Una professione diventata impossibile

di Raimondo Giunta

In Italia si contano in centinaia di migliaia i laureati che aspirano ad un incarico di insegnamento, anche precario.
Se si pensa a quanto viene remunerato questo lavoro, bisognerebbe gridare al miracolo, se tante persone più o meno giovani vorrebbero esercitarlo.
Ne hanno le competenze?
A quanto pare per l’attuale ministro non ce l’hanno e sarebbero in buona compagnia, perché tutti gli insegnanti, anche di ruolo, dovranno sottoporsi ad un periodo obbligatorio di formazione annuale per essere all’altezza dei tempi…
Sicuramente le competenze per insegnare non ce l’hanno i giovani che studiano all’Università.
A loro è dedicata una parte importante del Capo VIII, relativo all’ istruzione, del decreto n.36 del 30 aprile del 2022, attuativo di una misura del PNRR.
Si tratta di una modifica del decreto legislativo n.59 del 2017, che a suo tempo, ma non molto tempo fa, aveva legiferato sul riordino, sull’adeguamento e sulla semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola secondaria.
Con il decreto del 30 aprile con un solo colpo si è voluto cambiare il sistema di reclutamento e la vita dell’insegnante.
Come debbano essere scelti i futuri insegnanti è materia esclusiva delle leggi dello Stato; come debba svilupparsi una carriera in un posto di lavoro è materia di trattativa sindacale.
Per due aspetti cruciali del funzionamento di un’istituzione importante come la scuola l’amministrazione non ha sentito il dovere di aprire un dibattito pubblico e di confrontarsi con i sindacati e con tutte le associazioni professionali, oltre che con tutte le forze politiche presenti in Parlamento.

Un mero atto di forza, in piccolissima parte attenuato per quel che riguarda la remunerazione degli insegnanti dopo i primi accesi bollori ministeriali. Parlare degli insegnanti che ci sono, di quelli che ci saranno e di come tutti dovrebbero essere è di fatto parlare della scuola che dovrà esserci.
Quale scuola? Non mi pare che se ne sia fatto qualche cenno.
In tutta evidenza si regola la dimensione di un’istituzione non partendo dalle finalità che devono essere perseguite, ma dalle condizioni del personale che sarà chiamato a lavorarvi .
Che la scuola con queste misure e solo con queste misure possa porre rimedio ai tanti suoi problemi, francamente mi sembra molto difficile.
I problemi del sistema scolastico non si riassumono nello stato giuridico del personale della scuola e nemmeno nel sistema di reclutamento, ma da molto tempo nell’incertezza della sua missione e del suo rapporto con la società.
In questa breve nota ci si sofferma solo su alcuni aspetti del sistema di reclutamento degli insegnanti.
Col decreto n.36 del 30 aprile 2022 si propone un modello strutturato e raccordato tra le università, le istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale, coreutica e le scuole per un percorso di formazione iniziale, selezione e prova che abiliti all’insegnamento.
Percorso che si conclude con prova finale scritta e una lezione simulata.
Con l’abilitazione, così conseguita, si potrà partecipare ai concorsi pubblici, indetti su base regionale .
Il predetto percorso di formazione ha l’obiettivo di sviluppare e di accertare nei futuri docenti:
a) le competenze culturali, disciplinari, pedagogiche, didattiche e metodologiche, specie quelle dell’inclusione, rispetto ai nuclei basilari dei saperi e ai traguardi di competenza fissati per gli studenti;
b) le competenze proprie della professione di docente, in particolare pedagogiche, relazionali, valutative, organizzative e tecnologiche, integrate in modo equilibrato con i saperi disciplinari, nonché con le competenze giuridiche in specie relative alla legislazione scolastica;
c) la capacità di progettare percorsi didattici flessibili e adeguati alle capacità e ai talenti degli studenti da promuovere nel contesto scolastico, al fine di favorire l’apprendimento critico e consapevole e l’acquisizione delle competenze da parte degli studenti;
d) la capacità di svolgere con consapevolezza i compiti connessi con la funzione docente e con l’organizzazione scolastica e la deontologia professionale.
Il percorso configurato per l’abilitazione presenta non pochi ostacoli da affrontare e superare.
Per abilitarsi sono necessari una laurea magistrale e 60 cfu, equivalenti in genere ad un anno accademico, che si possono acquisire anche durante il normale percorso accademico …
L’accesso a questi percorsi, però, non sarebbe poi tanto facile, perché in qualche modo viene previsto un numero programmato di corsi e di corsisti.
Infatti, il Ministero dell’Istruzione, come si legge nel decreto, comunica a quello dell’Università il fabbisogno di docenti per tipologia di posto e per classe di concorso nel triennio successivo, affinché il sistema di formazione generi un numero di abilitati sufficiente a garantire la selettività delle procedure concorsuali, senza che in generale o su specifiche classi di concorso si determini una consistenza numerica di abilitati tale che il sistema nazionale non sia in grado di assorbirla.
Una soluzione questa che coarta con un principio e con alcuni fatti.
Il principio è quello del diritto allo studio.
Se voglio fare l’insegnante e mi si costringe ad un corso parallelo o successivo a quello accademico, l’accesso non mi può essere impedito in virtù di un numero programmato, incerto nella sua dimensione e di cui si dice che debba essere solo utile alle procedure di selezione.
Ma forse non è vero che più sono i candidati e meglio si può scegliere?
Cosa impedisce di pensare che quanti sono esclusi dai percorsi di abilitazione potrebbero essere migliori di quelli che vi sono ammessi?
Non solo.
Se il titolo di abilitazione non consente di accampare alcun diritto per la sistemazione in ruolo, perché bisogna limitare il numero dei futuri abilitati all’insegnamento?
E non si corre il rischio di dovere ricorrere per gli incarichi temporanei a docenti privi, ancora una volta, di formazione adeguata per insegnare?
L’abilitazione, peraltro, ha durata illimitata e non è detto che chi la consegue voglia subito entrare a scuola per insegnare.
Nel mondo circolano tanti abilitati in professioni che non hanno mai esercitato o che hanno smesso di esercitare…Il problema vero di questo percorso di formazione è quello dei 60 crediti, di cui 20 da dedicare ad attività di tirocinio.
Passare dagli attuali 24 cfu a 60 è proprio un salto mortale e francamente non riesco a capire a quanti possa interessare un’abilitazione che comporti questo prezzo.
Nel sistema scolastico non ci sono solo le medie e i licei, ci sono i tecnici e i professionali in cui dovrebbero insegnare gli ingegneri delle più diverse specializzazioni, i chimici, i geologi, gli agronomi, gli informatici, gli economisti, i giuristi e i tecnici di ogni ramo della produzione e dei servizi per molti dei quali è stato difficile conseguire il titolo di studio nei tempi stabiliti e a molti dei quali non converrebbe aggiungere almeno un anno extra di formazione, perché tanto ci vuole per avere 60 crediti.
Non per entrare in ruolo, ma per potere fare il concorso per entrare in ruolo e percepire uno stipendio, che arriverà a 2000 euro dopo 30 anni e passa di lavoro a scuola.
Ho l’impressione che saranno molto pochi quelli che si sottoporranno a questo itinerario e che tra questi saranno molti quelli che attingeranno al mercato parallelo a quello universitario per aver i 60 crediti, come è successo con i 24.
E’ tempo di miracoli e di prodigi.
Se ora è possibile conseguire due lauree contemporaneamente, perché dovrebbe essere complicato in corso d’opera agguantare in qualche modo 60 cfu?
Tutto è possibile; è possibile anche che, nonostante le ottime intenzioni con cui è stato pensato, questo nuovo sistema di reclutamento fallisca per mancanza di vocazioni o per l’esiguità di quelli che potranno essere ordinati sacerdoti …
Il decreto pensa anche agli insegnanti che vogliono una seconda abilitazione e a quelli che sono precari da non pochi anni, per dare loro l’opportunità sia di potersi abilitare, sia di potere partecipare ai concorsi.
Non si può nascondere la preoccupazione che un sistema così complicato per l’accesso ai ruoli non riuscirà a cancellare il precariato a scuola; anzi è probabile che in molte discipline possa aumentare e anche di molto.
Per i laureati di alcune discipline con questo percorso formativo il mondo delle professioni diventerà ancora più attrattivo rispetto a quello della scuola.
E allora cosa fare? Credo che semplificare il percorso che conduce all’insegnamento sia utile e necessario e che il problema della sua qualità non dipenda molto dal numero dei crediti formativi.
Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua e non andare a lezione di nuoto.
Il punto debole del reclutamento a mio modesto avviso è costituito dall’anno di prova.
Su questo tema bisognerebbe lavorare per consentire ai vincitori di concorso di cominciare ad insegnare e nello stesso tempo di assistere alle lezioni altrui e di procedere ad attività di formazione su questioni relative alla pratica in atto ,seriamente predisposte dall’ambito territoriale di riferimento.
Un anno di assistenza alla cattedra degli insegnanti con maggiore esperienze, piuttosto che un anno di insegnamento in proprio, con un tutor che lavora per i fatti propri in altre classi.




