazionale di senso civico, una citoyennitè che pochi europei si sarebbero aspettati prima,  l’orgoglio coraggioso di un popolo che non si arrende,  disposto a tutto per la sua libertà. E che se è costretto a mandare i figli fuori dal paese per salvarli, intende farlo per poco. Tornare a casa è il loro destino, che tocca a noi italiani rinforzare con un’accoglienza mite, empatica, non invasiva, efficace.

E, dunque, a fronte dei loro piccoli costretti a scappare dalle bombe  in Europa  per salvarsi, la scuola non chiude “per guerra”, ma anzi  mantiene in tutti i modi un saldissimo filo profondamente umano, ricrea (anche se virtuale) la comunità che apprende. Una comunità che così vuole e crede  futuro.

Ma ci sono due cose in più, squisitamente educative. In questa relazione virtuale sento, prima di tutto, la magia dell’I CARE donmilaniano, del non perdere nessuno, della “cura” umana ed esistenziale che dobbiamo ai piccoli e giovani, quella “cura dell’anima ferita” che Stefano Versari nella sua nota del 24 marzo scorso propone anche agli insegnanti italiani perché tema non clinico ma pedagogico e didattico.

In secondo luogo, il ricreare comunità attraverso la Cultura è collante indispensabile per il loro futuro. E’ la cultura  aperta creativa e critica il destino di un paese civile. Ed è la lingua (come logos, non come ethnos) la koinè che dall’infanzia  lega un popolo. Lingua e cultura sono l’antidoto alla barbarie. La cultura per poter pensare e scambiare con gli altri  simboli e  valori.  Ecco perché tenere  aperta la scuola è un atto di civiltà.

Naturalmente io sono un nessuno per candidare questi insegnanti al premio Nobel della pace. Ma mi permetto il coraggio sfrontato di proporlo. La vera risposta di pace alla barbarie, agli odi, ai conflitti, alle prepotenze è la scuola e la cultura che da lì si allarga. Lo meritano per il coraggio e la sensibilità che mettono nelle loro lezioni, in contesti martoriati, sotto le bombe, nascosti in cantine, rifugi, scantinati.
E questa scuola virtuale,  che funziona nonostante tutto,  a me pare uno dei più forti segni di pace per un paese martoriato e per un mondo disorientato da questa epoca di guerra.

 

  1. Questi bambini e ragazzi ucraini. Anche per loro il Nobel?

Da numerosi racconti fin qui raccolti, emergono alcune caratteristiche interessanti di questi bambini ucraini arrivati da noi.  Prima di tutto: non sono moltissimi. La gran parte di loro si sono fermati in Polonia o non lontano e già questo è un segno del desiderio del ritorno. In più la Polonia, come la Slovacchia hanno una lingua che assomiglia di più all’ucraino che il russo. Non è una sorpresa questa per molti di noi? Non fa pensare a qualcosa che si chiama “storia”? Quanto conosciamo la loro storia?

L’impressione generale è che si tratta di bambini probabilmente provenienti da centri urbani, con famiglie di ceto medio. Una prima valutazione delle loro competenze in genere sorprende i nostri insegnanti: sono molto più avanti in matematica, parlano l’inglese meglio dei nostri, sanno di informatica. Molti di loro a casa facevano un qualche sport. E nelle nostre scuole più accoglienti gli insegnanti e il comune hanno già trovato società sportive che li accoglie. Naturalmente tutti i maschi che giocano a calcio sembrano Sevchenko. Soprattutto per la classe 5 (che per il loro curricolo è come la nostra prima media) mi pare quasi per tutti improponibile metterli in 5.a primaria. Troppo scarto e perdita di tempo. In genere non presentano segni di tristezza o ansia,  né sembrano timidi. Pare dunque che in loro la resilienza sia forse più forte di quella delle loro madri accompagnatrici. Ma la tristezza è dietro l’angolo. E nel cellulare, che non serve loro solo per collegarsi alla loro Svetlana, ma anche ascoltare il babbo rimasto laggiù, che chiama quando può.

Se una scuola accogliente è sveglia potrebbe avere da loro molti spunti per mescolare le differenti esperienze educative, mutuando le une con le altre. Per esempio la loro educazione al lavoro…

A questo punto, perché non proporre anche a loro il premio Nobel per la Pace assieme ai loro insegnanti?

