Inclusione e disabilità: il garbuglio degli educatori

di Raffaele Iosa

Alcune decine di migliaia di educatori scolastici impegnati nell’ inclusione degli alunni e studenti con disabilità ai sensi dell’art. 13 della Legge 104/92, con le diverse denominazioni date dalle diverse regioni, sono alle prese in questi giorni in un’affannosa rincorsa alla loro “legittimazione formale” nel processo di costituzione del c.d. “albo degli educatori” previsto da una recentissima legge che ne istituisce un apposito albo delle diverse professioni socio-educative.

Il tutto in pochissimi giorni, e con poca chiarezza su tutto. Ricapitolo a grandi linee la faccenda, di cui troppo poco si sa.
La Legge 104/92 all’art. 13 prevedeva che a fianco degli insegnanti fossero attivi dei professionisti cosiddetti “assistenti all’autonomia e alla comunicazione”.
Ma non solo: di questi si sarebbe dovuto costruire un “profilo professionale” e ovviamente un curriculum accademico corrispondente. In questi 32 anni (trentadue!) non è accaduto nulla di legislativo che definisse formalmente questa figura professionale nelle scuole. E questo anche per conflitti tra le associazioni che tutelerebbero la disabilità, il disinteresse dei sindacati e l’incertezza dei diversi enti regionali e locali cui è assegnata effettivamente la responsabilità gestionale di questa professione secondo il processo di autonomia regionale nato a fine del secolo (modello Bassanini). Fin qui una storia molto italiana.

Col tempo il termine più utilizzato nel definire queste figure è diventato “educatori professionali”, e da una ventina d’anni esiste una laurea universitaria apposita , la L 19, che ha un curricolo molto pertinente dedicato a questa professione inclusiva.
Ma in questi 30 anni sono entrati come assistenti (o educatori che dir si voglia) anche professionisti con le più varie formazioni, persino con il solo diploma di scuola secondaria superiore. Dimostrando la confusione culturale di quale professione sia, in primis se di tipo “assistenzialistico” o pedagogico in senso stretto.
Col tempo per la definizione di “educatore” una Legge del 2017 comunque meglio preciserebbe la pertinenza tra l’inclusione scolastica e la formazione universitaria di questi educatori. E da qui il busillis di chi debba appartenere o no all’albo di cui sopra.
Ma la “confusione” ormai patologica sul ruolo di questi professionisti è esplosa con clamore ormai a causa del fatto che il loro numero in venti anni è letteralmente esploso, da poche migliaia alla fine degli anni 90 ai quasi 100.000 di questi ultimi anni.
E l’esplosione è figlia dell’enorme aumento di certificazioni di disabilità, quadruplicate in 30 anni e il diffondersi di nuove “disabilità” tra cui lo spettro autistico in primis. Dunque è toccato agli enti locali e alle regioni prendersi il carico di assumere questo personale, con una tattica amministrativa quanto mai velenosa e che sta inquinando molto delle politiche sociali locali: quella degli “appalti” alle cooperative del terzo settore.

Ma ormai la radicata presenza degli educatori come indispensabili per una dignitosa inclusione renderebbe necessario pensare ad una loro collocazione professionale dentro l’amministrazione dello Stato, come si è prospettato da alcuni disegni di legge ancora in discussione che sono però anch’essi rallentati da molte divergenze politiche. Eppure 30 anni fa lo Stato aveva assunto tutti i bidelli comunali in una sola volta! Senza voler fare classifiche, anche un educatore per lavorar bene dovrebbe avere un salario dignitoso e una funzione professionale “di squadra” con tutti i professionisti educativi. Ma c’è di peggio: in questa caotica fase di incertezza sul destino gestionale, i costi per gli enti locali, ormai le difficoltà a trovare professionisti con una formazione adeguata sta diventando un’emergenza.

In questa emergenza l’invenzione dell’albo senza una riflessione più compiuta sulla funzione di questi educatori pare quasi una presa in giro.
Ma c’è di più e più grave: questi educatori sono oggi in buona parte laureati, sono spesso più stabili degli insegnanti di sostegno, il loro salario supera di poco i 1.000 euro al mese (se va bene), il trattamento non è simile a quello dei docenti, per cui durante l’estate questi educatori o sono utilizzati nei diversi CRE estivi in cui vi siano disabili o perdono parte del salario, anche se titolari di contratti a tempo indeterminato.
Devo ammettere che ho molta simpatia per questi ragazzi e ragazze professionisti dell’inclusione, impegnati ogni giorno vicino ai nostro bambini e ragazzi con disabilità, spesso più competenti e più affidabili di molti insegnanti di sostegno senza titolo. Una professione peraltro a modo suo bellissima: l’educatore non dà voti, non dà compiti per casa, è vicino agli insegnanti e simile a loro per quanto riguarda i curricoli accademici, ma è in primis “dalla parte dei ragazzi con disabilità”.

In questa estate torrida dove ci sarebbe ben altro da fare per l’inclusione scolastica, e dove si “inventano” sgangherati corsi di formazione per nuove migliaia di posti di sostegno, perfino per quelli con corsi svolti all’estero, l’attenzione invece per queste figure degli educatori è bassa, e grande è la confusione tra difficoltà e incertezze, con poca cura per una migliore visione educativa dell’inclusione che abbia uno spirito di “squadra” di tutti gli operatori dell’educazione. Tutto questo mentre fioriscono molti interessi corporativi per illudere questi ragazzi e ragazze di buona volontà. Si pensi a questo proposito alle decine di “scuole di specializzazione private” fiorite a seguito della medicalizzazione ideologica degli ultimi anni con titoli bizzarri di vaga valenza accademica. E che non si sa se un giorno avranno mai valore legale per avere un lavoro riconosciuto. Che tristezza.




