Quel pasticciaccio brutto (ma proprio brutto) del “docente esperto”

di Marco Guastavigna

Sul pasticciaccio brutto brutto brutto del “docente esperto” si sono già espressi in molti e in modo sistematico, a partire da considerazioni complessive sull’organizzazione del cosiddetto “mondo della scuola”.

Io sono invece un po’ confuso e mi limiterò a proporre quanto mi si è affacciato alla mente in questi giorni, convinto (illuso?) di poter comunque dare un contributo alla riflessione, che mi auguro porti alla soppressione del provvedimento.

La prima considerazione è questa: mi sono immediatamente ricordato del “tempo potenziato”, dispositivo contrattuale previsto, esaltato e poi inattuato, tanto che non solo gli insegnanti più giovani, ma il fior fiore dei motori di ricerca lo confondono con l’organico di potenziamento. Per non parlare del “concorsone” di Luigi Berlinguer, che provocò una fortissima reazione della “categoria”, in quasi tutte le sue – variegate allora forse più di ora – componenti ideali e ideologiche, fino ad essere cancellato.
Potrei sbagliarmi, ma il mio reflusso professionale ha rigurgitato anche la figura del “docente senior”, che avrebbe riproposto nell’istruzione secondaria un modello qua e là usato in quella terziaria.
E poi ancora la vicenda della valutazione degli insegnanti in rapporto al riconoscimento di un presunto “merito” innescata dalla Legge 107 del 13 luglio 2015 e via via depotenziata con provvedimenti e accordi con i sindacati. Le forzature per la differenziazione delle carriere degli insegnanti con lo scopo di introdurre gerarchizzazione – insomma – sono un evento frequente e hanno un trend di fallimento, anche grottesco.

La seconda considerazione: l’istruzione pubblica è devastata da decenni dalla cultura e dalla pratica della competizione tra e all’interno delle scuole con bandi, concorsi, premi, riconoscimenti, percorsi di formazione riservati, certificazioni private e simili.
La pandemia e il distanziamento delle operazioni didattiche hanno reso definitiva la colonizzazione delle aule e delle menti da parte del capitalismo cibernetico, assurto a sfondo inevitabile, syllabus adattivo universale.
Segmenti della formazione sono nominalmente e strutturalmente subordinati al mercato del lavoro (ovvero alla mercificazione dell’attività umana) come approccio generale e come dato di contesto spazio-temporale. Ma, storicamente, gli insegnanti si accorgono dei rapporti concorrenziali fondati sull’utilitarismo solo quando ne sono colpiti in forma diretta; e individuale. E davvero pochi sembrano cogliere ora che l’obiettivo del “docente esperto” servirà soprattutto a costruire e validare un’altra filiera della cultura intesa come potere e sottopotere.

Del resto, anche i più fieri oppositori di questo e di altri provvedimenti analoghi soffrono – è la terza considerazione – di un grave limite: ritengono che il pensiero critico, anziché intenzione e posizionamento espliciti, sia il frutto di un percorso di istruzione curriculare, fondato sulle certezze dei saperi disciplinari. Una neutra e rassicurante “capacità di esaminare nuove informazioni e idee concorrenti in modo spassionato, logico e senza preconcetti emotivi o personali”, come lo definisce Tom Nichols.

VAI ALLA PAGINA DEDICATA AL TEMA DEL DOCENTE ESPERTO

Non è un caso (siamo alla considerazione finale), del resto, che il dibattito sulla “professione-docente” sia e sia stato – salvo momenti ormai remoti e comunque irripetibili – intorno a un profilo esclusivamente individuale dell’insegnante, che incarna uno o più saperi, per alcuni anche quelli psico-pedagogici, in forma più o meno prevalente. A coloro che apprendono, fare la somma.
A mio fallibile giudizio, questo approccio non porta da nessuna parte. Andrebbe invece più che mai riconosciuta e valorizzata la dimensione politica di una scolarizzazione di massa e democratica, capace di muoversi in modo significativo nei meccanismi di interdipendenza e di crisi planetaria. Ed essa è in primo luogo responsabilità, azione e progetto collettivi, a dimensione sociale. Che quindi si incarna in un’istruzione che ha il compito di innescare, estendere in quantità, incrementare per qualità, garantire per consapevolezza e prolungare nel tempo capacità culturali e – appunto – sociali finalizzate allo sviluppo umano.
Ma questa, probabilmente, è utopia.