L’esperienza di questi pochi ma intensissimi giorni, inoltre mi permette qualche suggerimento

Prima di tutto è indispensabile un colloquio con la madre o l’adulto che li accompagna. Uno per uno. Di reciproca conoscenza e di approfondimento sul “chi” è del ragazzo/a, i suoi talenti, interessi, desideri, paure insicurezze. Ci serve anche per far conoscere meglio la nostra scuola come funziona. Si potrebbe fare bene anche in inglese, forse servono meno mediatori di quanto pensiamo. Questa è anche l’occasione di approfondire quale sia la classe giusta dove inserirli, evitando per loro una regressione. Ma serve anche a dare “idee sociali” da offrire al ragazzo/a e alla sua famiglia sulle attività sportive e sociali presenti nel territorio, e sulle reti amicali. Mandare un ragazzino ucraino in classe al vuoto, senza accoglienza e reciproca informazione sarebbe una vergogna pedagogica.

Ricordo inoltre che le mamme ucraine hanno alcune caratteristiche che merita conoscere.
In Ucraina l’età media delle primipare è  26 anni, a differenza delle nostre che è di 32.  In Ucraina i laureati di 30-40 anni sono il 56% della popolazione, a differenza dei nostri che sono solo il 29%. Avremo quindi madri mediamente più giovani delle nostre e più “studiate” delle nostre. Alcune potrebbero essere insegnanti o esperte che potrebbero essere utili a tutta la scuola. Teniamone conto. L’Ucraina ha una scuola seria.

Ho qui davanti a me un SMS appena arrivato  su una ragazza ucraina al suo primo giorno: si è trovata molto bene, ha legato in particolare con un compagno macedone perché si capiscono molto tra le loro due lingue e poi….parlano tutti e due inglese. Il ragazzino macedone ha fatto da Virgilio alla nostra ragazzina ucraina che (mi dice il messaggio) “lo ha lodato per la disponibilità e la pazienza”. Il messaggino ci insegna molto sull’individuazione della classe, in cui perfino la nostra plurale presenza di alunni stranieri in classe potrebbe essere una risorsa. Reciproca.

Dulcis in fundo, forse una bella riunione tra tutte le famiglie degli studenti della classe potrebbe creare occasioni d’oro di amicizia, solidarietà, accoglienza. Ricordiamoci: poche feste e salamelecchi all’inizio, non sono in vacanza. La festa la faremo quando torneranno a casa loro, amici per sempre perché non siamo stati invasivi e distratti, ma empatici e giustamente lenti.

  1. Per una scuola più accogliente un’esperienza che va fuori dei luoghi comuni

 Mi sono arrivate numerose richieste di informazione su tante cose, apparentemente minime, ma che attanagliano a volte le nostre scuole  spesso rese ansiose dalla panna montata del “regolismo para-carcerario e iper-regolato che attanaglia i comportamenti quotidiani.

Ne segnalo alcuni per evitare di far fatica per nulla e crearsi fantasmi.

Il cellulare, ad esempio. Non è difficile comprendere il valore del cellulare per questi ragazzini. Serve a loro per cose molto utili, quali il traduttore google simultaneo, l’uso per collegarsi in Dad se serve, e soprattutto l’attesa di notizie dal padre in Ucraina. Non dimenticate mai: questo è il loro cruccio principale e quello delle loro madri. Il padre è rimasto per la guerra. Inutile, se siete umani, farvi capire perché hanno questa umanissima ansia. Quindi questa vicenda butta per aria il regolismo a volte isterico di certe scuole sull’uso del cellulare, e potrebbe anche insegnare ai nostri ad avere un uso più saggio del loro cellulare. Potrebbe accadere anche che un ragazzino ucraino diventi amico-amico di un coetaneo italiano, al punto che il secondo si mette a studiare ancora meglio l’inglese. E si parlano, dio se si parlano!
Il ragazzino ucraino chiede all’altro di farsi insieme un selfie nell’aula, loro due abbracciati, che vorrebbe fare “for my father and my teacher”. E se lo fanno sorridenti. “Babbo, maestra, avete visto? Sto qua, ho amici, sto bene. E voi?”. Così scrive il nostro ospite sotto la foto inviata. E il compagno italiano la fa girare nei suoi circuiti orgoglioso, scrivendo sotto “io e il mio nuovo amico Oleg”. Ci potrà mai essere in Italia una stupidissima regola che vieta tutto questo? Provo solo brividi di piacere nel vedere come  questa accoglienza può aiutarci a sgretolare tanto conformismo regolativo che soffoca  la vita educativi.

