Insegnare per discipline o in modo interdisciplinare?

di Raimondo Giunta

Ripensare e rifare la scuola si rivela sempre un’operazione complessa e difficile per la capacità di resistenza che ha dimostrato di avere la forma che le è stata data dall’inizio della storia moderna. Bisogna chiedersi, allora, se le difficoltà che la scuola incontra nell’affrontare i problemi che gli si presentano siano dovuti a questa stabilità o ad altro. La crisi della scuola, di cui si parla e di cui si è sicuri, di che natura è? A che cosa è dovuta? Lo smantellamento dell’impianto che dà forma alla scuola è davvero la condizione per assicurare quei risultati che possono corrispondere oggi alle aspettative  dell’opinione pubblica e di parte crescente e cospicua della società?

La scuola è stata ed è una istituzione  le cui regole interne,  codificatesi nel tempo, prefigurano una vita diversa rispetto a quella che si vive nell’ambiente  ad essa circostante; ma  se diversa è stata ed è la scuola non per questo è stata ed è estranea alla società di appartenenza.
E’ sempre esistito un certo grado di corrispondenza tra scuola e società.  D’altra parte una cosa è la separatezza rispetto alla società, un’altra è la condizione di isolamento o di incomunicabilità in cui a volte è venuta a trovarsi in tempi di tumultuosi cambiamenti rispetto al mondo del lavoro, dell’informazione, delle scienze e delle tecnologie.

La scuola si è definita oltre che con la sua separatezza soprattutto con la funzione di trasmissione dei saperi e delle conoscenze, filtrati e ricomposti nelle discipline scolastiche. Ragione per cui ripensare e cambiare la scuola significa soprattutto vedere fino a che punto si debba mantenere o si debba innovare il suo impianto disciplinare per potere svolgere nella società attuale le sue funzioni, con la stessa efficacia con la quale le ha svolte nel passato.
L’attuale ministro è dell’avviso che questo impianto debba saltare in aria e spinge perché nelle scuole secondarie di primo e secondo grado vengano abbattute le frontiere esistenti tra le discipline e si cominci a praticare l’interdisciplinarità, per mettersi finalmente dietro le spalle l’ultimo baluardo del fordismo a scuola (sic!), costituito dai curricoli fondati sulla separazione e diversità delle discipline. Come se la crisi della scuola consistesse in un difetto di metodologia e non di contenuti e di saperi nuovi e necessari.
Per evitare questo genere di fraintendimento, forse, si dovrebbe ribadire con forza che qualsiasi idea di scuola, di quella che c’è e di quella che si vorrebbe avere, dipende dalla configurazione dell’enciclopedia dei saperi, che si ritengono indispensabili per gli alunni e la società. Fino ad un certo punto dipende dai metodi didattici che si ritiene opportuno adottare.

Andiamo, allora, con ordine. La scuola ha avuto e dovrebbe ancora avere il compito di rendere disponibile per le nuove generazioni il patrimonio culturale, scientifico e professionale accumulato nella storia dell’uomo e della società alle quali appartengono. Un patrimonio di cognizioni infinitamente superiore alla capacità conoscitiva di ciascuno individuo e soprattutto di un individuo . . . in età scolare. E’ questa la funzione conoscitiva della scuola e non ci sono cambiamenti che la possano mettere  in discussione. Anzi. La prima missione della scuola è sempre quella di consentire l’apprendimento dei saperi fondamentali per la vita di una persona e per la vita di una società. E’ questo il compito fondativo dell’esistenza della scuola e non puo’ essere in alcun modo sminuito a vantaggio di altri compiti che si ritiene opportuno affrontare. §Se ci fosse ancora del buon senso, la funzione conoscitiva dovrebbe continuare ad essere svolta  senza ostacoli e imbarazzi .

Per consentire alla scuola di potere svolgere la funzione conoscitiva, che si esplica nella trasmissione dei saperi  e delle conoscenze,   è stato necessario svincolare il patrimonio culturale e conoscitivo tramandatoci dal “contesto concreto in cui si è potuto costituire, selezionarlo e riformularlo secondo criteri di:
a) segmentazione di ogni particolare sapere in parti combinabili le une con le altre;
b) omogeneità delle singole sequenze;
c)organizzazione di queste sequenze secondo un ordine di complessità crescente.

Il sapere in questo modo diventa disciplina di studio, ma viene separato dalla sua origine e dalla situazione storica di coloro che l’hanno elaborato.
Il sapere tecnico e scientifico è quello che maggiormente subisce questa sorte; viene strappato alla sua storia e consegnato a quello della scuola. L’ordine che viene dato ai contenuti non è quello della costruzione e della trasformazione delle teorie, ma quello dell’apprendimento.
A scuola si passa dalla ricerca del vero della ricerca scientifica all’impegno di fare apprendere. “La scuola impone al sapere una mutilazione, una distorsione e una dogmatizzazione, ma in un’ottica più ampia che potremmo chiamare antropologica; il sapere può costituirsi come tale solo all’interno della forma sociale della scrittura di cui la scuola è un tassello determinante”(B. Rey). La logica sequenziale del testo diventa quella dell’insegnamento, al quale viene imposta un’organizzazione gerarchica degli argomenti (capitoli, paragrafi etc) .

Il bisogno di trasmissione incide sul sapere insegnato frammentando una disciplina in unità compatibili col tempo degli studi (anni, trimestri/quadrimestri, settimane etc). C’è un adattamento ai tempi, ai gruppi di alunni, al loro livello, al contratto didattico in vigore, agli imperativi della valutazione. Questo fatto non è buono, nè cattivo: è soltanto necessario.
La traduzione disciplinare del sapere non è uno snaturamento, è la sua trasformazione se si vuole trasmetterlo. (Ph. Perrenoud).

“Lungi dal costituire la semplice volgarizzazione di un sapere di partenza, lontano anche dall’essere il prodotto povero di un sapere “scientifico” o utile,  sempre inattingibile, IL SAPERE INSEGNATO deve essere considerato come una creazione collettiva altamente originale, spesso secolare dell’istituzione scolastica in funzione del suo compito primario, che è quello di insegnare, di trasmettere dei saperi e dei saper fare per preparare dei soggetti adatti alla società”(B. Scheuwly).