Apologia dell’insegnante

di Raimondo Giunta

DALL’INSEGNAMENTO ALL’APPRENDIMENTO.

Si è fatto scuola e si continua a farla con il convincimento che nel processo di formazione l’insegnante sia una figura indispensabile di mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non dovrebbe essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, come d’altronde la funzione e la posizione dell’insegnante non dovrebbero essere sostenute da alcuna pretesa di potere. Purtroppo la funzione e la posizione dell’insegnante nel processo di formazione da qualche tempo sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che razionalmente sostenute.
Che la scuola e quindi l’insegnante non siano più nella società della conoscenza gli unici dispensatori del sapere, non c’è nessuno che lo possa negare, perché è divenuto reperibile in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmettere conoscenze o che non lo possano più fare. Vuol dire senza dubbio che la trasmissione del sapere e delle conoscenze deve essere fatta in modo diverso rispetto al passato, ma anche che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata. Fatto che richiede prestazioni professionali diverse, ma connaturate alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.
La centralità della figura dell’insegnante nel modello educativo del passato, che ad ogni buon conto non era affatto privo di preoccupazioni per la crescita equilibrata e intelligente degli alunni, si dice che debba essere sostituita da quella che deve avere l’alunno nel modello educativo che si vuole costituire. Una rivoluzione copernicana, adatta alla sensibilità attuale, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali.
Se il ribaltamento delle posizioni di primato nelle relazioni educative è comprensibile e anche auspicabile, si deve cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano. Di fatto viene messo in discussione il paradigma educativo centrato sulla trasmissione delle conoscenze e dei valori tradizionali, che ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante col suo sapere. Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere. Nel triangolo educativo ci deve essere spazio per i docenti, per il sapere e per gli alunni; sarà la percezione di opportunità, che i luoghi e i tempi di volta in volta stimolano, a determinare il punto di inizio e le modalità delle relazioni reciproche nel processo di formazione. Sono, però, le finalità del sistema di istruzione e formazione a stabilire come, quando e da chi debba essere occupata la scena principale dello spazio educativo.

Si dice che è cambiata la direzione dei processi formativi e che ora si deve andare dall’insegnamento all’apprendimento e se ne parla a volte, come se questo possa avvenire a prescindere dalla figura dell’insegnante, come se l’alunno possa apprendere da solo e l’insegnante col suo sapere sia un impedimento. Posizione chiaramente insostenibile, ma che a questo non si ferma in alcuni casi, perché, anche se non esplicitamente, si arriva a parlare del primato dell’apprendimento e della capacità di apprendere, ma prescindendo dal valore dei contenuti e del sapere che si possono e si devono apprendere a scuola. A quelli che sostengono queste opinioni deve essere ricordato che l’istituzione scolastica è legittimata ad esistere perché tenuta a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze, di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti. La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze strutturate. Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza, i giovani devono prima partecipare alle grandi tradizioni del sapere, fatto possibile se una persona viene istruita e riesce a portarsi all’altezza dei saperi e delle conoscenze che è necessario possedere.
Le questioni prima esposte hanno un certo rilievo e non sono tutti risolvibili nella logica delle relazioni nel processo di formazione, perché vi sono implicati temi che sono prima e dopo di esse ed è necessario ragionarvi con pazienza e attenzione. Delle innovazioni non si deve avere paura, e quando le circostanze lo richiedono vanno introdotte, ma sapendo in partenza definire i propri fattori di riuscita e quelli eventuali di insuccesso; sapendo conoscere e praticare le regole del giuoco che si vuole fare. Non si cambia per il semplice gusto di cambiare.
I modelli educativi, che sono cosa seria, variano in funzione della concezione che si ha dell’uomo, della società e delle loro relazioni e non per caso o per moda.