Revisione Indicazioni Nazionali, pedagogia identitaria e dinosauri

di Raffaele Iosa

Se qualcuno del mondo della scuola pensava che il governo Meloni, (cioè il ministro pro tempore Valditara) avrebbe governato la scuola concentrandosi su questioncelle contrattuali, o gestionali o occupazionali, si sbagliava di grosso.

Al centro, confuso e loquace,  dell’operare di questo docente di diritto romano antico, puro leghista  non alla Bossi ma  alla Vannacci, c’è invece una questione grande e delicata: cambiare nel profondo  il cuore culturale del fare scuola.
Cambiarlo mettendo al centro quella che viene decantata “identità italiana”, messa contro quella da loro chiamata “cittadinanza planetaria”, brutta figlia del pensiero globale e della visione interculturale di Edgard Morin, considerato (giustamente) l’ispiratore delle attuali indicazioni nazionali per la scuola di base.

Una  regressione nazionalista quindi, che ha giù avuto numerosi segnali, dalla guerra contro la scuola di Pioltello per la giornata di chiusura in occasione del ramadan, a continui distinguo nazionalisti,  con la patria italica da riscoprire e con i nostri piccoli concittadini da curare con una nuova terapia dell’identità nazionale,  perché maleducati da una scuola soi disant troppo multiculturalista.

Questo pensiero “nazionale” è al cuore  della destra, espresso con  messaggi culturali cui il facondo ministro della cultura offre ogni giorni simpatici siparietti di banalità. D’altra parte che cosa aspettarci da questa alleanza politica così bizzarra: un partito erede del fascismo nazionalista con un partito separatista e trafficone, con un partito pseudoliberal figlio dei danè lumbard.

Eccoci oggi alla formazione di una Commissione che dovrebbe  ri-scrivere la scuola di base per una agognata rivoluzione di destra  di tutti gli italici da Bolzano a Trapani, avente come scopo quello di “rifare gli italiani ritornando alla tradizione autoritaria”.
Il previsto ritorno ai voti in scala camuffati nel primo ciclo, come il voto di condotta  che boccia sono primi segnali di questo neo-vetero-scuola, ma c’è anche altro nel sociale, come gli interventi in tema di aborto. Esempi  di un tentativo nazional conservatore di cambiare l’anima degli abitanti di un paese europeo chiamato Italia.

Interessante è che la Commissione sia (per ora) composta da soli pedagogisti. Brutta immagine per un ministro che vede costoro come “pedagoghi” portati al discorrere  della chiacchiera separata dall’essere scuola  come incontro tra generazioni e luogo di costruzione del futuro,
Più che di futuro il ministro  vuole tornare al passato, un passato banalmente  italico, dall’imparare a memoria Fratelli d’Italia a leggere ogni settimana un pezzetto del libro Cuore, a studiare fin da piccoli con storielle i “grandi”  del nostro stivale, mescolando Machiavelli (che era fiorentino e uomo globale) e Giulio Cesare (più romano di lui non con c’è) come padri della patria.

L’assenza degli storici di professione e l’assenza di un dibattito iniziale aperto a diverse scuole di pensiero ci dice chiaro e tondo  la logica, che è quella  separativa tra “noi italici” e “loro anti-italici” (che potremmo anche chiamare con un nome più semplice e naturale: antifascisti).
Personalmente ritengo questa operazione puramente di facciata e di corto respiro.
Non pare d’altra parte fulgida la carriera ministeriale dell’attuale ministro della Minerva.
C’è infatti un limite al discorrere pedagogico che giorno per giorno rileva la banalità  di questo dicastero.

L’ultima novità, massimo esempio di dilettantismo, è la polemica sul fatto che i bambini si occuperebbero troppo…di dinosauri.
E’ probabile che nessuno a viale Trastevere abbia pensato al fascino di altre epoche molto lontane e misteriose, troppo lontane per servire a fare di un bimbo un robusto e obbediente italico.  Davanti ai dinosauri il povero italico scoprirebbe malgrè soi che la storia non comincia lungo il Tevere. E’ pericoloso. Ma si dimentica, questo ministro,   così come la questione dei dinosauri ha avuto  nella favolistica infantile ma anche adulta, riferimenti profondi al vivere e al convivere, al sé che incontra l’altro, come ci ha insegnato l’amico dei bambini Spielberg, non solo con i suoi film dinosaurici ma ad esempio con ET, capolavoro dell’amicizia dell’alterità.
A viale di Trastevere forse non si conoscono  le teorie di Propp sulla favolistica popolare. Non si sa nulla di bambini reali. Lo dimostra questo fatto:  cadere nelle polemiche contro i dinosauri è francamente troppo.  Da ridere e piangere.

Ma proprio queste banalità ci devono preoccupare, ci obbliga a tener alta una  dialettica coraggiosa e franca, sviluppando l’autonomia delle scuole come luogo elettivo di pluralismo da difendere giorno per giorno perfino dalla dinosaurofobia.




Il disastro della finta inclusione: bambini cattivi e note disciplinari

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raffaele Iosa

 Riprendo e copio qui  queste due lettere di aiuto su brutte esperienza scolastiche di alunni e studenti con disabilità, riprese da un sito FB molto frequentato da insegnanti e genitori.
Sui siti specializzati in consulenza sull’inclusione scolastica ne arrivano di questo tipo continuamente.