Chi è causa del suo digital…

di  Marco Guastavigna

Walled garden e business network fremono di sdegno: il ministro Bianchi – con una formulazione che, se riportata fedelmente, è lesiva anche della grammatica ­– ha ancora una volta sconvolto il proprio universo di riferimento professionale: “In Italia, in 4-5 anni, dobbiamo riaddestrare 650mila insegnanti per andare incontro ad insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettato”.
Ma come si permette? Riaddestrare, ovvero addestrare un’altra volta? Approccio davvero pessimo. Per non parlare dell’obbligatorietà della formazione, vulnus ricorrente e storicamente pluri-rigettato dalla categoria.

I contenuti di questa obedience 4.0, binomio esseri umani-dispositivi digitali? La solita confusione concettuale, il solito lessico nebuloso del marketing istituzionale: “Abbiamo investito 800mln per farlo e solo ieri abbiamo lanciato un progetto da 2,5mln per dare nuova formazione a chi insegna. Dobbiamo affrontare questo percorso per introdurre nella scuola l’intelligenza artificiale, la digitalizzazione collegata alla questione etica. Non siamo all’anno zero, abbiamo già dei buoni esempi ma ora dobbiamo spalmare questi primi buoni risultati per toccare i 10mln di studenti italiani”.

Prossimo al gramelot, ma del tutto coerente con le scelte di chi lo ha immediatamente preceduto, il rapporto con le piattaforme del capitalismo cibernetico e la privatizzazione della sfera dell’istruzione pubblica: “Il problema al quale stiamo lavorando con i tecnici del ministero è come le aziende del sistema globale possono essere d’aiuto per l’Ue e per l’Italia per raggiungere il risultato di questa diversa crescita formativa interpretando in modo corretto i nuovi linguaggi che devono usare ai vari livelli gli insegnanti di matematica, materie umanistiche, lingue e via dicendo”.

Potrei proseguire l’esegesi dell’esternazione, per esempio sottolineando che espressioni come “nuovi linguaggi”, “intelligenza artificiale”, “digitalizzazione”, “futuro digitale” e “interconnessione globale” siano tutte precedute da articoli determinativi e preposizione articolate, a indicare, ridotte a gergo, unicità di significato e quindi di senso, secondo la visione deterministica tipica dell’impianto ideologico tecnocratico e liberista, che si concepisce e presenta come unica alternativa possibile.
Potrei pertanto provare a contrapporre al succitato impianto mercatista e utilitarista, che innerva un “continente digitale” in cui la gran parte dei territori è sottomessa al controllo estrattivo delle aziende del capitalismo cibernetico, una visione delle tecnologie digitali attualizzate quali risorse per lo sviluppo umano e invitare a riflettere sulle differenze tra logistica di condivisione e logistica di intermediazione.

Preferisco invece tentare di far comprendere che le responsabilità culturali ed etiche – a proposito! – non hanno una sola matrice.

È da tempo evidente che le accademie italiane sono in larga misura e tacitamente asservite ai grandi player del capitalismo digitale.

Più in generale, però, vi sono alcuni aspetti culturali “istitutivi” di orizzonti antropologico-culturali subordinati e subordinanti, che vanno smascherati e analiticamente demistificati.

Il primo è aver accettato l’uso dell’aggettivo “digitale” preceduto dall’articolo “il”  come definizione del contesto, delle caratteristiche operative, cognitive e culturali e delle implicazioni dell’impiego dei dispositivi elettronici nelle pratiche di mediazione didattica. Una parola-ombrello, un significante quasi vuoto, che ciascuno ha potuto, può e potrà intendere come più gli aggrada, con il risultato di rendere il dibattito confuso e confusivo, in quanto variabile dipendente di bias e interpretazioni soggettive, intessuta di pseudocondivisioni.

Il secondo è aver consentito la contaminazione della pedagogia dell’emancipazione da parte della prospettiva dell’innovazione e dei suoi sempre più allucinanti e allucinati derivati (didattica innovativa, strumenti innovativi, ambienti innovativi, insegnanti innovativi). Aver trasformato il rinnovamento da strumento a scopo, ha reso accettabili competizione, distruzione creatrice, sensazionalismo didattico, acquisizione di competenze individuali e adattive a un modello socioeconomico unico e indiscutibile.

