Non c’è via di uscita

di Raimondo Giunta

Gli insegnanti sono a scuola in nome di una società che in diverse maniere e sempre più spesso non intende riconoscere il valore e il significato del lavoro che svolgono e del ruolo che esercitano nei confronti delle nuove generazioni.
Sono stati spogliati della loro autorevolezza; un fatto che si rovescia con effetti deleteri sulla credibilità della stessa scuola e che inquina e rende difficili i rapporti con le nuove generazioni.

Alla radice del disincanto e anche dell’ostilità nei confronti della scuola e degli insegnanti va collocata l’impossibilità per la scuola di mantenere le promesse che nel passato l’hanno accreditata come un’istituzione fondamentale e imprescindibile per il funzionamento complessivo della società: buona e rifinita preparazione civica e professionale degli alunni, certificazioni indubitabili e insostituibili a garanzia di sicuri processi di mobilità sociale.
Purtroppo, proprio quando la società incomincia a definirsi e a organizzarsi come società della conoscenza, la scuola fa fatica ad avere un’adeguata capacità di individuare nuovi orizzonti, nuove prospettive che la  possano collocare al centro dell’attenzione pubblica.

La scuola oggi non ha soluzioni pronte per una società problematica, mutevole, inafferrabile nella sua complessità; può riuscire a dare, invece, alle nuove generazioni, ma impegnandosi senza limitazioni di energie, strumenti che le rendano in seguito capaci di cercare eventuali soluzioni ai problemi che devono affrontare.
Il passaggio dalle certezze alla problematicità ha messo a soqquadro lo status sociale della scuola e degli insegnanti, ferito proprio per questo da un carico di sofferenza sociale che spinge spesso la sensibilità di parte del mondo professionale della scuola verso la nostalgia del tempo passato, piuttosto che verso un confronto serrato con il proprio tempo per orientarvisi.

La via d’uscita dal disagio della scuola e degli insegnanti  va cercata nella reinterpretazione della funzione conoscitiva del sistema di istruzione e nella valorizzazione della funzione educativa della scuola.
Non ci si deve chiedere solo che cosa i giovani debbano sapere e saper fare per affrontare il mondo che cambia; ci si deve chiedere che tipo di uomo, di cittadino deve uscire dalla scuola per affrontare il mondo che cambia.
Non credo, però, che questa ultima preoccupazione interessi molto.
Anzi, anche in modi che rasentano la brutalità si incita  a lasciar perdere con la teoria,  perché le nuove generazioni  possano immergersi nell’universo infinito della pratica.

Ma è davvero fuori dal mondo la proposta di Meirieu di differire il momento della strumentalizzazione delle conoscenze e di soggiornare più a lungo nei tempi in cui si deve far provare l’avventura intellettuale di capire com’è fatto il mondo e in cui si può cominciare a gustare il piacere di conoscere e di conoscersi? Può essere questa la sfida da raccogliere per risalire la china dell’apprezzamento sociale; può essere questa l’occasione per gli insegnanti per ripensare la propria professionalità, per arricchirla di una raffinata capacità di riflessione e di ascolto, per alimentarla con dosi massicce di fiducia nei giovani e di speranza nel futuro. Il momento richiede un surplus di passione educativa e di cura delle persone e il mondo della scuola non si può permettere il lusso della rassegnazione.

 




Sulla scuola e sulla pedagogia, frammenti di riflessione

di Raimondo Giunta 

La pedagogia è l’attività di riflessione che si esercita sull’azione educativa per poterne delineare in modo persuasivo le finalità e le procedure ad esse congruenti. Riflette sull’educazione come oggetto e sull’educazione come progetto, soprattutto se e quando si vuole mettere in campo un’idea di umanità e di società che abbia come valori fondanti la libertà, la dignità e la responsabilità delle persone.
Ripensando l’azione educativa nei suoi molteplici aspetti è possibile migliorarla e renderla adeguata alle varie e diverse esigenze umane per le quali è indispensabile. Con questa necessaria e continua opera di riflessione la scuola può essere ancora un luogo di speranza per i giovani e superare le difficoltà che la stanno soffocando.

La pedagogia è l’educazione che si pensa, che si parla, che si giudica, che si progetta.
“La pedagogia è l’insieme delle strategie che l’intelligenza dispiega in una società, affinché l’arbitrarietà di un’educazione bene o mal fatta ceda il posto alla scelta di fare meglio” (E. Durkheim-1911).
La pedagogia come scienza è un tributo rituale alla cultura di tipo scientista; sarebbe peraltro una scienza senza l’onere e la responsabilità di portare le prove. . .
La pedagogia non è nemmeno l’insieme delle cosiddette scienze dell’educazione, in grado forse di rispondere alla domanda “COME”, ma non a quella “PERCHE’ ” educare.

