RECOVERY PLAN E MISSIONE 4. TORNA LA SCUOLA DELLE TRE I?

di Raimondo Giunta

Con le risorse del Recovery si nutre l’ambizione di disegnare l’Italia che verrà e che ci sarà per almeno un decennio.
Con quelle assegnate alla Missione4, Istruzione e Ricerca (32, 32 miliardi di euro per la precisione) si può operare per un profondo riassetto dell’intero sistema di istruzione e formazione, perché dia risultati appropriati alle esigenze di una società in continua trasformazione, visto e considerato che quelli avuti fino ad oggi non tutti lo siano.
Avremo allora una nuova scuola?
Credo che si possa ragionevolmente nutrire qualche dubbio, perché nonostante la mole degli investimenti che si intendono fare non si intravede niente di diverso rispetto alla scuola che oggi c’è; non credo che ci sia un’idea di scuola diversa da quella che si fa.
Gli obiettivi generali che vengono proclamati non smentiscono questa affermazione.
Basta leggerli :
1) Colmare in misura significativa le carenze strutturali , quantitative, qualitative che oggi caratterizzano l’offerta di servizi di istruzione, educazione e formazione nel nostro paese;
2) Rafforzare i sistemi di ricerca e la loro interazione con il mondo delle imprese e delle istituzioni.
Come si può constatare si è davanti ad una vasta proposta di manutenzione, che ad ogni buon conto è utile, diciamo pure molto utile, ma che di fatto accantona l’interrogativo cruciale che nei tempi della diffusione invasiva delle informazioni e delle conoscenze, della moltiplicazione quotidiana delle agenzie formative e dei luoghi in cui è possibile apprendere ci si deve porre sul destino della scuola nella società.