Il terzo è essere caduti nella scorciatoia cognitiva che ha ridotto, riduce e ridurrà i dispositivi digitali attuali con intenzione estrattiva e capitalistica a “strumenti”, attivabili e governabili come tali: questo modo di affrontare il problema – miope, anzi accecante e quindi del tutto funzionale al progetto di dominio operativo e di egemonia culturale di GAFAM, NATU, BATX

– ha avuto particolare risonanza, perché rassicurante, nel periodo del distanziamento delle pratiche didattiche, ma è una forma di banalizzazione ricorrente anche nelle roventi discussioni di questi giorni.

Il quarto è costringere – anche per opportunismo personale – la riflessione, il pensiero critico e il dibattito collettivo all’interno delle piattaforme e delle applicazioni mainstream, finalizzate alla profilazione per il profitto, rinunciando a qualsiasi battaglia politico-culturale e sindacale per la costruzione, il finanziamento, la manutenzione di infrastrutture digitali “repubblicane”, aperte al controllo democratico, progettate e gestite sulla base dell’interesse generale, anche per quanto riguarda gli aspetti più tecnici del loro governo.

La resistenza culturale, professionale e operativa alla diffusione dei dispositivi digitali si attesta invece al più su una sorta di rifiuto tra l’intuitivo, l’olistico e lo snobistico, a volte sconfinante nel grottesco – per esempio quando arriva a sostenere che la scrittura carta-e-penna è la sola strategia cognitiva e la sola pratica operativa utile per la redazione di testi complessi, contraddicendo pareri espliciti di intellettuali insospettabili, opinioni per altro probabilmente ignote ai più.

Mancano insomma un’analisi attenta e soprattutto un’elaborazione alternativa, indipendente dall’agenda e dal lessico dell’avversario, che sia capace di – e, prima ancora, intenzionata a – costruire le basi e i riferimenti per una torsione delle potenzialità dei dispositivi digitali liberati dall’intenzione capitalistico-estrattiva nella direzione dell’emancipazione e del contrasto all’oppressione.

Del resto, abbiamo avuto una testimonianza recentissima: innumerevoli le segnalazioni indignate sull’errore a proposito di Verga nella prova di italiano dell’esame di Stato, quasi inesistenti quelle sulla consegna in merito all’iperconnessione, che rendeva invece evidenti la subalternità culturale e l’assenza di autentiche capacità critiche sia degli autori del testo citato sia dei selettori del medesimo.

 




If… then…

 di Marco Guastavigna

C’era una volta, in una Repubblica sempre più lontana lontana, una coppia di bambine che frequentavano la primaria secondo il modello dell’alternanza indicato dal Superiore ministero.

 

L’avvicendamento non era ancora – nonostante le pulsioni di alcuni tra i più fedeli emissari della cultura aziendale nell’istruzione –  tra scuola e lavoro, ma tra banco istituzionale (privo di rotelle, a onor del vero) e tavolino domestico, considerato il susseguirsi di diagnosi di positività tra ə compagnə di classe e il conseguente ricorso alla “DAD”, una relazione tra bambinə e insegnanti con una tale risonanza mediale e sul social business da essere assurta ad acronimo da rissa verbale garantita prima di avere una qualsiasi definizione concettuale precisa.

Del resto, nella Repubblica sempre più lontana lontana lontana, la condivisione e l’interesse generale erano da tempo scomparsi a favore della polarizzazione e dello scontro polemico perenne in tutta la sfera pubblica.

In un momento dell’anno scolastico, avvolto da un’aura davvero particolare – la scadenza di un misteriosissimo primo periodo intermedio, non si sa se del calendario didattico o delle vite di insegnanti e/o scolari –, le due bimbe ricevettero per il tramite dei genitori e in forma digitale un documento così complesso e verboso da poter essere messo in circolazione dalle autorità competenti senza alcuna precauzione crittografica. Si trattava della “Rilevazione dei livelli di apprendimento nelle discipline e nella convivenza civile e del comportamento”.

Tra le altre preziosissime informazioni, le nostre amiche appresero così di aver raggiunto, per quanto riguardava la materia “Tecnologia”, un/il (che piacevole sorpresa la suspense linguistica nei documenti della Pubblica Amministrazione, troppo spesso accusata di non curarsi delle competenze di comunicazione non cognitive!) livello avanzato nell’uso di “strumenti informatici adatti all’età e alle attività proposte” e di concetti della logica legati all’informatica stessa.

