L’opinione non è matematica. O forse sì

di Marco Guastavigna

Sono giunto in quella fase della vita in cui per forza di cose si sostituiscono i buoni consigli al cattivo esempio.
Sollecitato mio malgrado dall’ennesima polarizzazione tra apocalittici e integrati a proposito del Green Pass, non posso quindi assolutamente esimermi dal proporre come esempi generali episodi specifici ed esclusivi della mia vicenda personale.

Nell’inverno del 1968 ero sedicenne e mi sono precipitato, insieme a numerosi altri giovani, alcuni dei quali maggiorenni, a “soccorrere” le vittime del sisma del Belice.
La nostra grandiosa missione umanitaria faceva riferimento all’Associazione “Babbo Natale”, che – per ragioni che ora mi sfuggono – ci aveva reclutato presso la sede di Economia e Commercio.
Siamo partiti con un aereo postale, con a bordo niente meno che la troupe di TV7, che ci intervistò durante il volo, in occasione dell’atterraggio e nei primi giorni di attività. Per partecipare ci erano state poste due condizioni: per i minorenni il consenso genitoriale, per tutti l’ingestione di alcuni farmaci, per esempio pastiglie atte a prevenire il tifo. Nessuno obiettò nulla e in questo modo potemmo accedere al campo dove erano ospitati i “terremotati”, organizzato e gestito dall’esercito.

Cinque anni dopo, nell’estate del 1973, mi sono trovato a Torre del Greco nel pieno dell’epidemia di colera. Invece di tornare subito a Torino, mi sono autoisolato per un tempo congruo in Toscana, in un appartamento di proprietà di mio padre, dove in quel momento non c’era nessuno. Non avendo accusato alcun sintomo, sono poi rientrato nella mia residenza e ho ripreso l’usuale rete di relazioni.

È di qualche anno dopo il mio ingresso come insegnante di scuola media nell’istruzione pubblica: per arruolarmi, lo Stato mi chiese di dimostrare, attraverso opportuni accertamenti sanitari, di non essere portatore di sifilide e di tubercolosi. Rammento un po’ confusamente di aver alacremente partecipato a una sorta di vertenza sindacale sulla inutilità del secondo test, che – sostenevamo – proponeva numerosi falsi positivi. Ricordo con precisione che – essendo invece risultato negativo – accettai la proposta di vaccinarmi, il che mi avrebbe fornito una copertura medico-legale più duratura.

Nel febbraio di quest’anno, infine, ho avuto la possibilità di prenotarmi per la vaccinazione contro il Covid19 in quanto docente a contratto dell’Università di Torino. Ho così ricevuto la prima dose di Astrazeneca il 27 marzo e la seconda il 13 giugno, per poi scaricare qualche giorno dopo il mio Green Pass mediante l’App IO.
Non ho mai parlato molto di questa vicenda perché mi sono sentito fin da subito un privilegiato, soprattutto nel periodo in cui, per la somministrazione del farmaco, l’appartenenza a categorie professionali prevaleva sulle classi di età. E proprio per questo ho provato un grande sollievo quando ho saputo vaccinati mia madre, i miei figli, mia moglie, mia sorella e così via.

Ho cercato di informarmi in modo ragionevole e razionale: ho capito che il ciclo completo non dà una garanzia assoluta contro il contagio individuale, ma anche che solo una diffusa vaccinazione può aumentare la quantità totale degli immunizzati e, di conseguenza, indebolire il virus e la sua capacità di variare. Con beneficio anche per coloro che per riconosciute “fragilità” personali non possono essere vaccinati.

Insomma: la mia storia individuale mi porta con facilità e serenità ad accettare che la Repubblica mi chieda (di nuovo, per altro) comportamenti virtuosi e accertamenti sanitari per poter continuare a garantire con una certa sicurezza movimento, lavoro, intrattenimento, socialità, relazioni all’insieme dei cittadini.

E qui interviene probabilmente un approccio – forse filosofico, forse politico – che appartiene ad un’altra componente della mia vita: valori e principi. Io penso infatti che la mia libertà personale può trovare pieno compimento e valore solo contribuendo a determinare e conservare quella altrui. E viceversa.
Non mi è mai piaciuta la visione liberale pura, quella che considera le libertà individuali l’una come limite dell’altra e aborro la visione libertariana di destra, per cui tutto ciò che è pubblico e collettivo rappresenta l’inferno del controllo, a cui ci si deve sottrarre con ogni mezzo.