E’ difficile trovare nel testo del documento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza un qualche esplicito accenno alla funzione educativa che il sistema di istruzione può o dovrebbe svolgere, mentre ce ne sono moltissimi su quella professionale, alla quale sono dedicate quasi esclusivamente le attenzioni.
Ma la crisi del sistema scuola è di natura culturale ed educativa, non solo professionale. Basta gettare uno sguardo sul mondo giovanile per averne una prova.
Non è uno scandalo che il sistema di istruzione converga con le esigenze del sistema economico-sociale, perché chiuso nella propria autoreferenzialità non ci sarebbe motivo per tenerlo in piedi; il sistema di istruzione è servizio alla società, ma è anche servizio alla persona, la cui dimensione non è risolvibile solo nella capacità di potere svolgere un lavoro o una professione, essendo originarie e insopprimibili le esigenze di conoscenza e di sviluppo umano.
Lascia molto da pensare che, in un momento in cui si decide come potrebbe essere domani la nostra società, il problema della scuola sia solo quello di rendersi idonea a soddisfare le esigenze del mercato del lavoro e delle imprese.
Se per l’Università l’indifferenza alle questioni educative può non avere alcuna incidenza, perché altra è la sua missione, per il sistema di istruzione primaria e secondaria è invece una carenza di grande rilievo.
L’economicismo è il tratto distintivo della Missione 4 e questo non è un rilievo immotivato.
”La Missione 4 mira a rafforzare le condizioni per lo sviluppo di una economia ad alta intensità di conoscenza , di competitività e di resilienza, partendo dal riconoscimento delle criticità del nostro sistema di istruzione, formazione e ricerca.”
Dopo l’approvazione del PNRR nei due rami del Parlamento sarà difficile modificare l’impostazione di Missione 4 e va rinviata a data da destinarsi la preoccupazione di ripensare la scuola e l’istruzione nelle sue molteplici funzioni, a cominciare da quella educativa e per finire a quella conoscitiva.
”Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”.
Detto tutto questo , è evidente che le risorse assegnate alla Missione 4 porteranno benefici al sistema di istruzione e che con esse si potranno colmare quelle carenze strutturali e qualitative con cui il personale della scuola e l’intera società devono fare quotidianamente i conti.
La Missione 4 è un progetto di potenziamento dell’offerta dei servizi per l’istruzione suddiviso in quattro ambiti, in cui si intrecciano investimenti e riforme.
Il primo è il più ampio e si va dal piano per asili nido e scuole materne alle riforme delle lauree abilitanti.
Gli investimenti riguardano gli asili nido, l’estensione del tempo pieno e delle mense, il potenziamento delle infrastrutture per lo sport a scuola, la riduzione dei divari territoriali nei cicli I e II della scuola secondaria, lo sviluppo del sistema di formazione professionale terziaria, l’orientamento attivo nella transizione scuola-universItà, gli alloggi per studenti universitari, le borse di studio per l’accesso all’università.
Le riforme riguardano gli istituti tecnici e professionali, il sistema degli its, l’organizzazione del sistema scolastico, l’orientamento , le classi di laurea, le lauree abilitanti.
Nel secondo ambito gli investimenti sono relativi alla didattica digitale integrata e alla formazione sulla transizione digitale del personale scolastico; le riforme riguardano il reclutamento del personale docente e l’obbligatorietà della formazione per tutto il personale della scuola, tranne i collaboratori scolastici.
Nel terzo ambito gli investimenti riguardano le nuove competenze e i nuovi linguaggi, la scuola 4.0, il piano di messa in sicurezza e riqualificazione dell’edilizia scolastica, la didattica e le competenze avanzate all’università.
Nel quarto ambito l’investimento riguarda l’estensione del numero dei dottorati di ricerca e dei dottorati innovativi per la pubblica amministrazione e il patrimonio culturale; la riforma è quella relativa ai dottorati.
Non è mia intenzione giudicare la congruità delle risorse assegnate alla Missione 4 rispetto alle altre e nemmeno quella delle singole misure al suo interno, anche se qualche perplessità sorge spontanea.
E’ un fatto positivo che ci siano molte più risorse di prima ed è indubbio che sarebbe di grande utilità se venissero impiegate tutte , bene e presto.
La misura che mi sembra adeguata alle intenzioni e alle ambizioni è quella relativa agli asilo-nido e alla scuola materna, per l’importanza che questo segmento dell’istruzione riveste negli equilibri sociali e perché determinante per avere una scuola meno discriminatoria, con meno dispersione e più giusta.
Le pari opportunità si cominciano a costruire proprio in quella fascia di età. Ritengo invece che, anche se sono interessanti le risorse che saranno messe a disposizione delle scuole per potenziare le infrastrutture per lo sport, per la loro messa in sicurezza, per la riqualificazione dell’edilizia scolastica, non siano sufficienti, per il semplice motivo che per la scuola che ci vuole nel terzo millennio, gran parte del patrimonio edilizio scolastico è da ritenersi inadeguato . Non edifici riverniciati ci vogliono, ma tanti, tanti istituti nuovi di zecca e di concezione.
Altrettanto si dica per gli alloggi universitari e per le borse di studio per l’accesso all’università.
Se si vuole fare crescere di molto la popolazione con il titolo di laurea bisogna abbattere le strozzature dell’ingresso all’università ed eliminare gli ostacoli alla prosecuzione degli studi, determinati dal costo e dall’ impossibilità di usufruire di alloggi confortevoli e alla portata di tutti.
Oltre alle misure economiche, senza le quali non c’è spazio per qualsiasi cambiamento, qualche parola va spesa sui processi di riforma che si vogliono attivare per migliorare complessivamente le prestazioni dell’intero sistema dell’istruzione e della formazione.
Riflessioni che non vogliono estendersi a tutto ciò che riguarda l’istruzione universitaria, della quale è giusto che parlino gli addetti ai lavori .
Sul piano dei contenuti le proposte di rinnovamento e di riqualificazione riguardano l’ampliamento delle competenze scientifiche, tecnologiche e linguistiche degli studenti, ma anche dei docenti con particolare attenzione alla capacità di comunicare e risolvere problemi e se le parole hanno un senso riguardano anche la riforma degli istituti tecnici, dei professionali, degli ITS , dei dottorati di ricerca, delle lauree abilitanti e della didattica integrata.
Per coerenza con l’impostazione della Missione 4 non poteva mancare il proposito di mettere mano all’intera filiera dell’istruzione tecnica e professionale, fino agli Its che, a distanza di quasi 20 anni dei primi tentativi di sperimentare forme di istruzione terziaria professionalizzante (gli IFTS)ancora non decollano.
E’ evidente che se si vuole un sistema scolastico funzionale ai processi dello sviluppo economico i conti con l’istruzione tecnica e professionale bisogna sempre farli e farli periodicamente.
L’istruzione tecnica non è molto che è stata ristrutturata e l’istruzione e la formazione professionale solo da poco hanno concluso l’itinerario di riformulazione dei curricoli.
Periodicamente ci si pone il problema di come rendere attrattivi questi indirizzi di studi, che dopo gli anni ’90 hanno quasi sempre perso molti studenti, tranne qualche sporadica fiammata, e periodicamente la soluzione viene trovata nella ristrutturazione dei curricoli.
Credo, invece, che ci sia un problema di costume e di nuove tendenze sociali, altrimenti non si spiegherebbe la crescita delle iscrizioni ai licei, ma anche un più serio problema di assetto economico-aziendale dell’apparato produttivo.
Questi indirizzi di studio non danno più assicurazioni come prima su un rapido inserimento nel mondo del lavoro e non solo per la inadeguatezza della preparazione acquisita da quanti vi concludono gli studi.
Lo stesso si dica e per quest’ultimo motivo anche per l’andamento delle lauree.
Altro problema che viene messo in luce è quello della dispersione scolastica e dei divari territoriali.
Certamente serviranno il piano di estensione del tempo pieno e delle mense nella scuola dell’obbligo, come la riduzione degli alunni per classe, ma non credo che l’uso obbligatorio dei test INVALSI/PISA potrà giovare molto, se altre forme di povertà e di deprivazione culturale oltre quelle curriculari non vengono aggredite come necessario.
Potranno giovare le azioni di supporto ai dirigenti, la formazione obbligatoria per almeno il 50% dei docenti, l’incremento delle ore di docenza, ma cosa c’entra la personalizzazione dei percorsi?
In quale posto del mondo e su base certa questa strategia è riuscita a contenere la dispersione e a migliorare il rendimento nelle discipline di base?
Con tutto quello che si intende fare e rinnovare non poteva mancare il capitolo della riforma dell’organizzazione del sistema scolastico.
E’ un vecchio ritornello, anche se i suoi ricorrenti problemi sono di natura culturale ed educativa e anche professionale e sia estremamente improbabile che si risolvano di fatto nel superamento dell’identità classe demografica/aula e nel superamento del modello scuola, che la prevede.
Sarebbe molto interessante sapere quale dei problemi dell’istruzione questa proposta aiuti a risolvere.
Hanno maggiore attinenza con questi problemi lo stato giuridico del personale docente e la riforma del suo reclutamento.
L’obbligatorietà della formazione merita qualche riflessione.
Così com’è presentata lascia qualche perplessità, perché dubito che una professione debba darsi una forma, un’identità, ad ogni curva del suo percorso, se gli anni di formazione (superiori, università, approccio e transizione al proprio lavoro) non sono riusciti a dargliela.
Di necessità della formazione si può parlare solo per fatti che trasformano radicalmente l’ambiente di lavoro e questo a scuola è successo con l’autonomia e con l’informatica; succederà con la transizione digitale dell’insegnamento e succede ogni volta che vengono riformulati i curriculi e l’impianto delle discipline.
Potrebbe succedere per la valutazione, considerate le difficoltà che si incontrano a praticare la valutazione formativa, anche quando è diventata obbligatoria. Per il resto parlerei di aggiornamento , che se dev’essere obbligatorio non può essere arbitrariamente orchestrato e tantomeno può essere privo della dovuta iscrizione negli obblighi dell’orario di servizio.
La formazione/aggiornamento che serve è quella funzionale ai bisogni emergenti al livello nazionale e anche al solo livello di istituto.
Nel testo si parla di un impianto di moduli formativi che consentono l’acquisizione di crediti formativi professionali spendibili per l’avanzamento della carriera secondo un sistema meritocratico.
Che mi sembra altra cosa e che riapre le pagine non edificanti dei tempi in cui gli insegnanti si affannavano a frequentare corsi di aggiornamento sulle più disparate materie , per potere andare avanti nelle classi di stipendio.
Dietro questa intimazione ad aggiornarsi/formarsi aleggia il sospetto che se le cose non vanno tanto bene, che se ci sono disfunzioni tutto questo dipenda dal fatto che gli insegnanti non si aggiornino e non si siano aggiornati.
Speriamo di no, perché sarebbe iniquo e superficiale .
Per concludere.
La scuola certamente potrà avvalersi di questa enorme mole di risorse e anche di tutte le iniziative che si intendono mettere in campo, ma è forte l’impressione che l’articolato progetto di Missione 4 sia la riproposizione in grade stile del modello delle tre I (inglese, internet, impresa) reso più ricco di risorse e di mezzi, forse più vivibile, ma insufficiente ai bisogni delle nuove generazioni, non riducibili a quello esclusivo del passaggio dalla scuola al lavoro.