Sui saperi scolastici si può sviluppare  un insegnamento di qualità con un lavoro di riflessione  che ne riscopra e ne utilizzi i concetti fondatori e ancora viventi,  con pratiche di sperimentazione e di osservazione,  con formulazione di ipotesi,  col confronto e con le verifiche con la realtà. Ragione per cui è una semplice, gratuita e indimostrabile affermazione quella che vuole per forza dogmatico l’insegnamento per singole discipline.  La trasmissione dei saperi per essere efficace non può essere affidata alla casualità, ma deve seguire regole di pertinenza, di adeguatezza, di rigore e di sistematicità. Si ha scuola quando l’apprendere e l’insegnare diventano attività razionalmente codificate e sono organizzati sul fondamento epistemico di ogni particolare sapere.  Le discipline sono le forme istituzionali del sapere, attraverso le quali le conoscenze diventano disponibili. Sono gli strumenti creati per rendere le conoscenze adatte all’apprendimento scolastico. Fatto di cui spesso ci si dimentica per inseguire metodologie innovative, che possono vanificare questa funzione.

Ma che cos’è allora una disciplina?  Ogni disciplina è un insieme di concetti che contiene le conoscenze di un particolare campo d’esperienza. Ha una propria storia, una propria letteratura, propri principi distintivi, schemi concettuali, metodi di ricerca, un proprio linguaggio simbolico. Consente l’intelligibilità e il senso dei fatti e delle esperienze cui fa capo. “Ogni disciplina scolastica è una costruzione intorno ad una incessante ricerca della verità, di cui si conosce il carattere sempre provvisorio”(M. Develay).
Ogni disciplina è un sistema di conoscenze dichiarative (fattuali e concettuali) e di conoscenze procedurali (cognitive, logiche, metodologiche).
“Una disciplina tende naturalmente all’autonomia con la delimitazione delle sue frontiere, il linguaggio che essa si dà, le tecniche che è portato a elaborare o a utilizzare ed eventualmente con le teorie che le sono proprie. (. . . ) Le discipline concernono la sociologia della conoscenza”(E. Morin).

Le discipline scolastiche, con i loro schemi, rapporti e distinzioni, considerate nella loro genealogia storica ed epistemologica aiutano a sviluppare la comprensione della realtà e ad assimilare nuove conoscenze. Con le discipline scolastiche si aiutano le nuove generazioni a riflettere sui propri vissuti, sulle proprie esperienze e sulla propria cultura personale; a confrontarsi criticamente con i problemi della società, con i modelli sociali di comportamento, con le tendenze culturali; a dare forma razionale ai propri convincimenti e alle proprie conoscenze della realtà. Con le discipline e i saperi scolastici si danno strumenti intellettuali per dare un senso alla propria storia, per interagire con gli altri, per trovare ragioni di vita.

Le discipline educano:
1) con i contenuti;
2) col tipo di approccio alla realtà (artistico, storico, tecnologico, filosofico etc);
3) con il tipo di logica che privilegiano,
4) con i metodi e le tecniche con cui ricercano e accostano il proprio oggetto;
5) col linguaggio tipico con cui intessono la trama del loro discorso.

“L’apprendimento disciplinare finora è stato lo strumento privilegiato di rilettura e rivisitazione scientifica e antropologica della realtà e ha permesso di passare da una cultura esperita e frammentata ad una cultura intellettualmente ricostruita e sistematizzata e personalmente padroneggiata(C. Nanni).  Attraverso le discipline si è potuto conservare e trasmettere il patrimonio conoscitivo e culturale che l’uomo ha creato nell’incessante ricerca di comprensione del proprio mondo .

Le discipline scolastiche sono strumenti di semplificazione e nello stesso tempo strumenti di interpretazione e di organizzazione dell’esperienza umana. E allora visto e considerato che sono servite e ancora servono perché calunniarle? Perchè tentare di imporre l’interdisciplinarità?  L’interdisciplinarità non puo’ essere messa in atto casualmente, senza predisposizione di mezzi,  temi, tempi e senza la convinta collaborazione dei docenti.
Non può essere praticata su ogni argomento e con approssimazione.  L’interdisciplinarità non è un guazzabuglio di più discipline convocate a prescindere e forzatamente intorno ad un argomento o a tutti gli argomenti di tutte le materie. E’ il metodo a volte unico con cui un contenuto, un problema, una situazione vengono affrontati da discipline apparentate dal loro patrimonio conoscitivo, dai loro procedimenti, dalla loro prossimità epistemologica. L’interdisciplinarità non è un luogo di bizzarrie e di trovate; non è la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia interdisciplinare; si tradirebbe il significato più autentico di questa impostazione, che ha una valenza formativa rispettabile.

L’interdisciplinarità non puo’ essere usata come una clava per delegittimare i curricoli scolastici esistenti e le discipline, che non sono nate casualmente e che ancora devono svolgere il proprio mestiere.  Siamo eredi di una storia in cui molti sono stati i tentativi di unificazione del sapere e nessuno dei quali è andato a buon fine; la molteplicità dei saperi e dei linguaggi è per certi aspetti irreversibile.  Quando ce ne sono le condizioni il tentativo va fatto ed è quello che puo’ fornire elementi di comprensione e di valutazione critica della realtà.
La tensione verso l’unità del sapere fa vedere quali sono le zone di frontiera tra le varie discipline e il loro grado di parentela e ci ricorda come la chiusura dogmatica dentro uno specifico sapere non crea cultura, non dà intelligenza delle cose.