 

Lettera 1
“….. Vorrei chiedervi se è normale che l’insegnante di sostegno di mio  figlio gli faccia  ogni giorno  note disciplinari, piuttosto che seguire la tecnica  di gestione dei comportamenti-problema.   Mio figlio è art. 3 comma 3 Legge 104, ADHD+ DOP + disregolazione emotiva, situazione familiare difficile.  Esiste una normativa in merito?”

Lettera 2
“ Buon giorno, sono una docente di sostegno, il mio collega curricolare mette diverse note disciplinari al mio alunno ADHD e DOP. Io lo trovo controproducente in quanto dopo ogni nota lui smette di lavorare. Cosa devo fare?”

A proposito di questo mio breve commento sull’argomento ADHD e DOP,  i quotidiani di oggi raccontano di una sospensione di ben 15 giorni a Ladispoli  per un ragazzino con queste disabilità,  che è stata soppressa dal TAR Lazio e con una scuola che riceverà da Roma “una visita ispettiva”. Servirà a qualcosa? Mah.

Dunque. Nel forte aumento  certificativo in corso da 20 anni, in cui gli studenti con disabilità sono triplicati, tre disabilità sono esplose nel panorama clinico: l’autismo (un terzo dei certificati 104), l’ ADHD (disturbo dell’attenzione e iperattività , e il DOP (disturbo oppositivo provocatorio).
Si tratta di sindromi certo complesse e molto discusse  (anche criticamente) sul piano scientifico,  emerse con forza negli ultimi anni, e a volte compresenti nella stessa persona. Tutte con una caratteristica  precipua: la presenza di diffusi “comportamenti problema” cui spesso si lega la “querelle disciplinare”, intesa non come materia scolastica, ovviamente, ma come modi umani dell’agire “anomali, spesso aggressivi e fortemente reattivi”. Che creano nelle classi situazioni sofferenti anche per gli altri alunni e studenti.

L’esplosione ha seguito la diffusione del DSM V, il classico manuale statunitense di psichiatria del 2012  che viene seguito dalle pratiche diagnostiche dei paesi europei.
Autismo, ADHD, DOP sono da questo manuale particolarmente “medicalizzati”, ed hanno ottenuto un gradimento diagnostico prima del tutto assente.

Meriterebbe, prima di analizzare le due lettere qui presentate, chiedersi  se questa esplosione segnali una “epidemia inedita prima”,  oppure una diversa attenzione e lettura dei comportamenti dei bambini e dei ragazzi a scuola, oppure una nuova epidemia psichiatrica a largo spettro. Oppure una qualche “crisi ideale e sociale”  che tocca l’educazione e la  terapeutica.
Ho chiamato quest’epoca  della “medicalizzazione” e  una specie di “grande malattia” sta pervadendo le nostre scuole e mette in crisi l’esperienza inclusiva italiana.

Il fatto è che anche le basi scientifiche di queste diagnosi sono  discusse. Non esiste una certezza genetica, ad esempio, se non alcune tracce e alcune spinte epigenetiche. Non esistono “cure” farmacologiche particolarmente condivise,  i farmaci  psichiatrici  sono ancora  osteggiati per il rischio di “intontimento”. Piuttosto è curioso che nella letteratura clinica  di queste tre disabilità manchino del tutto alcune parole classiche della psicologia quali “carattere, personalità, relazione”.
Siamo invece oggi nell’epoca del comportamentismo spinto, prevalentemente di base skinneriana, ed  è esplosa parallelamente una neo-clinica (con molte strutture private agguerrite nel mercato della cura) con “tecnici terapeutiche” e “tecniche comportamentiste” che hanno una discreta efficacia nei comportamenti problemi, ma anche queste oggetto di discussione. E soprattutto un costo pesante per le famiglie.

E’ soprattutto su queste tre disabilità che si sta giocando, in Italia come in Europa, la possibilità di proseguire e qualificare l’inclusione nella normalità come noi abbiamo fatto fin dagli anni 70. Il rischio è invece la tendenza ad “isolare” questi bambini e ragazzi anche perché “pericolosi” per i compagni di classe. Si tenga conto che per loro in genere domina la cd “copertura totale” (docente di sostegno + educatore comunale) in modo che mai siano lasciati “soli”  in mezzo alla classe e ai docenti (diciamo così) “normali”. Siamo cioè già verso un declino separativo, in cui si diffondono aule ha e spazi separati.
Ma il dibattito scientifico e pedagogico è scarso, e quando si prova a farlo spesso accadono scontri.

E qui veniamo alle due lettere pubblicate all’inizio. In entrambe è in discussione se la “nota disciplinare” per un qualche comportamento non “corretto” sia utile o se, invece, non peggiori il quadro comportamentale del nostro studente con disabilità ADH, DOP o autistico. D’altra parte le “note disciplinari” possono avere in gran parte lo stesso effetto anche nei ragazzi diciamo così non disabili: e cioè piuttosto che “aiutare a comprendere” il sé alunno/studente ed essere stimolato  per  comportamenti virtuosi, produrre uno stigma che aumenta le crisi e con questo più difficile l’inclusione personale. Disgraziatamente per una pedagogia del merito di destra strisciante che entra dalle fessure delle nostre aule “punire non è mai curare”.

