Non è una cittadinanza per vecchi

di Marco Guastavigna         

Acquisito e divorato. Sto parlando di Invecchiare al tempo della rete, di Massimo Mantellini. Il tema affrontato ha per me – e probabilmente per qualche lettrice/lettore di questa rubrica – una forte risonanza biografica, nonostante non sia mai tra le priorità del dibattito politico culturale. Che cosa significa diventare sempre più anziani oggi, di fronte alla conclamata pervasività dei dispositivi digitali nella quotidianità e nella strutturazione complessiva dell’esistenza, a partire da molte procedure amministrative o dalle applicazioni in campo bancario e finanziario?

Mantellini è molto netto: definisce le tecnologie all’opera come “anticicliche”, ovvero pensate e realizzate per una sorta di eterna giovinezza, in conflitto con le esigenze di lentezza e di latenza cognitiva dei “vecchi”. Un accumulo per “sommazione” di funzionalità sempre nuove e di conseguenza confusive e frustranti.

Protagonista dei processi di adattamento/respingimento è perciò la tragica figura del vecchiogiovane, che “si troverà, quasi senza accorgersene, dentro un ambiente nel quale la dominante culturale sarà unica e senza alternative. Il flusso ininterrotto delle cose che ascolterà e di quelle che vorrà condividere, gli argomenti, i temi sociali e politici, i film e le serie tv, i libri e gli articoli letti, saranno gli stessi per lui e per tutti. (…) Vorremo essere come gli altri, desidereremo soprattutto essere innovativi e giovani, perché solo il giovane è la faccia presentabile dell’innovazione la quale, nel momento in cui si rivolge ad altre età, perde la sua componente fondamentale di freschezza e rottura degli schemi. (…) Il vecchiogiovane vive l’eccitazione della scoperta di un mondo nuovo e il contemporaneo timore di essere riconosciuto. (…) Nel vecchiogiovane la cultura e l’esperienza pregressa, quella di cui è padrone, conterà meno di quanto lui avrebbe sperato: molto piú utile sarà sapersi adattare, annusare l’aria, in qualche misura sapersi mimetizzare. (…)
Che si tratti di un device digitale con il quale prova ad impratichirsi o di una discussione sull’ultima stagione della serie tv appena uscita, il rischio per lui sarà sempre quello di essere smascherato o, talvolta, il desiderio prepotente di esserlo.
La rivendicazione plateale di come si è, della propria anzianità, sarà poi abiurata e rapidamente ricacciata indietro, perché nella grande maggioranza dei casi essere vecchiogiovane è l’unica maniera possibile per dimostrarsi vivi ed attivi dentro la crudeltà delle reti digitali”.

Nel futuro, però, la percentuale di anziani sarà talmente elevata che – se non altro per razionalità di mercato e di consumo – non sarà possibile mantenere il medesimo paradosso e quindi Mantellini ipotizza tre possibili sviluppi.
Secondo una prima ipotesi, i vecchi saranno i “nuovi ribelli” che esigeranno “una società rallentata in nome della biologia”.
Oppure prevarranno i “vecchi bionici”, definitivamente convertiti ad una “fede cieca nella tecnologia”, di cui raccoglieranno, con subalternità e marginalità definitive, eventuali briciole funzionali.
Ultimo possibile epigono, “la pietra immobile digitale”, consapevolmente renitente a ogni forma di partecipazione.

Apparentemente contrapposto all’immaginario collettivo prevalente del campo dei dispositivi digitali, l’approccio di questo libro – pur conservando il pregio di guardare al problema dal punto di vista dei protagonisti, gli anziani, e non da quello di chi mette in atto paternalistiche operazioni di formazione a loro rivolte per “colmare il divario generazionale” – è invece, a mio parere, dello stesso tipo. Da una parte, infatti, ha una visione della vecchiaia come menomazione individuale e dall’altra ritiene lo scenario tecnologico fondato su velocità, competizione, tecno-abilismo, adattamento l’unico possibile.