Dalle linee guida alla nota di accompagnamento: un’estate in attesa del miracolo

di Raimondo Giunta

“Siamo già in ritardo per organizzare l’anno scolastico in presenza della Delta, quando lo stesso bambino infetto che l’ottobre scorso avrebbe contagiato in media un solo compagno di classe, ne infetterà due. Esplosioni più repentine, focolai più massicci. La preoccupazione principale, almeno fino a giovedì scorso, è stata invece quella di aggiustare i parametri ad hoc per tenere l’Italia in bianco ‘fino a Ferragosto’. Con il gioco di prestigio pericoloso per tutti, di spostare decisamente il baricentro verso le occupazioni ospedaliere, un parametro che sappiamo essere più tardivo, e per di più con soglie azzardate.”
E ancora  “Quanti nuovi casi giornalieri possiamo tollerare? Con quanti vogliamo affacciarci all’inizio dell’anno scolastico? Vanno bene cinquantamila al giorno seguendo mollemente il pendio su cui stiamo rotolando adesso, oppure decideremo per la prima volta che non è accettabile? Come gestiremo le classi? Quali misure di mitigazione resteranno in atto accanto alla via maestra dei vaccini?” (Paolo Giordano -Corriere della Sera del 25 Luglio 2021).

Questa lunga citazione tratta da un quotidiano che ancora fa opinione ci fa capire come si faccia strada il convincimento che, nonostante un anno e mezzo di esperienza pandemica e nonostante il cambio al Ministero della PI, con molta probabilità si affronterà il nuovo anno scolastico come sempre: all’insegna dell’improvvisazione.
Oltre la fiducia nella vaccinazione di tutto il personale della scuola e degli alunni dai 13 anni in su, non penso che si sia fatto qualcosa di significativo per garantire la ripresa delle attività didattiche in presenza. Si sono trovate le 20mila aule che richiedeva l’hanno passato l’ANP per fare scuola in condizioni di sicurezza? Si sono per caso ritoccati i criteri per la formazione delle classi per impedire quei focolai di infezione che sono le classi pollaio? Che senso ha prevedere l’organico aggiuntivo Covid fino al 31 dicembre 2021? Gli enti locali sono stati in grado di dotare di sistemi di ricambio d’aria le aule degli istituti di loro pertinenza?

Le Regioni saranno in grado di assicurare trasporti pubblici con la capienza massima del 50%? In mancanza di provvedimenti seri e utili si è dato invece molto spazio alla campagna mediatica sui risultati INVALSI, nei fatti impostata con la ruvida consapevolezza di costringere a qualsiasi costo alla didattica in presenza. Cosa volete che siano i rischi della pandemia con il disastro educativo, socio-emotivo creatosi con la DAD?
Che non si sia andati oltre la miracolistica aspettativa di una universale protezione vaccinale lo dice anche il fatto che mentre l’anno passato si discuteva in ogni sede e appassionatamente sulle Linee Guida, quest’anno ci si accontenta di una semplice nota ministeriale di accompagnamento ai consigli del CTS.

E dire che con meno difficoltà rispetto all’anno passato si poteva licenziare almeno in tempo il PIANO SCUOLA 2021/2022, perché le scuole hanno fatto esperienza di gestione dell’emergenza sanitaria; perché i milioni di banchi, compresi quelli con le rotelle, sono arrivati e le graduatorie per supplenze sono in vigore dall’autunno scorso.

Nessuno può eccepire sul fatto che sia sentita come una improcrastinabile esigenza sociale ritornare alla normalità della vita scolastica ed è pienamente legittimo sperare che avvenga a partire dal primo di settembre. Una speranza ed una necessità, perché bisogna tornare tutti al lavoro. Si è detto fino alla stanchezza che si muore anche di crisi economica, ma se tutti tornano al lavoro, le scuole per forza devono riaprire i battenti e lavorare a pieno ritmo. Nessuna società moderna si può permettere di tenere le scuole chiuse. Questo è un dato di fatto insuperabile e non c’è idea di scuola e di educazione che lo possa ignorare. Il problema allora è il solito: oltre il vaccino si sono create le condizioni per riprendere in sicurezza le attività didattiche?
Avendo senza tante precauzioni sperato nel miracolo, ora si rischia di deludere le speranze che si sono alimentate e di ricadere nel gioco perverso di reciproco discarico di responsabilità, tra scuole, ministeri, regioni ed enti locali.
Si è ancora in tempo per rimediare e per rimettere nel giusto verso le cose. Dipende dalla buona volontà di tutti i soggetti che hanno competenze sulla soluzione dei problemi della scuola e dal loro impegno a trovare i rimedi possibili caso per caso nel dovuto spirito di servizio, perché è molto probabile che ci saranno soluzioni che di volta in volta, di luogo in luogo, di scuola in scuola si dovranno trovare e adottare, perché non sarà la stessa musica dappertutto.

Se si abbandona la maniacale pretesa di avere segnato chissà quali cambi di passo a scuola e si comincia a parlare il linguaggio della verità, anche i problemi di una certa dimensione si possono affrontare e risolvere. Sulla scuola, però, non si può ripetere l’inganno di dire che si può ritornare alla normalità, se prima non è stata riscontrata una netta vittoria sul coronavirus.
Fino a quel momento ognuno di quelli che vivono a scuola, dal dirigente agli alunni, deve fare la propria parte per impedire nuovi contagi e per lavorare in sicurezza.
Un’ultima riflessione. Le scuole vivono dentro le città, ne fanno parte integrante e ne condizionano la vita. Finora sono state le scuole ad adattarsi; ma con gli ingressi differenziati, perché non potranno essere evitati, e con l’alto tasso di pendolarismo alle superiori dovranno essere le città, i paesi e le regioni ad adattarsi alle scuole.
Non pare che si sia chiaramente consapevoli di questo problema e che ci sia la volontà di prenderne atto.

Diciamolo allora.
Il virus non è stato sconfitto e ora si diffonde tra i giovani e non è pacifico che sia facile poterci convivere. Non si può mentire sulla realtà, per non pagare i prezzi dovuti.
La scuola in presenza comporterà per tutti rinunce, limitazioni e qualche sacrificio. Non verrà gratis.