Ebbene: queste due lettere riguardano i comportamenti “punitivi” che adottano sia docenti di cattedra che docenti di sostegno, che dovrebbero secondo il dire comune avere invece “competenze” ben diverse.
Dunque  un tema centrale per l’epoca presente: la necessità di sviluppare competenze più raffinate e serie di capacità inclusive per tutti i docenti coinvolti, sia per quelli di sostegno che per i curricolari.
Non per nulla, come già anticipato in altri mei scritti, sto lavorando  con amici e colleghi sensibili  al tema a proporre quella che abbiamo chiamato “cattedra inclusiva”, che nasce dalla necessità di formare intensamente tutti i docenti italiani anche e soprattutto a fronte dalle nuove sfide che la profonda mutazione socio-culturale e scientifica delle disabilità sta producendo nelle nostre scuole. La questione delle “note disciplinari” è un piccolo cattivo esempio prodotto sia da docenti curricolari che di sostegno.
Non c’è alternativa: è necessario un cambio di passo con competenze diffuse ben diverse da quelle di oggi. Altrimenti meglio le scuole speciali: quelle non imbrogliano nelle finalità.

 




E’ da un po’ che lo diciamo: le classi speciali stanno tornando!

di Raffaele Iosa

Sto lavorando con alcuni amici allo sviluppo di quella che abbiamo chiamato “cattedra inclusiva”.
Le ragioni pedagogiche nascono dal fatto che l’inclusione scolastica è in crisi sia per l’esplosione di migliaia diagnosi e certificazioni che hanno moltiplicato a dismisura i posti di sostegno, sia per una tendenza patologica a centrare nel solo “insegnante di sostegno”, eventualmente supportato dall’assistente comunale, la scolarità fino al termine “copertura totale” per intendere più che un’inclusione una paradossale “isolazione” di tanti bambini e ragazzi; tanto che più che di comunità di coetanei si dovrebbe parlare di guardiania pedagogica.
Per queste ragioni, tutte dolorose, proponiamo un cambio di rotta con una formazione dedicata e obbligatoria per tutti i docenti curricolari, per coinvolgere tutti nel processo attivo di inclusione.
Ma c’è anche una ragione più grave per cui ci siamo mossi ad allargare la partecipazione di tutti i docenti all’inclusione.
Il fatto é che numerosi segnali ci indicano una tendenza in atto volta a ripristinare “scuole speciali” separate tra i cd “normodotati” e i cd “neurospecifici”. A chi ci ha dato dei “pessimisti catastrofici” segnalo la scoperta di una nuova fantasiosa forma di scolarizzazione detta delle “sezioni di potenziamento”.
Lasciate perdere il termine che parrebbe positivo: si tratta invece di vere e proprie “classi speciali” composte da 4 a 7 alunni con un programma “isolante” e nel quale insegnanti (tutti di sostegno ovviamente), educatori e specialisti lavorano insieme tutti i giorni per tutte le ore di scuola.
Con trucchi amministrativi e una strana idea di autonomia scolastica si producono così “isole separate di fatto” dalla vasta ed eterogenea comunità di bambini e ragazzi.
I primi casi di questa bizzarra pedagogia vengono dal nord, da paesi piccoli (dove forse salverebbero le piccole scuole dalla crisi demografica). E vengono soprattutto nel mondo dell’autismo, sempre più spinto a didattiche unicamente speciali.
Ma la tendenza alla medicalizzazione diffusa in forme sempre più bizzarre, potrebbe favorire la nascita di sezioni di studenti iperdotati (altra moda del momento) oppure ragazzini “nervosi”, oppure ancora a identità di genere complessa.
Ognuno potrebbe avere la sua cura separata, con una scuola come reparto para-clinico, per la gioia dei tanti “nuovi santoni” che praticano terapie le più varie. Tutte centrate sul sintomo e nulla sulla persona.
Come temevo da tempo, la rottura é vicina. E dunque merita alzare il livello dell’attenzione e dello scontro verso tendenze isolazioniste pericolose per tutti i nostri scolari/studenti, verso una società sempre meno comunità e sempre più clinica manicomiale.




Il declino dell’inclusione scolastica. Cambiare radicalmente rotta? (a proposito dei dati Istat 2022/23)

di Raffaele Iosa

Come tradizione, a febbraio ISTAT pubblica il suo Rapporto annuale sull’inclusione scolastica degli alunni/studenti con disabilità.  Questo  dell’a.s. 2022/23 è da leggere con attenzione per i segnali di crisi registrati che, visti nell’arco  del primo quarto di questo secolo registrano  un declino (forse) irreversibile  dell’inclusione scolastica à l’italienne.
Un declino che pare interessare  pochi studiosi, visto che il rapporto ISTAT da anni non riesce a sollevare  un serio confronto sulla natura e le cause della crisi, tale da cambiare quasi del tutto l’ispirazione dell’inclusione nata negli anni 70 del secolo scorso. In 50 anni è cambiato quasi tutto, prevalentemente in peggio.
Queste mie note sono un allarme lanciato a tutto mondo della scuola, alla politica e alla società civile, perché ormai il declino non è più davanti a noi. E’ arrivato.

  1. L’esplosione della grande malattia

Partiamo in primis dagli alunni e studenti con disabilità presenti nell’anno scolastico 22/23.
Sono ben 338.000 dalla scuola dell’infanzia alle superiori. Ben il 7% in più in un anno scolastico. Per la prima volta nella storia dell’inclusione superiore al 4% della popolazione scolastica.