Certo, i miei precedenti sono anteriori alle normative sui dati “sensibili” e sulla riservatezza attualmente in vigore, ma – francamente – non mi pare che una politica di prevenzione sanitaria sia accusabile di violazione della privacy sulle condizioni di salute personali.

In tutti i casi, lascio questo specifico quesito a chi conosce meglio di me questo campo e – da bravo anziano che si sente (più) saggio – ne propongo un altro: come mai ogni infuocatissimo dibattito ha luogo ormai su piattaforme digitali a vocazione estrattiva, che mettono a valore in tempo reale dati psicobiologici, rapporti interpersonali, opinioni, preferenze, desideri, spostamenti, acquisti, orientamenti politico-culturali, appartenenze e così via, consegnati con flusso costante e continuo da utenti che all’atto dell’iscrizione e in occasione dei successivi rinnovi hanno sottoscritto (senza leggerle) condizioni di impiego fondate – nonostante per esempio il GDPR – sulla prospettiva della trasparenza radicale?

Francamente, questo sempre più esteso processo di appropriazione “gentile” delle vite di tutti mi inquieta assai di più della possibilità che mi venga richiesto il Green Pass per cenare in un ristorante, cosa che – e Google Opinion Rewards lo sa bene – non faccio quasi mai.




Lettera ad una professoressa 2.0

di Marco Guastavigna e Dario Zucchini

Cara somministratrice di prove oggettive, fila A e fila B,
Lei di me non ricorderà nemmeno il nickname.
Che fossero conoscenze o competenze poco importa: ne ha certificati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi a cui fate lezioni frontali con strumenti pensati per interazioni aziendali.
Qualche provvedimento di qualche autorità del territorio ci costringe nelle nostre abitazioni e voi all’istante vi dimenticate che siamo adolescenti.
Per voi siamo solo studenti. Per alcun* – è vero – anche studentesse.

Il fatto che non possiamo incontrarci, non possiamo fare sport, non possiamo innamorarci, non possiamo svagarci – secondo voi – inutilmente, non possiamo vivere la gran parte di quelle esperienze che perfino alcuni dei più retrivi e moralisti di voi hanno compiuto, nemmeno vi sfiora.
Noi perdiamo i 14, i 15, i 16, i 17, i 18 anni nella loro pienezza. Periodi della nostra esistenza che non sono recuperabili, nemmeno con gli esami di riparazione e neppure con corsi fino a luglio, rituali da qualcuno dei vostri tanto rimpianti e proposti.
Voi per contro vi preoccupate di non riuscire a finire il programma (che non esiste più), dell’esame di maturità (idem), delle valutazioni e di rincorrere a tutti i costi non si sa bene cosa.
Sono pochi quelli che quando ci reincontriamo in aula dopo un periodo di distanziamento della didattica ci chiedono come stiamo e ci aprono il cuore.

La gran parte pensa soltanto a misurare, registrare, affibbiare voti e giudizi. Ci avevate detto che la scuola riapriva per noi, per recuperare socialità e benessere e invece… in questi due mesi in presenza – anche se al 50% – ci avete massacrati con continue verifiche e interrogazioni. Sembrate vendicarvi di colpe non ben precisate, ma che certamente non abbiamo noi.

Ormai siamo rassegnati a perdere una parte della nostra gioventù, ma sappiate che ci fate amaramente ridere quando vi sentiamo dire che la vera scuola è quella in prossimità, perché è fondata sulle relazioni umane.

(testimonianze anonime raccolte da Marco Guastavigna e Dario Zucchini)




C’era una volta a Torino. Vi racconto il mio esordio da prof…

di Marco Guastavigna

C’era una volta una scuola media della periferia torinese.
Anzi, di estrema periferia. Estrema per la distanza – non tanto geografica quanto socio-culturale – dal centro della città, ma soprattutto per le posizioni politico-culturali di coloro che ci lavoravano.
Anzi, ci militavano, convinti allora – e molti ancora adesso – che la scuola deve e può essere luogo pubblico e dialettico di emancipazione dai condizionamenti socio-culturali di provenienza di tutt* e di ciascun*. Insegnant*compres*.

Ci arrivo a 27 anni, con 4 di esperienza da supplente di materie letterarie alle spalle, di cui quasi uno – già bello tosto, straniante e formativo – nella scuola della preside sulla cui vicenda e sui cui valori e principi è imperniata larga parte della trama di La classe degli asini.
Mi accoglie un’affascinante signora quarantenne, di cui in pochi minuti mi invaghisco perdutamente: mi affiderà la sola prima non a “tempo pieno” della scuola, su cui spenderò tutte le mie 18 ore, per italiano, storia ed educazione civica (già…) e geografia, e per attività di supporto ad alcuni scolari, in compresenza.