Un’idea di scuola: appunti per una riflessione

di Raimondo Giunta

1) Un’idea di scuola bisogna averla per poterne immaginare il suo futuro; privo di una propria prospettiva il mondo della scuola difficilmente potrà svolgere bene il proprio compito nel tempo in cui i cambiamenti trasformano i tratti della società e modificano consuetudini, comportamenti e orientamenti di tutti e in modo particolare quelli delle nuove generazioni, alle quali dovrebbero andare le cure del sistema di istruzione e formazione.
C’è bisogno di una narrazione mobilizzatrice .
”Chi siamo?” ”Cosa diverremo?” ”Quali valori accettare?” ”Come vivere meglio?”
Non bastano le assicurazioni sulla loro occupabilità.

2) Di fronte a fatti di turbolenza giovanile si parla con qualche eccesso di mutamento antropologico; in qualche modo, però, è vero che le trasformazioni delle consuetudini e degli stili di vita, alle quali va aggiunta l’invasività dei mass-media e di internet, abbiano contribuito a costituire una visione della vita che ha reso gli studenti estranei, incomprensibili a parte del corpo docente. Le innovazioni del sistema di istruzione finora sono state concentrate soprattutto sull’enciclopedia dei saperi da trasmettere o sulla trasformazione degli ambenti di apprendimento; ma queste oggi rischiano di non dare frutti, se non si procede a modifiche profonde e radicali nelle relazioni pedagogiche e nelle attività didattiche.
Le procedure didattiche sono di importanza pari a quella dei contenuti, perché tocca ad esse il compito di rendere i giovani coautori del proprio processo di crescita, capaci di riflessività e di autonomia, dotati degli strumenti per affrontare i problemi che incontreranno in una società, dominata dall’incertezza .


3) Se il cambiamento è diventato realtà quotidiana della nostra società, la scuola, che sempre è tenuta a considerarne gli effetti sulle proprie responsabilità, deve preoccuparsi di assicurare la permanenza di quei valori e di quei saperi che l’hanno costituita e differenziata rispetto ad altre società.
In questo compito palesemente educativo, purtroppo, non ha molti alleati, né tra le famiglie, né tra le istituzioni, né tantomeno nel mondo dei media.
E’ questo il modo, anche se svolto con difficoltà, per alimentare e coltivare quel sentimento di appartenenza di cui si nutre la coesione di una società.

4) L’appartenenza ad una comunità si declina in termini di valori condivisi, di storia e di cultura; ma deve essere legata ad una proiezione verso il futuro, alla capacità di costruire un progetto collettivo in cui riconoscersi. La scuola in questa indeclinabile responsabilità deve trovare un punto d’equilibrio fra trasmissione del patrimonio culturale e preparazione alla vita; fra continuità col passato e anticipazione del futuro.

5) La scuola è al crocevia fra tradizione e innovazione; tra passato e futuro. Funziona se tiene legati questi due poli d’attrazione. Il problema vero in questi nostri giorni è l’assenza di un’idea di futuro, ma lo è anche la facilità con cui si tende a cancellare il passato. “Niente è tanto dannoso quanto la cattiva coscienza di un educatore sottomesso ai venti e alla tirannia del momento, incapace di collocarlo nella storia, inconsapevole del fermento rivoluzionario che oggi può essere non la lettera, ma lo spirito di una tradizione.
Nè un passato colpevole, né un presente assoluto.
Le nuove generazioni hanno il diritto di aspettarsi dall’educatore i frutti di una tradizione che avrà passato al setaccio del presente (Michel de Certeau).

6) Bisogna fare i conti col fatto che per certi versi è ritardataria la natura della scuola, ma non retrograda (Alain), ed è naturale la sua diversità rispetto ad altre istituzioni nel modo di confrontarsi con i cambiamenti di una società.

7) La scuola non deve competere con altre agenzie formative sul piano delle conoscenze, ma su quello dell’organizzazione delle conoscenze…Deve essere luogo delle capacità critiche.
”La scuola usa e getta dei saperi effimeri, freschi di giornata, adatti a corrispondere alle bramosie culturali di quelli che sanno che cosa ci vuole per il loro amati pargoli, non potrà mai fare gustare il “sapore dei saperi”(J.P.Astolfi).

8) Si parla con enfasi della società della conoscenza, trascurandone gli aspetti di frammentarietà e di incertezza che mettono a dura prova la capacità di adeguamento di parte considerevole della popolazione al mondo che cambia ogni giorno. La sfida che la scuola deve vincere è quella di proporre saperi e valori significativi che possano consentire l’inserimento nel mondo del lavoro, soddisfare il bisogno di socialità e di padronanza di sé.

9) Si pensa di stupire dicendo che bisogna apprendere ad apprendere. Ma che cosa poi in fin dei conti? Nel caos delle informazioni, nell’incertezza del futuro, nella dissoluzione crescente dei legami comunitari, dovremmo APPRENDERE A COMPRENDERE.
Dovremmo dare più spazio e tempo alla riflessione.

10) Riempiamo un’aula di tutti gli attrezzi che vogliamo; ciò che conta e ciò che resta è il faccia a faccia con l’alunno.
Una relazione viva, fatta di incontri e di scontri, di dialogo e di conflitto in cui si fa esperienza della resistenza e dell’irriducibilità sua.
L’alunno non deve solo apprendere un sapere, adattarsi ad una cultura, ma a situarsi tra gli uomini

11) In classe il lavoro che vi si svolge è di fatto una pratica comunitaria di cui si deve comprendere il senso e che trova la sua efficacia nel fare confluire le diverse intenzioni nella costruzione del sapere di ognuno. Lavoro che diventa anche costruzione di sé, proprio nel confronto con gli altri e con il sapere.

12) Sono molte le parole che si usano a scuola di cui è difficile rintracciare il senso che pretendono di avere. Parole di chi non ha l’umiltà di osservare e di ascoltare; di chi non sa e non vuole situarsi nella vitale discordante confusione di emozioni, di incertezze, di passioni, speranze, timori che animano le quotidiane relazioni tra giovani e adulti.

13) Le parole della scuola oggi appartengono ad altri mondi.
E’ una pura illusione pensare di non averne preso anche le intenzioni e i significati con cui le impiegano ancora là dove sono nate. L’ansia di adattamento ha sfigurato la scuola.
Occorre ri-guadagnare il linguaggio che gli è proprio: quello dell’educazione.