Questo aumento appare ancora più grave se si vede la progressione decennio per decennio da inizio secolo ad oggi. Vediamo gli anni “critici” e la loro progressione.
a.s. 2000/2001 alunni/studenti:  126.000 (1.3% della popolazione scolastica)
a.s. 2010/2011  alunni/studenti  208.520  (2.3% popolazione scolastica) + 165%  dei certificati
a.s. 2022/2023  alunni studenti   338.000   (4.1%  popolazione scolastica) + 300% dei certificati.
Dunque un primo dato clamoroso su cui riflettere: alunni e studenti con disabilità triplicati negli ultimi 20 anni. Un dato cui ho prestato attenzione da molto tempo e che ho chiamato in molti miei scritti “l’epoca della grande malattia”, cercando di comprendere le ragioni sociali, cliniche, antropologiche, di questa esplosione.  Un dato in continuo aumento per una perversa e poco studiata medicalizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza. Domina il mito dell’eziologia genetica e (come spesso capita se non si hanno prove certe) dell’epigenetica. Dunque una colpa chimica e biologica, che frammenta l’umano in sintomi circoscritti, perdendone l’unitarietà olistica.

Siamo però oggi ormai oltre.  La “medicalizzazione” si espande oltre la disabilità ex Legge 104/92. Infatti dal 2010 con una Legge iatrogena si introdusse la neo categoria medicale dei D.S.A.  (dislessia, disgrafia, ecc..).
L’intenzione era di “dare aiuto”  ai ragazzini dislessici, che io da buon figlio di Vigotsky mai avrei chiamato “disturbati” ma avrei parlato di “difetti”. Si inventò la categoria quasi metafisica dell’aiuto didattico dispensativo e compensativo con un’esplosione di conflittualità nuove tra scuola e famiglie su cosa volesse dire, con conflitti e cause in tribunale.

La Legge sui DSA voleva anche contenere l’uso della Legge 104 sulla disabilità spesso utilizzata per classificare questi soi disant “disturbi”. Terra terra voleva dire: ragazzini certificati con diagnosi clinica ma  “senza bisogno dell’insegnante di sostegno”. Oggi questi ragazzini DSA sono ormai superiori ai 320.000 certificati (a.s. 2021/22), il 5,4% degli studenti dalla 3.a primaria alle superiori. Ma non basta: per una scelta tutta ministeriale e non politica nel 2012 si inventò la categoria dei cd. BES, contenente studenti con  “disturbi” i più vari non catalogabili dalla clinica, ma a  cui concedere il dispensativo e compensativo. Su questa parte di neo-disturbati si diede alle scuole la possibilità di individuarli internamente.
E per tutti i BES si impose il  PDP, parodia del PEI.

L’ultimo utilizzo (quanto mai strano) della categoria BES  è avvenuto nel 2022, in risposta all’arrivo dei bambini e ragazzi ucraini profughi dalla guerra cui si concesse di fare scuola un po’ alla buona, dispensando e compensando, e dimenticandoci di collegarsi invece con la fortissima pratica della didattica online che la scuola ucraina offriva ogni giorno nonostante la guerra!

Tenendo conto che la categoria “Bes” non ha dati precisi raccolti, si può comunque sostenere che in Italia ci sono oggi circa 1.000.000 di bambini e ragazzi considerati “speciali” da coprire con una certificazione e una didattica “speciale” o forse meglio verrebbe da dire “non-normale”.

Perché questo è il dramma di questi numeri: un processo di separazione-isolazione dei giovani umani secondo categorie cliniche sempre più invadenti, centrate sul “sintomo”, con lo sviluppo di una neo-burocrazia pedagogica,  fatta di carte, riunioni, programmazioni separate. Una normativa barocca e ovviamente nuove cause giudiziarie su quanto dispensare e compensare.
Ha accompagnato  questa esplosione diagnostica, stravolgendo anche il sistema sanitario, una pesantissima normazione ministeriale delle regole amministrative e scolastiche, tra GLO militarizzati e la raccolta informatica di tutti i PEI visti come “moduli da compilare”, e all’ICF usato come “contatore para-clinico per le ore di sostegno/per caso h” piuttosto che nuovo strumento pedagogico interpretativo della persona in una più aperta dimensione bio-psico-sociale.
L’esplosione numerica della casistica clinica, para-clinica,  para-sociale dei nostri alunni/studenti  ha fatto esplodere una forte sofferenza e confusione nelle scuole e un aumento di conflittualità e incomprensioni con le famiglie e i servizi territoriali.

Ha accompagnato questa esplosione di confusione nelle scuole  un parallelo e abnorme sviluppo di strutture cliniche e paracliniche, enti e associazioni specialistiche con operatori  privati che offrono servizi “tecnici” con “esperti” di incerta validazione accademica.  A volte con l’apertura di nuove para-scuole speciali che giungono all’isolazione definitiva. Un sistema clinico  parallelo al pubblico servizio tradizionale  mai effettivamente regolato,  eppure molto assertivo.

Ma non basta. I nostri lettori più attenti rileveranno facilmente come negli stessi anni di questa esplosione di disabilità e di vari disturbi si è sviluppata una vasta letteratura sul “grande dolore” di essere piccoli e giovani, che ha avuto al tempo del COVID la sua apologia. Superfluo qui descrivere i numerosi casi di ricerche drammatizzanti, i fantasmi su nuove malattie della crescita, la predicazione di nuovi santoni in tanti  convegni dolenti. Insomma, si è diffuso negli adulti italiani un pessimismo fatale circa l’idea che essere piccoli e giovani oggi è  più di sempre nella storia  “una grande malattia”.
Può essere anche questo, tra le varie cause,  motivo del calo demografico? Avere un figlio appare sempre di più un rischio da evitare, piuttosto  che un sogno?

