Democrazia (etero)diretta

di Marco Guastavigna

Intervengo sollecitato da una domanda di Reginaldo Palermo: chi ci governa davvero? Facebook?
Rispondo subito, quasi seccamente: la governance è esercitata da chi sa meglio utilizzare gli strumenti manipolatori su cui è costruita la platform society. E questo vale anche per molte forme di pseudo-opposizione.
Ora argomento.

Come accennato in un’altra occasione, le mie letture si concentrano da tempo sulla critica radicale alla società che riceve forma ed espressione dalle piattaforme di intermediazione ad intenzionalità capitalistica, basate sull’estrazione di dati, sulla profilazione dei prosumer, sulla previsione e sull’induzione/ingiunzione di comportamenti, prevalentemente commerciali, ma anche – appunto – politici.

Questo panorama generale richiede alcune precisazioni molto nette.

In primo luogo, è bene comprendere una volta per tutte che internet non è altro che un’infrastruttura: è soltanto l’insieme dei dispositivi e dei cavi che li connettono. Non è di conseguenza – e da tempo – un riferimento culturale utile per capire davvero e in modo significativo ciò che accade. Perfino dannoso è poi ostinarsi a usare la metafora della rete, che restituisce l’immagine di molti punti equipollenti connessi tra loro. Questa idea, centrata sulla libertà e sull’autonomia, è ridotta allo stato di archeologica utopia.

Per capire ciò che ci circonda e ci avvolge, è molto più efficace è invece la definizione di Geert Lovink e di altri autori: “giardini recintati”. Facebook, i vari servizi di Alphabet (la holding di Google) e le altre piattaforme di intermediazione costituiscono infatti insiemi molto definiti e compatti, accentrati, per accedere ai quali si devono ottenere precise credenziali identificative individuali. La concessione e l’uso di questo “permesso di soggiorno digitale” comportano la cessione delle proprie relazioni, delle proprie opinioni, dei propri comportamenti, dei propri spostamenti, delle proprie preferenze e così via.

Di tutto ciò si approprierà ciascun walled garden, in una gigantesca operazione di micro-targetizzazione in cui ciascun utente, mediante la produzione e la condivisione di contenuti, diventerà bersaglio e agente del marketing da cui i grandi player digitali traggono i loro giganteschi profitti.

Tutto questo non avviene per caso. Shoshana Zuboff, anzi, ha recentemente pubblicato un monumentale lavoro di ricerca, in cui dimostra – in particolare mediante puntuale analisi di brevetti, documentazione legale intervenuta nei contenziosi, dichiarazioni dei principali esponenti – che una sempre più raffinata profilazione degli utenti è l’intenzione strategica e la pratica quotidiana di ciò che la studiosa chiama “capitalismo di sorveglianza”, perché la sua vocazione è la capacità di prevedere e di condizionare i comportamenti individuali e collettivi, in qualsiasi sfera. Non per caso Erik Sadin parla di “industria della vita”.

Il tutto, inoltre, si determina in un oligopolio di fatto: è impossibile, infatti, anche solo immaginare di entrare in concorrenza con chi ha una potenza di calcolo e, conseguentemente, di azione pareggiare la quale richiederebbe investimenti di dimensioni ormai impraticabili, considerazione che vale anche per Amazon, la cui potenza logistica e finanziaria è ineguagliabile. Non è un caso, infatti, che colossi digitali paragonabili a quelli occidentali siano presenti soltanto sul mercato cinese. O che l’aspirazione fondamentale delle varie startup sia essere acquistate da GAFAM (Google, Apple, Facebooj, Amazon, Microsoft) o magari da NATU (Netflix, Airbnb, Tesla, Uber) e BATX (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi).