ARTEFICI DEL PROPRIO APPRENDIMENTO

Nel paradigma che si vuole sviluppare ed estendere l’iniziativa dell’apprendimento viene affidata all’alunno e l’insegnante da mediatore privilegiato del sapere si trasforma in un organizzatore di situazioni di apprendimento. A soccorso di questa innovazione vengono chiamate le diverse formulazioni del costruttivismo, secondo le quali l’apprendimento è visto come attività di chi apprende, sia individualmente sia in una comunità di apprendimento. Le concezioni costruttivistiche sottolineano la centralità del soggetto apprendente che attivamente e intenzionalmente costruisce la propria conoscenza e riflette sul proprio modo di apprendere.
Sono teorie che intendono creare un quadro di intelligibilità delle pratiche didattiche, anche se non ne privilegiano qualcuna in particolare e stimolano a precisare le intenzioni pedagogiche e a determinare meglio le procedure più adeguate per gli scopi che si vogliono realizzare. Sono un quadro di riferimento, non modelli da applicare ciecamente. Per cui fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire“ le loro conoscenze, non sarà per nulla facile perché comporta un lavoro di innovazione di un certo rilievo e soprattutto perché non viene mai meno il compito dell’insegnante di convincere studenti, che spesso non mostrano particolare attenzione e interesse per tutto quello che si fa a scuola, del valore e dell’importanza degli argomenti che vengono affrontati nelle attività didattiche. Altrimenti sarebbe difficile vederli all’opera; a spingerli a lavorare non sarà la propria autonomia, ma il convincimento di fare cosa buona e giusta.
Ad ulteriore chiarimento va detto che se si possono modificare gli ambienti di apprendimento per dare spazio all’attività del soggetto apprendente, l’epistemologia dei saperi da apprendere non cambia affatto. Le strutture del sapere sui quali devono essere edificate le competenze non sono nella libera disponibilità degli alunni e dei docenti e non è una buona idea non educare gli alunni a misurarsi con i vincoli di questa necessità. Per possedere certi saperi è una necessità apprendere quel che va appreso, quale che sia il modo di apprenderlo.
Per consentire ai giovani di accedere a particolari professioni e a determinate occupazioni è assolutamente indispensabile che il tenore dei contenuti, la loro progressione debba essere stabilita da chi dirige il sistema di istruzione; responsabilità delegata alle singole scuole e agli insegnanti e che non può essere nè negata, nè trascurata, nè arbitrariamente modificata.
L’insegnante non sparisce e non può sparire; si tende a cambiargli i connotati, per trasformarlo in gestore delle interazioni socio-cognitive e comunicative e tutto questo perché il valore fondante del nuovo modello pedagogico è l’autonomia dell’alunno che in tanto è possibile formare e sostenere, in quanto viene messa alla prova nelle relazioni del processo formativo, nelle modalità di sviluppo delle procedure didattiche. Autonomia, si spera, come “capacità di autodeterminazione e di autoregolazione, secondo un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, la comunità, l’ambiente sociale e naturale” (M. Pellerey)
L’autonomia dell’alunno è una finalità di alto profilo, ma sarebbe incomprensibile che per essa si voglia alleggerire l’insegnante della responsabilità di trasmettere i contenuti della sua disciplina, per insistere sulla sua attitudine ad ascoltare gli alunni e ad incoraggiarli.
Non è scritto da nessuna parte che l’apprendimento debba essere noioso; è scritto che ci si debba preoccupare di renderlo interessante e anche piacevole, se fosse possibile.
E’ scritto soprattutto che debba essere solido e duraturo. E a proposito di iniziativa e di autonomia dell’alunno in quali campi possono essere esercitate? Sulla scelta degli argomenti? Sulle modalità del lavoro scolastico? Sulla valutazione dei risultati di apprendimento? Sulla tipologia delle prove? ”Un processo costruttivo che voglia essere valido e fecondo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nella questione; perché e come. Ma è ben difficile che nel caso dell’apprendimento di nuove conoscenze il progettista e il capocantiere possa essere lo stesso studente”(M. Pellerey).

Si tende a definire l’educazione a partire dal soggetto, dallo sviluppo e dalla cura delle sue attitudini e capacità e a fare dell’apprendimento degli alunni l’unico problema della scuola: un problema dai risvolti individuali.
La scuola, però, è un’istituzione pubblica e il suo dovere è quello di trasmettere il sapere collettivo di una comunità, i suoi valori e le sue regole, di integrare nella comunità le nuove generazioni. Non si può ridurre il compito dell’educazione a quello dello sviluppo delle capacità individuali, dimenticando di indicare le finalità di interesse pubblico che vanno raggiunte. Si rischierebbe di far perdere al sistema di istruzione e formazione la sua dimensione sociale e collettiva.
E’ importante, poi, solo apprendere ad apprendere o anche apprendere anche qualcosa? Qualcosa che serva per il lavoro? Qualcosa che serva per la società ? Qualcosa che serva per la vita?
Se così non fosse tutto si ridurrebbe a metodologia del conoscere e dell’apprendere; si resterebbe in una dimensione soggettiva e quasi pre-valoriale; si svaluterebbe il sapere costituito, che è civiltà, che è tradizione, che è ambiente, che è società.
Tra conoscenze apprese e saperi c’è qualche differenza che non sempre viene tenuta presente.
”La conoscenza è individuale, mentre il sapere è collettivo. La conoscenza è relativa alla persona che la “costruisce”, il sapere è fissato da un gruppo sociale che lo ha codificato. La conoscenza appartiene alla persona; i saperi sono determinati socialmente e descritti in codici scritti, orali, etc. La conoscenza è definita dalla proprietà della cognizione, il sapere dagli attributi del codice per conservarlo e utilizzarlo (sintassi e semantica). I saperi appartengono alla logica della disciplina alla quale appartengono e alle pratiche sociali che li hanno generati”(Ph. Jonnaert).
E’ proprio perché le conoscenze sono individuali e i saperi sono collettivi viene da dire che impropriamente e ingiustificatamente il come si apprende eccede in valore su ciò che deve essere appreso come futuro lavoratore e come futuro cittadino.