Con il nuovo Governo di destra la questione pare prendere una doppia piega. Una prima piega piagnona sui “disturbi esistenziali” (per es. l’educazione all’affettività con ore di lezione-predica), e una seconda piega, la  piega cattiva verso i ragazzi che disturbano,  o che menano, o che marinano la scuola: da qui  la terapia della minaccia (dal voto in condotta ai genitori in galera).
Insomma, pietismo e  castigo, abbandonando una visione olistica di ogni nostro singolo alunno/studente e una pratica attiva comunitaria e sociale dell’esperienza educativa. Ad ognuno la sua terapia. La scuola non come comunità aperta e creativa, ma triste luogo di para cura protetti da leggi, commi, documenti manualistici, terapie sintomatologiche. Mai un pensiero pedagogico  attivo e ottimistico  verso i nostri piccoli.

  1. Insegnare nell’isolazione

Naturalmente all’esplosione iatrogena si è accompagnata un’esplosione di posti di lavoro nell’area educativa, svolta con un apparato professionale e amministrativo confuso e arruffato,  con corsi di corsa (si scusi il bisticcio)  per dare a piene mani  migliaia di posti di sostegno. Ma il dramma vero e la nuova isolazione nella “copertura” del sostegno  è accaduta perchè oltre alla triplicazione dei posti di sostegno, nulla si è fatto per far crescere nell’intero sistema docente la consapevolezza comunitaria dell’inclusione.
Anzi, c’è di peggio: si è ormai consolidata l’idea che è l’insegnante di sostegno sia l’unica soluzione all’inclusione dei disabili, che tocca a lui/lei sapere e insieme saper fare,   accompagnati da circa 70.000 educatori (laureati triennali in pedagogia) dipendenti da cooperative sociali pagati ben sotto i 9 euro/ora. Insomma l’inclusione attuale ha un altro nome mitico e affannosamente richiesto dalle famiglie: la cosiddetta copertura. Se non c’è la copertura di tutte le ore di frequenza scolastica la scuola rischia il tribunale, e soprattutto: se non c’è la copertura come fa il docente disciplinare a insegnare?

Sta dilagando nelle nostre scuole un modello duale di scolarità: si entra tutti dallo stesso portone, ma dove e con chi si fa scuola dipende dai certificati  e dalle diagnosi,  dalle aule h, dalle teorie dei tanti “tecnici” con soluzioni spicce  se un bambino mena i compagni o si fa la cacca addosso.
Come non vedere in questo mito della copertura l’inizio di un nuovo modello di “scolarità speciale”?
Una regressione triste  dall’esperienza di inclusione così aperta e coraggiosa nata negli anni 70. D’altra parte se tutti i bambini e ragazzi sono ormai  un problema a sé, non è più comodo dividere gli insegnanti ancora di più per problema?
Infatti c’è di peggio. Anche nell’area della cd “dispersione”, nell’area dei cd NEET, nei diversi progetti del PNRR per migliorare la qualità degli esiti scolastici per tutti riducendo i fallimenti scolastici, emerge sempre di più un’idea separativa delle professioni: dai diversi tipi di tutor, ai progetti col volontariato sociale, ai santoni offerenti la ricetta salvifica.

  1. Cambiare rotta per un’inclusione comunitaria

Sta emergendo insomma sempre più un sistema educativo binario, composto da un sistema doppio di operatori educativi: quelli detti del “curricolare”  che si occupano dei normali, e quello degli “esperti coperti” che si occupano di sfigati, disabili, poveri, stranieri, e così via. Carriere separate e funzioni separate.
Dunque, è doveroso da parte di chi crede come me che la scuola è  inclusiva se tiene tutti insieme traendo da tutte le diversità un valore, spetta a noi “inclusivi integrali” ribellarci da questa deriva. L’art. 3 della Costituzione ci chiede di “rimuovere gli ostacoli” e l’accomodamento ragionevole dell’ONU ci chiede appunto la ragionevolezza del fare comunità. La deriva che sta prendendo la scuola è invece dolorosamente sempre più isolante, di anno.  E’ necessaria una svolta radicale.
Per questo motivo, assieme ad un gruppo di amici senza alcun potere politico né professionale, brava gente che si è occupata di inclusione dagli anni 70, ho partecipato con gioia alla costruzione di un progetto radicale di ricostruzione della professionalità docente inclusiva che ha come struttura fondante una semplice ed essenziale regola:  tutti gli insegnanti si occupano di tutti i loro alunni/studenti.

Perché la crisi dell’inclusione di cui qui scrivo  e la diffusa isolazione con le coperture  è conseguenza del totale abbandono dei docenti in genere alla formazione intensa e obbligatoria di una loro effettiva competenza inclusiva. Gran parte dei docenti italiani non ha alcuna competenza sostanziale sulle pratiche inclusive, sia che riguardino studenti con disabilità, sia tutte le altre categorie umane e sociali che rischiano la dispersione e l’abbandono.  L’abbiamo chiamata “cattedra inclusiva”, cioè capace di superare la dicotomia disciplinare versus sostegno, cioè una competenza strutturale necessaria per tutti e da diffondere oggi ben oltre la disabilità.

Ne è uscito perfino un disegno di legge. Sappiamo già che sarà  molto difficile. Ma vogliamo seminare un pensiero radicale nuovo, partendo da quegli insegnanti e scuole che non si sono arrese alla delega ai sostegni solitari e agli esperti vari. In fondo la questione non riguarda la qualità educativa per una parte debole, ma tocca tutti i nostri bambini e ragazzi. Insomma non lo facciamo per bontà,  ma per una questione di democrazia pedagogica reale. In una scuola in cui tutti siano utili agli altri. In cui crescendo insieme si diventa cittadini. Crescendo separati si diventa invece semplicemente e solo egoisti.  E’ dunque una questione pedagogica e insieme politica. Radicale, appunto, come fu negli anni 70 ai nostri giovanili inizi.