È bene infine considerare che il singolo utente dei servizi e cittadino è in condizione di lock-in: anche chi comprende la condizione in cui si trova non è nelle condizioni di uscire dai vari recinti senza importanti riduzioni della propria capacità operativa. Abbandonare Facebook, per esempio, significa perdere la rete di relazioni che vi si è costruita, il cui vero proprietario è la piattaforma, la quale non è disponibile a concedere alcuna portabilità di questo patrimonio comportamentale.

Siamo al punto centrale del ragionamento.
Dietro le affermazioni di facciata dei vari CEO, rivolte ai media, ma anche a coloro che hanno la vocazione ad innamorarsene acriticamente perché infatuati dell’innovazione sans phrase, vi sono infatti studi psico-demografici molto accurati, la cui forza teorica è quotidianamente esaltata dalla potenza computazionale degli algoritmi di monitoraggio, predizione e condizionamento impiegati in tempo reale dalle varie piattaforme sui Big Data accumulati.

Per quanto riguarda specificamente la politica, Gabriele Giacomini ci fa riflettere sulle implicazioni pratiche della teoria della razionalità limitata, secondo cui l’effettiva capacità di scelta del singolo cittadino dipende dalle informazioni possedute, dalle caratteristiche cognitive, dalla quantità di tempo effettivamente disponibile, che per molti individui è assolutamente limitato.
Questo assunto è alla base dell’organizzazione e della logistica di chi – anziché promuovere una cittadinanza riflessiva, fondata sul confronto e sulla sintesi dialettica – propone scientemente la politica come comunicazione semplificata. L’analisi, l’argomentazione e il confronto sono sostituiti e mistificati mediante identificazione immediata con influencer, gruppi di appartenenza e prossimità, leader.
La “politica dei like” e più in generale i meccanismi di Facebook e Twitter, ma anche quelli di strumenti come la piattaforma Rousseau o la “Bestia” salviniana, sono fondati sulla popolarità, sulla condivisione e – soprattutto – sulla polarizzazione. Sono cioè architetture progettate fin dall’origine allo scopo di utilizzare e di sollecitare un costante sondaggio degli umori, finalizzato a drenare consenso.

Queste strutture digitali di neo-intermediazione vincolante hanno sostituito i partiti, i media tradizionali e i vari corpi intermedi, proponendo consultazione just-in-time; siamo continuamente chiamati all’espressione plebiscitaria, nella formula accettazione versus rifiuto, descritta però come partecipazione, come agorà 2.0.

Giacomini propone il concetto di paradosso del pluralismo: “i media digitali aumentano per tutti la possibilità di esprimere la propria voce (in termini quantitativi) ma al tempo stesso sembra aumentare anche la distanza fra queste voci, la loro polarizzazione, mettendo in difficoltà il raggiungimento delle finalità di un sistema politico pluralista (in termini qualitativi)”.

Io mi sento di affermare però che siamo piuttosto di fronte a un lucido e interessato inquinamento della sfera e del discorso pubblico.
Ciò a cui assistiamo tutti i giorni non è effetto secondario o procedura sfuggita di mano: alle spalle delle pratiche comunicative vi sono infatti altri precisi assunti teorici che irrobustiscono manipolazione e orientamento forzoso.
Tra le conseguenze della razionalità limitata, gli studi di settore hanno infatti individuato la diffusione del ricorso a metodi semplificatori. Opinioni e scelte vengono cioè costruite sulla base dell’euristica della conferma, che porta a privilegiare le informazioni coerenti con il proprio sistema di credenze, e ad opporre un rifiuto preconcetto a ciò che le contraddice. Oppure con l’euristica della socializzazione, che spinge l’individuo a omologarsi alla pressione sociale esercitata da un gruppo di riferimento o da un contesto.
È bene ricordare quindi che l’algoritmo standard di Facebook ci presenta in modo privilegiato i materiali più coerenti con i nostri interessi e con ciò che abbiamo dimostrato di gradire in precedenza, seconda una logica customer care, dell’informazione come consumo individuale. C’è pertanto chi parla di “camere dell’eco” o di “bolle di filtraggio”, ovvero di frequentazioni sociali limitate al gruppo di coloro con cui si condividono valori ed opinioni.