IL MAGISTERO DELL’INSEGNANTE

Le ricerche di John Hattie sull’efficacia delle metodologie didattiche hanno messo in evidenza la funzione centrale del docente nei processi di formazione e che quando manca la sua direzione gli approcci didattici innovativi, ai quali si affidano molte speranze, non danno i risultati sperati. I metodi meno direttivi favoriscono gli alunni migliori, mentre danneggiano i più deboli, perché per loro è più pesante il carico cognitivo per fare fronte alle responsabilità loro assegnate. Le procedure di insegnamento diretto, contro le quali si continua a schierarsi, danno migliori risultati.
”Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito. ”(M. Pellerey).
Se un alunno deve affrontare un contenuto nuovo e di un certo spessore culturale e teorico, il buon senso dice che è opportuno che venga introdotto nei concetti che lo costituiscono e che venga guidato nelle pratiche messe in campo per acquisirne le abilità essenziali. Solo dopo che avrà acquisito gli elementi fondamentali e li ha conservati ben strutturati nella sua memoria può essere indirizzato a svolgere in autonomia le proprie ricerche o a risolvere i problemi che gli vengono assegnati. L’insegnamento esplicito e diretto, che nella lezione, ha uno dei modi di realizzarsi, non toglie nessuna iniziativa all’alunno, non ne menoma il compito e l’impegno di apprendere, anzi facilita questa avventura intellettuale, perché toglie di mezzo tanti ostacoli superflui. Sono il significato e la funzione che si danno a questo tipo di intervento a determinare il grado di autonomia che viene lasciato all’alunno e che si dà alla sua attività di apprendimento. Lasciato a se stesso non è detto che l’alunno eserciti la sua autonomia nel modo migliore e più efficace. L’insegnamento diretto non si riduce chiaramente alla lezione frontale, e tutti gli altri modelli didattici non possono fare a meno della direzione e della guida culturale dell’insegnante.
Solo svolgendo la sua funzione magistrale l’apprendimento dell’alunno potrà essere costruttivo, stabile, significativo e fruibile. Il suo compito non si colloca dopo l’apprendimento dell’alunno, ma prima e accanto e non è ragionevole e in alcun modo giustificato ridimensionarne l’importanza. Certamente l’alunno apprende da sè e nessun altro può farlo al suo posto, ma appoggiandosi sul sostegno e l’esperienza dell’insegnante. Per apprendere l’alunno ha bisogno di incontrare situazioni di comunicazione, di scambio e di confronto con chi ha esperienza e conoscenza.
Con questo non si vuole dire che il sapere dell’insegnante debba essere replicato dall’alunno, ma che è necessario per fare comprendere la distanza tra esperienza personale e sapere costituito, la complessità dei contenuti ai quali ci si deve avvicinare, le difficoltà per conquistarli, l’inestinguibilità del dovere di conoscere. La sua salvaguardia è la salvaguardia del rilievo culturale e scientifico delle discipline di cui sono responsabili e del curriculum in cui si sostanzia la funzione conoscitiva ed educativa della scuola. Il loro sapere serve per fare apprendere e se utilizzato bene per fare comprendere. Insomma l’insegnante non è un tecnico di laboratorio e nemmeno uno psicologo. Nessuno mette in discussione che ci sia bisogno di una diversa relazione educativa tra docente e alunno; una relazione da instaurare sul principio del valore intrascendibile della persona dell’alunno, che ha tutto il diritto di sapere, di capire e di farsi sempre una propria idea; perché solo la sua partecipazione attiva al processo di formazione renderà solido l’apprendimento. Nessuno mette in discussione che per fare crescere in autonomia e in libertà l’alunno, bisogna interpellarlo, aiutarlo a problematizzare, coinvolgerlo in attività di elaborazione di senso, dargli fiducia, Nessuno, se tutto ciò viene fatto, ha bisogno però di escogitare nuovi primati nelle relazioni educative.
”Certo anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come s’ingozzavano le oche. Si presentava loro un cibo pre-confezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard per la prima volta in vita loro sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo” (A. Camus).




Divagazioni e frammenti di riflessione sulla scuola e sui giovani

di Raimondo Giunta

• Per apprendimenti significativi e duraturi ci vuole del tempo e della pazienza, ma a scuola si ha sempre fretta e ci sono tante scadenze, tanti impegni da onorare; tanti progetti da portare a compimento. Al posto della riflessione regna sovrana la concitazione.
E’ forse questa la causa che impedisce di prestare la dovuta attenzione ad ogni alunno; è forse questo il motivo per cui è ancora alta la dispersione. Ma su questo problema non mi pare che si abbia voglia di capire e di andare fino in fondo.

• Una scuola è davvero scuola di democrazia, se non lascia nessuno indietro e se gli insegnanti si impegnano, affinchè tutti gli alunni posseggano i saperi indispensabili per orientarsi nella vita. Lavorare per raggiungere questo scopo non significa abbassare il livello delle esigenze, ma scegliere la condivisione, piuttosto che la discriminazione; significa volere il successo di tutti e non quello di una minoranza. Gli alunni in difficoltà, come dice Meirieu, rendono un servizio immenso agli insegnanti e ai compagni, perchè li rendono consapevoli dei problemi che bisogna affrontare per crescere e andare avanti. E molti alunni a scuola sono in difficoltà, perchè spesso sono arbitrarie le mete che si dovrebbero raggiungere, arbitrari i livelli da superare, non adeguati i metodi di insegnamento.
• Educazione buona, oggi, significa porre attenzione alle dimensioni affettive e spirituali della persona. A molti ragazzi manca l’affettività della famiglia, ma non dovrebbe mancare quella della scuola. Bisogna preoccuparsi della formazione degli alunni, ma anche dei problemi della loro esistenza. Il mondo è talmente cambiato che i giovani devono reinventarsi tutto (M. Serres)e non possono essere lasciati soli.• Senza la voglia di imparare non si produce apprendimento; non c’è in giuoco , però, solo l’elemento intellettuale, cognitivo e la mancanza di motivazioni nello studio non è solo un problema pedagogico -scolastico. Bisognerebbe essere capaci di trasformare gli scopi della formazione in interessi presenti e quotidiani.
• Bisogna allenare i giovani a sapere utilizzare l’immenso capitale culturale parallelo ed esterno a quello della scuola; farli diventare capaci di discernimento e di selezione delle informazioni. L’educazione e l’istruzione sono oggi una sfida difficile, ma sono le uniche alternative alla stupidità e alla violenza, alla seduzione dei media che non danno conoscenza. La scuola sia per i giovani, che vivono immersi nella realtà virtuale, l’incontro con le cose, le persone, le tradizioni e i valori del mondo circostante. Senza farsi molte illusioni. Lo sviluppo delle sole qualità intellettuali può non avere alcuna influenza sui tratti morali di una persona.
• Si richiedono ai giovani capacità di iniziativa, attitudini al lavoro di gruppo e alla collaborazione, senso di responsabilità; ma come possono acquisirli se in classe si crea un clima competitivo individualistico e si lavora con una didattica autoritaria?
D’altra parte l’educazione al senso di responsabilità non compete solo alla scuola, perché se dovesse appartenere solo alla scuola, non si andrebbe molto lontano con tanti cattivi esempi nelle istituzioni e nella società.
• Il mondo giovanile che riempie la scuola è diventato complesso e a volte indecifrabile a motivo della sua sempre più frastagliata composizione sociale, della sua diversa provenienza nazionale, della sua molteplice appartenenza religiosa. Nella società multietnica e multiculturale è improponibile un solo modello indiscutibile di razionalità, di cultura e di umanità; a scuola non ci dovrebbero essere mondi da civilizzare; l’etno-centrismo delle nostre tradizioni scolastiche non è un fattore di integrazione e andrebbe seriamente discusso.
• E’ cresciuta in modo esponenziale l’insofferenza giovanile verso la scuola, perchè molti non sono preparati a vivervi dentro e ad accettarne regole e ritmi.
E’ cospicua la parte dei giovani che abituati a casa ad un regime di vita di assoluta libertà, a scuola non riescono a trovarsi a proprio agio e ad accettare quelle limitazioni che consentono di potere svolgere regolarmente le attività di formazione. A scuola è necessario che tutti si riconoscano vincolati, per potere stare insieme, da quei principi che consentono nello stesso tempo di rispettare le altrui esigenze e le proprie; gli altrui convincimenti e i propri e che lo spazio comune di convivenza sia gelosamente delimitato e difeso.
• Bisogna chiedersi che tipo d’uomo e di società si vuole. Il primo dei compiti della scuola è quello di dare gli strumenti ai giovani per costruire il proprio progetto di vita, per potere partecipare alla vita democratica. Non si diviene umani da soli, ma con l’educazione che ci rende membri di diritto, eredi consapevoli del patrimonio di conoscenze e di valori della società a cui si appartiene ed oggi persone accoglienti, dialoganti, aperte alla comprensione e all’accettazione delle diversità. Le differenze vanno capite, rispettate, ma non coltivate. Bisogna trovare una comune visione del futuro.