A scuola senza rete di protezione. Il difficile mestiere di insegnare

di Raimondo Giunta

“Gli insegnanti sono rimandati solo al loro carisma personale. Lavorano senza rete di protezione e senza chiaro mandato istituzionale. La società non sta più dietro di loro a cominciare dalla loro amministrazione. E’ questo che scatena la crisi dell’autorità nella scuola: gli insegnanti sono là a nome di una collettività che non riconosce il ruolo che esercitano” (Marcel Guachet).

Nemmeno nei lunghi e non ancora terminati mesi della pandemia, pur essendosi constatato quanto siano importanti per gli equilibri sociali della nazione la presenza e il lavoro degli insegnanti, si è riusciti a saldare la frattura tra loro e la società e motivi per arrivarci ce ne sarebbero, a cominciare dall’impegno che ci hanno messo per tenere in piedi uno straccio di continuità del rapporto educativo. Impegno e lavoro che non possono essere scalfiti da episodi come quello della studentessa bendata in una verifica orale a distanza.
Quello che gli insegnanti hanno fatto e stanno facendo nei tanti giorni difficili della pandemia dovrebbe restare nella memoria degli alunni e in quella delle loro famiglie.
La considerazione pubblica degli insegnanti e della scuola se in giro ci fosse un po’ di serietà, dovrebbe tenere conto solo di tutto questo.
Tutti dovrebbero ricordare quanta passione, quanta intelligenza e quanta fatica ci sono volute per tenere in piedi un’istituzione fondamentale per l’intera comunità.


Gli insegnanti insieme al personale sanitario hanno risposto al compito di rendere in momenti difficili umano il volto delle istituzioni. Non perché sono kamikaze votati al sacrificio, ma perché sono professionisti che fanno il proprio dovere e che meritano di essere protetti per svolgere in qualsiasi condizione nel modo migliore il proprio lavoro.
E’ da considerare come ragionevole l’ipotesi che nel peggioramento della considerazione sociale degli insegnanti abbia contribuito la svestizione istituzionale della scuola e che questo fenomeno sociale possa essere considerato una delle cause più incisive della proletarizzazione della figura dell’insegnante.
In questo processo di caduta verso gli inferi i compiti degli insegnanti sono cresciuti di molto.
La responsabilità della funzione professionale ,di quella conoscitiva e di quella educativa del sistema di istruzione e formazione ricadono sempre sulle loro spalle, ma devono affrontare il peso di doversi difendere dal sospetto alimentato artificiosamente di una loro inadeguatezza e quello dei vincoli di un’organizzazione che non vuole la loro l’autonomia e non esalta l’impegno profuso nel lavoro e il sapere che posseggono e trasmettono.
Una società aperta e democratica si batterebbe per la dignità e l’autonomia professionale degli insegnanti, perché solo in condizioni siffatte possono svolgere il loro compito educativo.
E nessuno si meraviglierebbe se il risultato del loro lavoro fosse quello di avere fatto crescere in autonomia gli alunni e non quello di averli resi docili alla società così com’è, di non averli addomesticati. Una società aperta e democratica, che ama vedere crescere bene i propri giovani, dovrebbe fare ponti d’oro a chi a scuola tra programmi, regolamenti e valutazione riesce a dare spazio e voce all’esistenza dell’alunno e lavora per la sua crescita umana.
Questo tipo di insegnante è l’educatore di cui l’alunno ha bisogno, di cui ha bisogno la società.
Questo tipo di insegnante non si cura solo di trasmettere i saperi, ma per renderne il significato puntualmente si preoccupa di interrogarli nella loro storia, nella loro costituzione epistemologica, nella loro dimensione sociale e valoriale per farli diventare dote e consapevolezza personale.
L’INSEGNANTE COME SI DEVE e che la società dovrebbe difendere e amare è l’uomo dell’incontro e del confronto.
Si trova nella giuntura tra passato e presente.
Serve alla causa della tradizione per quello che insegna e la causa del cambiamento per coloro che forma. (Michel de Certeau).