Come ogni attività che abbia come campo d’applicazione ciò che è umano, l’attività educativa rinvia al discernimento, alla capacità di cogliere le occasioni e di decidere alla luce di conoscenze solide e con l’aiuto di tutti i mezzi disponibili nella consapevolezza dei problemi da affrontare. In quanto praxis l’educazione non può pretendere di avere fondamenta inconfutabili. Il suo discorso può essere allora più che una dimostrazione un racconto o l’esplicitazione di un “exemplum”.
Pensare l’educazione come praxis aiuta ad accettarla come incontro con l’alunno con tutte le sue difficoltà e resistenze. “L’educazione è l’insieme dei processi che permettono ad ogni bambino di accedere progressivamente alla cultura, essendo la cultura ciò che distingue l’uomo dall’animale” (O, Reboul, 1989, La filosofia dell’educazione).

“L’uomo non è uomo se non per l’educazione”(Kant).

Il rifiuto della pedagogia è un esercizio inutile di iattanza accademica che stride con la problematicità e la drammaticità dell’azione educativa nella società contemporanea. Istruire senza educare è un mito di stampo positivistico che non funziona più. Istruire è sempre scegliere un tipo d’uomo e di società anche quando si pensa di non farlo. Nel processo formativo ci si illude di evitare le scelte di valore e il rifiuto della responsabilità educativa è ingiustificabile in un momento in cui molti dimostrano di non volersela prendere. La pedagogia buona è quella schierata per un sapere che libera e pensa che questa liberazione si costruisca attraverso il sapere.
La pedagogia è situata all’incrocio tra educazione reale, educazione possibile ed educazione “sperata”.

La riflessione pedagogica è indispensabile per contestualizzare il discorso formativo e per poterne rinnovare le pratiche in una situazione di sovvertimento continuo dei saperi e dei paradigmi scientifici. I curricoli da realizzare a scuola devono essere aperti, flessibili e innovanti nei contenuti; non definitivi come lo sono i diversi paradigmi della ricerca scientifica, ma devono conservare una certa stabilità nelle finalità formative.
E’ il modo per mettersi in sintonia con il mondo che cambia, salvaguardando la loro funzione educativa.

L’attività educativa ha una dimensione naturale di prefigurazione, di progettualità, di futuro, di liberazione e solo per abdicazione può essere piegata ad una logica dell’adattamento alle condizioni date. Senza finalità non c’è attività educativa.
Le finalità ci conducono a scelte di valore che oltrepassano sempre quelle pragmatiche dell’efficacia e dell’efficienza, alle quali si finisce per rifugiarsi talvolta in nome di un malinteso senso di razionalità. Le finalità devono aiutarci a comprendere in quale mondo vogliamo vivere, quale avvenire speriamo per i nostri figli, quali saperi occorre trasmettere, quale tipo di cultura si dovrebbe privilegiare. La problematizzazione delle finalità educative è pedagogia.

C’è buona educazione dove e se si coltiva la libertà dell’uomo, quando ci si può costruire in libertà e dignità a partire dalle condizioni in cui ci si trova. Educare, allora, per promuovere la libertà di ciascuno e non per agire in conformità ad un gruppo di appartenenza, anche se non si possono mettere in opposizione emancipazione e integrazione sociale. Il principio di libertà è essenziale nell’educazione, se non si vuole che essa diventi manipolazione; quello di integrazione, se si vuole valorizzare la dimensione sociale della persona.
Solo in quanto soggetto, autore e attore della propria vita capace di mettersi in rapporto con altri soggetti e con le appartenenze che li caratterizzano (etnica, religiosa, politica, locale etc. ) la persona può dare un senso e una direzione alla propria esistenza. Il soggetto di cui si deve occupare la pedagogia è il soggetto che costitutivamente è posto tra gli altri.

Il buon educatore è colui che fa posto all’esistenza dell’alunno, alla sua singolarità tra programmi, regole e valutazioni e ne capisce, quando sopravvengono, le sue resistenze, le sue difficoltà, i suoi rifiuti.
L’educatore si interroga sulle resistenze dell’altro e non tenta di violarle. Per paradosso si può dire che compito dell’educatore è quello di educare gli ineducabili.
Il momento educativo si realizza nell’accettazione di un qualcuno che non si lascia dimenticare e che non vuole essere ricondotto all’anonimato di un gruppo indifferenziato (classe, istituto, ambiente).
E’ impossibile e non ha senso pensare di dominare l’irriducibilità del soggetto. Questo ci ricorda la buona pedagogia. “Andare fino in fondo all’esigenza di singolarità è darsi la più grande chance di accedere all’universalità”(P. Ricoeur).

L’educazione è una relazione asimmetrica, necessaria, ma provvisoria la cui attività deve scomparire man mano che comincia ad emergere l’autonomia del soggetto e la sua capacità di valorizzare le potenzialità, che lo distinguono.
Educare significa formare l’intelligenza e forgiare la personalità dell’alunno, accettarne l’estraneità e anche l’avversione, prenderlo com’è e rinunciare al rapporto di forza; curare l’umanità nelle relazioni pedagogiche. Proprio per questo vi è della sofferenza nel rapporto educativo, perchè ogni costrizione è una sconfitta.
Per educare bisogna avere dell’umiltà.