A scuola si va come si deve e non come ci pare

di Raimondo Giunta

A scuola, nei rapporti quotidiani, capita che sul modo in cui debbano vestirsi e parlare gli alunni ci possa scappare l’incidente.
Per evitare umilianti controversie e penose campagne di stampa, considerando come si è diventati, credo che debbano essere dettate delle norme precise al riguardo.
Una volta francamente non ce n’era bisogno.
Però bisogna dirlo. A tanti sembra indebito che la scuola stabilisca un minimo di regole sul modo di comportarsi e anche sul modo di vestirsi.
Per alcuni e forse per molti è importante solo che i giovani a scuola ci vadano e ci restino.
Sinite parvulos venire ad me…
E’ un’idea senz’altro accattivante, ma non credo che sia seria.
La scuola è altro rispetto alla vita e lo deve essere proprio per preparare alla vita; una realtà che deve avere le proprie regole: quelle che sembrano essere le più efficaci per mantenere le promesse che fa a chiunque entri dal suo portone d’ingresso.
Si dice in chiesa con i santi e in taverna con i briganti.
Si potrebbe citare Machiavelli che cambiava abito, quando si metteva a leggere e a scrivere.
Questa condiscendenza, ai limiti dell’irresponsabilità, non aiuta i giovani.


Credo che se a scuola trovassero insegnanti capaci di fargli assaggiare giorno per giorno il sapore del sapere, i ragazzi a scuola ci andrebbero volentieri anche con giacca e cravatta.
L’alterità delle regole della scuola rispetto a quelle della famiglia e del gruppo dei pari è condizione per collocarsi nel migliore dei modi rispetto alla responsabilità individuale di crescere e di imparare.
Quand’ero in servizio, ma erano altri tempi, non dettavo regole sull’abbigliamento, anche perché pensavo e credevo che i genitori ci tenessero a insegnare le buone maniere ai propri figlioli e che li osservassero bene e come si deve prima di vederli uscire da casa per andare a scuola.
Esercitavo, però, l’ironia su qualche eccesso degli alunni e anche degli/delle insegnanti.
Si toglievano subito il piacere di stupire con le stranezze piuttosto che con l’impegno e con i risultati.
Non so se oggi funzionerebbe e quando succedono fatti come quelli del liceo romano, ringrazio il Padreterno di essere in pensione.
A distanza di tempo incontro spesso gli alunni che diventati, ormai, genitori mi ringraziano per le scelte che allora facevo da preside.
Perché, prima o poi, anche gli studenti scapestrati diventano grandi e capiscono il senso di quello che prima non volevano accettare.




Dalla alternanza scuola/lavoro ai PCTO (percorsi per competenze trasversali e per l’orientamento)

di Raimondo Giunta

All’alternanza scuola/lavoro sono subentrati con il comma 785 dell’art. 1 della legge 145 del 30 dicembre 2018 i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento.
Diciamolo.  Nel primo caso ci si trovava di fronte ad una pia illusione, perché di alternanza si può parlare quando i tempi tra attività formative ed esperienze di lavoro si equivalgono; nel secondo caso ci si trova nel campo controverso delle competenze trasversali.
La vecchia formulazione straripava in termini di spazio e di obbligatorietà e finiva per stravolgere in alcuni indirizzi la regolarità delle dovute attività curriculari; il nuovo indirizzo per i tempi più ristretti (per fortuna) non può andare oltre una pratica di orientamento al lavoro e alla cultura del lavoro, dignitosa in sè e non bisognevole dell’ addobbo delle competenze trasversali. Trattasi, infatti, di uno stage, che bisogna sapere organizzare bene dal punto di vista didattico se si vuole che fruttifichi qualcosa.
E a proposito che cosa sono le competenze trasversali? A cosa devono cotanto fascino?

Il fascino indiscreto delle competenze trasversali

A partire dagli anni ’90 le ricerche e i contributi dell’ISFOL hanno fatto emergere, accompagnato e consolidato in Italia la cultura delle competenze e un linguaggio che le significava per gli usi che si incominciavano a fare nelle attività della formazione professionale.  Un ruolo particolare veniva assegnato alle competenze che venivano chiamate trasversali (diagnosticare, relazionarsi, affrontare); le altre venivano distinte in competenze di base e in competenze professionali.

Le hanno proposto come elemento cruciale dell’approccio per competenze, decisive della sua fecondità e necessarietà.
Nel modello ISFOL diagnosticare, relazionarsi, affrontare rappresentano tre macro – categorie di competenze trasversali, caratterizzate da un alto grado di trasferibilità a compiti e contesti diversi e da un ampio spessore, cioè da un’estensione notevole che comprende numerosi elementi subordinati e di dettaglio crescente.
Il modello ISFOL aiuta a comprendere la natura della competenza e a render conto di questa a partire dalla sua logica, che è quella implicita nel concetto di soggetto al lavoro.  Recepisce l’evoluzione del contesto lavorativo che ha spinto a spostare l’attenzione dalle caratteristiche dei compiti alla centralità della persona, in quanto risorsa strategica in contesti ad alta variabilità ed incertezza.  (R.  Frega).
Con le competenze trasversali ci si sposta dall’ambito lavoristico e dalla pratica formativa per e sul lavoro al campo dell’agire umano nella sua varietà e complessità.
“Il grado di padronanza da parte del soggetto dell’insieme di queste competenze, non solo modula la qualità della sua prestazione (…),  ma influisce sulla qualità e sulla possibilità di sviluppo delle sue risorse,  attraverso la qualità dell’informazione che è in grado di raccogliere,  delle relazioni che sa instaurare,  dei feed-back che riesce ad ottenere e di come sa utilizzarli per riorganizzare la sua conoscenza”(G.  Di Francesco).
Nell’ambito delle competenze trasversali vengono inserite,  secondo le varie scuole di pensiero: operazioni mentali come comprendere,  dedurre,  coordinare,  applicare,  analizzare,  trasferire,   interpretare,  valutare;  saper-fare metodologici come prender nota,  strutturare un discorso,  manipolare dei concetti,  padroneggiare dei processi d’astrazione;  attitudini del sapere essere come collaborare,  partecipare,  realizzare progetti personali e/0 professionali,  sapere ascoltare e dialogare,  parlare in pubblico,   sapersi destreggiare.
In genere con il concetto di competenze trasversali vengono indicate capacità e abilità di carattere generale, relative ai processi di pensiero e di cognizione, alle modalità di comportamento nei contesti sociali e di lavoro, alle attitudini della persona di riflettere e a quelle di utilizzare strategie di apprendimento e di auto-correzione della propria condotta.  Hanno uno statuto di generalità che le distingue dalle altre competenze, tutte contestualizzate, e che le rende applicabili a un gran numero di situazioni anche inedite.