La scuola non è solo un servizio ma soprattutto una istituzione

di Raimondo Giunta

Si aspettano con ansia i giorni in cui si potrà tornare serenamente a scuola e mettersi dietro le spalle due anni tra i più infelici degli ultimi tempi. Tornare come prima? Come se niente fosse? Spero che non accada, perché vorrebbe dire che non si è imparato nulla, nemmeno dai giorni più difficili. Al primo posto delle preoccupazioni dovrebbe esserci quella di rendere le scuole sicure, sotto ogni profilo e non soltanto dal punto di vista sanitario. Sicure non basta; devono essere accoglienti per la convivialità dei giovani e multifunzionali per attività che non possono ridursi a lezioni e ad esercitazioni.
Luoghi non solo di istruzione, ma della più ampia formazione umana, per generazioni che fuori dal recinto scolastico un po’ dappertutto trovano solo occasioni per dissipare i loro anni migliori. Mai come in questi ultimi tempi si è potuto constatare la centralità della scuola e degli insegnanti; mai come in questi ultimi tempi si è sentito il bisogno di una scuola che funzioni bene in qualsiasi circostanza, senza abbassare il livello delle sue prestazioni. Una scuola a pieno regime per ogni evenienza è la grande sfida da affrontare.
Ma la scuola nella società che cosa è?
E’ questa una questione preliminare ad ogni sua possibile organizzazione e manifestazione e ad essa si cercherà di dare qualche cenno di risposta.

La scuola non è solo un servizio sociale; la scuola è anche una istituzione. Come servizio la sua qualità si misura dalla soddisfazione degli utenti; come istituzione la qualità si misura dalla capacità di conservare e sviluppare i valori di una comunità; come servizio si regge sull’attenzione agli interessi individuali; come istituzione si regge sul principio del bene comune. Il bene comune della scuola è costituito dai saperi e dalle conoscenze che è tenuta a tramandare. Beni quest’ultimi primari e necessari. Beni che appartengono a tutti e non a pochi privilegiati. Per definizione. Principio questo che non ha bisogno di dimostrazione, perché altrimenti non ci sarebbe motivo per finanziare la scuola con risorse dello Stato.
Come istituzione la scuola non può darsi nessuna regola d’esclusione, anche perché il suo costo sociale grava di più su chi meno ne trae beneficio. Ne verrebbe meno il valore; se ne macchierebbe la dignità. Nell’apertura della scuola a tutti sta scritto il meglio della nostra civiltà. Possono essere posti limiti al possesso di beni materiali, non al bisogno e al desiderio di conoscenza e al diritto di formazione. I meccanismi di esclusione a scuola fanno impropriamente del sapere una delle più offensive giustificazioni delle posizioni sociali privilegiate.
La scuola, pertanto, deve garantire a tutti il diritto alla formazione e trasmettere i valori e i saperi, che sono considerati fondamentali per la coesione della comunità: lingua, storia, cultura nazionale, valori costituzionali. I saperi e le conoscenze, beni necessari nella nostra società, fanno della scuola un’istituzione necessariamente pubblica e nessuna comunità può abdicare alla tutela e allo sviluppo di questi beni, se vuole essere una comunità.
Se si vuole che la scuola abbia il rango di un’istituzione, non la si può ridurre ad essere il luogo di un proprio, modesto mercato: quello dei libri di testo, delle tecnologie, dei progetti PON, POR, FESR e delle iscrizioni. Purtroppo dura da troppo tempo la lotta per ridimensionare l’aspetto istituzionale della scuola, per ridurla alla pura logica del servizio, privata del senso statuale. Lo scopo, nemmeno sottinteso, è quello di degradare la funzione del sapere da bene pubblico a mero privato possesso strumentale.
La scuola per svolgere le sue funzioni deve sottrarre bambini, adolescenti e giovani alle loro famiglie, che col tempo incidono sempre di meno nell’educazione dei propri figli. La scuola non può pensare di non avere alcuna responsabilità in questo campo; deve nella specificità del proprio ruolo fare la propria parte, ma ricordando sempre che l’ordine scolastico non è l’ordine familiare (Alain). Non può pensare nemmeno di costringere una famiglia a trovare la soluzione dei problemi di apprendimento che devono affrontare i propri figli fuori dalla scuola, proprio perché è una istituzione.
La scuola come istituzione non può essere diversa da regione a regione, dal centro alle periferie delle città, dalle grandi città ai piccoli comuni. La scuola come istituzione lavora per unire e per proporre una valida e riconosciuta gerarchia dei saperi e delle attività, in grado di contrastare la deriva relativistica degli interessi individuali e dei curricoli à la carte.




Una idea di giustizia

di Raimondo Giunta

    • Le sofferenze, i disagi e le preoccupazioni che la pandemia sta seminando in ogni angolo della terra rende nelle coscienze più avvertite necessaria una riflessione sulle condizioni di debolezza delle istituzioni democratiche, mostrate nell’affrontare una sciagura che ha sconvolto la vita di moltissime nazioni ed ha allargato il fossato delle disuguaglianze . Una riflessione che per forza di cose ci conduce ai problemi della giustizia  sociale, dopo qualche decennio di abbandono sistematico . I partiti e i sindacati, nati nel suo segno, dovrebbero essere i primi a farla e dovrebbero aver preso coscienza che è stato alto il prezzo pagato  per avere allentato e diluito i rapporti  con le proprie tradizioni; i primi col ridimensionamento del peso politico, i secondi con  la perdita di consensi e di iscritti.  Pagano, soprattutto i partiti, per essersi fatti testimoni e garanti della promessa di buone occasioni per tutti, proclamata ad alta voce dall’imperante neo-liberismo.  Non è bastato, però, suonare la fanfara per i nuovi diritti civili conquistati, per occultare la miseria dei risultati ottenuti.  E’ stato un grave errore, perchè i diritti civili non possono e non devono essere messi in rotta di collisione con quelli sociali.