14) Le dicerie intorno al sapere scolastico col tempo sono riuscite a creare un’estesa opinione di diffidenza, se non di compatimento su tutto quello che si fa a scuola.
Si dice scolastico per dire limitato, privo di immaginazione, fuori del mondo, elementare dogmatico etc, etc, .
Il sapere insegnato a scuola, invece, deve essere considerato una creazione originale e collettiva, secolare dell’istruzione scolastica in funzione del suo compito primario, che è quello di insegnare, di trasmettere dei saperi e dei saper fare per preparare persone capaci di essere buoni cittadini e valenti lavoratori.

15) Scuola pubblica e scuola della conoscenza; scuola pubblica ed equità devono essere la stessa cosa.

16) Per rimettere in sesto la scuola bisogna tornare al linguaggio delle grandi finalità.
E queste non può darsele la scuola da sola, perché ogni idea di scuola, qualsiasi idea di scuola presuppone un’idea di società; finisce per essere declinata in funzione degli interessi e dei valori prevalenti della società, in cui svolge le proprie funzioni.




L’impresa difficile dell’interdisciplinarità

di Raimondo Giunta

Il ministro Bianchi spinge vigorosamente perché nelle scuole secondarie di primo e secondo grado vengano abbattute le frontiere esistenti tra le discipline e si cominci a praticare convintamente l’interdisciplinarità per mettersi finalmente dietro le spalle l’ultimo baluardo del fordismo a scuola, costituito dai curricoli fondati sulla separazione e diversità delle discipline.
L’aveva detto in Parlamento e lo ha ripetuto il 28 maggio ad un seminario INPS sul tema “Una valutazione efficace come condizione per una efficace coesione sociale”.
Di interdisciplinarità a scuola si parla da tempo e da tempo si pratica con relativo giudizio, ma a nessuno è venuto in mente, se non sbaglio, che questo è un modo certo per regolare i conti col fordismo, se non altro perché i curricoli con discipline distinte e separate esistono da tempo immemorabile, da quando ancora non si sapeva e non si sperava che ci si sarebbe spostati da un posto all’altro con le automobili. Il ministro parla di interdisciplinarità come di un’impresa facile da mettere in cantiere.
E’ proprio così?
Credo, purtroppo, che non sia così e soprattutto che non si possa imporre per decreto. Non può essere messa in atto casualmente, senza predisposizione di mezzi, temi, tempi e senza la convinta collaborazione dei docenti.


L’interdisciplinarità è la messa in relazione di due o più materie scolastiche che deve condurre a stabilire tra di loro legami di complementarità, di cooperazione, di interpretazione, di reciprocità sotto diversi aspetti, per favorire l’integrazione degli apprendimenti e dei saperi nella mente degli alunni. Non può essere praticata su ogni argomento e con approssimazione; se è a volte difficile rispettare i tempi del singolo piano di lavoro, immaginiamo per un po’ quello che potrebbe succedere quando più insegnanti devono tenere il passo in modo da arrivare unitariamente in tempo, ciascuno per il proprio contributo, a trattare l’argomento, oggetto di un intervento interdisciplinare.
Le discipline coinvolte in un passaggio interdisciplinare devono organizzarsi perché lo svolgimento avvenga in modo razionale e persuasivo; senza rigore e consapevolezza epistemologica non è possibile procedere fruttuosamente con questo metodo.
E il lavoro d’equipe è necessario in fase di progettazione e al momento delle verifiche intermedie e conclusive.
L’interdisciplinarità non è un guazzabuglio di più discipline convocate a prescindere e forzatamente intorno ad un argomento. E’ il metodo a volte unico con cui un contenuto, un problema, una situazione vengono affrontati da discipline apparentate dal loro patrimonio conoscitivo, dai loro procedimenti, dalla loro prossimità epistemologica.
L’interdisciplinarità, quando è ben proposta restituisce la trama delle relazioni che una conoscenza aveva nella realtà delle cose e che le discipline tendono a separare secondo la propria logica costitutiva.
“L’interdisciplinarità si iscrive nella prospettiva della post-modernità; permette una presa di coscienza della complessità degli oggetti del sapere, valorizza la pluralità e la diversità dei saperi e dei metodi. L’interdisciplinarità è l’integrazione e il dialogo delle discipline, il loro fattore di coesione”(Ph. Jonnaert)
Non può, però, essere usata come una clava per delegittimare le discipline scolastiche, che non sono nate casualmente e che ancora devono svolgere il proprio mestiere.
”Lungi dal costituire la semplice volgarizzazione di un sapere di partenza; lontano anche dall’essere il prodotto povero o utile di un sapere “scientifico” sempre inattingibile, il sapere insegnato (le discipline..) deve essere considerato come una creazione altamente originale, collettiva, spesso secolare dell’istituzione scolastica in funzione del suo compito primario, che è quello di insegnare, di trasmettere dei saperi e dei saper – fare per preparare soggetti adatti alla società”(B.Scheuwly)
L’interdisciplinarità è la situazione di apprendimento in cui si parte dal contenuto, dal problema; non dalle discipline.
Ma questo può valere per una questione e non per un’altra.
Non è detto che debba avvenire sempre. L’interdisciplinarità non è un luogo di bizzarrie e di trovate; non è la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia interdisciplinare; si tradirebbe il significato più autentico di questa impostazione, che ha validi fondamenti ed una valenza formativa rispettabile. Rappresenta per altro un passaggio significativo nelle abitudini professionali degli insegnanti, ben disposti all’individualismo e sempre sospettosi dei lavori di gruppo. Non bisogna, però, farne una questione di moda per ricalcare modelli professionali prestigiosi come quelli scientifici o aziendali
E’ opportuno, ad ogni buon conto, non farsi molte illusioni sulla praticabilità dell’interdisciplinarità e sulla sua efficacia; siamo eredi di una storia in cui molti sono stati i tentativi di unificazione del sapere e nessuno dei quali è andato a buon fine; la molteplicità dei saperi e dei linguaggi è per certi aspetti irreversibile. Ma il tentativo va sempre fatto ed è quello che può fornire elementi di comprensione e di valutazione critica della realtà. La tensione verso l’unità del sapere fa vedere quali sono le zone di frontiera tra le varie discipline e il loro grado di parentela e ci ricorda come la chiusura dentro uno specifico sapere non crea cultura, non dà intelligenza delle cose.
C’è un’esigenza di superamento dei confini dei saperi particolari per attingere, come suo orizzonte problematico, l’unità delle cose, che bisogna sapere coltivare e alla quale dal punto di vista didattico risponde l’interdisciplinarità.
Per ultimo. Se gli insegnanti nell’attività interdisciplinare fanno lavoro di gruppo, sarebbe alquanto sorprendente che non lo facessero anche gli alunni.
E questo è un problema aggiuntivo.