A scuola si deve coltivare la capacità riflessiva come requisito per esplorare il significato dei valori costitutivi della cittadinanza e per appropriarsi della dimensione sociale e problematica dei saperi. Ricondurre il sapere ai problemi che l’hanno generato è necessario per recuperarne la connotazione esistenziale, per comprendere cosa sia una “theoria” autentica. Curiosità e spirito critico sono le espressioni naturali dell’atteggiamento problematico, che occorre orientare e sviluppare: la prima naturalmente proiettata verso il futuro, il secondo alla ricerca dei fondamenti dei problemi.

L’obiettivo più alto dell’educazione è comprendere; più alto ancora di quello di riuscire. Educare perchè si impari a porre e a porsi delle domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare gli strumenti per potere discutere e dialogare, per potere resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze. La scuola dovrebbe essere un luogo dove si può sbagliare, senza rischiare nulla (Meirieu).
“La classe è un luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di colui che la pronuncia”(B. Rey).
Una pedagogia aperta deve misurarsi, però, con quella parte di disordine, di negoziazione che essa comporta. In pedagogia non è possibile aprire il registro delle certezze.

La scuola deve mediare tra ciò che vuole la società e ciò che vuole la famiglia: ci sono cose, però, che lo Stato per conto della società non può fare e cose che la famiglia non può pretendere; la scuola non sostituisce la famiglia, dà una propria socializzazione, che non può prescindere dalla quella familiare (che occorre conoscere e interpretare e se necessario contrastare). D’altra parte la famiglia non può pretendere che la scuola sia la semplice prosecuzione della propria cultura d’appartenenza.

La scuola si definisce in separazione dalla vita e dalla quotidianità; ci sono barriere che nessuna parola d’ordine sull’apertura può cancellare.
Andare oltre l’aula non può significare sovvertire la logica della cultura scolastica, ma superare i dispositivi tradizionali che fanno capo solo all’aula, misurarsi con la dimensione dell’attività, della riflessività, della contestualità e dell’esperienza.

Il mondo della scuola non può chiudersi nel recinto rassicurante delle proprie tradizioni e della propria identità, ma deve aprirsi al cambiamento e alla riflessione sulla propria collocazione nella società. Il vecchio paradigma formativo da cui si cerca con fatica di uscire dipendeva essenzialmente dalla qualità degli insegnanti, aveva vincoli di spazio e di tempo, era imperniato essenzialmente sul linguaggio verbale e disponeva di tecnologie limitate. Il modello formativo che lo deve sostituire evoca l’auto-apprendimento e limita il ruolo del docente; tende a privilegiare il gruppo di lavoro come comunità d’apprendimento, in modo che i discenti possano imparare interagendo e dialogando tra di loro; affianca a quelli verbali altri linguaggi e vive in ambiente tecnologico.

Uno dei compiti più difficili da affrontare oggi è quello di ricondurre i giovani cresciuti nel mondo virtuale alla serietà dei problemi del mondo reale. Rompere l’involucro gratificante dell’irrealtà per misurarsi con le fatiche quotidiane di conoscenza e di lavoro non sarà facile, ma è la nuova missione educativa della scuola e degli insegnanti.

L’educazione dei giovani è un’impresa collettiva e non il risultato casuale di contributi individuali degli insegnanti e di altre figure di adulti. Il problema è lavorare insieme, imparare l’uno dall”altro; essere una comunità professionale, dove si è reciprocamente risorsa per l’altro. Dare e ricevere aiuto non significa essere incompetenti, ma partecipare alla ricerca comune per rendere migliore l’apprendimento dei giovani.

Una buona scuola è una comunità di adulti che prende in carico una comunità di alunni, e non un guazzabuglio informe di ore di lezioni.




Parole, parole, parole: usarle bene per mettere ordine nel mondo

di Raimondo Giunta

‎La parola ci aiuta a tenere a bada, a regolare la molteplicità delle cose che fanno parte del nostro mondo e delle nostre esperienze . Ci costringe a mettere ordine nelle nostre idee, a dare una direzione alla nostra volontà.
In questo modo crea lo spazio delle nostre relazioni e la possibilità, se lo si vuole, di metterci d’accordo, di comunicare, di dialogare. Nella parola scompare la particolarità, l’individualità della cosa; vi rimane attaccata la sua essenza, l’eidos, come dicevano i greci, l’immagine che ci facciamo della cosa e che per questo diventa il significato del nome che la indica.
La parola “orale” è immediata, fisica, contestuale; si accompagna alle emozioni e le provoca. E’ la parola della conversazione, dell’ascolto, della rabbia, della gioia, del pianto. La sussurri, ma la puoi anche gridare, mettendoci tutta l’anima. la Parola scritta è di suo astratta, riflessiva, malleabile modificabile, reversibile. E’ muta e per questo adatta al dialogo interiore. E’ la parola da leggere, che è nello stesso tempo un vedere e un ascoltare, anche se la pronunci in silenzio; ma richiede tempo, richiede la separatezza del raccoglimento; richiede attenzione: risorse tutte in via di estinzione nell’universo della chiacchiera multimediale e della nostra vita quotidiana.