Cimentiamoci noi con questo stile di ragionamento: è un’occasione, soprattutto per chi non ha avuto occasione di praticare il coding in gioventù e quindi anela a pensare come un computer da anziano.

Dunque… questə bambinə hanno usato Google Classroom, sulla base di una liberatoria da parte dei genitori, che hanno scaricato istituzioni e Alphabet Inc. da un bel pacco di responsabilità rispetto ai minori.
Questa piattaforma, inoltre, è stata l’unico strumento informatico usato per la didattica.

E la rilevazione (magia delle parole! NdR) diventa allora rivelazione: i dispositivi digitali a vocazione estrattiva, con lo scopo di accumulare profitti mediante operazioni di marketing, sono formalmente riconosciuti nei documenti di valutazione dei percorsi di apprendimento come adatti all’età e alle attività proposte.

In una Repubblica lontana, lontana, lontana, lontana e con buona pace del pensiero critico.




“Come se niente fudesse”: la scomparsa di pluralismo e plurale e il decesso dell’analisi critica

 di Marco Guastavigna

Giornata calda, oggi!

Stamattina i miei tre nipoti tornano a scuola. Le due sorelle alla primaria dopo un periodo di quarantena, il terzo prima della sospensione dell’attività didattica per le festività.
Stasera è annunciata una conferenza del “premier” – carica istituzionale assente nella Carta costituzionale, ma privilegiata da quella stampata e da vecchi e nuovi media, nonché dalla maggioranza dei loro consumatori – Draghi sulla “questione scuola”.
I social (altro termine su cui andrebbe fatta chiarezza, visto che c’è chi associa all’aggettivo addirittura la parola “business”) ribollono. E io con essi.

Tra i vari aggregatori di like, mi colpiscono in particolare due casi.

Il primo è abbastanza breve, si intitola “Diventa anche tu pedagogista” e propone un gioco semantico obiettivamente divertente.


Da un lato elenca i concetti da utilizzare in un ipotetico discorso autopromozionale (merito – competenze – Invalsi – selezione dei docenti – digitale – comunità educante – metodologie didattiche innovative – laboratoriale – tablet – scuola finlandese – liceo breve – scuola affettuosa).
Dall’altro lato quelli da evitare o da includere con “palese disprezzo” (studio – imparare – lezione – lezione frontale – sapere – riflettere – astrarre – concentrazione – libri).
Con un’impostazione di questo genere, intelligente ironia polarizzata, il clickbait è garantito: da una parte il Bene, dall’altra il Male. E infatti pedagofobi contro pedagofili si scatenano con i “Mi piace”, le condivisioni (io stesso non ho letto il post originale, ma un derivato), i copia-e-incolla, i “posso rubare?”.

E non dimentichiamo che anche le contestazioni – nell’impostazione perversa della comunicazione efficace – sono segnale di successo, di incisività, di visibilità.
Le idee non vengono espresse e condivise perché inneschino discussione e confronto, un dibattito rispettoso dei diversi punti di vista, con obiettivo una sintesi, magari nell’interesse generale, ma perché suscitino polemica, facciano schierare, colpiscano l’immaginario.
Il comunicare 4.0, insomma, è fornire una prestazione, che verrà monitorata, computata e valorizzata dagli algoritmi della piattaforma su cui è immagazzinata.

L’orientamento tardo manicheo, per altro, caratterizza – per esempio nella forma “Chi è causa del suo mal…” – anche alcuni dei commenti in calce alla riproduzione su Facebook dell’articolo di Riccardo Luna “Perché la Dad è un’occasione persa”, pubblicato l’8 gennaio.
Testo che – lì per lì – sembra avere un approccio interessante: le posizioni emerse pubblicamente e diffusamente in questi giorni fanno infatti legittimamente pensare al nostro “personaggio pubblico” che siano stati sprecati due anni.