  • Il problema della giustizia sociale, per la sua connessione naturale col principio dell’uguaglianza, assunto con energia e convinzione è sempre all’origine delle iniziative politiche di trasformazione, se non proprio di sovvertimento degli assetti economico-sociali costituiti . Generalmente queste scelte politiche  nascono  dalla consapevolezza che non ci sia giustificazione alcuna alle disuguaglianze che producono privazioni, disagi e sofferenze a moltitudini di uomini e condizioni di privilegi ad una ristretta cerchia di persone, in ogni ambito della società. Proprio per questi motivi, accettata negli anni passati l’immodificabilità del sistema economico attuale, non è rimasto altro, a chi riteneva di vivere nel migliore dei mondi possibili, se non il compito di delegittimare il principio dell’uguaglianza e quello di demonizzare ogni tentativo di riportarlo sulla scena pubblica del conflitto politico e sociale.  Non a voce alta.  Ipocritamente si è cercato e si cerca di limitarne gli ambiti o le modalità di applicazione. E così si spiegano i tentativi di parlare di giusta uguaglianza, per convincere che molte aspettative e certe conquiste nel nome dell’uguaglianza giuste non siano. Ma per quanto se ne possa scrivere e parlare, ciò nondimeno, nessuna formulazione del principio di giustizia ha la forza di quella che individua in ogni campo l’unione necessaria con l’aspirazione all’uguaglianza.  Affiancare alla giustizia il principio dell’uguaglianza non è stato per nulla facile e scontato e si potrebbe leggere il progresso umano come il percorso della sua parziale e lenta affermazione in ogni campo dove poteva essere affermato.  Il sentimento più naturale di giustizia è quello dell’uguaglianza. Ma se l’uguaglianza è impossibile, si ricorre allora a quello di equità, molto più raccomandato . . . Dice Aristotile “Ed è questo la natura dell’equo di essere correttivo della legge là dove essa fa omissione a causa del suo dire universale”(Etica Nicomachea)
  • Giustizia ed uguaglianza alludono ad una prassi di natura distributiva e si riferiscono al modo più corretto di ripartire i beni e i servizi disponibili in una comunità(lavoro, redditi, salute, istruzione, casa, pensioni, diritti individuali). Altro, però, è dire unicuique suum, altro è dire ad ognuno tutto quello che è dato all’altro. Altro ancora è dire a ciascuno secondo i suoi bisogni Ma anche il primo modo di formulare il principio di giustizia non ha avuto vita facile. Altra sarebbe stata la storia, se ad ognuno fosse stato dato il suo.  “La giustizia consiste precisamente nell’attribuire a ciascuno la sua parte. Il ciascuno è il destinatario di una ripartizione giusta”(P. Ricoeur). Privata della corposa materialità che per forza deve assumere nell’ambito sociale, la giustizia può esprimere solo l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge sotto la forma di una ripartizione eguale delle sfere di libertà. Nell’ambito sociale non credo che sia facile fare accettare una ripartizione diseguale di beni e di servizi e che questa possa essere facilmente condivisa se dovesse/potesse tornare a vantaggio di ciascuno come vorrebbe Rawls.  “Le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere combinate in modo da essere a)ragionevolmente previste a vantaggio di ciascuno; b)collegate a posizioni aperte a tutti”. Le possibili e incerte convenienze degli svantaggiati (come? quando?) possono davvero funzionare come giustificazione delle ineguaglianze sociali? E poi quali beni e servizi possono essere sottoposti a questo trattamento? Beni sociali primari? Redditi, patrimoni, posizioni di responsabilità e di autorità?
  • Per praticare la giustizia sociale occorre disporre di una sua idea e tenere nel dovuto conto le condizioni storiche in cui dovrebbe incarnarsi e dalle quali scaturisce la sua esigenza; non è ordinaria amministrazione dell’agire pubblico, perchè il corso della sua realizzazione è pieno di ostacoli che spesso l’impediscono. Non ci sono meccanismi neutri ed automatici che la possano assicurare.  Ogni idea di giustizia rinvia ad una fondazione etica che la possa giustificare come principio normativo, anche se si deve tenere presente che qualsiasi argomentazione messa in atto non è in grado di farlo diventare NECESSARIAMENTE una scelta individuale o collettiva.  Non sarà l’argomentazione a rendere doveroso un comportamento, ma il presupposto di un valore dato a quel che dovrà essere compiuto. L’argomentazione serve a creare consenso, ma non a vincolare la libera scelta. La giustizia se ha un fondamento etico, deve avere anche una realtà visibile nell’organizzazione di una società e deve essere leggibile nelle norme che la devono rendere concreta e percepibile
    Il principio di giustizia ci rinvia alle relazioni comunitarie delle persone, condizionate da tradizioni culturali e di costume e determinate dagli interessi economici e dalle posizioni di potere, ragione per cui l’aspirazione alla giustizia può esserne soffocata.  Anche se la sfida è proibitiva e impossibile, non è detto che sia sbagliato affrontarla. La fattibilità non è un criterio per invalidare un principio etico-politico come quello della giustizia e un progetto politico che lo faccia proprio.
  • Della giustizia è difficile parlare facendo a meno di quello che è la storia umana. Le teorie della giustizia di natura convenzionale fondate sull’accordo su alcuni principi di reciprocità se vogliono avere una qualche incidenza, dovrebbero tenere conto delle condizioni storiche delle società in cui le si dovrebbe mettere in atto. Hanno limiti profondi e il primo fra tutti è quello della loro astrattezza e il secondo è quello di non avere alcun appiglio ontologico valoriale: la dignità assoluta della persona. Con le teorie della giustizia elaborate mettendo tra parentesi la storia difficilmente si potrà cambiare la storia. Mi pare impossibile intervenire sui problemi della società partendo da posizioni “originarie”. Queste posizioni non esistono. Non ci sono posizioni originarie, ma rapporti di forza determinati dagli scontri sociali. Nei problemi di giustizia “la ragione” fa molta fatica a farsi sentire tra interessi personali  e di gruppo. La rinuncia all’organizzazione e alla gestione dei conflitti sociali e alla sua rappresentanza politica ha di fatto consacrato come immodificabili le storture degli attuali assetti economico-sociali e condannato la sinistra all’irrilevanza o a cambiare la propria collocazione tra le stratificazioni sociali.
  • Oggi, si è nel punto in cui le conquiste di giustizia sociale (diritto alla formazione, alla salute, al lavoro, alla casa, alla giusta pensione) ottenute al prezzo di lunghe e difficili lotte popolari non solo rischiano di essere depotenziate, ma addirittura cancellate, proprio perché le forze che le hanno consentito sono diventate fragili, disperse e politicamente confuse. Per questo motivo un balzo in avanti nella giustizia sociale, ma anche lo stesso mantenimento degli attuali equilibri richiede coraggio, iniziativa e organizzazione. Un nuovo inizio.