La funzione normativa della parola si esprime al massimo delle sue possibilità nel diritto, dove serve a inquadrare la fluidità delle azioni e dei comportamenti per ricavarne effetti dal punto di vista giuridico. Ma in questo caso si lascia alla “prudentia” il compito non di dedurre, ma di interpretare il suo vero significato, la sua forza cogente e poi di applicarla, nella consapevolezza che la parola del diritto, RAGGRUPPA, RACCOGLIE, IDENTIFICA, METTE A NORMA LA MOLTEPLICITA’ DEI FATTI, ma non li rappresenta tutti. Consente, infatti, varianti ed eccezioni. La funzione normativa e regolatrice della parola si esalta nella parola scritta, alla quale si deve la possibilità dell’accumulazione e del trasferimento delle esperienze per la sua radicale sinteticità. Non consacra nella tra-dizione l’intera memoria sociale, l’intera nostra storia, perchè non potrebbe farlo, neanche se lo volesse.
Ma quel che la parola scritta può trasmettere lo consegna con sicurezza, e di esso si può fare istruzione, perchè disponibile nei “testi”.
La riproducibilità dei testi fonda la modernità della ricerca individuale, del libero esame, di una soggettività padrona del proprio pensiero. Modifica un costume collettivo rispetto al principio di autorità e al concetto di verità. Ci si istruisce attraverso i testi, ma non si dovrebbe dimenticare mai quanta parte del “mondo dell’esperienza” non vi è più rappresentato, che in essi son date delle risposte a domande che bisogna sempre tenere presenti o recuperare. Senza testi scritti non si può fare scuola. La scuola trasmette saperi e conoscenze perchè il mondo dell’esperienza viene riassunto e recuperato attraverso quanto è stato scritto e riprodotto nelle discipline scolastiche. Il testo a scuola è il sostegno dell’oralità nella trasmissione dei saperi, il punto di partenza della conversazione educativa e del dialogo e non ha alcun senso rinunciarvi (si dovrebbe sempre ricominciare daccapo).
Impone la logica stessa del modo di insegnare.
E’ insegnabile, infatti, tutto ciò che entra nell’ordine del discorso, e può essere ricostruito nella sua identità e struttura. La scrittura deve essere posseduta da tutti per potere partecipare alle pratiche sociali che da essa vengono trasmesse e rappresentate; proprio per questo va salvaguardata dalle pratiche educative che la sottomettono ad altre priorità, che ne misconoscono le potenzialità formatrici. La scrittura stabilizza la nostra esperienza e differisce l’espressione immediata delle nostre reazioni, delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, delle nostre intuizioni collocandole nello spazio purificato della riflessione, con la quale diventano risorse del nostro pensiero. La scrittura mezzo di distanziamento e di riflessione nel mondo dell’immediatezza. Per questo è necessario a scuola valorizzare in tutti i modi, tutti i modi della scrittura. L’ingresso nella scrittura è il passaggio obbligato per ogni forma di autonomia intellettuale.




L’insegnante, il sapere, l’alunno

di Raimondo Giunta

A scuola, spesso e con diverse motivazioni, l’attenzione prevalente degli insegnanti è dedicata alle proprie discipline, che di fatto finiscono per dirigere il loro comportamento e per provocare, anche per sollecitazione esterna, l’assillo di non potere portare a compimento quanto stabilito all’inizio dell’anno scolastico.
Le prescrizioni curriculari in molti casi assorbono e condizionano la didattica e le modalità delle relazioni educative. Non sono pochi gli insegnanti che ne soffrono. Vorrebbero una scuola più vicina alla sensibilità e ai problemi degli alunni. Vorrebbero una scuola aperta al mondo e invece devono sbrigarsela con una miriade di carte, che irrigidiscono la libertà di movimento di cui si nutre la buona qualità dell’insegnamento.

La scuola non riesce a trovare le parole giuste per indicare le cose, gli esseri e le relazioni che popolano lo spazio di un istituto. Ha smesso di usare quelle di una volta, ma quelle nuove nascondono la complessità della vita dei processi educativi. Avendo dichiarato la guerra a tutto il lessico etico-affettivo della dedizione, della passione, della funzione sociale del lavoro del docente per costruire l’immagine di un professionismo a 24 carati (nelle regole, nelle procedure, nel rapporto di lavoro, nel linguaggio) non si è compreso che è diventato inafferrabile il mondo su cui si lavora e per cui si lavora.

Anche se la disciplina scolastica, il sapere sono l’unica ragione che spieghi e che fondi il rapporto docente/alunno, una volta che questo viene stabilito, lo scopo di tutto non può non essere che quell’alunno, che si ha davanti con tutti i suoi tratti umani e sociali  .Il sapere  non è la divinità alla quale bisogna sacrificare in qualsiasi modo la natura indocile di qualche alunno.
A scuola gli insegnanti non sono solo gli officianti del rito quotidiano delle lezioni, ma anche le guide dei propri alunni nel loro percorso di crescita umana e professionale.