In realtà, egli è prigioniero dello stesso schema di fondo precedentemente denunciato, ovvero la feticizzazione dei concetti impiegati, in particolare “la Dad” (appunto), “il digitale”, “il computer”, “lo smartphone” “la distanza”, “la didattica tradizionale”.
Tutti al singolare, con tanto di articolo determinativo e tutti a definizione implicita, quasi ammiccante: cos’è la didattica a distanza? È ciò che tutti sanno che cosa sia. E lo stesso vale per quella in presenza o per quella tradizionale

Si tratta con certezza di una prospettiva rassicurante, perché sia chi scrive sia chi legge ha l’impressione di avere il pieno controllo del lessico e quindi di comprendere ogni aspetto e implicazione degli oggetti citati e delle situazioni richiamate.
Queste formulazioni sono invece – e sempre più con il passare degli anni scolastici a perdita secca che tutti sembrano aborrire, ma in cui tutti si fanno paralizzare – parole-ombrello.

Sono cioè polirematiche infettive, approssimative e nebulose, a cui ciascuno è libero di assegnare il significato e il senso che più gli aggradano, con lo scopo di confermare e valorizzare il proprio – immutato e orgogliosamente considerato immutabile – sistema di credenze, opinioni e pratiche.

Trattare in questo modo il tema delle relazioni didattiche emergenziali perché soggette a distanziamento precauzionale, però, non solo non aiuta a trovare una via d’uscita equa ed efficace, ma comprime ulteriormente e rende più che mai asfittica questa possibilità.

Lo stesso Luna, del resto, non sa andare oltre l’auspicio alla diffusione di un infantilizzante “super potere”, che deriverebbe dall’impiego di “moltissimi strumenti interattivi e di partecipazione che invece possono rendere la didattica a distanza interessante se non addirittura divertente”. Entusiasmo che, nell’epoca delle piattaforme estrattive a vocazione capitalistica ormai endemiche alla vita sociale e biologica è – almeno – ingenuo.
Se vogliamo compiere qualche passo nella direzione dell’elaborazione, dobbiamo abbandonare le nostre zone di comfort culturale e professionale e smettere di illuderci della sufficienza dei nostri saperi da scaffale, statici e ben ordinati.
Per accettare, invece, di affrontare l’incertezza e per costruire saperi a vocazione dinamica, che vadano oltre gli steccati tra le discipline accademiche, nella direzione di sinergie culturali e professionali con valenza emancipante e trasformativa.

È troppo tardi? Con Alberto Manzi, voglio sperare di no.

 

 

 

 




L’opinione non è matematica. O forse sì

di Marco Guastavigna

Sono giunto in quella fase della vita in cui per forza di cose si sostituiscono i buoni consigli al cattivo esempio.
Sollecitato mio malgrado dall’ennesima polarizzazione tra apocalittici e integrati a proposito del Green Pass, non posso quindi assolutamente esimermi dal proporre come esempi generali episodi specifici ed esclusivi della mia vicenda personale.

Nell’inverno del 1968 ero sedicenne e mi sono precipitato, insieme a numerosi altri giovani, alcuni dei quali maggiorenni, a “soccorrere” le vittime del sisma del Belice.
La nostra grandiosa missione umanitaria faceva riferimento all’Associazione “Babbo Natale”, che – per ragioni che ora mi sfuggono – ci aveva reclutato presso la sede di Economia e Commercio.
Siamo partiti con un aereo postale, con a bordo niente meno che la troupe di TV7, che ci intervistò durante il volo, in occasione dell’atterraggio e nei primi giorni di attività. Per partecipare ci erano state poste due condizioni: per i minorenni il consenso genitoriale, per tutti l’ingestione di alcuni farmaci, per esempio pastiglie atte a prevenire il tifo. Nessuno obiettò nulla e in questo modo potemmo accedere al campo dove erano ospitati i “terremotati”, organizzato e gestito dall’esercito.

Cinque anni dopo, nell’estate del 1973, mi sono trovato a Torre del Greco nel pieno dell’epidemia di colera. Invece di tornare subito a Torino, mi sono autoisolato per un tempo congruo in Toscana, in un appartamento di proprietà di mio padre, dove in quel momento non c’era nessuno. Non avendo accusato alcun sintomo, sono poi rientrato nella mia residenza e ho ripreso l’usuale rete di relazioni.

È di qualche anno dopo il mio ingresso come insegnante di scuola media nell’istruzione pubblica: per arruolarmi, lo Stato mi chiese di dimostrare, attraverso opportuni accertamenti sanitari, di non essere portatore di sifilide e di tubercolosi. Rammento un po’ confusamente di aver alacremente partecipato a una sorta di vertenza sindacale sulla inutilità del secondo test, che – sostenevamo – proponeva numerosi falsi positivi. Ricordo con precisione che – essendo invece risultato negativo – accettai la proposta di vaccinarmi, il che mi avrebbe fornito una copertura medico-legale più duratura.