La preside  – entusiasta, incaricata e in qualche modo “reclutata” ad assumere quel compito da alcuni colleghi già presenti nella scuola, di cui riscuote la massima fiducia –  sottolinea che è una situazione delicata: i genitori hanno infatti accettato di iscrivere i propri figli a patto che frequentino il tempo normale, pretesto che consente loro costituire un gruppo separato.

Ringrazio della fiducia, prometto di fare del mio meglio e – dentro un me obnubilato da occhi e sorriso dell’interlocutrice – giuro che convertirò i reprobi a una frequenza più ampia.
E, in effetti, ci riuscirò. L’anno dopo la seconda E chiederà e otterrà per i due successivi il tempo pieno, ovvero una frequenza scolastica di 36 ore, con mensa e numerose compresenze tra insegnamenti.

Tra le strategie di convinzione, il viaggio di istruzione a Niella Belbo, in primavera.
Camminate, studio dell’ambiente, chiacchierate, risate. M. è però particolarmente timida e DR, la collega di Educazione Tecnica Libertaria e soprattutto Femminista, ha un idea-gioco: chi riuscirà a farle leggere il proprio biglietto ad alta voce di fronte a tutti, vincerà mille lire, che mette sul tavolo.
Partecipo anch’io e trionfo con un infantile stratagemma manipolatorio di cui ancora adesso sento il peso deontologico ed etico, perché sul mio foglietto scrivo: “Se leggi il mio messaggio, ti passo metà del premio. Il prof”.
Mentre mi adopero per recuperare i miei allievi alla dimensione collettiva ed eterogenea dell’istruzione pubblica, non solo vedo trasformata la mia supplenza in un incarico a tempo determinato presso la medesima scuola, grazie al fatto che in graduatoria si arriva ben oltre la mia posizione, ma entro in contatto con i colleghi dei 4 corsi completi (A, B, C, D) che insieme alla mia prima E costituiscono l’istituto (già… siamo alla fine dei gloriosi anni Settanta, ben prima di razionalizzazione e ridimensionamento).

Bene: alle lettere A, B, C e D corrispondono quattro modelli di sperimentazione differenti, in palese concorrenza l’uno con l’altro e assolutamente incoerenti tra di loro. Rapidamente scopro la mia ammirazione e manifesto la mia preferenza – basate entrambe sulla quantità di distanza dai canoni istituzionali e quindi da quella che io considero la “scuola della selezione di classe” – per il corso C, a cui infatti otterrò di essere assegnato l’anno successivo.
In questa occasione avrò anche modo di scoprire che – essendo la scuola a regime sperimentale – ho l’opportunità di essere confermato con una semplice domanda, a patto che le nomine annuali prevedano di arrivare fino al mio punteggio.

Eserciterò questo privilegio – da me considerato dedizione alla causa del riscatto socio-culturale dei sommersi – per altri tre anni, fino a quando il “mio” posto verrà occupato da un maledetto vincitore di concorso e sarò deportato in una scuola vicino a casa mia, il che mi sembrerà aggiungere ulteriore indegnità al mio esilio, già di per sé una atroce sconfitta.

Torniamo però al mitico corso C: due insegnanti di lettere, due di scienze e matematica, due di educazione tecnica, 1 di educazione artistica, 1 di musica, 1 di Lingua straniera e 1 di educazione fisica sono variamente sovrapposti tra loro, per modo che molte delle ore – al minimo due per giornata – permettono la divisione delle classi in piccoli gruppi, orizzontali e verticali.

Lo slogan, infatti, è “imparare facendo”: ci assiste Piero Simondo, per conto niente meno che di Francesco De Bartolomeis.
Fiori all’occhiello sono il laboratorio di fotografia (già… su carta, in B/N, con tanto di ingranditori, acidi e camera oscura) e quello di ceramica (con tornio e artigiano professionista, oltre ai prof di Educazione Tecnica e Artistica).
Io sono con un collega di Scienze a fare tipografia freinettiana, con ciclostile e telai. Le altre prof di Lettere e Matematica lavorano alla lettura e al confronto dei quotidiani, in particolare sul rapporto tra politica estera e Storia.
Nel laboratorio di stampa confluisce un po’ di tutto, ma ricordo in particolare il lavoro sulle interviste condotte in classe a giudici dei minori, educatori e assistenti sociali, per meglio capire alcune delle possibili conseguenze delle reazioni predatorie al disagio. Oppure i diari e i cartelloni sui soggiorni di socializzazione egualitaria a Levone (6 gg) e Loano (11 gg), grazie alle opportunità che le giunte di allora riservavano alle scuole della “sfiga” sociale. Oppure ancora i bollettini a proposito dei seminari del consultorio di quartiere, per la prevenzione e il benessere psico-fisico.