L’Invalsi, per esempio. Me lo chiedono in troppi per non essere vero: devono fare i test?  E assieme a questo la valutazione, le pagelle, gli esami. Ricordo che nella nota Versari già citata questo periodo è proposto come “tempo lento per l’accoglienza”, centrato sull’empatia, la socialità, il primo italiano basic, e soprattutto come continuare il loro curricolo ucraino appoggiato al nostro. Ho già scritto in altri articoli che si sa che il ministero ucraino e il nostro e stanno concordando tutti gli aspetti (chiamiamoli così) “di forma” che rendono ansiose più scuole di quanto pensavo. Aspettiamo quindi che ci arrivino questi accordi di collaborazione e di organizzazione della loro accoglienza qui da noi. Vedrete che è tutto più semplice.
Fate invece quello che serve davvero a loro, non alla compilazione dei moduli e dei verbali.

La loro Dad, per esempio. Qui mi pare che le scuole inizino a comprendere. La loro Dad in wartime, se è presente, è al centro della nostra azione, è proprio quel “curricolo ucraino” che serve a loro per “non perdere l’anno” non in senso formale ma sostanziale. Quella deve essere quindi la base del nostro lavoro didattico e relazionale. Il nostro lavoro quindi deve saper accompagnare, sviluppare approfondire,  arricchire la loro esperienza scolastica, non essere in contrasto! Quindi dobbiamo capir bene come funziona, cosa fanno e poi rabboccare noi. Questa esperienza è del tutto originale nelle forme di accoglienza, prevede il ritorno a casa. Una seria pedagogia del ritorno deve quindi partire da lì. Mi sono perfino giunte richieste se queste ore vanno segnate “in assenza” oppure “in presenza” anche se fatte (come piace a me) a scuola in uno spazio calmo dedicato. Forse ci voleva una guerra (scusate questa frase) per renderci conto di quanto il nostro regolismo formalistico a volte ci rende ridicoli.

C’è intorno a noi il bello, per esempio. Ho frequentato molto per volontariato sociale legato a Chernobyl le terre (diciamo così) post sovietiche.  Mi sono fatto molti amici. Non ce n’è uno che parlando dell’Italia magari sa poco della nostra politica (e forse non ci perde molto) ma tutti ti dicono con un sospiro “Ah, Firenze! Ah, gli Uffizi! Ah Venezia! Ah Roma e la romanità! Ah, Capri!”. L’Italia è per antonomasia la terra del bello. E dunque, non potrebbe essere l’occasione per portarli nel bello di tante nostre città e paesi? E godere con loro il contatto con la bellezza? Platone ci diceva che il bello è buono. Questa volta forse ha ragione: a questi ragazzini incontrare il bello può far bene. E con loro anche a noi e ai nostri italici, dopo due anni senza gite.

A proposito, due pettegolezzi. Mi ha telefonato l’ufficio didattico della Galleria degli Uffizi per avere suggerimenti su come organizzare visite guidate per gli ucraini. Prendete nota. Secondo pettegolezzo, più ,prosaico: io sono di origine veneziana e non c’è nessun amico post sovietico a cui non riveli il segreto pontile lungo il Canal Grande dove con 50 centesimi ci si fa traghettare in gondola da una riva all’altra. Un passaggio in gondola quasi signorile




Dall’Ucraina, la pedagogia del coraggio

di Raffaele Iosa

Nel video pubblicato nel canale youtube di Gessetti Colorati riporto una notizia per me strabiliante: moltissimi insegnanti ucraini si collegano in Dad con i loro ragazzi sparsi per l’Europa.
E’ proprio una pedagogia del coraggio che fa onore a questi colleghi.

Ho ricevuto numerose richieste di informazioni e se si può sapere di più, per avere la necessaria armonizzazione tra la loro Dad e la nostra accoglienza a scuola.


Riporto qui tre primi casi interessanti raccolti, omettendo informazioni delicate (es. da quale città parte la Dad), utili a comprendere che siamo davanti ad un evento pedagogico straordinario.
Continuo a pensare a Svetlana, Olga, Katiusha, Oleg che dai loro rifugi nascosti si collegano con i loro ragazzi. Una pedagogia europea del coraggio che ci insegna molte cose.