Non è così. La vecchiaia può e deve invece essere concepita come condizione collettiva portatrice dei medesimi diritti di quelle precedenti, con particolare attenzione alla cura delle persone e delle relazioni tra di esse. In questa prospettiva, un uso consapevole e rilassato dei dispositivi digitali può significare davvero molto, in termini di mantenimento nel tempo ed estensione quantitativa e qualitativa delle capacità comunicative e culturali dei singoli e dei gruppi di prossimità e di affinità. Basta pensare alla rete come spazio pubblico, occasione di accesso a risorse di intrattenimento, chiarimento, approfondimento, confronto. O alle applicazioni per gli incontri a distanza come strumento per i rapporti interpersonali e il confronto.

È necessario però che noi vecchi abbiamo la volontà e la forza di essere protagonisti “totali”, non pubblico che assiste e – quando va bene! – scopre qualche servizio utile.
Ovvero che discutiamo e organizziamo in prima persona, attraverso le associazioni di promozione sociale e altre forme di aggregazione, percorsi di formazione e laboratori davvero emancipanti e sostenibili, perché costruiti sulla base di esigenze e disponibilità esplicitamente riconosciute dalla nostra “terza età”.

 

 




Una vita da mediano anche per il testo?

di Marco Guastavigna

Hai voglia e curiosità di giocare con un ambiente della cosiddetta “intelligenza artificiale” che manipola il linguaggio? Puoi andare sull’apposito spazio di OpenAI e provare. Facendo – ma soltanto per ora! – finta di nulla sul fatto che il progetto sia ampiamente compromesso con Elon Musk e Microsoft.

Ti verrà chiesto “soltanto” di accreditarti, magari con uno dei passaporti digitali rilasciati da privati di cui già disponi, ovvero account appunto di Microsoft o di Google e, pertanto, di partecipare in misura ancora maggiore all’estrazione di valore attraverso l’elaborazione dei dati e delle conoscenze da te conferiti per “sperimentare” il dispositivo. Insomma, sarai esente da pagamenti in denaro, dal momento che ti collocherai volontariamente tra i fornitori di materia prima del capitalismo di sorveglianza.

Lo schema di funzionamento è molto semplice e immediato.
Tu scrivi una riga di comando in inglese, avendo l’accortezza di indicare una tipologia testuale, un riferimento tematico e una lingua (io ho provato italiano e latino, influenzato dagli ultimi residui dei miei studi classici); e poi attivi il pulsante “Submit”.

L’accrocco (perdonami la forse eccessiva confidenza, ma serve a smitizzare fin da subito) digitale reagisce in tempi molto rapidi e scrive un testo, a volte più azzeccato e congruente, a volte meno. Testo che potrai memorizzare e collezionare, copiare e incollare e così via.
Ma cosa succede ogni volta? Una sorta di iper-esercizio di stile: il dispositivo riposa infatti su di un gigantesco corpus di testi classificati e correlati secondo varie categorizzazioni, a cui appoggiarsi per ritrovare un modello di struttura, un lessico ed esempi di sequenze sintattiche e semantiche coerenti con la tipologia indicata dall’utente, che potrà per altro essere più o meno soddisfatto e (magari) riproporre una consegna di elaborazione più puntuale.

Nessuna magia, pertanto.

E nessuna “intelligenza”. Siamo infatti in pieno nel campo del machine learnig, ovvero di un apprendimento che si fonda in larga misura sui Big Data disponibili nel “web partecipativo”, quello che permette a qualsiasi utente di produrre contenuti, che verranno scansionati e utilizzati da algoritmi che il marketing concettuale delle aziende produttrici e sfruttatrici fanno passare per intelligenti, provocando in molti una condizione di incertezza e di disagio.
Che non ha in realtà piena giustificazione se appena si leggono gli autori che adottano un approccio critico, e non i mistici dell’entusiasmo futurista o gli apocalittici del timore passatista.

È il caso, ad esempio, di Elena Esposito, che è davvero molto netta e chiara: “Oggi gli algoritmi traducono testi dal cinese senza conoscere il cinese, e nemmeno i loro programmatori lo conoscono. Usando machine learning e Big Data si limitano a trovare dei pattern e delle regolarità in enormi quantità di testi nelle lingue trattate (per esempio i materiali multilingua della Commissione europea), e li usano per produrre dei testi che risultano sensati – per le persone che li leggono. Non per gli algoritmi, che non li capiscono, come non capiscono niente dei contenuti che trattano, e non ne hanno bisogno”. (E. Esposito, “Dall’Intelligenza artificiale alla comunicazione artificiale”, Aut Aut, 392/2022)

La questione allora è piuttosto un’altra: il ricorso ai testi reperibili per le più diverse ragioni in rete e la ricerca di “regolarità” all’interno di questa massa via via sempre meno indifferenziata sono destinati per forza di cose a valorizzare ciò ritorna, è stereotipato e magari frutto di pregiudizi, comunque attestato su di una sorta di mediano “senso comune”.