Nel febbraio di quest’anno, infine, ho avuto la possibilità di prenotarmi per la vaccinazione contro il Covid19 in quanto docente a contratto dell’Università di Torino. Ho così ricevuto la prima dose di Astrazeneca il 27 marzo e la seconda il 13 giugno, per poi scaricare qualche giorno dopo il mio Green Pass mediante l’App IO.
Non ho mai parlato molto di questa vicenda perché mi sono sentito fin da subito un privilegiato, soprattutto nel periodo in cui, per la somministrazione del farmaco, l’appartenenza a categorie professionali prevaleva sulle classi di età. E proprio per questo ho provato un grande sollievo quando ho saputo vaccinati mia madre, i miei figli, mia moglie, mia sorella e così via.

Ho cercato di informarmi in modo ragionevole e razionale: ho capito che il ciclo completo non dà una garanzia assoluta contro il contagio individuale, ma anche che solo una diffusa vaccinazione può aumentare la quantità totale degli immunizzati e, di conseguenza, indebolire il virus e la sua capacità di variare. Con beneficio anche per coloro che per riconosciute “fragilità” personali non possono essere vaccinati.

Insomma: la mia storia individuale mi porta con facilità e serenità ad accettare che la Repubblica mi chieda (di nuovo, per altro) comportamenti virtuosi e accertamenti sanitari per poter continuare a garantire con una certa sicurezza movimento, lavoro, intrattenimento, socialità, relazioni all’insieme dei cittadini.

E qui interviene probabilmente un approccio – forse filosofico, forse politico – che appartiene ad un’altra componente della mia vita: valori e principi. Io penso infatti che la mia libertà personale può trovare pieno compimento e valore solo contribuendo a determinare e conservare quella altrui. E viceversa.
Non mi è mai piaciuta la visione liberale pura, quella che considera le libertà individuali l’una come limite dell’altra e aborro la visione libertariana di destra, per cui tutto ciò che è pubblico e collettivo rappresenta l’inferno del controllo, a cui ci si deve sottrarre con ogni mezzo.

Certo, i miei precedenti sono anteriori alle normative sui dati “sensibili” e sulla riservatezza attualmente in vigore, ma – francamente – non mi pare che una politica di prevenzione sanitaria sia accusabile di violazione della privacy sulle condizioni di salute personali.

In tutti i casi, lascio questo specifico quesito a chi conosce meglio di me questo campo e – da bravo anziano che si sente (più) saggio – ne propongo un altro: come mai ogni infuocatissimo dibattito ha luogo ormai su piattaforme digitali a vocazione estrattiva, che mettono a valore in tempo reale dati psicobiologici, rapporti interpersonali, opinioni, preferenze, desideri, spostamenti, acquisti, orientamenti politico-culturali, appartenenze e così via, consegnati con flusso costante e continuo da utenti che all’atto dell’iscrizione e in occasione dei successivi rinnovi hanno sottoscritto (senza leggerle) condizioni di impiego fondate – nonostante per esempio il GDPR – sulla prospettiva della trasparenza radicale?

Francamente, questo sempre più esteso processo di appropriazione “gentile” delle vite di tutti mi inquieta assai di più della possibilità che mi venga richiesto il Green Pass per cenare in un ristorante, cosa che – e Google Opinion Rewards lo sa bene – non faccio quasi mai.




Lettera ad una professoressa 2.0

di Marco Guastavigna e Dario Zucchini

Cara somministratrice di prove oggettive, fila A e fila B,
Lei di me non ricorderà nemmeno il nickname.
Che fossero conoscenze o competenze poco importa: ne ha certificati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi a cui fate lezioni frontali con strumenti pensati per interazioni aziendali.
Qualche provvedimento di qualche autorità del territorio ci costringe nelle nostre abitazioni e voi all’istante vi dimenticate che siamo adolescenti.
Per voi siamo solo studenti. Per alcun* – è vero – anche studentesse.