 

 




Un economista al comando della scuola. Quando toccherà ad un pedagogista?

di Raimondo Giunta

UNA NUOVA DISCIPLINA

Il nuovo ministro è un nome dell’economia dell’istruzione ed è stato assessore regionale all’istruzione nella Regione Emilia-Romagna. Ogni ministro si porta appresso il proprio bagaglio di cultura, di esperienze e di specifica professionalità. Il bagaglio dell’economia dell’istruzione non è di quelli che si può lasciare a casa ed è molto ingombrante.
Questo ramo dell’economia politica viene fuori con forza dalle riflessioni sulla crisi fiscale dello Stato negli anni ’70 e anche in Italia ha cominciato ad avere i suoi cultori.
Nel DNA di questa disciplina c’è l’impulso a rendere efficiente la spesa pubblica per l’istruzione e soprattutto c’è la preoccupazione a non ad aumentare.
Si è cominciato a dire, proprio perché c’è la crisi fiscale dello Stato, che non è più sostenibile la pretesa di pensare che la composizione della spesa pubblica non debba cambiare e che debba solo crescere. Le risorse per l’istruzione che bisogna strappare all’avidità di altri reparti dello Stato devono essere spese bene, senza sprechi, in modo efficace e ogni innovazione, così come il mantenimento dell’esistente, devono essere sottoposti ad una rigorosa analisi dei costi.
Anche il diritto allo studio e alla formazione, come il necessario prolungamento dell’obbligo scolastico non possono e non devono essere esclusi da una ricerca approfondita di questo genere. Potrebbero non essere inviolabili come si crede. . .
Ma già nei primi tempi qualche dubbio sulle pretese di questa disciplina incominciò a circolare.
In un saggio esemplare per chiarezza e profondità di analisi pubblicato nel n.  239 del quindicinale CENSIS del Febbraio ’76,  U.  Trivellato, che è stato sempre un grande esperto di problemi scolastici e anche Rettore della Facoltà di Statistica a Padova,  indicava le notevoli difficoltà analitiche nel definire l’impiego ottimale delle risorse in campo educativo.
“Queste sorgono già nell’identificazione di una metrica comune delle variabili influenti sul prodotto scolastico; emergono nella valutazione delle relazioni fra output e input per individuare la combinazione efficiente di fattori e permangono nella determinazione delle soglie dimensionali e dei criteri organizzativi per l’impiego efficiente dei fattori”.

A queste difficoltà si aggiungono poi problemi operativi nel tradurre acquisizioni concettuali in interventi nella realtà.
Alle stesse conclusioni arrivava E.  Somaini nel volume più recente “Scuola e mercato” che è del 1997.
L’autore teneva a sottolineare “che non tutte le modificazioni nel soggetto sono risultati dei processi formativi, perché sono influenzati in modo significativo da una serie di fattori di origine naturale, ambientale e sociale, che si manifestano gradualmente e lungo un arco esteso di tempo e che malgrado queste difficoltà,  logiche e di misurazione l’adozione (con le dovute cautele) di un approccio produttivistico è auspicabile e ……. .  anche possibile”.

Appunto auspicabile e possibile. Non credo che lo statuto epistemologico della disciplina abbia superato questi limiti.

Una teoria economica dell’istruzione,  che non abbia eccessive ambizioni,  aiuta a orientarsi nelle scelte degli investimenti più efficaci per il miglioramento del sistema formativo,  anche se non sono esattamente quantificabili i loro effetti produttivi reali e potenziali.
Aiuta, anche, a comprendere che cosa comporta in termini di sviluppo economico un mancato livello d’istruzione della società, ma non può parlare con autorità sui saperi dell’istruzione che si ritengono necessari per la generalità di tutti i giovani che devono andare a scuola. Precauzione, questa, svanita nel corso degli anni, tant’è che molti cultori dell’economia dell’istruzione continuano a lanciare proclami sui “prodotti “scolastici necessari,  redditizi e vantaggiosi per tutti.

PRODUTTIVITA’ SCOLASTICA E MONDO DEL LAVORO.

L’efficacia degli investimenti nel sistema scolastico-formativo e quindi la loro sostenibilità politica si deducono dal contributo dato dalla scuola allo sviluppo delle conoscenze, alla diffusione della cultura, alla crescita del potenziale tecnico e professionale delle nuove generazioni, alla loro capacità d’inserimento nel mondo del lavoro e nella società come cittadini consapevoli.
La giustificazione della spesa per l’istruzione, cioè, viene dimostrata dal ruolo da essa ha nella formazione e nello sviluppo del capitale umano, sociale e culturale disponibile in una comunità, la cui importanza è stata messa in evidenza dagli studi di Coleman, Bourdieu e Putnam.
Il valore del “prodotto scolastico”, per usare il lessico congeniale a questa disciplina, quindi, deve essere riferito alla sua qualità, cioè alla sua corrispondenza agli scopi sociali e istituzionali che una nazione si dà in un determinato momento della sua storia per le nuove generazioni.

In questo caso la spesa sarebbe efficace e produttiva.

Non lo è più quando parte rilevante della popolazione scolastica viene espulsa dal sistema scolastico e dalla formazione senza il possesso di un bagaglio accettabile di competenze civiche e professionali; quando si allarga la distanza tra il sistema formativo e l’organizzazione sociale del lavoro e viene a mancare qualsiasi collegamento tra istruzione e sbocchi professionali.