Riproporre ciò che i pattern e le correlazioni rivelano essere più frequente è del resto una formula di successo: lo testimoniano un primo luogo i motori di ricerca, Google in testa, computando numero e qualità dei link delle pagine indicizzate e monitorando in tempo reale le reazioni degli utenti alle proprie proposte.
Siamo immersi nella cattura della conoscenza umana attiva e nella sua cooptazione all’interno dei processi e delle procedure che rendono i dispositivi sempre più efficienti.
Niente di eccezionale, per altro: il meccanismo socio-culturale per cui la conoscenza umana è una risorsa economica fondata sulla scarsità e sulla proprietà rivale è a sua volta un bias diffusissimo.
A partire dall’idea che l’istruzione deve preparare al mercato del lavoro e che i voti sono una sorta di simulazione anticipata del rapporto salariale.

E per ritornare sul nostro produttore-artificiale-di-testi-imitati, il quale, una volta perfezionato, ha già una propria vocazione di mercato, per cui sarà legittimo esigere un pagamento in denaro: la produzione accelerata di merce linguistica (articoli, post, comunicati, slogan e così via) in sostituzione magari dei ghost writer umani, in una nuova forma di attribuzione non etica di un’autorialità da lungo tempo rivolta alla comunicazione manipolatoria e al profitto e non allo sviluppo intellettuale.




Portfolio e pregiudizio

di Marco Guastavigna

Lo dico spesso, forse troppo: io ho avuto la fortuna di cimentarmi con un percorso formativo, culturale e professionale lontanissimo dalla mia laurea in Lettere, nel 1975, il cui unico (ed esclusivamente funzionale) passaggio tecnologico fu la battitura a macchina della tesi di laurea in bozza, con successiva normalizzazione in copisteria.

L’incontro con i dispositivi digitali avvenne dopo e per caso: a scuola c’erano un collega e uno studente dotati di Spectrum Sinclair e sotto casa aprì un negozio – siamo a metà degli anni ’80 – che vendeva Commodore 64. E così ho cominciato l’esplorazione, che continuo tuttora: cercare senso e significato con valenza intellettuale, politica e didattica analizzando e valutando aspetti operativi e cognitivi. E rifuggendo dagli slogan del pensiero unico della mistica dell’innovazione, la peggior forma di dominio tecnocratico possibile.

In quegli inizi accadde però un episodio che avrebbe dovuto mettermi sull’avviso su ciò che mi aspettava: ero in una scuola media, nell’aula degli audiovisivi, attigua a quella dove erano collocati un paio di C64 e alcuni Olivetti M24, quando entrò un’ausiliaria che non mi aveva mai visto prima. Vedendomi trafficare con quegli oggetti mi disse: “Lei deve essere il nuovo insegnante di educazione tecnica”. Non ricordo se delusi questa fortissima e limpida convinzione, ma l’aura che emanavo allora mi ha perseguitato per tutti i decenni successivi.

È mia abitudine, per esempio, iniziare i laboratori universitari in cui lavoro a contratto domandando quali siano le aspettative rispetto al percorso. Accanto a chi mi guarda stranito, non avendo ancora una confidenza personale tale da consentirgli di esclamare: “Ma quali vuoi che siano?”, ci sono puntualmente coloro che dichiarano: “Io non sono per niente tecnologic* e nutro un po’ di timore sui miei possibili risultati”. Dentro questa ricorrente autovalutazione vi sono tutte le componenti di un bias diffusissimo e – colpevolmente – trascurato.
Da una parte si fanno coincidere tutte le “tecnologie” (compresi libri, quaderni, matite, penne, occhiali, automobili, biciclette, monopattini, distributori di bibite e così via) con i dispositivi digitali. Dall’altra si attribuisce a questi ultimi una valenza totemica, assoluta e indiscutibile, alla quale ci si deve iniziare avvalendosi di ermeneuti a ciò consacrati.