Trasversalità delle competenze o competenze trasversali?

La cura delle attitudini al sapere-essere e al sapere agire,  in cui confluiscono le competenze non legate ad una particolare area professionale,  sollecita ad avere uno sguardo diverso sull’attività di insegnamento,  sui contenuti del curriculum,  ma non alla costituzione di uno specifico settore di insegnamento.  Uno studioso come B.  Rey,  che sulle competenze trasversali ha scritto pagine fondamentali,  afferma: “Trovo vana e vanitosa la pretesa di insegnare agli allievi a osservare,  a comparare,  a pensare,  a dedurre,  ad adottare delle strategie riflessive etc,  etc.  Che essi apprendano,  piuttosto, un po’ di matematica,  un po’ di letteratura,  un po’ di storia,  un po’ di biologia,  un po’ di lingue straniere etc”.
Si rischia non solo lo svuotamento dei contenuti e della scuola, ma anche in alcuni ambiti l’indottrinamento e la manipolazione.
La formazione delle competenze del sapere-essere(le soft-skills), senza la dovuta consapevolezza critica,  rischia di piegarsi alle richieste imperative di quanti si adoperano per chiudere ogni possibile frattura tra carattere individuale della persona ed esigenze dell’organizzazione del lavoro nel mondo delle aziende.  In questo caso non avremmo con le competenze del sapere essere la formazione dell’autonomia personale, ma una surrettizia pratica di addomesticamento.
Avremmo l’adattabilità senza riflessione: quella che conduce a rinunciare a comprendere e che induce ad accettare tutto, senza interrogarsi su niente.
A proposito di un possibile autonomo spazio delle competenze trasversali bisogna vedere in che cosa consista e per prudenza è opportuno prendere in considerazione gli avvertimenti di Le Boterf : “La competenza si realizza nell’azione.  Non gli preesiste (. . .  ) Non c’è competenza se non nella competenza in atto.  Non può funzionare a vuoto, al di fuori di ogni atto, che non si limita ad esprimerla, ma che la fa esistere”.
Se questo vale per le competenze che chiamiamo di base o professionale, vale soprattutto per le competenze trasversali.
“La competenza risiede nella mobilitazione delle risorse dell’individuo (sapere teorico e procedurale, esperienziale e sociale) e non nelle risorse stesse.” Come dire che tutte le competenze sono competenze perché sono traversali e che si ha trasversalità, perché c’è mobilitazione delle risorse dell’individuo.
La mobilitazione non appartiene alla categoria dell’applicazione, ma a quella della costruzione delle soluzioni.  “Mobilitare non è soltanto utilizzare o applicare, ma anche adattare, differenziare, integrare, generalizzare o specificare, combinare, orchestrare, coordinare;  in breve condurre un insieme di operazioni mentali complesse che,  quando le si connette alle situazioni,  trasformano le conoscenze, piuttosto che limitarsi a spostarle e trasferirle”(Ph.  Perrenoud).
Secondo questo autore la metafora della mobilitazione delle risorse cognitive è più feconda di quella del trasferimento delle conoscenze.
“Il concetto di mobilitazione prende in conto tutti i funzionamenti cognitivi all’opera nell’identificazione e risoluzione dei problemi”.  Il suo inquadramento concettuale,  però,  non è un’operazione semplice e sono molti e rilevanti i problemi che ancora restano aperti.
B.  Rey parla di intenzione trasversale più che di competenza trasversale, mettendo in questo modo in evidenza l’esercizio cognitivo del volere.
Il concetto di intenzione trasversale tende a superare quello di competenza, come possesso di procedure automatizzate, perché il soggetto non è una rete di automatismi, ma potere di scelta nell’attenzione alle cose.  L’intenzione non è un sapere, ma uno stile di inquadratura delle situazioni, una delimitazione di ciò che è degno di interesse, un principio di selezione.  La capacità di trasferire appartiene all’intenzione trasversale, alla soggettività volente e significante.
Solo l’intenzione è per natura trasversale, il motore della mobilitazione.
“Non basta che l’allievo apprenda competenze intellettuali, procedure, operazioni logiche, regole d’ogni tipo; bisogna anche che decida di vedere il mondo sotto una certa angolatura e precisamente nell’ottica in cui esso appare come possibile ambito di applicazione di queste competenze.  E’ questa a nostro avviso la condizione fondamentale affinchè ci sia trasversalità”(B.  Rey).
E altrove: “E’ più importante il significato che il soggetto dà agli oggetti, alle situazioni,  e alle proprie attività,  piuttosto che i meccanismi mentali oggettivi che la scienza esplora”.
E’ allora inutile fare un discorso specifico sulle competenze trasversali?  Non proprio.  E’ vero che per definire le competenze ci sono più metafore che concetti, che ci si muove in un campo segnato dalla complessità e dalla provvisorietà; è vero anche che non ci si muove nel vuoto e che gran parte delle operazioni e dei processi di pensiero sottostanti alla mobilitazione delle risorse delle competenze o all’intenzione trasversale, di cui parla Rey, sono identificabili per poterci lavorare sopra.
La trasversalità, ad ogni buon conto, è qualcosa di più di un desiderio dei pedagogisti.  L’esperienza ci dice che essa si realizza sia nel campo specifico delle attività professionali, sia nei diversi ambiti dell’agire umano.
La difficoltà di una sua concettualizzazione comune a tante altre usate nozioni pedagogiche non contraddice la percezione che ne abbiamo di fronte a comportamenti improntati sia alla sicurezza del sapere specifico, sia alla fertilità delle soluzioni trovate di fronte a situazioni inedite.
“La trasversalità è una capacità metacognitiva in grado di orientare l’esercizio delle competenze tutte specifiche e operative; la trasversalità è un portato della metacognizione, dell’attività del soggetto sulle proprie pratiche.  Non è attributo delle” cose”(le competenze), ma del soggetto.  Messa in discussione come attributo delle competenze,  è invece attributo essenziale dell’agire competente”(R.  Frega).  Senza trasversalità l’agire umano sarebbe meccanico, irriflessa ripetizione di procedure d’azione.
Se tutto quello che è stato detto ha un senso, questo ci porta a dire che il punto di partenza per la formazione di competenze pregiate e raffinate come sono quelle trasversali è sempre il possesso articolato, profondo, problematico dei saperi, la consapevolezza dei loro rapporti con la realtà delle esperienze umane oltre che della loro specifica storia.
“L’insistenza esclusiva sulla trasversalità, nel senso dell’interdisciplinarietà o della non-disciplinarietà impoverisce considerevolmente l’approccio per competenze.  (. . .  ) La preoccupazione dello sviluppo delle competenze non ha niente a che vedere con la dissoluzione delle discipline in una generica brodaglia trasversale.  (. . .  ) Il tutto trasversale non conduce più lontano del tutto disciplinare” (Ph.  Perrenoud).




