In questi giorni di calda estate 2023, su facebook da diversi autori è riesplosa (dopo anni di silenzio) la questione delle cd. “cattedre miste”, inerenti una diversa organizzazione più cooperativa tra docenti di sostegno e curricolari. Lo scopo, nelle intenzioni pedagogiche migliori, è di arricchire l’esperienza formativa dell’alunno con disabilità riducendo i rischi di una troppo frequente “didattica separativa” spesso racchiusa in rapporti para-privati con il docente di sostegno ed eventuale educatore fino alla diffusa forma della “copertura totale”.
Il termine dice già tutto sul rischio che l’inclusione diventi una strana isolazione.
La discussione è per ora varia, tra chi esprime entusiasmo perché si riaprano azioni di migliore comunità professionale, soprattutto nelle scuole medie e superiori, a chi ne vede le difficoltà applicative, a chi (come sempre accade) sostiene che il problema è “un altro”.
Personalmente delle cattedre miste ne penso un gran bene: la pluralità dei docenti è un valore se si fa cooperazione e integrazione per tutti i ragazzi. Per quelli con una qualche disabilità possono essere una manna cognitiva, un’esperienza di maggiore socialità, un sentirsi comunità che apprende. Molto meglio la cattedra mista che la cattedra di sostegno tout court, che tende inevitabilmente all’isolazione .
In questo mio commento non entro negli aspetti tecnici e organizzativi né giuridici di come si possano sviluppare forme più ricche di corresponsabilità e organizzazione curricolare flessibile. Vi sono da tempo (fin dal Regolamento autonomia del 1999) ampie possibilità operative di flessibilità, come ostacoli o freni dati da aspetti organizzativi, contrattuali, di abitudini. Vi sono anche, naturalmente, riserve radicali su cosa sia il “sostegno”: se un’attività didattica diffusa che tocca tutti (come insegna la Legge 517 del 1977!!) o non invece una “professione specialistica para-terapeutica” di per sé “altra” dall’educativo. Continua a leggere→
Il calo demografico ha ormai raggiunto livelli drammatici e le conseguenze sul sistema scolastico non sono forse state ancora ben comprese da tutti.
In realtà la questione non è recente e, a ben vedere, ha origini lontane nel tempo: se ne parlava già negli anni ’90, poi l'”ondata” migratoria ha attenuato non poco gli effetti della diminuzione delle nascite di bambini italiani.
Adesso il problema si sta ripresentando in tutta la sua evidenza.
Sul tema pubblichiamo un vecchio articolo di Raffaele Iosa uscito sulla rivista Valore Scuola nell’ottobre del 1993, ma ancora molto attuale.
Ho aspettato fino alla riapertura delle scuole, sperando che qualcosa si dicesse. Capisco la complicata situazione italiana di questi ultimi tre mesi, dal caldo torrido, alla crisi di governo, al rincaro delle bollette. Capisco tutto, ma il silenzio del Ministero Istruzione sui bambini e ragazzi ucraini accolti nelle nostre scuole da marzo scorso è sconcertante. Per carità, non sempre è necessario che il Ministero dica qualcosa perché le scuole lavorino con buon senso (anzi!), ma toccano a lui gli accordi internazionali con il governo ucraino per eventuali collaborazioni pedagogiche sul destino dei ragazzi da noi accolti, in attesa del ritorno.
E’ dunque per me necessario risollevare la questione, per comprendere se il neologismo “pedagogia del ritorno”, condiviso da molti come chiave di questa accoglienza, fosse ancora vivo o se si pensasse che ormai, da questo autunno, si dovesse accoglierli come emigranti definitivi o peggio lasciarli in un limbo.
Un doveroso promemoria
Facciamo prima di tutto il punto sulla situazione ucraina, con le notizie di questi ultimi mesi.
Si conferma che questi bambini e ragazzi (e le loro mamme) si sentono solo di passaggio dal fatto che un buon numero è tornato a casa in estate, soprattutto se provenienti dal zone nord e ovest ucraino, e dal 1 settembre sono tornati a scuola, magari in locali di fortuna se le scuole sono state distrutte.