Ogni settimana un pomeriggio è riservato ai consigli di classe, tranne in quella in cui ha luogo il collegio docenti. Ci rappresentiamo entrambe le istanze come soviet, non capendo – o non volendo vedere – che sono in realtà palestre di retorica, in cui ci scanniamo su mille dettagli e – soprattutto – per la leadership personale, spacciata per egemonia professionale e pedagogica.
C’era una volta … e ora non c’è più: nel 1983 viene istituito il tempo prolungato, che ha un organico inferiore a quello “pieno”, mentre la popolazione giovanile del quartiere comincia la curva discendente, fino a che la scuola viene chiusa e il suo edificio viene adibito ad altre funzioni.
Per noi insegnanti comincia la diaspora.

Ora non c’è più … ma qualcosa di prezioso è rimasto: ciascuno di noi ha fatto il suo percorso da prof, ma ogni volta che ci siamo rivisti abbiamo sottolineato il fatto che lì abbiamo imparato quasi tutto quello che ci ha fatto amare questo mestiere. E odiare dai nostri successivi colleghi per la lutulenza dei nostri interventi. Soprattutto, però, ci ha insegnato come rispettare le ragazze e ragazzi, investendo sul loro futuro di cittadini e sul presente delle relazioni tra adulti e giovani.




Democrazia (etero)diretta

di Marco Guastavigna

Intervengo sollecitato da una domanda di Reginaldo Palermo: chi ci governa davvero? Facebook?
Rispondo subito, quasi seccamente: la governance è esercitata da chi sa meglio utilizzare gli strumenti manipolatori su cui è costruita la platform society. E questo vale anche per molte forme di pseudo-opposizione.
Ora argomento.

Come accennato in un’altra occasione, le mie letture si concentrano da tempo sulla critica radicale alla società che riceve forma ed espressione dalle piattaforme di intermediazione ad intenzionalità capitalistica, basate sull’estrazione di dati, sulla profilazione dei prosumer, sulla previsione e sull’induzione/ingiunzione di comportamenti, prevalentemente commerciali, ma anche – appunto – politici.

Questo panorama generale richiede alcune precisazioni molto nette.

In primo luogo, è bene comprendere una volta per tutte che internet non è altro che un’infrastruttura: è soltanto l’insieme dei dispositivi e dei cavi che li connettono. Non è di conseguenza – e da tempo – un riferimento culturale utile per capire davvero e in modo significativo ciò che accade. Perfino dannoso è poi ostinarsi a usare la metafora della rete, che restituisce l’immagine di molti punti equipollenti connessi tra loro. Questa idea, centrata sulla libertà e sull’autonomia, è ridotta allo stato di archeologica utopia.

Per capire ciò che ci circonda e ci avvolge, è molto più efficace è invece la definizione di Geert Lovink e di altri autori: “giardini recintati”. Facebook, i vari servizi di Alphabet (la holding di Google) e le altre piattaforme di intermediazione costituiscono infatti insiemi molto definiti e compatti, accentrati, per accedere ai quali si devono ottenere precise credenziali identificative individuali. La concessione e l’uso di questo “permesso di soggiorno digitale” comportano la cessione delle proprie relazioni, delle proprie opinioni, dei propri comportamenti, dei propri spostamenti, delle proprie preferenze e così via.

Di tutto ciò si approprierà ciascun walled garden, in una gigantesca operazione di micro-targetizzazione in cui ciascun utente, mediante la produzione e la condivisione di contenuti, diventerà bersaglio e agente del marketing da cui i grandi player digitali traggono i loro giganteschi profitti.

Tutto questo non avviene per caso. Shoshana Zuboff, anzi, ha recentemente pubblicato un monumentale lavoro di ricerca, in cui dimostra – in particolare mediante puntuale analisi di brevetti, documentazione legale intervenuta nei contenziosi, dichiarazioni dei principali esponenti – che una sempre più raffinata profilazione degli utenti è l’intenzione strategica e la pratica quotidiana di ciò che la studiosa chiama “capitalismo di sorveglianza”, perché la sua vocazione è la capacità di prevedere e di condizionare i comportamenti individuali e collettivi, in qualsiasi sfera. Non per caso Erik Sadin parla di “industria della vita”.