 

Non c’ è buona didattica, non c’è buona scuola, non c’è formazione, se non c’è rispetto per l’alunno, se non si ha fiducia nell’alunno, se manca affettività nel rapporto educativo.
Cose che si devono poter sentire e che se non ci sono, possono rendere sterile tutto il lavoro che si svolge a scuola. Nel rapporto educativo non può esserci prima il professionismo e poi l’affettività, nè rendere questa strumentale all’altro.
Il professionismo da solo non funziona: è fondamentale e preliminare l’accettazione del giovane da formare e da educare. Il vuoto dell’azione formativa dei sistemi fondati sul professionismo è evidente. Il professionismo, le teorie organizzativistiche sono stati i presupposti teorici per giustificare i sistemi razionali e burocratici di reclutamento dei docenti e la loro sopravvivenza in ambiente educativo. Le appendici metodologiche, comunicazionali, sociologiche del corredo professionale, approssimativamente collegate al sapere disciplinare di un docente spesso non riescono a modificare le situazioni di stagnazione delle relazioni educative.

E’ un mestiere quello di insegnante che si può e si deve  costruire, ma che si può efficacemente esercitare solo se è vissuto come parte centrale e significativa delle propri interessi umani. Il ciclo del professionismo della funzione docente non è finito, ma fa fatica a dare risposte positive alle difficoltà attuali .

Ha accompagnato il docente nel passaggio dalla scuola d’élite a quella di massa.
E’ sembrato essere la sua emancipazione dalla cultura della vocazione, della missione, da quell’aura di sacerdozio laico che circondava la funzione docente.

La difficoltà, però, rimane sempre la stessa: riassumere in termini professionali la ricca e complessa rete di rapporti umani che scaturiscono dentro l’aula scolastica.
La contrattualizzazione di tutti i tipi di relazioni dentro la scuola è andata oltre la legittima esigenza di giustificazione di ogni scelta e di ogni fatto che si registra nella sua vita quotidiana. Ha irrigidito e impoverito la vita scolastica. Per rimediare qualcosa bisognerebbe riscoprire gli aspetti artigianali, sapienziali, genitoriali della funzione docente e accompagnarli con gli strumenti delle scienze umane (psicologia, sociologia, comunicazione etc.) Il mondo dei fini, in una parola, non è un imbarazzante e inutile peso sul lavoro dentro la scuola.
E’ la premessa da cui iniziare e il termine verso cui arrivare.




Quale legame fra modello politico e modello educativo?

di Raimondo Giunta

Il discorso funebre di Pericle per gli opliti morti in battaglia nel primo anno della guerra del Peloponneso, riportato da Tucidide, è un inno al modello politico democratico della propria città, prima di essere un omaggio a quanti erano morti per la propria patria.
Giustamente citato e riprodotto ogni volta che si vuole distinguere la democrazia da qualsiasi altro regime politico.
“Mi dedicherò, invece, all’elogio di questi caduti, ma solo dopo aver chiarito in primo luogo sulla base di quali principi di comportamento siamo pervenuti a questa situazione, con quale regime politico e in virtù di quali caratteristiche personali il nostro impero è divenuto grande” (La guerra del Peloponneso II 36, 4).
Un regime in cui tutti si trovano in una condizione di parità e si può eccellere negli onori pubblici per meriti personali e non per l’appartenenza ad un determinato ceto; un regime in cui coesistono la tolleranza nei rapporti privati e la fedeltà alle magistrature e alle leggi, soprattutto se sono state concepite per difendere le vittime delle ingiustizie. Un regime che assicura allo spirito numerose occasioni di sollievo dalle fatiche con gare di diverso genere e con feste religiose. Per quanto riguarda l’educazione, non ci sono costrizioni per pervenire al coraggio e per diventare capaci di affrontare i pericoli. Ad Atene, afferma Pericle, si ama ciò che è bello nella semplicità e il sapere senza mollezze e chi non partecipa alla vita pubblica viene considerato un cittadino inutile.
“E noi stessi esprimiamo giudizi o discutiamo come si deve sulle questioni, dal momento che non riteniamo che le parole siano un ostacolo per l’azione, ma piuttosto che lo sia il non essersi informati attraverso la parola prima di affrontare l’azione che deve essere intrapresa” (Ibidem II, 40, 2).
Pericle fa della democrazia il regime che rende liberi e che è sostenuto da uomini che vogliono essere liberi.

Nella mente di Pericle quel modello politico era consapevolmente legato ad un modello educativo: ”In conclusione affermo che la nostra città, nel suo complesso, costituisce un modello di educazione per la Grecia e che nella mia opinione i nostri uomini, presi individualmente, mostrano una personalità sufficiente a ricoprire con disinvoltura i ruoli più diversi” (Ibidem II 41, 1) .

Proprio per questo Platone, che a proposito di modelli politici e di modelli educativi aveva altre idee, del discorso del grande ateniese farà una straordinaria satira nel Menesseno, riconducendolo alle dimensioni di una rituale, anche se eccezionale, prova di retorica funebre. Riconosceva, però, in questo modo l’importanza e il significato che aveva ancora nell’Atene del suo tempo. Il grande filosofo ateniese nella Repubblica aveva espresso la convinzione che ad ogni tipo di regime politico non possa non corrispondere un tipo particolare e preciso di uomo; vivrebbero in perfetta simbiosi. Per quanto riguarda la democrazia, orgogliosamente illustrata e rivendicata da Pericle, Platone, che non l’amava affatto, non si era dilungato in notazioni favorevoli di virtù.