Ma è nell’ordine delle cose che ci sia uno scarto tra istruzione e mondo del lavoro e che non sia possibile eliminarlo.  Tutto ciò non dipende dalla qualità della formazione, ma dal ruolo dell’istruzione scolastica nella società attuale di fronte agli alti e continui sviluppi tecnologici nel mondo della produzione e dei servizi, all’esplosione delle conoscenze e alla rivoluzione dei sistemi che le trattano, le accumulano e le diffondono.

Scarto che non può diventare inconciliabilità tra i due sistemi.  Il sistema dell’istruzione e il mondo del lavoro con opportune misure di adeguamento devono, ad ogni buon conto dialogare e integrarsi.  Questo non significa auspicare una rigida finalizzazione dell’istruzione al sistema produttivo, impossibile nel breve e nel lungo periodo, anche perché non è l’unica ragione di esistere del sistema scolastico e formativo.

SARA’ SERVIZIO ALLA PERSONA?

Il sistema scolastico e formativo è servizio alla persona ed è contemporaneamente servizio alla società: nessuna delle due vocazioni può essere trascurata e deve pertanto essere sostenuta sia la sua natura di servizio alla persona sia la sua crescente prospettiva di essere fattore dello sviluppo economico. Privilegiando uno dei due aspetti si può lacerare un sistema che si trova all’incrocio di diverse richieste ed esigenze, che vanno armonizzate, ma non alternativamente subordinate.

Non si può assecondare un generico e vago desiderio collettivo di istruzione e formazione, di crescita culturale senza chiedersi l’uso che se ne farà; non si può ferreamente legare i processi di istruzione e formazione,  in cui si giocano scelte fondamentali del destino individuale dei giovani,  alle necessità,  ai fabbisogni del sistema socio-economico,  predeterminando settori e quote dei vari indirizzi di studio. L’istruzione è un bene pubblico la cui funzione primaria è la crescita e lo sviluppo integrale della persona di ogni bambino, di ogni ragazzo, di ogni giovane che varca la soglia di un istituto scolastico,  ma la disciplina economica di cui è padrone il nuovo ministro rischia di vederla, invece, sotto l’ottica di un bene di consumo o di un bene di investimento sia individuale, sia collettivo. L’economia dell’istruzione ci porta alla logica dei costi, degli sprechi e dei vantaggi. Non proprio una dimessa ancilla della pedagogia; anzi finisce per imporre prima il proprio lessico e poi le proprie finalità. Ma sono i costi in sé che vanno ridimensionati a prescindere o le finalità da realizzare che qualcosa sempre costano?

Il criterio di giudizio sulle attività messe in atto dal sistema dell’istruzione è solo economico o può e deve essere invece di natura pedagogica?

E’ l’economia dell’istruzione una disciplina che non si mette al servizio di nessun altro sapere di cui deve nutrirsi la scuola e dal proprio punto di vista, che è economico, non potrà che parlare di risultati, di valutazione, di carriera, di spendibilità del prodotto scolastico. L’economicismo, non più moda fatua e appiccicaticcia di non pochi ministri “modernizzanti”, istigati da se-dicenti centro-studi per la scuola, senza self-control e senza dialogo con l’intero mondo della scuola e della società, oggi potrebbe celebrare un insopportabile trionfo a danno della dimensione umana e culturale dell’istruzione e della formazione.

E IL RAPPORTO CON LA SOCIETA’?

L’unico problema in cui si arrovella l’economia dell’istruzione, e speriamo non il ministro, è il rapporto tra istruzione e mondo del lavoro. Gli altri problemi, quelli afferenti ai valori, alle tradizioni, alla conoscenza del mondo e alla cultura dell’integrazione gli sono nella migliore delle ipotesi indifferenti. La rude e solida disciplina dell’economia dell’istruzione, infatti, può trascinare verso la diffidenza e la sottovalutazione della pedagogia e farsi portavoce di tutta e di tanta avversione verso ogni idea di scuola, di insegnamento che ci ricorda la complessità in democrazia del compito di crescere e di educare i giovani.

Si è parlato di economia dell’istruzione come se fosse un’unica cosa con la persona del ministro e come se il ministro non potesse avere se non idee connesse con la sua disciplina; è chiaro che non ci si può permettere di dare spazio ad un’ipotesi siffatta e che bisogna attendere i fatti e solo i fatti per giudicarlo, ma è anche chiaro che alla scuola da qualche decennio sono state somministrate dosi massicce di questa cultura e non pare che l’abbiano migliorata e che abbia aiutato ad affrontare l’emergenza educativa. Ogni ministro bisogna vederlo all’opera sui problemi che gli tocca da affrontare. Non credo che si sbagli dicendo che oggi il più importante è quello di stabilire quale forma debba avere la scuola e quali debbano essere i suoi rapporti con le altre agenzie formative, con la società e con la necessità dell’apprendimento lungo tutta la vita.

Occorrerà osservarlo nelle scelte che sono relative alla funzione conoscitiva della scuola e in quelle relative alla funzione educativa, causa di continue e anche infondate lagnanze pubbliche. Problemi seri su cui si gioca la vera autonomia della scuola, perché la scuola, quale che sia la cultura del proprio ministro, non può perdere il controllo del proprio programma culturale, non può disperdere la propria identità nell’allargarsi e nell’infittirsi dei suoi intrecci col mondo del lavoro e con la società. E ancora bisognerà vedere che dirà e farà sullo statuto giuridico degli insegnanti e come opererà per ridurre drasticamente la dispersione scolastica., perché la scuola deve essere un’istituzione efficace, ma anche giusta. Gli esclusi dalla cultura e dai saperi sono e saranno i vinti e gli umiliati della nostra società. Resta immutata per loro la necessità di conciliare obiettivi di promozione umana e culturale con quelli di professionalizzazione; di evitare scelte precoci e socialmente inique. Si dovrà giudicare il ministro dall’attenzione che dedicherà alle voci di non poche valide associazioni professionali e dei sindacati della scuola, che solo in malafede si possono considerare come i custodi dello status quo e delle sue inefficienze.