DALLA ROMAGNA

Due fratelli, uno primaria (cl. 1-4), l’altro media (cl. 5-9) si collegano ogni mattina con un insegnante che manda 15 minuti prima un messaggio di avvio. Tre ore di diverse “lezioni”, con rotazione degli insegnanti. I due ragazzi vivono con grande partecipazione queste “lezioni”, rivedono i compagni (quasi tutti presenti), ci sono scambi di informazioni semplici e rinforzanti.
La “Dad” è organizzata dalla scuola, non dai singoli insegnanti, segno che c’è una volontà collettiva di realizzare questo impegno, quanto mai gradito dai ragazzi. La scuola romagnola offre per queste tre ore spazi tecnologicamente attrezzati anche con un grande schermo per lavorare meglio. Domani le insegnanti italiane cercheranno di parlare con le colleghe ucraine per “fare squadra” e soprattutto condividere le comuni emozioni di accoglienza. Così la scuola romagnola saprà anche meglio cosa fare per loro a scuola e nel tempo libero, anche in previsione dei patti di comunità per l’estate, per offrire ai ragazzi ucraini opportunità e amicizia.
Visto che la scuola è vicina a casa mia, in settimana vado a salutare i ragazzi e le loro maestre.

DALL’EMILIA

Due fratelli ucraini con la madre. L’iniziativa delle lezioni in Dad non è delle maestre ma della scuola. Per il più piccolo ci sono due maestre, una che trasmette tutti i giorni e un’altra che insegna inglese, informatica ed ed. fisica.
Il fratello maggiore invece segue un programma allargato. Tutti gli insegnanti (fisica, algebre/geometria, biologia, inglese, letteratura …) si collegano. Non hanno un calendario o un orario fisso, ma riescono tutti i giorni. a collegarsi. Non si sa da dove lo fanno e interrompono la lezione solo in caso di sirena per bombardamenti.
Il maggiore ama fare sport, e quindi ci stanno pensando ad offrire opportunità. Si collegano alla Dad dalla scuola italiana frequentata in questi giorni, e poi svolgeranno con noi le altre attività considerate utili a completare il loro curricolo. Ma prima, ovviamente, viene il loro re-incontrare gli insegnanti e gli amici.

DALLA CAMPANIA

Una madre ucraina con due figli è ospitata da un’ insegnante italiana. I bambini non si sono ancora iscritti a nessuna scuola perchè frequentano le lezioni a distanza ucraine. La loro scuola, un gimnasium, ha organizzato la didattica on line. Hanno anche un planning di lezioni. Tutte le insegnanti dei figli stanno tenendo le lezioni da varie parti (una dalla Polonia). Stanno anche seguendo le lezioni per le certificazioni linguistiche.
Come si vede da questi primi piccoli esempi, ci sono diverse risposte, tutte con segnali di un grande impegno delle scuole ucraine a continuare a seguire i propri ragazzi. Un impegno nato dal basso e che non ha “chiesto il permesso” alle scuole ospitanti all’estero per iniziare. Le insegnanti espatriate partecipano anche loro.
Un grande coraggio. Segno di una solidarietà pedagogica e di una cura dei ragazzi ammirevole, se si tiene conto da dove e come partono questi contatti.
Dobbiamo tenerne conto per una scuola “a doppio binario”, per armonizzare i loro contatti con i compagni e gli insegnanti ucraini con cosa noi potremmo offrire loro per un’accoglienza scolastica e umana efficace.
Mi farebbe piacere raccogliere qui altre storie come queste. Farle circolare è strumento utile per noi italiani a comprendere come offrire una migliore accoglienza possibile.
Aspetto quindi, se ne avete, racconti ulteriori da socializzare.