Il tutto, inoltre, si determina in un oligopolio di fatto: è impossibile, infatti, anche solo immaginare di entrare in concorrenza con chi ha una potenza di calcolo e, conseguentemente, di azione pareggiare la quale richiederebbe investimenti di dimensioni ormai impraticabili, considerazione che vale anche per Amazon, la cui potenza logistica e finanziaria è ineguagliabile. Non è un caso, infatti, che colossi digitali paragonabili a quelli occidentali siano presenti soltanto sul mercato cinese. O che l’aspirazione fondamentale delle varie startup sia essere acquistate da GAFAM (Google, Apple, Facebooj, Amazon, Microsoft) o magari da NATU (Netflix, Airbnb, Tesla, Uber) e BATX (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi).

È bene infine considerare che il singolo utente dei servizi e cittadino è in condizione di lock-in: anche chi comprende la condizione in cui si trova non è nelle condizioni di uscire dai vari recinti senza importanti riduzioni della propria capacità operativa. Abbandonare Facebook, per esempio, significa perdere la rete di relazioni che vi si è costruita, il cui vero proprietario è la piattaforma, la quale non è disponibile a concedere alcuna portabilità di questo patrimonio comportamentale.

Siamo al punto centrale del ragionamento.
Dietro le affermazioni di facciata dei vari CEO, rivolte ai media, ma anche a coloro che hanno la vocazione ad innamorarsene acriticamente perché infatuati dell’innovazione sans phrase, vi sono infatti studi psico-demografici molto accurati, la cui forza teorica è quotidianamente esaltata dalla potenza computazionale degli algoritmi di monitoraggio, predizione e condizionamento impiegati in tempo reale dalle varie piattaforme sui Big Data accumulati.

Per quanto riguarda specificamente la politica, Gabriele Giacomini ci fa riflettere sulle implicazioni pratiche della teoria della razionalità limitata, secondo cui l’effettiva capacità di scelta del singolo cittadino dipende dalle informazioni possedute, dalle caratteristiche cognitive, dalla quantità di tempo effettivamente disponibile, che per molti individui è assolutamente limitato.
Questo assunto è alla base dell’organizzazione e della logistica di chi – anziché promuovere una cittadinanza riflessiva, fondata sul confronto e sulla sintesi dialettica – propone scientemente la politica come comunicazione semplificata. L’analisi, l’argomentazione e il confronto sono sostituiti e mistificati mediante identificazione immediata con influencer, gruppi di appartenenza e prossimità, leader.
La “politica dei like” e più in generale i meccanismi di Facebook e Twitter, ma anche quelli di strumenti come la piattaforma Rousseau o la “Bestia” salviniana, sono fondati sulla popolarità, sulla condivisione e – soprattutto – sulla polarizzazione. Sono cioè architetture progettate fin dall’origine allo scopo di utilizzare e di sollecitare un costante sondaggio degli umori, finalizzato a drenare consenso.

Queste strutture digitali di neo-intermediazione vincolante hanno sostituito i partiti, i media tradizionali e i vari corpi intermedi, proponendo consultazione just-in-time; siamo continuamente chiamati all’espressione plebiscitaria, nella formula accettazione versus rifiuto, descritta però come partecipazione, come agorà 2.0.

Giacomini propone il concetto di paradosso del pluralismo: “i media digitali aumentano per tutti la possibilità di esprimere la propria voce (in termini quantitativi) ma al tempo stesso sembra aumentare anche la distanza fra queste voci, la loro polarizzazione, mettendo in difficoltà il raggiungimento delle finalità di un sistema politico pluralista (in termini qualitativi)”.

Io mi sento di affermare però che siamo piuttosto di fronte a un lucido e interessato inquinamento della sfera e del discorso pubblico.
Ciò a cui assistiamo tutti i giorni non è effetto secondario o procedura sfuggita di mano: alle spalle delle pratiche comunicative vi sono infatti altri precisi assunti teorici che irrobustiscono manipolazione e orientamento forzoso.
Tra le conseguenze della razionalità limitata, gli studi di settore hanno infatti individuato la diffusione del ricorso a metodi semplificatori. Opinioni e scelte vengono cioè costruite sulla base dell’euristica della conferma, che porta a privilegiare le informazioni coerenti con il proprio sistema di credenze, e ad opporre un rifiuto preconcetto a ciò che le contraddice. Oppure con l’euristica della socializzazione, che spinge l’individuo a omologarsi alla pressione sociale esercitata da un gruppo di riferimento o da un contesto.
È bene ricordare quindi che l’algoritmo standard di Facebook ci presenta in modo privilegiato i materiali più coerenti con i nostri interessi e con ciò che abbiamo dimostrato di gradire in precedenza, seconda una logica customer care, dell’informazione come consumo individuale. C’è pertanto chi parla di “camere dell’eco” o di “bolle di filtraggio”, ovvero di frequentazioni sociali limitate al gruppo di coloro con cui si condividono valori ed opinioni.