Dare di più a chi ha di meno

di Raimondo Giunta

I lunghi mesi della pandemia hanno accentuato le disuguaglianze nella società e di conseguenza anche nella scuola, dove già erano  forti per la diversità di non pochi fattori contestuali, per le diverse condizioni di  ogni singola scuola, non derivanti soltanto da carenze materiali e strumentali, per la diversità delle condizioni familiari di ogni singolo alunno.
L’impegno straordinario delle scuole, non adeguatamente apprezzato come sarebbe stato giusto, ha impedito che ci si trovasse oggi di fronte ad un vero disastro educativo; ci si trova, comunque, davanti a seri problemi, perché solo in parte si sono potuti arginare i danni provocati dalla chiusura delle scuole.
Con le antiche fratture e con quelle nuove, però, col miglioramento della situazione epidemiologica bisogna fare i conti; tra quest’ultime e che bisogna curare si colloca la lacerazione dei rapporti sociali tra gli stessi studenti, tra gli studenti e la scuola, messi in crisi dai necessari provvedimenti per tutelare la loro salute e quella del personale della scuola.
In quest’opera necessaria di ricomposizione di ogni singola comunità scolastica non si può dimenticare che diverso è stato il peso che ha dovuto sostenere ogni alunno o per mancanza di strumenti e di spazio o per la presenza  in famiglia  di morti e di malati o per familiari allontanati dal lavoro o impediti nelle proprie attività.

Una risposta a questi problemi bisognava darla e tentarla. Si possono legittimamente nutrire tutti i dubbi di questo mondo sulla qualità e pertinenza delle iniziative proposte dal Ministero, ma non si poteva restare inerti.
Il piano straordinario di interventi tesi ALL’AMPLIAMENTO DELL’OFFERTA FORMATIVA vuole ispirarsi al modello di “scuola inclusiva” e trova fondamento nell’art. 31, comma 6, del D. L n. 41 del 22 Marzo 2021 e nel DM n48 del 2 marzo; è stato ulteriormente definito con la nota n. 643 del 27 aprile e con il decreto dipartimentale n. 39 del mese di Maggio.
L’intenzione è quella di costruire un “ponte formativo” tra ciò che è successo negli ultimi tempi e ciò che si spera di potere fare nel nuovo anno scolastico, se si sarà riusciti ad avere ragione della pandemia.

Il ponte formativo non dovrebbe essere costituito con i soli mattoni del recupero delle competenze di base e col consolidamento delle discipline, ma anche e forse soprattutto con la promozione del “recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti”. Scompaiono dall’orizzonte il Piano Integrazione degli Apprendimenti e il Piano di Apprendimento Individualizzato dell’anno passato, calibrati sul piano cognitivo e senza altra ambizione formativa se non quella di rimettere in sesto il patrimonio di conoscenze e di competenze di ogni singola classe e di ogni singolo alunno.

E’ una scelta giusta?
Oggi, nei nuovi provvedimenti si può individuare un netto spostamento di attenzione verso il recupero di socialità, di cui sarebbero stati privati i ragazzi e i giovani, anche se in questo specifico compito il mestiere della scuola è un po’ improvvisato. Nella nota 643 del 27 Aprile 2021 vien detto, infatti, che “le modalità più opportune per realizzare “il ponte formativo” sono quelle che favoriranno la restituzione agli studenti di quello che più è mancato in questo periodo: lo studio di gruppo, il lavoro in comunità, le uscite sul territorio, l’educazione fisica e lo sport, le esperienze accompagnate di esercizio dell’autonomia personale.  In altri termini, attività laboratoriali utili al rinforzo e allo sviluppo degli apprendimenti, per classi o gruppi di pari livello”.

Se con il Piano Integrazione degli Apprendimenti e il Piano Individualizzato di Apprendimento ci si trovava nel consolidato terreno della scuola che istruisce, dissodato, arato e seminato con il consueto lavoro dei docenti, con il Ponte Formativo si pretende di più e qualcosa di diverso.
La scuola, per assolvere questo arduo compito educativo, recita la suddetta nota, ha necessità di modalità scolari innovative, di “sguardi plurimi”, di apporti differenziati.  Occorre una scuola aperta, dischiusa al mondo esterno.
Aprire la scuola significa aprire le classi ai gruppi di apprendimento; aprirsi all’incontro con “altri mondi” del lavoro, delle professioni, del volontariato; come pure aprirsi all’ambiente; radicarsi nel territorio;  realizzare esperienze innovative, attività laboratoriali.
Si tratta di moltiplicare gli spazi, i luoghi, i tempi, le circostanze di apprendimento, dentro e fuori la scuola”.

Gli sguardi plurimi e gli apporti differenziati evocano i contributi del mondo esterno alla scuola e di questi non si dovrebbe/potrebbe fare a meno, se il lavoro che sa fare la scuola non  è considerato sufficiente per costruire il nuovo ponte formativo… Ci si deve chiedere allora se a questo vasto programma di interventi, che con i PON si prolungano fino nel 2022, non sia sottesa l’ipotesi  che i danni della socialità siano più gravi delle smagliature nel possesso dei saperi e delle conoscenze e anche l’altra  che forse oltre alla pandemia sia stata la mancanza di questi sguardi e di questi apporti ad avere creato le  condizioni per l’insuccesso di tanti alunni.
Dubbi e perplessità legittimi.