Il valore educativo del dialogo

di Raimondo Giunta

La scuola per certi aspetti è un luogo strano, dove chi sa fa le domande e chiede conto e ragione a chi non sa; ma dovrebbe essere il contrario e se lo fosse sarebbe, come affermava molti anni fa Guido Calogero, la scuola ideale, perché avremmo alunni che hanno desiderio di apprendere e di capire e docenti che sanno e vogliono ascoltare.
Diceva Dewey che ogni lezione dovrebbe essere la risposta ad una domanda. E’ proprio questo intreccio di domande e risposte il dialogo; è l’ascolto reciproco la buona educazione.
Si domanda per apprendere, si domanda per insegnare e a nessuno dovrebbe essere vietato di porre domande, se si vuole che la relazione educativa sia una relazione dialogica.
La scuola, come dice B.Rey, dovrebbe essere il luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di chi la pronuncia.
“Le verità non derivano da un’autorità testuale o pedagogica, ma da dimostrazioni, argomentazioni e ricostruzioni. Questo modello di educazione è fondato sulla reciprocità e sulla dialettica” (J.Bruner).
Il riconoscimento del valore della parola dell’alunno è il fondamento dell’educazione autentica e richiede l’attribuzione del potere di pronunciarla; richiede il riconoscimento del suo diritto di partecipare con spirito di iniziativa e responsabilità nel processo educativo.
“Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto, piuttosto che da quelle scaturite dalla mente altrui”(Pascal).

Ma le domande che hanno senso non si pongono a caso.
Bisogna educare a porre e a porsi domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare strumenti per potere discutere e dialogare ,per diventare capaci di resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze.
Bisogna educare a problematizzare.
Per non accontentarsi delle prime e rassicuranti risposte e andare oltre, in profondità su ogni questione, su ogni dato, su ogni fatto, su ogni notizia, su ogni nuova conoscenza.
Bisogna allora contrastare con energia la tendenza a insegnare saperi, trascurando di fare capire e conoscere i problemi che li hanno generati.
Senza conversazione, senza il faccia a faccia, la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure e degli obblighi professionali.
L’alunno deve sentire la prossimità umana, la passione, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento. La responsabilità educativa si realizza nel riconoscimento e nella valorizzazione dell’alterità dell’alunno come fondamento del dovere di attenzione alla sua soggettività, del dovere di cura del suo sviluppo integrale e armonioso.
“Educare è comunicare profondamente con un giovane per aiutarlo a comunicare con se stesso” (A. De Peretti).
Chiedeva ai suoi uditori di porgli domande; così le sue lezioni erano piuttosto confuse e non mancavano di divagazioni”(Porfirio-Vita di Plotino).
Puo’ succedere che il dialogo sfugga di mano e si crei un po’ di disordine in classe, ma non bisogna averne paura, perché per certi aspetti è vita.
Non esiste una scuola del silenzio che sia anche scuola di partecipazione.
Educare è accettare di discutere e il centro dell’attività didattica non può essere sempre la cattedra; si deve spostare verso il centro dell’aula per fare in modo che la classe diventi una comunità dialogante, di partecipazione.
Il dialogo come mezzo e come fine dell’educazione esige un’etica comunitaria convintamente vissuta da docenti e alunni ;ognuno deve fare la propria parte, mettersi a disposizione dell’altro, sentirsi parte di una comunità, in cui con diverse funzioni, insieme si apprende e si vuole andare avanti. Ma il dialogo non è un metodo, è il modo e non solo a scuola di dare valore e significato morale all’altrui presenza.
Il dialogo è confidenza tra gli allievi e tra gli allievi e gli insegnanti; è piacere di appartenere ad una comunità, che porta avanti insieme il progetto educativo.
Il dialogo non ha fretta; è per le pari opportunità; non esclude, non stigmatizza; non è competitivo, ma cooperativo. Il dialogo non è solo tra i presenti, ma si estende, va fuori dell’aula, incontra la società, incontra il passato.
E con tutti e con tutto invita a discutere, a parlare e ad ascoltare, perché è desiderio di apprendere e di comprendere il mondo.
Il dialogo è l’antidoto per sottrarre la scuola alle seduzioni tecnologiche che la stanno immiserendo e sterilizzando, perché pone la centralità della parola viva nella relazione educativa e perché solo nella parola viva si incontrano le persone che hanno qualcosa da dirsi.
Nel dialogo i giovani imparano a parlare e ad esprimersi, incominciano a gustare il piacere di potere comunicare il mondo delle proprie esperienze, del proprio vissuto.
Il primato del dialogo impedisce alla scuola di essere una caserma, di trasformarsi in una spuria azienda di formazione professionale; invita ad andarvi e a frequentarla senza angoscia, perché scaccia la sofferenza e la noia; allontana la sottomissione e incentiva l’autonomia, combatte l’insuccesso e le gerarchie e non nega cittadinanza all’errore e alle differenze.




C’era una volta il preside

di Raimondo Giunta

Ho fatto sempre una grande fatica a immedesimarmi nel mestiere di preside e siccome non me l’ha prescritto il medico, ho cercato di farlo nel modo migliore possibile.
L’ho praticato con dedizione e sempre l’ho vissuto con un certo distacco. Il mio disagio è cresciuto in modo esponenziale con la dirigenza scolastica, che tra i pochi non desideravo per vari motivi che cercherò di esporre. In nessun modo, poi, avrei cambiato un nome così bello e pregnante di significato, come quello di preside (prae-sedes, prae-sidium=chi sta davanti, chi è presidio etc) per uno dei tanti participi presenti che pretendono di diventare sostantivi…

La dirigenza, peraltro, di tipo prevalentemente amministrativo, seppur colorata con tutte le forme di retorica aziendalistica, era l’espediente che si era trovato per sfuggire al contratto unico della scuola e dare ai presidi l’agognato, meritato e giustificato riconoscimento economico per le responsabilità che erano e sono in capo al ruolo di chi dirige e rappresenta una scuola.