Pedagogia dell’infosfera, tra Ucraina e Italia

di Raffaele Iosa

17 marzo 2022 mattina.
Sono online con Reggio Emilia ad un incontro con i dirigenti scolastici e la Provincia sul tema dell’accoglienza dei bambini e ragazzi ucraini profughi. Buone idee, molto impegno. Dico le solite cose che scrivo in questi giorni: sobrietà, empatia, poche feste e tv all’arrivo (le faremo quando torneranno a casa), no a compassione svenevole, no a domande pettegole, ma molto ascolto e comprensione, serenità e amicizia vera senza fronzoli. Prima di tutto dare continuità e connessione alla loro esperienza scolastica in patria e adesso da noi. Non devono perdere l’anno. Ma soprattutto prepararli per il ritorno, che tutti vogliono. Hanno il padre che combatte in Ucraina, l’ ansia quotidiana è la telefonata da laggiù. Qualcuno potrebbe restare orfano. A loro va quindi offerta una pedagogia del ritorno, non un’accoglienza qualsiasi.
Una preside, tra gli interventi, racconta una cosa sorprendente: due studenti ucraini da poco arrivati chiedono un orario che permetta loro di collegarsi con l’insegnante ucraina che li aspetta…per una Dad. Funziona così: un quarto d’ora prima un sms per dire che l’insegnante è pronta e poi…. Non ne sapevo nulla e mi commuovo: stupefacente, solo dopo tre settimane di guerra.
Ma c’è di più: altri sei presidi confermano che anche da loro succede così. Sta dunque accadendo qualcosa?

Riflettete, colleghi italiani: immaginate Svetlana, Olga, Katiuscia, Natasha, Irina, Pavel nascondersi nella metro o in cantina, mandare sms e poi accendere il computer. Immaginate che nell’infosfera da lì a qui passano tabelline, poesie, racconti, geografia. Soprattutto passano facce e sguardi, sorrisi e tristezze.
Si parlano, si salutano con “priviet” (ciao) e si lasciano con “dasvidanie”. Arrivederci, appunto.
Verifico, finito il webinar, e trovo conferma in altre scuole della regione. Un quotidiano racconta che a Bari succede così. Chiamo amici laggiù e confermano: molte insegnanti ucraine cominciano a collegarsi, lo fanno come possono, lo fanno spontaneamente in attesa di un accordo bilaterale.

Come non pensare che nell’ anima dei nostri colleghi ucraini stia accadendo, in forme più tragiche delle nostre, quello che è accaduto tra noi a marzo 2020, nel durissimo e lungo primo lockdown legato al COVID, in un periodo oscuro con centinaia di morti al giorno. E’ accaduto da noi e adesso da loro un evento di contatto in tutti modi con i loro ragazzi lontani: una generosità educativa che non ha atteso gli ordini. Come da noi, quindi, non didattica a distanza, ma quella che ho chiamato didattica della vicinanza, quella possibile online.

Perché di questo emotivamente e cognitivamente si tratta: ricostruire la relazione, far loro sentire che siamo vicini. Poi, nel tipico bla bla italico, nel tempo la cosa si è fatta ideologismo. Ma per quattro mesi la relazione docenti/ragazzi è stata un incanto. E ha messo in discussione i modi di insegnare.
Accade oggi lo stesso a colleghe e colleghi ucraini: in attesa che i governi si coordinino, tessono i contatti con i loro bambini e ragazzi. Lo fanno da luoghi più scomodi di noi, sotto il rumore delle bombe, senza acqua per lavarsi, col rischio di morire. Pura didattica della vicinanza.

18 Marzo 2022.
Nel sito del Ministero istruzione ucraino  trovo un settore specifico da leggere: “UA, education in wartime: international support”.
Materiali didattici via via in costruzione. In un’ ADN Kronos, ripresa su facebook da Tecnica della scuola, c’è un’intervista al ministro Istruzione Serhiv Schkarlet, che precisa la possibile collaborazione con i paesi europei per aiutare i ragazzi a non perdere la scuola, a mantenere il più possibile il loro curricolo, a preparare il ritorno.
Esattamente la continuità di cui parlo e scrivo da una decina di giorni.
Il ministro Bianchi in un comunicato racconta che il 16 marzo in una riunione del Consiglio d’Europa dei ministri istruzione assieme al collega ucraino Skharlet si è concordata una collaborazione intensa per la scolarizzazione dei ragazzi, con tutte le modalità possibili a partire da quelle online, e l’aiuto sociale e psicologico necessario. Dunque, si stanno muovendo molte cose.
E non rivelo nulla di segreto a pensare che la prossima nota del Ministero sull’ accoglienza dei ragazzi ucraini ne parlerà.
E’ per noi, quindi, il momento di darci alcuni sfondi pedagogici di riferimento per una buona accoglienza.