Questo approccio ha numerose implicazioni negative, che impediscono alle persone di diventare davvero autonome.
In primo luogo, un’impostazione mnemonica, meccanica e addestrativa degli apprendimenti, in piena e assurda contraddizione con il design cognitivo e commerciale delle interfacce, a impostazione prevalentemente visiva, fortemente intuitive, che dovrebbero invece invogliare a esplorare e sperimentare in prima persona.
In secondo luogo, l’acquisizione stentata di un gergo balbettato e del tutto approssimativo, che anziché chiarire annebbia e confonde, partorendo espressioni come “laboratori di informatica”, “DAD” e “DID” nell’istruzione o “corsi di informatica” nella formazione dei nonni e degli anziani in genere, e la rinuncia a priori a costruire un lessico davvero condiviso, basato sulle effettive possibilità di impiego in un contesto definito.
In terzo luogo, la cultura della delega all’esperto (o presunto tale) locale, le cui conoscenze e competenze personali diventano le regole generali, indiscusse e indiscutibili del comportamento di gruppo, generando situazioni paradossali, come quella dei corsisti che accendono i dispositivi su cui dovrebbero imparare e devono invece attendere un bel po’ di tempo che i personal computer terminino il lentissimo aggiornamento di sistema che il “guru de noantri” ha deciso monocraticamente – e misteriosamente – di impostare come automatico.
In quarto luogo, ciò che mi preoccupa di più: i singoli e i gruppi che preferiscono il limbo della dipendenza e della necessità di ricorrere alle opinioni o agli interventi pratici altrui piuttosto che affrontare la fatica di un processo emancipatorio, di acquisizione di consapevolezza e di capacità critica.
Con i tempi che corrono e considerata la pervasività dei dispositivi digitali in ogni aspetto della vita quotidiana, questa scelta di subalternità configura una rinuncia attiva alla piena cittadinanza.




Quel pasticciaccio brutto (ma proprio brutto) del “docente esperto”

di Marco Guastavigna

Sul pasticciaccio brutto brutto brutto del “docente esperto” si sono già espressi in molti e in modo sistematico, a partire da considerazioni complessive sull’organizzazione del cosiddetto “mondo della scuola”.

Io sono invece un po’ confuso e mi limiterò a proporre quanto mi si è affacciato alla mente in questi giorni, convinto (illuso?) di poter comunque dare un contributo alla riflessione, che mi auguro porti alla soppressione del provvedimento.

La prima considerazione è questa: mi sono immediatamente ricordato del “tempo potenziato”, dispositivo contrattuale previsto, esaltato e poi inattuato, tanto che non solo gli insegnanti più giovani, ma il fior fiore dei motori di ricerca lo confondono con l’organico di potenziamento. Per non parlare del “concorsone” di Luigi Berlinguer, che provocò una fortissima reazione della “categoria”, in quasi tutte le sue – variegate allora forse più di ora – componenti ideali e ideologiche, fino ad essere cancellato.
Potrei sbagliarmi, ma il mio reflusso professionale ha rigurgitato anche la figura del “docente senior”, che avrebbe riproposto nell’istruzione secondaria un modello qua e là usato in quella terziaria.
E poi ancora la vicenda della valutazione degli insegnanti in rapporto al riconoscimento di un presunto “merito” innescata dalla Legge 107 del 13 luglio 2015 e via via depotenziata con provvedimenti e accordi con i sindacati. Le forzature per la differenziazione delle carriere degli insegnanti con lo scopo di introdurre gerarchizzazione – insomma – sono un evento frequente e hanno un trend di fallimento, anche grottesco.

La seconda considerazione: l’istruzione pubblica è devastata da decenni dalla cultura e dalla pratica della competizione tra e all’interno delle scuole con bandi, concorsi, premi, riconoscimenti, percorsi di formazione riservati, certificazioni private e simili.
La pandemia e il distanziamento delle operazioni didattiche hanno reso definitiva la colonizzazione delle aule e delle menti da parte del capitalismo cibernetico, assurto a sfondo inevitabile, syllabus adattivo universale.
Segmenti della formazione sono nominalmente e strutturalmente subordinati al mercato del lavoro (ovvero alla mercificazione dell’attività umana) come approccio generale e come dato di contesto spazio-temporale. Ma, storicamente, gli insegnanti si accorgono dei rapporti concorrenziali fondati sull’utilitarismo solo quando ne sono colpiti in forma diretta; e individuale. E davvero pochi sembrano cogliere ora che l’obiettivo del “docente esperto” servirà soprattutto a costruire e validare un’altra filiera della cultura intesa come potere e sottopotere.