“A parer mio, la democrazia si instaura quando i poveri hanno la meglio, e quelli della fazione opposta, in parte vengono sterminati, in parte esiliati. Coi rimanenti vengono equamente divise le cariche e i poteri, il più delle volte estraendoli a sorte”(557 A)”; ”Dunque, ripresi, questi e altri simili sono i tratti tipici della democrazia, la quale certamente HA TUTTA L’ARIA di essere una forma di governo civile, non autoritaria e pluralista, che sa diffondere un certo principio di uguaglianza agli uguali e ai disuguali”(558 C)L’anima dell’uomo democratico è una fortezza “vuota di nozioni, studi elevati, e di validi ragionamenti, i quali nella mente degli uomini prediletti dagli dei, costituiscono i più strenui guardiani e difensori”(560 C). I democratici sono persone ”che mettono al bando il pudore, chiamandolo stoltezza, che espellono la temperanza coprendola di insulti e dandole il nome di viltà; e così pure danno il benservito all’equilibrio e alla parsimonia nelle spese presentamdoli come spilorceria e rozzezza, grazie anche alla complicità di molti insidiosi desideri”(560 D); ”Chiamano buone maniere la prepotenza, libertà l’anarchia, munificenza la dissolutezza, coraggio la sfrontatezza. Non è forse questo il modo in cui un giovane da una formazione che fa leva sui desideri necessari passa alla più totale libertà e rilassatezza nel concedersi a desideri non necessari e niente affatto utili?”(561 A); e così via seguitando ”Hai fatto, disse lui, un quadro perfetto della vita dell’uomo tipico dello Stato in cui la legge è uguale per tutti”-(561 E)

Pericle e Platone hanno idee molto diverse sul modello di polis e sul modello di educazione, ma concordano sul fatto che il modello educativo debba corrispondere al modello di società; propongono un legame organico tra i valori e i principi che regolano un particolare regime politico con quelli che devono regolare l’educazione dei giovani. Nel convincimento siffatto emerge il proposito che la formazione del giovane debba essere funzionale alle condizioni della società in cui dovrà assumere il proprio ruolo di cittadino e di lavoratore. Non ha respiro un’educazione che non si proietti nello spazio pubblico e che in fin dei conti non abbia vita lunga e significativa. Problema serio; ogni società si aspetta un’educazione conforme ai propri valori e alle proprie necessità; non concede molto spazio e autonomia al proprio sistema di istruzione ed educazione, se pretende di elaborare valori e principi alternativi; in una parola alla pedagogia non si concede molta libertà in questo compito, perché in altre sedi vorrebbero occuparsene.
Sicuramente per quanto spazio si voglia e si possa dare alla funzione conoscitiva di trasmettere saperi e conoscenze, per come funziona oggi la società, per come funzionano le famiglie la scuola non può sottrarsi alle proprie responsabilità educative.
La pretesa di farla corrispondere in via esclusiva ai bisogni del mercato del lavoro non copre lo spazio che il sistema di istruzione e formazione di fatto viene ad occupare nella società. L’organicità tra progetto educativo e regime politico, che spicca nei modelli della Grecia Antica, dopo le esperienze drammatiche del Novecento nessuno ha l’ardire di proporla, anche quando ci si rende conto dell’insufficienza di processi formativi centrati solo su competenze professionali. E questo anche in regimi che di fatto o nominalmente si dicono democratici. L’educazione deve essere pluralistica, aperta, inclusiva, ma inflessibile su alcuni valori . Nei regimi democratici l’educazione deve tenere conto della società e deve tenere conto dei diritti della persona, i cui bisogni educativi non si risolvono interamente nella collocazione in un ruolo della società. In questa bivalenza e nell’autonomia della persona dalle ingiunzioni, che possono essere prevaricatrici della società, la pedagogia conquista la sua autonomia e si emancipa dagli obblighi istituzionali. E’ questa la sfida odierna; il sistema di istruzione non può non darsi un progetto educativo e questo deve essere aperto, rispettoso dei diritti della persona.




Errori a scuola e valutazione formativa

di Raimondo Giunta

“Gli errori sono le porte della scoperta”(J.Joyce)
“Pensare è andare da un errore all’altro”(Alain)
“Lo Spirito scientifico si costruisce su un insieme di errori rettificati”(G.Bachelard)
“Se gli uomini sono i soli a poter fare gli errori, sono anche i soli a poterli correggere”(G.Le Boterf).

Di simili citazioni se ne possono raccogliere tante altre, ma a scuola non si è riusciti a correggere il convincimento che l’errore sia una colpa di cui si deve rendere conto e di cui si deve pagare la pena, anche se come ci ricorda A.Giordan sono cinque secoli che l’errore è considerato come inevitabile nell’atto di apprendere, come inerente ai suoi processi.
Gli errori non sono colpe da condannare, nè imperfezioni da disprezzare.
Sono sintomi interessanti degli ostacoli con i quali si confronta il pensiero degli alunni.
Si collocano dentro il processo di apprendimento e indicano il progresso concettuale che bisogna ottenere (J.P.Astolfi).