Sempre Facebook, infine, ha effettuato nel 2014 esperimenti segreti, dimostrando la propria potenziale capacità di contagio emotivo mediante l’erogazione di post di caratura positiva o negativa.

 

 




Digitare prima dell’uso. L’innovazione digitale a scuola

di Marco Guastavigna
(per gentile concessione dell’autore e del Giornale Cobas)

Fin dal Programma di sviluppo delle tecnologie didattiche (1997 -2000), passando per l’iniziativa di formazione FOR TIC e arrivando al citato PNSD, le campagne di diffusione del Ministero sono state connotate – oltre che da prosa barocca e sempre più evidenti difficoltà espositive – da pregiudizi ricorrenti, a cui sono seguiti i medesimi problemi e gli stessi, deludenti, esiti.

In tutti i documenti e i provvedimenti, il rapporto tra docenti e strumenti (sempre presentati come “nuovi”) ha tre presupposti fondanti:

  • l’uso della tecnologia prevede conoscenze proprie e neutre, da acquisire in fasi successive, da un livello basico ad altri, più ampi, prevedibili e programmabili da una formazione centralizzata;
  • gli effetti dell’innovazione tecnologica sono ridotti, a causa di infrastrutture e investimenti limitati, ma soprattutto della mentalità arretrata di troppi insegnanti italiani;
  • gli insegnanti devono costruire un rapporto evoluto con il “digitale”, ambiente privilegiato e vincolante per l’innovazione di metodi e didattica, pena la propria obsolescenza.

Da questa visione derivano, per esempio, le campagne per la diffusione dei PC alla fine dello scorso millennio o delle LIM in questo, oppure le mitologie prima dei learning object e poi degli ebook, per arrivare a classi e scuole 2.0: un accavallarsi di storytelling didattico di cui nessuna ricerca scientifica autentica ha mai verificato l’efficacia effettiva.
In parallelo, sono state concepite figure professionali a cui delegare la gestione: gli Operatori tecnologici nella scuola di base degli anni ’90 – frutto soprattutto degli esuberi di Educazione tecnica -, i consulenti esperti destinatari dei percorsi formativi di tipo B erogati tra 2002 e 2003, fino agli “animatori digitali”: solo gli “evangelisti” del ministro Giannini non hanno trovato consacrazione.

Clicca qui per leggere l’intervento completo




L’aziendalismo non è una “invenzione” dell’autonomia, ma arriva da lontano

di Marco Guastavigna

Sono davvero in troppi coloro che cadono nella a sua volta illusoria credenza secondo cui la storia politico-culturale della scuola avrebbe solo 20 anni, con inizio nel 1997. È perfettamente giusto sottolineare la continuità neoliberista di questo periodo, ma dobbiamo evitare di cadere in qualsiasi forma di nostalgia della scuola precedente, che nel suo insieme non adempiva affatto ai propri compiti repubblicani ed era anzi in larga misura luogo di selezione.
Detto in altri termini: non condivido la tesi che l’autonomia scolastica abbia segnato una soluzione di continuità. L’aziendalismo e l’idea dell’istruzione come servizio individuale arrivano da prima. Arrivano da una media concepita prima come unica (1962) e poi come orientativa (1979) e che diventa invece luogo di conferma dei destini socio-culturali.
Gli ultimi due decenni, insomma, sono l’accentuazione spietata della struttura classista della scuola italiana, culminata nella “buona scuola”, ma ereditata dal fascismo e fondata sulla supremazia dei licei e sulla retorica dei saperi “alti” ed esclusivi. Scuola che – dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo – non è mai stata compiutamente democratica e aperta a tutti. Ed è riuscita a rendere asfittica anche la partecipazione attraverso gli organi collegiali.

Quello che abbiamo riportato è un passaggio di un articolo di Marco Guastavigna pubblicato nella rivista Insegnare. Clicca qui per leggere l’intero intervento