Del resto, anche i più fieri oppositori di questo e di altri provvedimenti analoghi soffrono – è la terza considerazione – di un grave limite: ritengono che il pensiero critico, anziché intenzione e posizionamento espliciti, sia il frutto di un percorso di istruzione curriculare, fondato sulle certezze dei saperi disciplinari. Una neutra e rassicurante “capacità di esaminare nuove informazioni e idee concorrenti in modo spassionato, logico e senza preconcetti emotivi o personali”, come lo definisce Tom Nichols.

VAI ALLA PAGINA DEDICATA AL TEMA DEL DOCENTE ESPERTO

Non è un caso (siamo alla considerazione finale), del resto, che il dibattito sulla “professione-docente” sia e sia stato – salvo momenti ormai remoti e comunque irripetibili – intorno a un profilo esclusivamente individuale dell’insegnante, che incarna uno o più saperi, per alcuni anche quelli psico-pedagogici, in forma più o meno prevalente. A coloro che apprendono, fare la somma.
A mio fallibile giudizio, questo approccio non porta da nessuna parte. Andrebbe invece più che mai riconosciuta e valorizzata la dimensione politica di una scolarizzazione di massa e democratica, capace di muoversi in modo significativo nei meccanismi di interdipendenza e di crisi planetaria. Ed essa è in primo luogo responsabilità, azione e progetto collettivi, a dimensione sociale. Che quindi si incarna in un’istruzione che ha il compito di innescare, estendere in quantità, incrementare per qualità, garantire per consapevolezza e prolungare nel tempo capacità culturali e – appunto – sociali finalizzate allo sviluppo umano.
Ma questa, probabilmente, è utopia.




Chi è causa del suo digital…

di  Marco Guastavigna

Walled garden e business network fremono di sdegno: il ministro Bianchi – con una formulazione che, se riportata fedelmente, è lesiva anche della grammatica ­– ha ancora una volta sconvolto il proprio universo di riferimento professionale: “In Italia, in 4-5 anni, dobbiamo riaddestrare 650mila insegnanti per andare incontro ad insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettato”.
Ma come si permette? Riaddestrare, ovvero addestrare un’altra volta? Approccio davvero pessimo. Per non parlare dell’obbligatorietà della formazione, vulnus ricorrente e storicamente pluri-rigettato dalla categoria.

I contenuti di questa obedience 4.0, binomio esseri umani-dispositivi digitali? La solita confusione concettuale, il solito lessico nebuloso del marketing istituzionale: “Abbiamo investito 800mln per farlo e solo ieri abbiamo lanciato un progetto da 2,5mln per dare nuova formazione a chi insegna. Dobbiamo affrontare questo percorso per introdurre nella scuola l’intelligenza artificiale, la digitalizzazione collegata alla questione etica. Non siamo all’anno zero, abbiamo già dei buoni esempi ma ora dobbiamo spalmare questi primi buoni risultati per toccare i 10mln di studenti italiani”.

Prossimo al gramelot, ma del tutto coerente con le scelte di chi lo ha immediatamente preceduto, il rapporto con le piattaforme del capitalismo cibernetico e la privatizzazione della sfera dell’istruzione pubblica: “Il problema al quale stiamo lavorando con i tecnici del ministero è come le aziende del sistema globale possono essere d’aiuto per l’Ue e per l’Italia per raggiungere il risultato di questa diversa crescita formativa interpretando in modo corretto i nuovi linguaggi che devono usare ai vari livelli gli insegnanti di matematica, materie umanistiche, lingue e via dicendo”.