L’ostacolo incontrato e non superato ha lo statuto di indicatore e di analizzatore dei processi intellettuali in giuoco.
L’errore segnala a volte un’incomprensione delle consegne da parte degli alunni o il loro disinteresse per l’argomento trattato o ancora la loro lontananza dalla cultura della scuola.
Può essere l’affiorare di concezioni proprie dell’ambiente umano e sociale di provenienza degli alunni; è prova del loro modo di ragionare.

L’errore può essere soltanto l’ostacolo creato dal modo in cui gli alunni agiscono e riflettono con i mezzi di cui dispongono. Non bisogna cercare l’errore, ma la logica che l’ha prodotto.
In altre parole l’errore è un’informazione, non una colpa e bisognerebbe finirla con le intimidazioni.
Bisogna accettare gli errori come tappe apprezzabili dello sforzo di comprendere dell’alunno e dargli i mezzi per superarli.
Non si deve perdere la memoria del cammino fatto dal sapere e dalla conoscenza, degli ostacoli, delle incertezze, delle vie traverse e dei momenti di panico che l’hanno contrassegnato.

Si è proceduto da sempre laicamente per tentativi ed errori: solo dove e   quando il sapere costituito vuole assurgere al ruolo di verità inconfutabile, l’errore si connota negativamente come devianza, opposizione, renitenza o rifiuto.
L’errore diventa imperdonabile solo in un contesto in cui la conoscenza non è ricerca personale, volontà di capire e risultato del dibattito e del confronto di opinioni e di teorie, ma trasmissione vincolante e dogmatica di saperi pre-costituiti; l’errore è imperdonabile dove il rapporto educativo non è fondato sul dialogo, ma sull’obbedienza ad autorità dichiarate indiscutibili; dove non si crea, ma si ripete; dove non si parla, ma si deve solo ascoltare. Se l’alunno non è il vaso da riempire, ma il soggetto autonomo che deve fare in proprio il cammino che porta alla conoscenza, l’errore diventa uno strumento straordinario per insegnare a ragionare.

Bachelard affermava che una buona didattica delle discipline tenta di comprendere gli errori, prima di condannarli e combatterli.
Se l’errore, d’altra parte, è visto come motivo di sanzione, gli alunni tenderanno certamente di evitarlo col rischio, però, di cercare più le risposte giuste che concentrarsi sull’apprendimento.
Pur nell’accresciuta consapevolezza pedagogica del significato dell’errore a scuola spesso non si fuoriesce dalle pratiche che tengono ancora sugli altari con tutti gli onori del caso la sua severa condanna.

Gioca a favore di questo stato di fatto anche il mantenimento del valore legale dei titoli di studio, che è incline alla logica oggettivistica della misurazione e alla pretesa di rilasciare certificazioni corrispondenti alla reale preparazione posseduta da una persona al termine di un tratto o di tutto il percorso di formazione.

Un certo modo di considerare gli errori è funzionale ad una logica di selezione. La valutazione a scuola non può fermarsi alla logica giudiziaria della prova; valutare non vuol dire istituire il tribunale delle colpe e degli errori con tutto il corredo di drammatizzazione, di stress, di angoscia (Ph.Perrenoud).

Gli alunni e anche gli insegnanti hanno il diritto all’errore, a pensarci bene.
Gli insegnanti non sono contabili del giusto punteggio, ma guide del processo di formazione, di cui devono comprendere gli ostacoli e le resistenze ad esso frapposti.
Gli alunni non sono dati da giudicare, ma soggetti da conoscere, da capire e da ascoltare, perchè hanno una storia cognitiva da raccontare.
Solo nelle pratiche di una valutazione che vuole essere formativa trova una soluzione pedagogica soddisfacente la gestione degli errori.
Con accurata strumentazione l’errore diventa un’opportunità per la regolazione del processo di formazione, perchè dà informazioni all’insegnante sul grado di padronanza raggiunto da un alunno e sulle difficoltà che incontra nel processo di apprendimento. La valutazione formativa non ha come oggetto diretto il profitto scolastico, ma la relazione pedagogica del processo formativo, che viene valutata per poterla migliorare, in modo che l’alunno sia aiutato a identificare ,a superare le sue difficoltà e a progredire.

“La valutazione formativa mira a consentire all’alunno di sapere perchè è riuscito in un caso e non in un altro(…).L’obiettivo di questo tipo di valutazione è in effetti di confrontare l’alunno con se stesso e di aiutarlo a compensare le difficoltà identificate da lui e per lui”(A.De Peretti).
Andare verso la valutazione formativa significa rinunciare a fare della selezione il nodo permanente del rapporto pedagogico.
La valutazione formativa non ha una vocazione selettiva e in qualche modo suggerisce di sostituire una relazione cooperativa ad una relazione potenzialmente conflittuale. La valutazione formativa dovrebbe esercitarsi soprattutto sugli alunni in difficoltà; è funzionale alla differenzazione dell’insegnamento per un’educazione su misura.