Il fatto che non possiamo incontrarci, non possiamo fare sport, non possiamo innamorarci, non possiamo svagarci – secondo voi – inutilmente, non possiamo vivere la gran parte di quelle esperienze che perfino alcuni dei più retrivi e moralisti di voi hanno compiuto, nemmeno vi sfiora.
Noi perdiamo i 14, i 15, i 16, i 17, i 18 anni nella loro pienezza. Periodi della nostra esistenza che non sono recuperabili, nemmeno con gli esami di riparazione e neppure con corsi fino a luglio, rituali da qualcuno dei vostri tanto rimpianti e proposti.
Voi per contro vi preoccupate di non riuscire a finire il programma (che non esiste più), dell’esame di maturità (idem), delle valutazioni e di rincorrere a tutti i costi non si sa bene cosa.
Sono pochi quelli che quando ci reincontriamo in aula dopo un periodo di distanziamento della didattica ci chiedono come stiamo e ci aprono il cuore.

La gran parte pensa soltanto a misurare, registrare, affibbiare voti e giudizi. Ci avevate detto che la scuola riapriva per noi, per recuperare socialità e benessere e invece… in questi due mesi in presenza – anche se al 50% – ci avete massacrati con continue verifiche e interrogazioni. Sembrate vendicarvi di colpe non ben precisate, ma che certamente non abbiamo noi.

Ormai siamo rassegnati a perdere una parte della nostra gioventù, ma sappiate che ci fate amaramente ridere quando vi sentiamo dire che la vera scuola è quella in prossimità, perché è fondata sulle relazioni umane.

(testimonianze anonime raccolte da Marco Guastavigna e Dario Zucchini)




C’era una volta a Torino. Vi racconto il mio esordio da prof…

di Marco Guastavigna

C’era una volta una scuola media della periferia torinese.
Anzi, di estrema periferia. Estrema per la distanza – non tanto geografica quanto socio-culturale – dal centro della città, ma soprattutto per le posizioni politico-culturali di coloro che ci lavoravano.
Anzi, ci militavano, convinti allora – e molti ancora adesso – che la scuola deve e può essere luogo pubblico e dialettico di emancipazione dai condizionamenti socio-culturali di provenienza di tutt* e di ciascun*. Insegnant*compres*.

Ci arrivo a 27 anni, con 4 di esperienza da supplente di materie letterarie alle spalle, di cui quasi uno – già bello tosto, straniante e formativo – nella scuola della preside sulla cui vicenda e sui cui valori e principi è imperniata larga parte della trama di La classe degli asini.
Mi accoglie un’affascinante signora quarantenne, di cui in pochi minuti mi invaghisco perdutamente: mi affiderà la sola prima non a “tempo pieno” della scuola, su cui spenderò tutte le mie 18 ore, per italiano, storia ed educazione civica (già…) e geografia, e per attività di supporto ad alcuni scolari, in compresenza.

La preside  – entusiasta, incaricata e in qualche modo “reclutata” ad assumere quel compito da alcuni colleghi già presenti nella scuola, di cui riscuote la massima fiducia –  sottolinea che è una situazione delicata: i genitori hanno infatti accettato di iscrivere i propri figli a patto che frequentino il tempo normale, pretesto che consente loro costituire un gruppo separato.

Ringrazio della fiducia, prometto di fare del mio meglio e – dentro un me obnubilato da occhi e sorriso dell’interlocutrice – giuro che convertirò i reprobi a una frequenza più ampia.
E, in effetti, ci riuscirò. L’anno dopo la seconda E chiederà e otterrà per i due successivi il tempo pieno, ovvero una frequenza scolastica di 36 ore, con mensa e numerose compresenze tra insegnamenti.

Tra le strategie di convinzione, il viaggio di istruzione a Niella Belbo, in primavera.
Camminate, studio dell’ambiente, chiacchierate, risate. M. è però particolarmente timida e DR, la collega di Educazione Tecnica Libertaria e soprattutto Femminista, ha un idea-gioco: chi riuscirà a farle leggere il proprio biglietto ad alta voce di fronte a tutti, vincerà mille lire, che mette sul tavolo.
Partecipo anch’io e trionfo con un infantile stratagemma manipolatorio di cui ancora adesso sento il peso deontologico ed etico, perché sul mio foglietto scrivo: “Se leggi il mio messaggio, ti passo metà del premio. Il prof”.
Mentre mi adopero per recuperare i miei allievi alla dimensione collettiva ed eterogenea dell’istruzione pubblica, non solo vedo trasformata la mia supplenza in un incarico a tempo determinato presso la medesima scuola, grazie al fatto che in graduatoria si arriva ben oltre la mia posizione, ma entro in contatto con i colleghi dei 4 corsi completi (A, B, C, D) che insieme alla mia prima E costituiscono l’istituto (già… siamo alla fine dei gloriosi anni Settanta, ben prima di razionalizzazione e ridimensionamento).