L’arrivo di nuovi profughi ucraini si è fermato. Resta quindi non elevato il numero di scolarizzati in Italia, già basso a primavera perché preferivano fermarsi in paesi confinanti (in primis la Polonia).
Anche questo un segno del desiderio del ritorno.
Il nostro governo ha prestato a tasso zero all’Ukrajna circa 200 milioni di euro per pagare gli insegnanti ucraini. Un buon segno che il nostro paese non invia lì solo armi.
Intanto ci arrivano notizie dure dalle aree ucraine di sudest ancora occupate militarmente dai russi. Sono stati licenziati molti insegnanti locali, sostituiti da “colleghi” russi; dal 1 settembre i ragazzi iniziano le lezioni con l’alzabandiera bianca blu rossa di Mosca, hanno libri importati dalla Russia con le “cose giuste” da insegnare e si parla-scrive rigorosamente solo in russo. Ma c’è di più: alcune migliaia di orfani sociali degli internati sono stati deportati (altro termine non trovo) in Russia in modo forzato. Uno dei tanti modi che ha la terra di Putin di sopperire al suo deserto demografico. Penso con dolore a questi bambini, spesso con babbi e mamme fragilissimi e poveri ma viventi. Bambini portati via dagli orfanotrofi senza rispetto, con fratture esistenziali lancinanti. E ancora: non si sa più nulla di centinaia di preadolescenti portati con la forza in Crimea durante l’estate (le vacanze “coatte”) e non più tornati. Nelle zone di campagna tornano i cd. besprizornye, ragazzi randagi che vivono alla macchia. Un lascito noto nella storia sovietica che si ripete, nato nei primi anni della rivoluzione d’ottobre, di cui ci resta memoria in “Poema pedagogico” del pedagogista ucraino Makarenko e della sua colonia Gorky.
Nel sito www.proteofaresapere.it Dario Missaglia ha pubblicato un coraggioso articolo sulla cosiddetta “dispersione scolastica” e il PNRR dal titolo “La variante semantica”.
Una critica dura e convincente sulle diffuse contraddizioni circa l’interpretazione, le ragioni e i possibili interventi per ridurre in Italia le bocciature e gli abbandoni scolastici fino ai NEET, e sui rischi di un welfare compassionevole che sta invadendo l’educativo con varie forme di “assistenzialismo riparativo” di incerta e quanto meno dubbia efficacia.
È lapidaria, al proposito, una citazione che Dario riprende da un recente saggio di Alberto Alberti (nostro comune amato maestro) che demolisce la bizzarra variazione che hanno oggi le parole utilizzate per spiegare il fenomeno con l’ormai invasivo termine “dispersione”. Parola da fumo atmosferico, in cui si descrive il “disperso” come una malattia individuale.
Malato è (sempre) il disperso, non la scuola che lo boccia. Scrive Alberto Alberti: Gli interventi comunitari garantiscono aiuto alle scuole ma in maniera esclusivamente aggiuntiva … Il problema da interno si sposta all’esterno. Non si mette in causa la scuola che boccia e allontana. Si mette sotto accusa il territorio sbagliato … la scuola è quella e rimane tale, non può adeguarsi alle esigenze degli allievi. Sono sbagliati gli allievi.
Per questi ragazzi sbagliati servirebbero cure che solo alcuni professionisti dell’abbandono possono garantire. Che siano del Terzo settore, e che la scuola sia obbligata a fare con loro i cd. patti di comunità è solo la parte venale della questione (i soldi…), quella più grave è la questione ideologica di questo obbligo, cui le neo-parole sui “bisogni” che diventano “problemi” che si fanno “deficit” intende dare un vestito persino scientifico. Parole che favoriscono la delega della scuola all’esperto, che se è perfino (a modo suo) un volontario assume un carisma missionaristico.
A questa “malattia” il PNRR proporrebbe alcuni interventi di “recupero riparativo” in cui un soggetto professionale “esterno” pare indispensabile in quanto (solo lui) esperto. Certo, con la scuola, ma un soggetto asimmetrico soi disant competente. Il rischio che il tutto diventi una delega in bianco ai sacerdoti del welfare compassionevole è alto. Il rischio che la scuola non cambi nel profondo stili di insegnamento e abitudini educative (cioè quelle che bocciano) è perfino maggiore: tanto ci sono loro a pensare agli sfigati e ai poveracci. Un po’ come con i nostri studenti con disabilità l’esaltazione del docente di sostegno come unica opzione inclusiva.