Sempre Facebook, infine, ha effettuato nel 2014 esperimenti segreti, dimostrando la propria potenziale capacità di contagio emotivo mediante l’erogazione di post di caratura positiva o negativa.

 

 




Digitare prima dell’uso. L’innovazione digitale a scuola

di Marco Guastavigna
(per gentile concessione dell’autore e del Giornale Cobas)

Fin dal Programma di sviluppo delle tecnologie didattiche (1997 -2000), passando per l’iniziativa di formazione FOR TIC e arrivando al citato PNSD, le campagne di diffusione del Ministero sono state connotate – oltre che da prosa barocca e sempre più evidenti difficoltà espositive – da pregiudizi ricorrenti, a cui sono seguiti i medesimi problemi e gli stessi, deludenti, esiti.

In tutti i documenti e i provvedimenti, il rapporto tra docenti e strumenti (sempre presentati come “nuovi”) ha tre presupposti fondanti:

  • l’uso della tecnologia prevede conoscenze proprie e neutre, da acquisire in fasi successive, da un livello basico ad altri, più ampi, prevedibili e programmabili da una formazione centralizzata;
  • gli effetti dell’innovazione tecnologica sono ridotti, a causa di infrastrutture e investimenti limitati, ma soprattutto della mentalità arretrata di troppi insegnanti italiani;
  • gli insegnanti devono costruire un rapporto evoluto con il “digitale”, ambiente privilegiato e vincolante per l’innovazione di metodi e didattica, pena la propria obsolescenza.

Da questa visione derivano, per esempio, le campagne per la diffusione dei PC alla fine dello scorso millennio o delle LIM in questo, oppure le mitologie prima dei learning object e poi degli ebook, per arrivare a classi e scuole 2.0: un accavallarsi di storytelling didattico di cui nessuna ricerca scientifica autentica ha mai verificato l’efficacia effettiva.
In parallelo, sono state concepite figure professionali a cui delegare la gestione: gli Operatori tecnologici nella scuola di base degli anni ’90 – frutto soprattutto degli esuberi di Educazione tecnica -, i consulenti esperti destinatari dei percorsi formativi di tipo B erogati tra 2002 e 2003, fino agli “animatori digitali”: solo gli “evangelisti” del ministro Giannini non hanno trovato consacrazione.

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L’aziendalismo non è una “invenzione” dell’autonomia, ma arriva da lontano

di Marco Guastavigna

Sono davvero in troppi coloro che cadono nella a sua volta illusoria credenza secondo cui la storia politico-culturale della scuola avrebbe solo 20 anni, con inizio nel 1997. È perfettamente giusto sottolineare la continuità neoliberista di questo periodo, ma dobbiamo evitare di cadere in qualsiasi forma di nostalgia della scuola precedente, che nel suo insieme non adempiva affatto ai propri compiti repubblicani ed era anzi in larga misura luogo di selezione.
Detto in altri termini: non condivido la tesi che l’autonomia scolastica abbia segnato una soluzione di continuità. L’aziendalismo e l’idea dell’istruzione come servizio individuale arrivano da prima. Arrivano da una media concepita prima come unica (1962) e poi come orientativa (1979) e che diventa invece luogo di conferma dei destini socio-culturali.
Gli ultimi due decenni, insomma, sono l’accentuazione spietata della struttura classista della scuola italiana, culminata nella “buona scuola”, ma ereditata dal fascismo e fondata sulla supremazia dei licei e sulla retorica dei saperi “alti” ed esclusivi. Scuola che – dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo – non è mai stata compiutamente democratica e aperta a tutti. Ed è riuscita a rendere asfittica anche la partecipazione attraverso gli organi collegiali.

Quello che abbiamo riportato è un passaggio di un articolo di Marco Guastavigna pubblicato nella rivista Insegnare. Clicca qui per leggere l’intero intervento