La scuola non sarà migliore di quella che è se la si vuole governare puntando la pistola alle tempia degli insegnanti, intimidendoli e precarizzandoli o pensando di affidarla esclusivamente alle virtù taumaturgiche dei dirigenti, accrescendone poteri insindacabili.  La scuola sarà migliore, solo se resta e si sviluppa come comunità educativa.

 

 




Eduscopio, ovvero scuole in competizione

di Raimondo Giunta

Anche quest’anno EDUSCOPIO ha pubblicato l’atlante delle scuole superiori, di cui ci si può fidare, perchè vanno bene e fanno tutto quello che bisogna fare per primeggiare sulle altre. Sono informazioni, ammesso che abbiano solide fondamenta, utili solo a quelli e a quanti hanno il tempo per leggerle, ma che contribuiscono a iniettare il veleno della concorrenza tra le scuole, non certamente per avere migliori servizi.

Questa specie di mercato scolastico è uno dei frutti avariati dell’autonomia scolastica. La formazione delle nuove generazioni non è un compito che si può far meglio mettendo le scuole una contro l’altra; è un compito difficile, complicato che può dare risultati soddisfacenti solo se le scuole collaborano, se scambiano tra di loro esperienze e competenze, aperte l’una all’altra e non in guerra per l’accaparramento di risorse e per vanitose ricerche di visibilità, di cui fa le spese la coerenza del processo educativo e del curriculum.

Il principio che ogni scuola debba essere una comunità educativa viene messo in discussione da queste pratiche concorrenziali. D’altra parte vorrei chiedere a quanti producono graduatorie tra le scuole e se ne godono se al punteggio contribuisca la capacità di dare risposte efficaci agli alunni portatori di disabilità o quella di riuscire a migliorare il rendimento degli alunni difficili o quella di accogliere nel proprio seno e integrare alunni figli di immigrati. Vorrei chiedere se sono buone le scuole che lavorano con alunni che non avrebbero bisogno di insegnanti o quelle in cui ai ragazzi bisogna dare tutto, a cominciare dai libri di testo.

Non è per nulla assodato che la pubblicazione di dati come quelli di EDUSCOPIO aiuti a migliorare i rapporti di una scuola con la comunità di appartenenza; anzi per la sua costitutiva logica competitiva rischia di recidere i legami tra una scuola e l’ambiente circostante e favorire in certi strati sociali delle medie e grandi città la corsa verso le scuole  che marciano bene,  collocate nei solidi quartieri dei benestanti . La concorrenza tra le scuole, che di fatto viene sostenuta e incitata con questo genere di azioni, non salva, nè migliora quelle che hanno problemi, perchè continuerebbero ad esistere e sarebbero le uniche disponibili per quelli che non sanno leggere i rapporti di rendicontazione sociale del ministero o quelli di EDUSCOPIO.

Queste graduatorie sono un capolavoro di mistificazione e di ipocrisia. Sono gli indicatori evidenti dello stravolgimento della funzione della scuola, come si evince dal dettato costituzionale; una evidente derivazione degli orientamenti mercatistici di tutte le leggi sulla scuola, che ne hanno sfregiato l’identità.

RAIMONDO GIUNTA

 

 




Tempo perso? Ma quando mai!

di Raimondo Giunta

Un bel post di Simonetta Fasoli mi spinge a tornare sull’infelice, sgradevole e immotivato proposito di recuperare il tempo che si sarebbe perso nelle tante settimane di didattica a distanza.
Non credo che ci sia stato un periodo così difficile nella vita della scuola come quello che si è trascorso e si trascorre per mantenere in vita e sviluppare nei limiti del possibile il rapporto educativo tra docenti e alunni. Il tempo della scuola è stato ed è quello determinato dalle istituzioni che la governano; lo sarà ancora, per gli evidenti vincoli che tutti conosciamo. Non può essere dilatato a piacimento; forse a piacimento lo si è ridotto e ancora lo si può ridurre con le più complicate motivazioni.
Nel tempo della scuola scorre con un proprio e diverso ritmo quello della crescita, dell’educazione, della maturazione degli alunni. Non sono rari i casi in cui il tempo della formazione non collima con quello istituzionale e dentro questa cornice può soffocare.

Il conflitto tra il tempo istituzionale e quello educativo ha certamente avuto modo di verificarsi nei tanti mesi della didattica a distanza; può, però, darsi che abbia avuto più successo quello educativo proprio per le particolari condizioni in cui si è sviluppato il processo formativo.
In parole povere può darsi che si sia imparato meno di quanto si doveva, ma che si sia cresciuti più di quanto si fosse sperato.
Da questo dato, che può non essere una semplice ipotesi, ma la realtà delle cose, ripartirei quando sarà il momento.
Visto che si è fatto e si sta facendo tutto il possibile per non perdere tempo, con buona pace di tutti quelli che piangono sui disastri educativi degli attuali studenti a partire dalla povera ministra, al ritorno della normalità ci si dovrebbe soffermare per vedere come sviluppare, mettere a tema quanto di vissuto e di appreso c’è stato in questo difficile momento per gli alunni e per i docenti. L’unica preoccupazione dovrebbe essere quella di tesaurizzare le molteplici esperienze provate in un periodo che resterà nella memoria della scuola, degli insegnanti, degli alunni e dell’intera società.
Un periodo che non dovrebbe passare come una parentesi da chiudere, ma che dovrebbe e potrebbe essere il fondamento di un nuovo inizio per alunni e docenti, avendo sperimentato la complessità del fare scuola e avendo finalmente appreso e compreso la sua imprescindibile necessità nella vita di tutta la comunità.