Inclusione scolastica: Galli Della Loggia e le chiacchiere da bar

di Raffaele Iosa

Sono felicemente sorpreso dalla valanga di critiche, a volte persino feroci, che il vecchio guru Ernesto Galli della Loggia (detto da più parti EGDL) si è preso per via di un suo pezzo sull’inclusione scolastica.
In questo assurdo pezzo il vecchio EGDL sostiene con una violenza da bar sport che l’inclusione scolastica è solo un “mito” finto democratico, che non solo non funziona, ma fa del male a chi è disabile, dislessico, straniero, povero, e così via. E, ovviamente, fa del male e rallenta i “normali” costretti a subire un pernicioso caos educativo.
Mi occupo di disabilità da quasi 50 anni, sia come insegnante poi via via da dirigente e ispettore anche con ruoli apicali ministeriali ed internazionali.

Qualcosa so.
Dunque: sono molto sorpreso per le reazioni di centinaia di insegnanti, persone di scuola e cittadini. Per moltissimi di questi le dichiarazioni di EGDL sono offensive, ridicole, false, pur con tutte le difficoltà che l’inclusione scolastica ha ancora in Italia.

Sono felicemente sorpreso perché nei tanti “bar scolastici” che ancora frequento (anche se in pensione) ho più volte incontrato presidi, insegnanti e genitori ostili all’inclusione scolastica con toni e argomentari simili a quelli del nostro EGDL.
Non solo: credo che il caos organizzativo, l’assenza di una seria formazione di tutti gli insegnanti (non solo quelli di sostegno), il mito dell’insegnante di sostegno come “soluzione dell’inclusione” siano oggi troppo diffusi e segno di una crisi che rischia (questa sì) di produrre un calo qualitativo e valoriale dell’inclusione come paradigma educativo necessario per tutti gli alunni e gli studenti, qualsiasi sia la loro condizione.

Per questo motivo, paradossalmente, la levata di scudi contro il poco competente (ma potente) EGDL con la sua sponsorizzazione di un sistema scolastico separato per categorie di “normalità” e di “non normalità”, fa ben sperare al successo di una proposta che un gruppo di noi (di cui mi onoro di far parte) ha preparato in questi mesi, e che presenta una coraggiosa proposta di qualità: quella di una formazione professionale del tutto diversa dall’ attuale e di tutti gli insegnanti attorno al tema del successo formativo e dell’inclusione di tutti. L’abbiamo chiamata “cattedra inclusiva”, cioè una competenza fine e diffusa di tutti i docenti, senza specialismi separativi e medicalizzazioni dannose. L’inclusione tocca ed è di tutti, nessuno escluso. Perché l’inclusione italiana torni ad essere quell’ispirazione pedagogica che l’ha resa la migliore in Europa.
Qualche volta i soloni da bar sport fanno aprire gli occhi anche ai dubbiosi. La nostra risposta dunque è quella di agire con coraggio, non solo quella di polemizzare per battute non solo fuori luogo, ma del tutto dilettantesche e figlia di pregiudizi antichi,




Stupri e adolescenti: fine del maschio e infosfera

di Raffaele Iosa

Si parla molto in questi giorni di fine agosto di due terribili storie di  stupri che hanno coinvolto  maschi adolescenti verso ragazze coetanee  fino al limite di bambine (10 e 12 anni). Ne parla la politica, le televisioni grondano  di dibattiti non sempre equilibrati.  Ma non c’è  occasione (informativa o politica) nella quale oltre alle analisi sui luoghi  (in genere “aree a rischio degradate”),  oltre lo  scandalo di registrare e girare via web gli stupri ottenendo migliaia (pare) di giovanissimi guardoni, oltre a tutto questo viene sempre la domanda e la lamentazione: “E la scuola cosa fa?” Cosa potrebbe fare?”.

Di questo vorrei un po’ riflettere qui, perché (che si voglia o meno) la “domanda di scuola educativa” pare stavolta oggetto condiviso come “luogo utile” a formare diversamente i nostri giovani sui costumi  quando questi  sono  così  gravi e sconcertanti.
E sui quali non c’è dubbio che il tema non sia quello banale di una scolastica  “educazione sessuale”, ma di una più complessa “educazione all’affettività e alla relazione”, che innerva la vita quotidiana dei nostri bambini e giovani oltre la sessualità in senso stretto. E che, naturalmente, parte dall’educazione familiare (su cui molti sono i guai del presente), ma che poi potrebbe trovare nella scuola un luogo  di “comunità” che si auto-educa  agendo su valori positivi  realizzati non solo a parole (e certo non con le prediche)  ma nell’agire quotidiano della vita della scuola.

Tra il dire e il fare, due rischi emergono subito ad un lettore che sappia un po’ di scuola. Il primo è di intravedere una nuova “materia”, o nuovi “ docenti esperti” che a scuola in un modo o in un altro intervengano per prevenire e contenere questa specie di follia orgiastica adolescente.
Cioè “lezioni di educazione affettiva” separata dal resto. Questo modo di agire non è nuovo, e in genere ha poco successo.
Il secondo rischio è di  riempire la scuola di “professionisti esperti” che agiscano con diverse forme terapeutiche individuali, di gruppo e così via secondo i guai e le difficoltà di ogni scuola.
In ogni caso entrambi i rischi vedono la questione sesso-affettività come  “altro da sé” dalla scuola, una specie di “emergenza” piuttosto che un tema trasversale (l’affettività e la relazione) che innerva tutta la vita della scuola, dalle lezioni,  ai contenuti disciplinari, alle ricreazioni, alle gite scolastiche, ai  rapporti educativi, all’amicizia tra pari, alla partecipazione delle famiglie.