C’erano altre vie? Se c’erano non si è tentato di trovarle. Nello stato giuridico del dirigente scolastico il ruolo è duraturo, ma l’incarico è temporaneo, soggetto a rotazione secondo criteri che, se non vengono ben definiti, potrebbero lasciare molta discrezionalità alle scelte del Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale.
In qualche modo ne ho fatto le spese e sono stato costretto alle dimissioni.
Il preside inamovibile (salvo incapacità o negligenza nella gestione), gli organi collegiali e la libertà di insegnamento hanno garantito decenni di civiltà dentro la scuola: il pluralismo, il confronto, la libertà di movimento.
Si è voluto sottovalutare questo evidente risultato della storia della scuola italiana, come un prodotto secondario di fronte ai problemi dell’efficienza, della rispondenza alle richieste immediate e pressanti della società e del mercato.
Se dovesse entrare a pieno regime e nel suo vero e costitutivo significato “la temporaneità” dell’incarico di dirigenza, alle singole scuole non verrebbe alcun beneficio. Potrebbe determinare nel dirigente scolastico un eccesso di interventismo, di zelo, di attivismo, a prescindere dalla ragionevolezza delle singole azioni, o innescare processi fittizi di adesione alle iniziative dell’amministrazione o del poter politico locale.
La scuola perderebbe di fatto la sua autonomia e il controllo e la gestione del curricolo. Sicuramente nessun dirigente potrebbe operare con il respiro e la serenità di cui poteva godere il preside che sceglieva volontariamente e definitivamente una sede di lavoro come luogo ideale per l’espletamento delle proprie responsabilità e per l’espressione della propria professionalità.

C’è qualcos’altro che va detto. Il preside era consunstanziale ad un preciso ordine e grado di istruzione nel quale aveva prestato servizio e per il quale doveva avere perlomeno l’abilitazione all’insegnamento, in caso di passaggio di presidenza.
Per alcuni istituti era necessaria addirittura la titolarità di un insegnamento delle discipline professionali. Principi organizzativi di elementare razionalità ed efficacia, che davano(..e darebbero ancora) per scontato il fatto che il preside debba avere la padronanza culturale del curriculum, della cui gestione deve essere il responsabile e che questa padronanza non possa venire se non dall’esperienza vissuta in rebus e da specifiche competenze professionali.
Si pensava, forse ingenuamente(?), che un istituto agrario con tanto di azienda agricola sarebbe stato governato bene da un agronomo; un tecnico industriale con tanto di reparto di lavorazione (non semplice laboratorio) da un ingegnere e che gli eventuali uffici tecnici non sarebbero sufficienti a surrogare le competenze che deve avere chi dev e dirigere quel tipo particolare di scuola.
Un dirigente che non sa di filosofia, di greco e di latino che ci fa in un liceo classico? Un laureato in pedagogia, ex-maestro, che ci fa in un istituto agrario o in un istituto industriale? E quando c’è da fare qualche grosso investimento “aziendale”, si affiderà ai responsi della Provvidenza?
Se il vecchio preside era legato ad una specifica tipologia di scuola, il dirigente scolastico è stato, invece, inventato universale; va bene per le elementari(primaria) e per i professionali; per i commerciali e per i classici: può non esserci mai entrato in quell’istituto, né da alunno, né da insegnante, ma sapendo di gestione, di management, di diritto scolastico, di comunicazione e soprattutto di reperimento di risorse finanziarie..sicuramente condurrà quella scuola verso traguardi inimmaginabili di profitto e di risultati educativi.
Si trascura, però, un fatto elementare; la scuola è una comunità di pratiche professionali che si costituiscono e si sviluppano nel tempo per l’intreccio di dialoghi, scambi, assimilazioni delle competenze ed esperienze in essa presenti, e se non si possiede la logica che le tiene in vita è molto facile portarle al dissolvimento. Se uno si fa un giro per le scuole si rende conto che i fatti non stiano dando ragione a chi ha voluto questo tipo di dirigenza scolastica.
Connessa a questa vicenda è la rideterminazione della rete scolastica.
C’è dirigenza se c’è autonomia e c’è autonomia se l’istituzione scolastica supera determinati parametri numerici.
Conseguenza: istituzioni scolastiche a volte con una decina di sedi.
Di fatto e per necessità lasciate al proprio destino. Saranno bravissimi i dirigenti scolastici, ma non ubiqui ..come i santi o il Padreterno. Sedi di diversa tipologia e di diverso grado di istruzione: un coacervo di curricoli, di collegi, di aspettative che nessuna logica può condurre ad unità.
E anche in questo caso si è fatto strame dell’esperienza del passato e in modo particolare di quella degli istituti professionali, che una volta erano costituiti da una pluralità di sedi territoriali, ma dello stesso indirizzo, affidate alle cure del Direttore della sede coordinata.

Oggi, al netto delle chiacchiere, per ridurre i costi di gestione si elemosinano gli esoneri o i semi-esonero al collaboratore vicario del dirigente o ai responsabili di una sede coordinata di un’istituzione scolastica con più di 1000 alunni.
Non ci vuole molta fantasia per immaginarne facilmente tutte le conseguenze .
Basta avere un’idea approssimativa di come si svolga una giornata scolastica: assenze, ritardi, giustificazioni, sostituzioni, permessi etc ,etc.
Credo che ci sia da ripensare tutta la questione della dirigenza scolastica e dell’autonomia per eliminare i guasti che sono davanti agli occhi di tutti e non è un problema solo di risorse.
E’ anche un problema di democrazia interna alle singole scuole, di stato giuridico e di carriera degli insegnanti.
Tornare al preside non ha senso anche perché fra qualche anno a scuola gli insegnanti non sapranno nemmeno che siano esistiti.
Ci sono diversi modi di intendere la direzione di una scuola, di renderla efficace; diversi modi di aggregare le istituzioni scolastiche e di farle funzionare.
Ma non con le regole, l’organizzazione e le risorse disponibili oggi.
Per più di un decennio si è fatto della dirigenza il problema principale tra i problemi della scuola. Ma non era e non è vero.
Il problema è quello di definire ruolo e funzione della scuola nella società, il suo rapporto con le nuove generazioni e con i saperi. Se non si viene a capo di queste vere emergenze, non ci sarà nessuna soluzione di tipo organizzativo e gestionale che possa trarre la scuola dalla sua condizione evidente di crisi.
E poi da sempre una scuola funziona, se quelli che la fanno funzionare in ogni singola classe sono messi in condizione di farlo serenamente.
Parlo degli insegnanti …