Bene: alle lettere A, B, C e D corrispondono quattro modelli di sperimentazione differenti, in palese concorrenza l’uno con l’altro e assolutamente incoerenti tra di loro. Rapidamente scopro la mia ammirazione e manifesto la mia preferenza – basate entrambe sulla quantità di distanza dai canoni istituzionali e quindi da quella che io considero la “scuola della selezione di classe” – per il corso C, a cui infatti otterrò di essere assegnato l’anno successivo.
In questa occasione avrò anche modo di scoprire che – essendo la scuola a regime sperimentale – ho l’opportunità di essere confermato con una semplice domanda, a patto che le nomine annuali prevedano di arrivare fino al mio punteggio.

Eserciterò questo privilegio – da me considerato dedizione alla causa del riscatto socio-culturale dei sommersi – per altri tre anni, fino a quando il “mio” posto verrà occupato da un maledetto vincitore di concorso e sarò deportato in una scuola vicino a casa mia, il che mi sembrerà aggiungere ulteriore indegnità al mio esilio, già di per sé una atroce sconfitta.

Torniamo però al mitico corso C: due insegnanti di lettere, due di scienze e matematica, due di educazione tecnica, 1 di educazione artistica, 1 di musica, 1 di Lingua straniera e 1 di educazione fisica sono variamente sovrapposti tra loro, per modo che molte delle ore – al minimo due per giornata – permettono la divisione delle classi in piccoli gruppi, orizzontali e verticali.

Lo slogan, infatti, è “imparare facendo”: ci assiste Piero Simondo, per conto niente meno che di Francesco De Bartolomeis.
Fiori all’occhiello sono il laboratorio di fotografia (già… su carta, in B/N, con tanto di ingranditori, acidi e camera oscura) e quello di ceramica (con tornio e artigiano professionista, oltre ai prof di Educazione Tecnica e Artistica).
Io sono con un collega di Scienze a fare tipografia freinettiana, con ciclostile e telai. Le altre prof di Lettere e Matematica lavorano alla lettura e al confronto dei quotidiani, in particolare sul rapporto tra politica estera e Storia.
Nel laboratorio di stampa confluisce un po’ di tutto, ma ricordo in particolare il lavoro sulle interviste condotte in classe a giudici dei minori, educatori e assistenti sociali, per meglio capire alcune delle possibili conseguenze delle reazioni predatorie al disagio. Oppure i diari e i cartelloni sui soggiorni di socializzazione egualitaria a Levone (6 gg) e Loano (11 gg), grazie alle opportunità che le giunte di allora riservavano alle scuole della “sfiga” sociale. Oppure ancora i bollettini a proposito dei seminari del consultorio di quartiere, per la prevenzione e il benessere psico-fisico.

Ogni settimana un pomeriggio è riservato ai consigli di classe, tranne in quella in cui ha luogo il collegio docenti. Ci rappresentiamo entrambe le istanze come soviet, non capendo – o non volendo vedere – che sono in realtà palestre di retorica, in cui ci scanniamo su mille dettagli e – soprattutto – per la leadership personale, spacciata per egemonia professionale e pedagogica.
C’era una volta … e ora non c’è più: nel 1983 viene istituito il tempo prolungato, che ha un organico inferiore a quello “pieno”, mentre la popolazione giovanile del quartiere comincia la curva discendente, fino a che la scuola viene chiusa e il suo edificio viene adibito ad altre funzioni.
Per noi insegnanti comincia la diaspora.

Ora non c’è più … ma qualcosa di prezioso è rimasto: ciascuno di noi ha fatto il suo percorso da prof, ma ogni volta che ci siamo rivisti abbiamo sottolineato il fatto che lì abbiamo imparato quasi tutto quello che ci ha fatto amare questo mestiere. E odiare dai nostri successivi colleghi per la lutulenza dei nostri interventi. Soprattutto, però, ci ha insegnato come rispettare le ragazze e ragazzi, investendo sul loro futuro di cittadini e sul presente delle relazioni tra adulti e giovani.