Potrei proseguire l’esegesi dell’esternazione, per esempio sottolineando che espressioni come “nuovi linguaggi”, “intelligenza artificiale”, “digitalizzazione”, “futuro digitale” e “interconnessione globale” siano tutte precedute da articoli determinativi e preposizione articolate, a indicare, ridotte a gergo, unicità di significato e quindi di senso, secondo la visione deterministica tipica dell’impianto ideologico tecnocratico e liberista, che si concepisce e presenta come unica alternativa possibile.
Potrei pertanto provare a contrapporre al succitato impianto mercatista e utilitarista, che innerva un “continente digitale” in cui la gran parte dei territori è sottomessa al controllo estrattivo delle aziende del capitalismo cibernetico, una visione delle tecnologie digitali attualizzate quali risorse per lo sviluppo umano e invitare a riflettere sulle differenze tra logistica di condivisione e logistica di intermediazione.

Preferisco invece tentare di far comprendere che le responsabilità culturali ed etiche – a proposito! – non hanno una sola matrice.

È da tempo evidente che le accademie italiane sono in larga misura e tacitamente asservite ai grandi player del capitalismo digitale.

Più in generale, però, vi sono alcuni aspetti culturali “istitutivi” di orizzonti antropologico-culturali subordinati e subordinanti, che vanno smascherati e analiticamente demistificati.

Il primo è aver accettato l’uso dell’aggettivo “digitale” preceduto dall’articolo “il”  come definizione del contesto, delle caratteristiche operative, cognitive e culturali e delle implicazioni dell’impiego dei dispositivi elettronici nelle pratiche di mediazione didattica. Una parola-ombrello, un significante quasi vuoto, che ciascuno ha potuto, può e potrà intendere come più gli aggrada, con il risultato di rendere il dibattito confuso e confusivo, in quanto variabile dipendente di bias e interpretazioni soggettive, intessuta di pseudocondivisioni.

Il secondo è aver consentito la contaminazione della pedagogia dell’emancipazione da parte della prospettiva dell’innovazione e dei suoi sempre più allucinanti e allucinati derivati (didattica innovativa, strumenti innovativi, ambienti innovativi, insegnanti innovativi). Aver trasformato il rinnovamento da strumento a scopo, ha reso accettabili competizione, distruzione creatrice, sensazionalismo didattico, acquisizione di competenze individuali e adattive a un modello socioeconomico unico e indiscutibile.

Il terzo è essere caduti nella scorciatoia cognitiva che ha ridotto, riduce e ridurrà i dispositivi digitali attuali con intenzione estrattiva e capitalistica a “strumenti”, attivabili e governabili come tali: questo modo di affrontare il problema – miope, anzi accecante e quindi del tutto funzionale al progetto di dominio operativo e di egemonia culturale di GAFAM, NATU, BATX

– ha avuto particolare risonanza, perché rassicurante, nel periodo del distanziamento delle pratiche didattiche, ma è una forma di banalizzazione ricorrente anche nelle roventi discussioni di questi giorni.

Il quarto è costringere – anche per opportunismo personale – la riflessione, il pensiero critico e il dibattito collettivo all’interno delle piattaforme e delle applicazioni mainstream, finalizzate alla profilazione per il profitto, rinunciando a qualsiasi battaglia politico-culturale e sindacale per la costruzione, il finanziamento, la manutenzione di infrastrutture digitali “repubblicane”, aperte al controllo democratico, progettate e gestite sulla base dell’interesse generale, anche per quanto riguarda gli aspetti più tecnici del loro governo.

La resistenza culturale, professionale e operativa alla diffusione dei dispositivi digitali si attesta invece al più su una sorta di rifiuto tra l’intuitivo, l’olistico e lo snobistico, a volte sconfinante nel grottesco – per esempio quando arriva a sostenere che la scrittura carta-e-penna è la sola strategia cognitiva e la sola pratica operativa utile per la redazione di testi complessi, contraddicendo pareri espliciti di intellettuali insospettabili, opinioni per altro probabilmente ignote ai più.

Mancano insomma un’analisi attenta e soprattutto un’elaborazione alternativa, indipendente dall’agenda e dal lessico dell’avversario, che sia capace di – e, prima ancora, intenzionata a – costruire le basi e i riferimenti per una torsione delle potenzialità dei dispositivi digitali liberati dall’intenzione capitalistico-estrattiva nella direzione dell’emancipazione e del contrasto all’oppressione.

Del resto, abbiamo avuto una testimonianza recentissima: innumerevoli le segnalazioni indignate sull’errore a proposito di Verga nella prova di italiano dell’esame di Stato, quasi inesistenti quelle sulla consegna in merito all’iperconnessione, che rendeva invece evidenti la subalternità culturale e l’assenza di autentiche capacità critiche sia degli autori del testo citato sia dei selettori del medesimo.