La buona valutazione è quella che suscita motivazione ad apprendere; è quella che valorizza lo sforzo e il superamento delle difficoltà e degli ostacoli; è quella che non tende a sorprendere in fallo e non demonizza gli errori.
Nelle operazioni di valutazione convivono naturalmente sia l’intenzione della misurazione, per gli esiti pubblicistici di cui si è parlato,sia l’intenzione dell’interpretazione che si realizza nel giudizio di valore.
Intenzioni che allo stato di fatto esistono e che bisognerebbe saper conciliare,perche danno consistenza al significato della valutazione.

Bisogna saper conciliare la prospettiva dell’aiuto e della regolazione con quella del riconoscimento sociale degli apprendimenti, dell’attestazione e della certificazione. Nei fatti si registra un’oscillazione costante tra una concezione democratica della valutazione, inclusiva e a sostegno delle pari e migliori opportunità per tutti, e una concezione elitista, formalmente meritocratica, ma funzionale alla riproduzione delle distanze sociali esistenti ad un certo momento della storia della società.

La valutazione non dovrebbe servire ad escludere e a stigmatizzare, ma dovrebbe essere un’opportunità per apprendere meglio.
“Altro è la selezione, altro è volere che le persone apprendano ad agire con efficacia, permettendo di riflettere se sono stati ottenuti gli effetti voluti.”(G.Le Boterf)
Purtroppo generalmente nelle pratiche di valutazione viene proposta una pedagogia dell’emulazione e della costrizione; raramente una pedagogia della realizzazione e della cooperazione.
Per preservare la dimensione educativa della valutazione è necessario considerarla come l’operazione che assume il proprio significato nel dare un valore, nel valorizzare il lavoro, l’impegno, la prestazione degli alunni. “Bisogna spostare il senso ultimo dell’attività valutativa dalla polarità del controllo e della sanzione, a sostegno di una logica premiale o punitiva, a quella della ricerca e sostegno dell’innovazione”(M.Ambel).
Verrà il giorno in cui prove e valutazione non saranno più considerate con timore e terrore?




Filosofia nei tecnici. Parliamone, ma i dubbi sono tanti

di Raimondo Giunta

Il ministro Bianchi promette l’inserimento della filosofia nel curriculum dei tecnici.
Presa così, senza approfondimenti, sembra una buona notizia.
A chi può dispiacere che si studi filosofia in tutte le scuole superiori? Bisogna, però, ragionarci seriamente.
Cercherò di elencare i problemi che si presentano ogni volta che si parla di nuove discipline soprattutto se la questione riguarda i tecnici.

 

  1. Un tentativo nel passato era stato fatto con il liceo economico; farlo passare nella mia scuola ha comportato un certo e difficile lavoro di convincimento, perchè gli insegnanti di materie professionali paventavano una riduzione delle ore di insegnamento per loro disponibili.
  2. I tecnici e i professionali ancora di più hanno gli orari settimanali più estesi e pesanti tra tutti gli istituiti superiori. Ogni nuova materia dovrebbe comportare una riduzione delle ore di insegnamento di quelle esistenti, se non si vuole rendere insopportabile la vita degli studenti.
    A mio modesto parere, orari di lezione antimeridiani di 36 ore sono umanamente impraticabili, da qualsiasi punto di vista li si voglia considerare.
    Altra cosa sarebbe ,se le scuole potessero disporre di mensa, per potere dividere in due parti l’orario delle lezioni, se i trasporti pubblici fossero finalizzati per questo scopo e se per una certa categoria di studenti pendolari le scuole fossero dotate di convitto, come avviene per molti tecnici agrari
  3. Ogni nuova materia finisce per ridefinire l’identità di un curriculum scolastico; la filosofia riporterebbe in causa la licealizzazione dei tecnici, dalla quale si è voluto fuggire con tutti i provvedimenti presi a partire dal Ministro Fioroni
  4. Ai tecnici e ai professionali manca soprattutto l’insegnamento del diritto, che campeggiava in tutti gli indirizzi sperimentali del biennio e in alcuni del triennio e che tranne negli indirizzi economici è stato fatto sparire con grave danno degli studenti e non solo
  5. Credo che bisognerebbe smettere di inventarsi ad ogni cambio ministeriale una svolta nei curricoli scolastici, che in genere funzionano se godono di una certa stabilità.
    In assenza di una riformulazione degli spazi scolastici, degli spazi di apprendimento e dei servizi necessari alla vita scolastica, ogni nuovo carico disciplinare non servirebbe a migliorare i processi formativi.

P.S. Quella mia esperienza di Liceo Economico ebbe una relativa fortuna, perché, fino a quando sono stato in servizio, non si andò al di là della formazione di una sola sezione.
Nel suo ultimo anno la prima classe di Liceo Economico del mio istituto ebbe agli esami di maturità i migliori risultati. Avevo provveduto ad assegnargli quelli che ritenevo i migliori insegnanti. Dopo debita richiesta degli stessi…