Giorno 43 di guerra.
Continuo a scrivere sui nostri bambini e ragazzi ucraini profughi nelle nostre scuole. In questi pochi giorni ho raccolto decine di storie, seguito varie accoglienze (belle e brutte), avuto contatti (difficili) con vecchi amici delle terre slave. Ho fatto una decina di webinar a gruppi di scuole.
E sono giunto ad alcune considerazioni che qui ora è per me doveroso raccontare.
Sono insegnanti da Nobel (della pace)
Sono stato il primo in Italia, a metà marzo, a scrivere di questa strana “Dad di guerra” che avevo scoperto per caso dai primi racconti (ancora incerti su cosa volesse dire) di alcuni nostri insegnanti e presidi. Oggi sappiamo molto di più: questa Dad non è un fatto casuale ed episodico ma intenzionale. Già in un mio post su fb del 17 marzo, “Pedagogia dell’infosfera”, ne parlavo come uno straordinario evento educativo. Lì avevo segnalato anche il sito del ministero ucraino con un settore intitolato education in wartime, in inglese, finora ancora troppo poco aperto dagli insegnanti italiani.
Ecco in sintesi essenziale di cosa si tratta. Prima che iniziasse la guerra, il ministero istruzione ucraino si era preventivamente preparato, utilizzando l’esperienza di Dad svolta anche da loro ai tempi del COVID.19, e l’ aveva prevista nell’eventualità della “chiusura fisica” delle scuole per guerra. valorizzando le diffuse competenze digitali dei docenti ucraini. Ha poi accompagnato la proposta della Dad nel wartime, affidata alle singole scuole, con una vasta mole di “lezioni asincrone” da scaricare dal loro sito, suddivisi classe per classe dalla 1 alla 12, approfondendo soprattutto quattro discipline: ucraino, matematica, scienze, storia. Dice il sito che è un “primo apporto di strumenti, nell’intenzione di ampliarli”. Poi il 24 febbraio parte la guerra ed esplode un’esperienza pedagogica senza alcun precedente storico.
Nel video pubblicato nel canale youtube di Gessetti Colorati riporto una notizia per me strabiliante: moltissimi insegnanti ucraini si collegano in Dad con i loro ragazzi sparsi per l’Europa.
E’ proprio una pedagogia del coraggio che fa onore a questi colleghi.
Ho ricevuto numerose richieste di informazioni e se si può sapere di più, per avere la necessaria armonizzazione tra la loro Dad e la nostra accoglienza a scuola.
Riporto qui tre primi casi interessanti raccolti, omettendo informazioni delicate (es. da quale città parte la Dad), utili a comprendere che siamo davanti ad un evento pedagogico straordinario.
Continuo a pensare a Svetlana, Olga, Katiusha, Oleg che dai loro rifugi nascosti si collegano con i loro ragazzi. Una pedagogia europea del coraggio che ci insegna molte cose.
DALLA ROMAGNA
Due fratelli, uno primaria (cl. 1-4), l’altro media (cl. 5-9) si collegano ogni mattina con un insegnante che manda 15 minuti prima un messaggio di avvio. Tre ore di diverse “lezioni”, con rotazione degli insegnanti. I due ragazzi vivono con grande partecipazione queste “lezioni”, rivedono i compagni (quasi tutti presenti), ci sono scambi di informazioni semplici e rinforzanti.
La “Dad” è organizzata dalla scuola, non dai singoli insegnanti, segno che c’è una volontà collettiva di realizzare questo impegno, quanto mai gradito dai ragazzi. La scuola romagnola offre per queste tre ore spazi tecnologicamente attrezzati anche con un grande schermo per lavorare meglio. Domani le insegnanti italiane cercheranno di parlare con le colleghe ucraine per “fare squadra” e soprattutto condividere le comuni emozioni di accoglienza. Così la scuola romagnola saprà anche meglio cosa fare per loro a scuola e nel tempo libero, anche in previsione dei patti di comunità per l’estate, per offrire ai ragazzi ucraini opportunità e amicizia.