 




If… then…

 di Marco Guastavigna

C’era una volta, in una Repubblica sempre più lontana lontana, una coppia di bambine che frequentavano la primaria secondo il modello dell’alternanza indicato dal Superiore ministero.

 

L’avvicendamento non era ancora – nonostante le pulsioni di alcuni tra i più fedeli emissari della cultura aziendale nell’istruzione –  tra scuola e lavoro, ma tra banco istituzionale (privo di rotelle, a onor del vero) e tavolino domestico, considerato il susseguirsi di diagnosi di positività tra ə compagnə di classe e il conseguente ricorso alla “DAD”, una relazione tra bambinə e insegnanti con una tale risonanza mediale e sul social business da essere assurta ad acronimo da rissa verbale garantita prima di avere una qualsiasi definizione concettuale precisa.

Del resto, nella Repubblica sempre più lontana lontana lontana, la condivisione e l’interesse generale erano da tempo scomparsi a favore della polarizzazione e dello scontro polemico perenne in tutta la sfera pubblica.

In un momento dell’anno scolastico, avvolto da un’aura davvero particolare – la scadenza di un misteriosissimo primo periodo intermedio, non si sa se del calendario didattico o delle vite di insegnanti e/o scolari –, le due bimbe ricevettero per il tramite dei genitori e in forma digitale un documento così complesso e verboso da poter essere messo in circolazione dalle autorità competenti senza alcuna precauzione crittografica. Si trattava della “Rilevazione dei livelli di apprendimento nelle discipline e nella convivenza civile e del comportamento”.

Tra le altre preziosissime informazioni, le nostre amiche appresero così di aver raggiunto, per quanto riguardava la materia “Tecnologia”, un/il (che piacevole sorpresa la suspense linguistica nei documenti della Pubblica Amministrazione, troppo spesso accusata di non curarsi delle competenze di comunicazione non cognitive!) livello avanzato nell’uso di “strumenti informatici adatti all’età e alle attività proposte” e di concetti della logica legati all’informatica stessa.

Cimentiamoci noi con questo stile di ragionamento: è un’occasione, soprattutto per chi non ha avuto occasione di praticare il coding in gioventù e quindi anela a pensare come un computer da anziano.

Dunque… questə bambinə hanno usato Google Classroom, sulla base di una liberatoria da parte dei genitori, che hanno scaricato istituzioni e Alphabet Inc. da un bel pacco di responsabilità rispetto ai minori.
Questa piattaforma, inoltre, è stata l’unico strumento informatico usato per la didattica.

E la rilevazione (magia delle parole! NdR) diventa allora rivelazione: i dispositivi digitali a vocazione estrattiva, con lo scopo di accumulare profitti mediante operazioni di marketing, sono formalmente riconosciuti nei documenti di valutazione dei percorsi di apprendimento come adatti all’età e alle attività proposte.

In una Repubblica lontana, lontana, lontana, lontana e con buona pace del pensiero critico.




“Come se niente fudesse”: la scomparsa di pluralismo e plurale e il decesso dell’analisi critica

 di Marco Guastavigna

Giornata calda, oggi!

Stamattina i miei tre nipoti tornano a scuola. Le due sorelle alla primaria dopo un periodo di quarantena, il terzo prima della sospensione dell’attività didattica per le festività.
Stasera è annunciata una conferenza del “premier” – carica istituzionale assente nella Carta costituzionale, ma privilegiata da quella stampata e da vecchi e nuovi media, nonché dalla maggioranza dei loro consumatori – Draghi sulla “questione scuola”.
I social (altro termine su cui andrebbe fatta chiarezza, visto che c’è chi associa all’aggettivo addirittura la parola “business”) ribollono. E io con essi.

Tra i vari aggregatori di like, mi colpiscono in particolare due casi.

Il primo è abbastanza breve, si intitola “Diventa anche tu pedagogista” e propone un gioco semantico obiettivamente divertente.