Penso ad una originale scuola binaria, di cui cerco di tracciare qui i principali sfondi su cui riflettere:

1. Il più possibile, fin che è possibile
Naturalmente, per quanto si possa fare, non sarà possibile offrire sempre a tutti i ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole ore online con le loro insegnanti in Ucraina. Dipende dalle loro condizioni di guerra, perfino dalla loro sopravvivenza. Da quello che capisco sarà più facile fare didattica della vicinanza dalla classe 5.a in poi. Ma tutte le ore online che si realizzeranno dovranno essere valorizzate, senza paturnie burocratiche su assenza/presenza dell’alunno a scuola. Nel momento online sono a scuola, eccome! Piuttosto sarebbe opportuno connettere a questo impegno il nostro parallelo impegno didattico (il binario) sul quale scorrere vicine le nostre attività. Sarà un’impresa molto interessante, anche se frastagliata.
Importante sarà comunque conoscere i curricoli e l’organizzazione della scuola ucraina, cercando le molte analogie con noi e le differenze. Forse anche imparare reciprocamente dalle differenze, bambini italiani e ucraini che si imparano vicendevolmente. Importante far notare che la presenza online delle colleghe ucraine allevia anche la questione dei mediatori linguistici se si debbano o meno utilizzare come insegnanti. Meglio forse utilizzare le madri rifugiate con i figli in Italia, se di professione e studi insegnanti.

2. Curricolo del doppio binario
Dunque, sulla base dell’online che sarà possibile realizzare, e dei materiali virtuali che i ragazzi ucraini troveranno nei siti a loro dedicati, sarà possibile costruire un curricolo breve in forma di binario. Suggerisco di pensare solo ai prossimi tre mesi, fino a giugno, inutile per adesso andare oltre. Dunque la parte italiana delle attività potrebbe essere di diversi tipi: complementari, di approfondimento, sostitutive, alternative. Banale è l’esempio dell’educazione fisica, che online non è possibile, ma anche delle discipline artistiche e creative. Importante è approfondire la lingua straniera, che può essere utile come veicolo comunicativo universale. Ovviamente il curricolo dovrà essere personalizzato secondo le diverse condizioni di ogni bambino e ragazzo.

3. Sbirciarsi dallo schermo e condividere tutto il possibile
Eppure c’è una questione relazionale e pedagogica che sarebbe utile realizzare. Mi piacerebbe pensare che in un incontro online con il suo ragazzo ucraino, la loro Svetlana e la nostra Maria potessero almeno sbirciarsi e salutarsi. Mi piace pensare che se Maria e Svetlana non hanno una lingua da condividere, la prima faccia dei gesti per far capire alla collega che verso quel bambino noi siamo qui ad aiutarlo e che non lo molleremo mai alla tristezza o alla solitudine. Siamo loro sostituti, ci crediamo. Ma se le due potessero capirsi (es. inglese, ma molte ucraine sanno un po’ di italiano) potrebbe crearsi quel binario pedagogico di scambio e collaborazione con effetti pratici molto interessanti. Una pedagogia dello scambio mutualistico, pieno di umanità.

4. Il binario per i più piccoli
Per i bambini più piccoli, quelli della scuola infanzia e forse anche dei quattro anni di primaria, è possibile che siano meno le occasioni di connessione online. In questo caso sarà importante avere un buon rapporto con le madri per capire i loro figli e conoscere il meglio possibile i curricoli ucraini per realizzare un binario armonico e coerente anche se basato su una sola lingua. In questo caso, importante ancora di più sarà la relazione con i compagni coetanei italiani.

5. Cominciare a pensare l’estate
E poi, forse bisogna pensare presto a come organizzare la loro estate. I ”patti territoriali di comunità” con gli enti locali e le molte esperienze estive presenti nelle nostre città sono esperienze che vanno favorite e sviluppate a partire dalla scuola. Giugno arriva tra poco. Guai a lasciarli soli.
Suggerirei, infine, a non pensare per ora all’ anno scolastico prossimo. Conviene un intervento caldo e positivo per questi mesi, i più difficili. Ma meglio non anticipare troppo decisioni che potrebbero, anche involontariamente, essere premature. Si rischia altrimenti, in buona fede, di relegarli alla psicologia dell’esilio.