Visto che la scuola è vicina a casa mia, in settimana vado a salutare i ragazzi e le loro maestre.
DALL’EMILIA
Due fratelli ucraini con la madre. L’iniziativa delle lezioni in Dad non è delle maestre ma della scuola. Per il più piccolo ci sono due maestre, una che trasmette tutti i giorni e un’altra che insegna inglese, informatica ed ed. fisica.
Il fratello maggiore invece segue un programma allargato. Tutti gli insegnanti (fisica, algebre/geometria, biologia, inglese, letteratura …) si collegano. Non hanno un calendario o un orario fisso, ma riescono tutti i giorni. a collegarsi. Non si sa da dove lo fanno e interrompono la lezione solo in caso di sirena per bombardamenti.
Il maggiore ama fare sport, e quindi ci stanno pensando ad offrire opportunità. Si collegano alla Dad dalla scuola italiana frequentata in questi giorni, e poi svolgeranno con noi le altre attività considerate utili a completare il loro curricolo. Ma prima, ovviamente, viene il loro re-incontrare gli insegnanti e gli amici.
DALLA CAMPANIA
Una madre ucraina con due figli è ospitata da un’ insegnante italiana. I bambini non si sono ancora iscritti a nessuna scuola perchè frequentano le lezioni a distanza ucraine. La loro scuola, un gimnasium, ha organizzato la didattica on line. Hanno anche un planning di lezioni. Tutte le insegnanti dei figli stanno tenendo le lezioni da varie parti (una dalla Polonia). Stanno anche seguendo le lezioni per le certificazioni linguistiche.
Come si vede da questi primi piccoli esempi, ci sono diverse risposte, tutte con segnali di un grande impegno delle scuole ucraine a continuare a seguire i propri ragazzi. Un impegno nato dal basso e che non ha “chiesto il permesso” alle scuole ospitanti all’estero per iniziare. Le insegnanti espatriate partecipano anche loro.
Un grande coraggio. Segno di una solidarietà pedagogica e di una cura dei ragazzi ammirevole, se si tiene conto da dove e come partono questi contatti.
Dobbiamo tenerne conto per una scuola “a doppio binario”, per armonizzare i loro contatti con i compagni e gli insegnanti ucraini con cosa noi potremmo offrire loro per un’accoglienza scolastica e umana efficace.
Mi farebbe piacere raccogliere qui altre storie come queste. Farle circolare è strumento utile per noi italiani a comprendere come offrire una migliore accoglienza possibile.
Aspetto quindi, se ne avete, racconti ulteriori da socializzare.
17 marzo 2022 mattina.
Sono online con Reggio Emilia ad un incontro con i dirigenti scolastici e la Provincia sul tema dell’accoglienza dei bambini e ragazzi ucraini profughi. Buone idee, molto impegno. Dico le solite cose che scrivo in questi giorni: sobrietà, empatia, poche feste e tv all’arrivo (le faremo quando torneranno a casa), no a compassione svenevole, no a domande pettegole, ma molto ascolto e comprensione, serenità e amicizia vera senza fronzoli. Prima di tutto dare continuità e connessione alla loro esperienza scolastica in patria e adesso da noi. Non devono perdere l’anno. Ma soprattutto prepararli per il ritorno, che tutti vogliono. Hanno il padre che combatte in Ucraina, l’ ansia quotidiana è la telefonata da laggiù. Qualcuno potrebbe restare orfano. A loro va quindi offerta una pedagogia del ritorno, non un’accoglienza qualsiasi.
Una preside, tra gli interventi, racconta una cosa sorprendente: due studenti ucraini da poco arrivati chiedono un orario che permetta loro di collegarsi con l’insegnante ucraina che li aspetta…per una Dad. Funziona così: un quarto d’ora prima un sms per dire che l’insegnante è pronta e poi…. Non ne sapevo nulla e mi commuovo: stupefacente, solo dopo tre settimane di guerra.
Ma c’è di più: altri sei presidi confermano che anche da loro succede così. Sta dunque accadendo qualcosa?