In attesa che qualche ministro  dell’istruzione dia linee, proposte, burocrazie dedicate, vorrei qui invece sottolineare  due questioni inerenti  questa follia dell’orgia giovanile , che siano strumenti riflessivi di base per gli educatori, qualsiasi siano le azioni che le scuole vorranno, sapranno e potranno voler fare.

LA FINE DEL MASCHIO

La prima ovvia questione da rilevare è  che i “colpevoli” siano giovani maschi. La cosa va detta con realismo e sincerità, per evitare di costruire ancora modelli arcaici di interpretazione per cui alla bambina o alla giovane stuprata si possa dire persino “se l’è voluta”. No, non è così. I maschi sono i colpevoli.

Aggrava questa condizione maschia il fatto che numerosi eventi di stupro avvengano in gruppo, ripristinando l’orgia collettiva in cui lo scambio maschile funziona da alimentatore. Quindi non maschi soli, ma il branco selvaggio. Ma c’è di più e ancora più grave: un’orgia adolescente pare aver senso se “viene filmata”, se diventa pubblica, se supera i confini del segreto, se insomma fa diventare la vita una forma di “esibizionismo online”, ottenendo persino il successo e la fama, con followers  e imitatori.

Forse è ora, per la scuola (e per la società adulta) di riflettere su un fatto più vasto della sessualità  e genitalità inerente all’attuale condizione dei  giovani maschi nel nostro  paese. Ne ho scritto molto e  ne ho studiato il fenomeno da almeno 30 anni , riscuotendo simpatia ma scarso interesse. La mia tesi è che a partire dagli anni 80 sempre  più è emersa una “crisi esistenziale” della condizione maschile cui la scuola e la società non ha pensato con occhio più attento. Alcuni dati per comprendere di cosa parlo: nella scuola media su 10 bocciati 8 sono maschi, i tossicodipendenti maschi sono l’80% del tossici, altrettanto i ragazzi maschi  con reati penali. Ma anche sulla disabilità e la cd. categoria BES sono molto di più i maschi con certificazione.  Un caso? Una questione biologica? Cosa c’è sotto questa esplosione di “mal maschile”?  Potremmo forse  vedere una relazione tra l’aumento della “crisi dei maschi” e il parallelo sviluppo civile e culturale dell’identità femminile  in chiave “femminista” nel senso di differenza nello stile di vita ma eguaglianza nei diritti individuali e collettivi? Cioè: più le femmine sono diventate a pieno diritto “donne” cittadine più il prototipo maschilista  del  padrone non ha saputo  convertirsi  in maschio fratello e amico, con diversi ma pari stili di relazione tra diritti e doveri.

La questione  è culturale nel senso più vasto e profondo del vivere le diverse identità umane. A cui si sommano anche le nuove questioni esistenziali delle scelte sessuali,  dell’identità individuale,  delle tante nuove sfumature dell’identità sessuale oltre quella  biologicamente sessuata.

Dunque, prima ancora di pensare ad un “progetto scolastico sull’affettività” , suggerisco di riflettere come educatori su cosa sia e faccia la scuola oggi per comprendere meglio e più a fondo l’ “essere maschio”. Ci sono pochi studi sul tema, poche esperienze di riflessione e azione per garantire ai maschi un’educazione più seria e dignitosa in fatto di affettività, più ampia di opzioni sugli stili di vita che non abbiano la competizione orgiastica come fine dominante, ma l’umanità solidale e creativa dell’essere umano con un’identità che sappia legare e amare, non dominare e sottomettere l’altro/a da te.

L’INFOSFERA

L’ex celebre porno attore Rocco Siffredi ha dichiarato, a proposito dell’uso dei social media per far girare i video delle orge giovanili, di essere  pentito di essere stato un produttore di video porno di diversa qualità. Al punto di volersi proporre di uscire dal mercato dei video e eliminare nella rete tutti i suoi prodotti. Segno questo, tra i tanti, di una presa di  coscienza di come il “vedere” sia un elemento scatenante possibile di perversioni imitative. In  giovani menti maschili possono produrre una follia collettiva e individuale che non sa reggere l’equilibrio complesso della sessualità e dell’affettività entro canoni umanamente condivisibili, ma esplodendo anzi in eccessi oltre misura senza alcun limite  etico e perfino estetico.

Dunque si può dire che la cd “infosfera” ( citando Luciano Floridi),  cioè questo mondo tecnologico dove l’online domina sempre più sulla realtà fisica e oggettuale della vita e delle relazioni, stia determinando una nuova follia sociale che pare incontrollabile e sempre più pericolosa. Riflettiamo sul rapporto che c’è tra un adolescente e le tante funzioni del suo cellulare. Queste funzioni  potrebbero non essere più mediate da una visione dialogica e collettiva ma racchiuse in un frenetico mondo istintuale e onanistico che crea relazioni (se le crea) non materiali  ma puramente virtuali. E dunque una possibile follia  del virtuale come realtà che domina e vince. Tema che va oltre la pornografia e che va seriamente discusso nell’evoluzione di tutta la società rispetto all’educazione, al lavoro, alla vita sociale, ai prodotti culturali, e così via.

Dunque, queste orge online aprono alla nostra società adulta e a quella che si occupa di educazione un tema molto serio sui limiti etici, antropologici ed esistenziali che la nostra società (e la nostra educazione) dovrebbero  avere verso il cosiddetto “virtuale”. Saggezza ma prudenza, soprattutto quando si è piccoli. L’online non è un giocattolo come una bambola o una macchinina. C’è di più, molto di più complicato.