Tutti i provvedimenti presi a partire dal mese di marzo dicono con inconsueta chiarezza che la missione del momento per la scuola  è quella di DARE DI PIU’ e di DIVERSO.
DI PIU’ a chi ha ed ha avuto di meno e forse di DIVERSO a tutti . L’obiettivo generale che si propongono è quello di contrastare la povertà e l’emergenza educativa; ma ce ne è anche uno  particolare, ma di assoluto rilievo, che è quello “di contrastare l’emergere di una nuova questione meridionale, segnata da un maggiore rischio di dispersione educativa”(art. 4 decreto dipartimentale  del 14/5/2021).
Per quest’ultimo, però, ci vorrebbe qualcosa di più di tutte le risorse predisposte ai sensi dell’art. 31 del DL n. 41 del 22 marzo 2021 e dei 40 milioni messi a disposizione col DM. 48 del 2 marzo 2021.

 

Dare a scuola di più a chi ha di meno è da sempre lotta contro le disuguaglianze.
Ma non è una   questione che riguarda solo singole persone, ma come si sa e come si individua dall’insieme dei provvedimenti presi dal governo, è anche una questione di intere comunità e di interi territori.
Ragione per cui, pur interagendo le due questioni, si dovrebbe distinguere in questa lotta ciò che manca alla singola persona e ciò che manca ad una comunità, per distinguere ciò che deve essere fatto per le persone, da ciò che va fatto per i singoli territori.

E allora a che cosa ci si riferisce quando si parla di ciò che manca o di ciò che non è sufficiente?
Mancano davvero gli sguardi plurimi e i rapporti col mondo esterno?

Ci si riferisce forse e anche alle risorse, culturali, materiali e finanziarie di cui dispongono alunni e territori?
Alla mancanza di sostegno individuale per gli alunni in difficoltà? All’assenza di attenzioni per i ragazzi disagiati?

Alla modestia dell’interesse per apprendere?
Alla povertà del patrimonio linguistico, strumentale e cognitivo di tanti alunni?
Alla qualità degli istituti?
Alla qualità degli insegnanti?
Sono tutti problemi di un certo rilievo e non tutti si risolvono con la restaurazione della socialità infranta degli alunni, perché ognuno di essi richiede specifico lavoro e se risolti aiuteranno con molta probabilità a sanare le fratture che nel seno della società e della scuola si solo allargate negli ultimi due anni.
L’ identificazione esatta di ciò che manca agli alunni e ad una comunità è condizione per trovare in modo realistico e razionale le soluzioni e per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad ogni ragazzo, che varca le soglie di un istituto scolastico, di raggiungere le mete che gli sono congrue e proprie e di essere alla pari di tutti gli altri. Lo dice anche la Costituzione.

Credo che l’apertura culturale e pedagogica dei provvedimenti e delle misure prospettate sia sostenuta da una individuazione generica e debole dei problemi da risolvere. Si parla di rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e “RELAZIONALI” (mese di giugno); di rinforzamento e potenziamento delle competenze disciplinari e della “SOCIALITA’” (mesi di luglio e agosto) e addirittura di RIQUALIFICAZIONE e ABBELLIMENTO degli edifici scolastici (mese di settembre?), accompagnati, però, da interventi per studenti stranieri, da iniziative di accoglienza, da sportelli ad hoc per bisogni educativi speciali.
Tanta generosità, ma anche tanta indeterminatezza.
C’è un investimento di risorse e di energie sulla periferia dei processi di apprendimento (animazione socio-educativa, artistica, ambientale e sportiva) e una rituale citazione dei problemi di apprendimento.
Ci voleva e ci vuole più innovazione pedagogica, più aiuto personalizzato, più senso da dare alla scuola e ai saperi e si è scelto la via di fare un po’ o tanto di più; appunto in quantità, ma non in qualità.

La prima e indiscutibile funzione della scuola è quella conoscitiva; il primo compito della scuola è dare a tutti gli alunni le conoscenze e i saperi, che usciti fuori sono indispensabili per essere in grado di inserirsi nel mondo del lavoro e per partecipare da cittadino alle vicende della propria comunità, se ne ha voglia: è su questo piano che si disegna il compito di dare ciò che manca e con tutta evidenza questo compito  è una responsabilità  imprescindibile della scuola in qualsiasi tempo e soprattutto nei giorni post-pandemici. Occorre tracciare lo spazio tra ciò che si deve fare e ciò che manca e cercare di colmarlo, essendo chiaro che può trattarsi anche di una differenza tra ciò che è la scuola e ciò che è l’alunno che ha bisogno di più. Una differenza che può essere attenuata o cancellata, modificando le caratteristiche dell’essere e del fare scuola. Alla scuola compete prendere in carico le differenze tra sé e la propria popolazione e vedere quali sono quelle che con strumenti propri può/deve eliminare.




Il posto giusto per qualche esercizio di libertà

di Raimondo Giunta

Non credo che le classi dirigenti della nostra società siano molto preoccupate se la scuola non rende migliori le nuove generazioni rispetto a come erano quando hanno incominciato a frequentarla. A loro interessa solo che escano dalla scuola come quelle che le hanno preceduto e che fuori sgomitano, competono, confliggono, si adattano e si fanno i fatti propri.
Unica preoccupazione delle classi dirigenti è che le nuove generazioni, dopo il lungo tirocinio scolastico, siano in grado di adeguarsi alle condizioni di vita e di lavoro che sono state predisposte.
Significa che amerebbero avere gente che non crea problemi, che si rende utile dove e quando e ogni volta che dovranno svolgere una qualche mansione.
Che siano collaborativi e anche autonomi, ma fin dove è stato stabilito che lo possano essere.