Da un lato elenca i concetti da utilizzare in un ipotetico discorso autopromozionale (merito – competenze – Invalsi – selezione dei docenti – digitale – comunità educante – metodologie didattiche innovative – laboratoriale – tablet – scuola finlandese – liceo breve – scuola affettuosa).
Dall’altro lato quelli da evitare o da includere con “palese disprezzo” (studio – imparare – lezione – lezione frontale – sapere – riflettere – astrarre – concentrazione – libri).
Con un’impostazione di questo genere, intelligente ironia polarizzata, il clickbait è garantito: da una parte il Bene, dall’altra il Male. E infatti pedagofobi contro pedagofili si scatenano con i “Mi piace”, le condivisioni (io stesso non ho letto il post originale, ma un derivato), i copia-e-incolla, i “posso rubare?”.

E non dimentichiamo che anche le contestazioni – nell’impostazione perversa della comunicazione efficace – sono segnale di successo, di incisività, di visibilità.
Le idee non vengono espresse e condivise perché inneschino discussione e confronto, un dibattito rispettoso dei diversi punti di vista, con obiettivo una sintesi, magari nell’interesse generale, ma perché suscitino polemica, facciano schierare, colpiscano l’immaginario.
Il comunicare 4.0, insomma, è fornire una prestazione, che verrà monitorata, computata e valorizzata dagli algoritmi della piattaforma su cui è immagazzinata.

L’orientamento tardo manicheo, per altro, caratterizza – per esempio nella forma “Chi è causa del suo mal…” – anche alcuni dei commenti in calce alla riproduzione su Facebook dell’articolo di Riccardo Luna “Perché la Dad è un’occasione persa”, pubblicato l’8 gennaio.
Testo che – lì per lì – sembra avere un approccio interessante: le posizioni emerse pubblicamente e diffusamente in questi giorni fanno infatti legittimamente pensare al nostro “personaggio pubblico” che siano stati sprecati due anni.

In realtà, egli è prigioniero dello stesso schema di fondo precedentemente denunciato, ovvero la feticizzazione dei concetti impiegati, in particolare “la Dad” (appunto), “il digitale”, “il computer”, “lo smartphone” “la distanza”, “la didattica tradizionale”.
Tutti al singolare, con tanto di articolo determinativo e tutti a definizione implicita, quasi ammiccante: cos’è la didattica a distanza? È ciò che tutti sanno che cosa sia. E lo stesso vale per quella in presenza o per quella tradizionale

Si tratta con certezza di una prospettiva rassicurante, perché sia chi scrive sia chi legge ha l’impressione di avere il pieno controllo del lessico e quindi di comprendere ogni aspetto e implicazione degli oggetti citati e delle situazioni richiamate.
Queste formulazioni sono invece – e sempre più con il passare degli anni scolastici a perdita secca che tutti sembrano aborrire, ma in cui tutti si fanno paralizzare – parole-ombrello.

Sono cioè polirematiche infettive, approssimative e nebulose, a cui ciascuno è libero di assegnare il significato e il senso che più gli aggradano, con lo scopo di confermare e valorizzare il proprio – immutato e orgogliosamente considerato immutabile – sistema di credenze, opinioni e pratiche.

Trattare in questo modo il tema delle relazioni didattiche emergenziali perché soggette a distanziamento precauzionale, però, non solo non aiuta a trovare una via d’uscita equa ed efficace, ma comprime ulteriormente e rende più che mai asfittica questa possibilità.

Lo stesso Luna, del resto, non sa andare oltre l’auspicio alla diffusione di un infantilizzante “super potere”, che deriverebbe dall’impiego di “moltissimi strumenti interattivi e di partecipazione che invece possono rendere la didattica a distanza interessante se non addirittura divertente”. Entusiasmo che, nell’epoca delle piattaforme estrattive a vocazione capitalistica ormai endemiche alla vita sociale e biologica è – almeno – ingenuo.
Se vogliamo compiere qualche passo nella direzione dell’elaborazione, dobbiamo abbandonare le nostre zone di comfort culturale e professionale e smettere di illuderci della sufficienza dei nostri saperi da scaffale, statici e ben ordinati.
Per accettare, invece, di affrontare l’incertezza e per costruire saperi a vocazione dinamica, che vadano oltre gli steccati tra le discipline accademiche, nella direzione di sinergie culturali e professionali con valenza emancipante e trasformativa.

È troppo tardi? Con Alberto Manzi, voglio sperare di no.