Per un obiettivo di questa portata operano, si impegnano, intrigano, sollecitano con i tanti mezzi a disposizione e con le dovute alleanze per ridurre al minimo il margine di autonomia del sistema di istruzione e di ogni singolo istituto; solo a questa condizione potranno avere una società a propria immagine e somiglianza.
Per volere le nuove generazioni integrate e fidelizzate ci vuole, infatti, un’educazione apposita, una continua opera di convincimento e di persuasione.
A questo evidente e consapevole impoverimento pedagogico pensano che si possa ovviare magnificando le mille luci della modernizzazione, dei nuovi ambienti di apprendimento, della padronanza delle nuove tecnologie; inneggiando ai miracoli quotidiani del fare nei tanti laboratori, che manderanno in soffitta le aule e le classi.
Per fortuna quelli che comandano o che hanno voce grossa in capitolo anche nella nostra sgarrupata democrazia, non sono diventati i padroni della scuola o meglio non sono ancora riusciti a diventarlo.

Nonostante i loro mai smessi tentativi di condizionare vita e destino del sistema di istruzione, lo spazio della scuola per la combattività di parte del corpo docente, delle associazioni professionali e dei sindacati di categoria, è ancora il posto giusto per qualche esercizio di libertà di pensiero; è ancora il posto giusto dove è possibile col proprio lavoro e con le proprie idee mantenere viva la speranza o l’illusione di dare un contributo con la formazione dei giovani per una migliore qualità della convivenza.
E’ l’ultima trincea di quelli che non s’arrendono al mondo come è diventato e come lo si vuole fare diventare; l’unica occasione per confliggere con le pressioni a fare dei giovani, persone silenti, disponibili e adattabili a qualsiasi situazione e condizione venga loro imposta.
La scuola, se si vuole, può essere ancora il luogo dove si apprende che la verità di una parola ,non è relativa allo statuto di colui che la enuncia (B.Rey).
La libertà della scuola risiede nella capacità di essere fedele ai propri valori e alla propria missione, che è quella di fare amare il sapere e di preparare al mondo del lavoro, alla responsabilità di cittadino e all’autonomia personale le nuove generazioni, senza farsi molte illusioni su quello che poi succederà nella società.
Gli insegnanti e i dirigenti scolastici, se credono che alla scuola tocchi un margine di indipendenza rispetto al sistema socio- economico ,devono in ogni singolo istituto garantire che ci sia lo spazio per la riflessione ,per la comprensione e per gli interrogativi sul significato della propria esistenza.
Devono ritenere imprescindibile che si lavori per formare e per esercitare i giovani a ragionare correttamente e per fare capire che le pretese di dire la verità devono passare al vaglio della ragione.
Una scuola che si ponga questi obiettivi è una scuola che non ha fretta, che si dà del tempo per arrivarci.
Lo spazio conquistato a scuola per il pensiero, per il confronto e per il dialogo è uno spazio di libertà e per la libertà e bisogna difenderlo da qualsiasi forma di intromissione o di intimidazione.
Per un motivo molto semplice.
La scuola che vuole educare nel senso che si è tentato di definire è la scuola che ha come suo insostituibile punto di riferimento i valori della Costituzione. “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” (art.9,comma1);
”L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (art.33,comma1)




Le tante ragioni della dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

Nei giorni che precedevano l’inizio delle lezioni, finché sono stato in servizio, impegnavo il collegio dei docenti e i gruppi di coordinamento a discutere sui risultati dell’anno precedente e in modo particolare su quelli che fanno parlare di dispersione scolastica.
Il proposito era quello di vedere come e se era possibile contenerla.
Trasmettevo ai miei docenti la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

La definizione degli insuccessi scolastici come dispersione non mi è mai piaciuta e non mi piace ancora. Sembra quasi che si tratti di un fenomeno naturale, che si verifichi a prescindere dalle decisioni degli uomini, dalle scelte fatte dagli uomini.
Una volta con più precisione si parlava di selezione, ma il termine era ed è sovraccarico di molteplici significati contrastanti e pro bono pacis non lo si usa più, tranne negli articoli di quegli intellettuali che nei quotidiani la reclamano ad alta voce per dare prestigio alla scuola e al sapere e anche per darsi un alto contegno…

Che la dispersione scolastica (ci atteniamo alla vulgata ministerial-pedagogica..) continui a verificarsi nonostante le lotte che le sono state dichiarate è un fatto grave sul quale è giusto soffermarsi a ragionare.
Senza dimenticare che nel fenomeno della dispersione oltre agli abbandoni bisogna includere ripetenze e scarso livello di conoscenze e competenze.

A determinarla nelle proporzioni che vengono messe in luce dalle statistiche ministeriali non sono solo le scelte di parte sempre minoritaria del corpo docente, ancora arroccata a difesa di procedure di valutazione che non hanno alcun valore pedagogico e docimologico; a determinarla contribuiscono la disarticolazione dei rapporti tra enti locali e istituzioni scolastiche, ma anche e in modo preponderante la stessa scuola come sistema.
La scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale non è priva di responsabilità in questo campo.

L’apertura della scuola e il sostegno economico ,ma sempre in crescente riduzione(esenzione tasse, libri gratis, borse di studio, trasporto gratuito) non hanno realizzato le condizioni perché tutti potessero godere pienamente del diritto allo studio e avere le stesse chances di successo.
I pierini fino a qualche anno di studio si trovano accanto i gianni come compagni di classe, ma i primi concludono gli studi, fanno carriera si inseriscono nel mondo del lavoro, gli altri si disperdono, incespicano e a parità di talento fanno meno strada.

A scuola non si riesce a compensare lo squilibrio del patrimonio culturale ereditato dagli alunni; non ci si riesce perché alla fine non si comprende il meccanismo, la logica che impedisce l’integrazione dei “nuovi “alunni con la scuola e quali nodi della struttura scolastica vadano sciolti per consentirla.

Il problema non è di facile soluzione perché non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale, e non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.

Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti.
E’ importante considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica)che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita..

Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.

Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere.
Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno.

Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola. La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo.

Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono.
In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica.
Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola.

In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?

La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali.
La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.

Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire. Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana.

Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.

L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione.
L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D.Nicoli).

Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione. Non si può avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento

A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione.
Ma senza amore ,senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta.
Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.

Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).