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Una professione diventata impossibile

di Raimondo Giunta

In Italia si contano in centinaia di migliaia i laureati che aspirano ad un incarico di insegnamento, anche precario.
Se si pensa a quanto viene remunerato questo lavoro, bisognerebbe gridare al miracolo, se tante persone più o meno giovani vorrebbero esercitarlo.
Ne hanno le competenze?
A quanto pare per l’attuale ministro non ce l’hanno e sarebbero in buona compagnia, perché tutti gli insegnanti, anche di ruolo, dovranno sottoporsi ad un periodo obbligatorio di formazione annuale per essere all’altezza dei tempi…
Sicuramente le competenze per insegnare non ce l’hanno i giovani che studiano all’Università.
A loro è dedicata una parte importante del Capo VIII, relativo all’ istruzione, del decreto n.36 del 30 aprile del 2022, attuativo di una misura del PNRR.
Si tratta di una modifica del decreto legislativo n.59 del 2017, che a suo tempo, ma non molto tempo fa, aveva legiferato sul riordino, sull’adeguamento e sulla semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente nella scuola secondaria.
Con il decreto del 30 aprile con un solo colpo si è voluto cambiare il sistema di reclutamento e la vita dell’insegnante.
Come debbano essere scelti i futuri insegnanti è materia esclusiva delle leggi dello Stato; come debba svilupparsi una carriera in un posto di lavoro è materia di trattativa sindacale.
Per due aspetti cruciali del funzionamento di un’istituzione importante come la scuola l’amministrazione non ha sentito il dovere di aprire un dibattito pubblico e di confrontarsi con i sindacati e con tutte le associazioni professionali, oltre che con tutte le forze politiche presenti in Parlamento.

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Apologia dell’insegnante

di Raimondo Giunta

DALL’INSEGNAMENTO ALL’APPRENDIMENTO.

Si è fatto scuola e si continua a farla con il convincimento che nel processo di formazione l’insegnante sia una figura indispensabile di mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non dovrebbe essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, come d’altronde la funzione e la posizione dell’insegnante non dovrebbero essere sostenute da alcuna pretesa di potere. Purtroppo la funzione e la posizione dell’insegnante nel processo di formazione da qualche tempo sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che razionalmente sostenute.
Che la scuola e quindi l’insegnante non siano più nella società della conoscenza gli unici dispensatori del sapere, non c’è nessuno che lo possa negare, perché è divenuto reperibile in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmettere conoscenze o che non lo possano più fare. Vuol dire senza dubbio che la trasmissione del sapere e delle conoscenze deve essere fatta in modo diverso rispetto al passato, ma anche che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata. Fatto che richiede prestazioni professionali diverse, ma connaturate alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.
La centralità della figura dell’insegnante nel modello educativo del passato, che ad ogni buon conto non era affatto privo di preoccupazioni per la crescita equilibrata e intelligente degli alunni, si dice che debba essere sostituita da quella che deve avere l’alunno nel modello educativo che si vuole costituire. Una rivoluzione copernicana, adatta alla sensibilità attuale, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali.
Se il ribaltamento delle posizioni di primato nelle relazioni educative è comprensibile e anche auspicabile, si deve cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano. Di fatto viene messo in discussione il paradigma educativo centrato sulla trasmissione delle conoscenze e dei valori tradizionali, che ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante col suo sapere. Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere. Nel triangolo educativo ci deve essere spazio per i docenti, per il sapere e per gli alunni; sarà la percezione di opportunità, che i luoghi e i tempi di volta in volta stimolano, a determinare il punto di inizio e le modalità delle relazioni reciproche nel processo di formazione. Sono, però, le finalità del sistema di istruzione e formazione a stabilire come, quando e da chi debba essere occupata la scena principale dello spazio educativo.

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Divagazioni e frammenti di riflessione sulla scuola e sui giovani

di Raimondo Giunta

• Per apprendimenti significativi e duraturi ci vuole del tempo e della pazienza, ma a scuola si ha sempre fretta e ci sono tante scadenze, tanti impegni da onorare; tanti progetti da portare a compimento. Al posto della riflessione regna sovrana la concitazione.
E’ forse questa la causa che impedisce di prestare la dovuta attenzione ad ogni alunno; è forse questo il motivo per cui è ancora alta la dispersione. Ma su questo problema non mi pare che si abbia voglia di capire e di andare fino in fondo.

• Una scuola è davvero scuola di democrazia, se non lascia nessuno indietro e se gli insegnanti si impegnano, affinchè tutti gli alunni posseggano i saperi indispensabili per orientarsi nella vita. Lavorare per raggiungere questo scopo non significa abbassare il livello delle esigenze, ma scegliere la condivisione, piuttosto che la discriminazione; significa volere il successo di tutti e non quello di una minoranza. Gli alunni in difficoltà, come dice Meirieu, rendono un servizio immenso agli insegnanti e ai compagni, perchè li rendono consapevoli dei problemi che bisogna affrontare per crescere e andare avanti. E molti alunni a scuola sono in difficoltà, perchè spesso sono arbitrarie le mete che si dovrebbero raggiungere, arbitrari i livelli da superare, non adeguati i metodi di insegnamento.
• Educazione buona, oggi, significa porre attenzione alle dimensioni affettive e spirituali della persona. A molti ragazzi manca l’affettività della famiglia, ma non dovrebbe mancare quella della scuola. Bisogna preoccuparsi della formazione degli alunni, ma anche dei problemi della loro esistenza. Il mondo è talmente cambiato che i giovani devono reinventarsi tutto (M. Serres)e non possono essere lasciati soli. Continua a leggere

A scuola si va come si deve e non come ci pare

di Raimondo Giunta

A scuola, nei rapporti quotidiani, capita che sul modo in cui debbano vestirsi e parlare gli alunni ci possa scappare l’incidente.
Per evitare umilianti controversie e penose campagne di stampa, considerando come si è diventati, credo che debbano essere dettate delle norme precise al riguardo.
Una volta francamente non ce n’era bisogno.
Però bisogna dirlo. A tanti sembra indebito che la scuola stabilisca un minimo di regole sul modo di comportarsi e anche sul modo di vestirsi.
Per alcuni e forse per molti è importante solo che i giovani a scuola ci vadano e ci restino.
Sinite parvulos venire ad me…
E’ un’idea senz’altro accattivante, ma non credo che sia seria.
La scuola è altro rispetto alla vita e lo deve essere proprio per preparare alla vita; una realtà che deve avere le proprie regole: quelle che sembrano essere le più efficaci per mantenere le promesse che fa a chiunque entri dal suo portone d’ingresso.
Si dice in chiesa con i santi e in taverna con i briganti.
Si potrebbe citare Machiavelli che cambiava abito, quando si metteva a leggere e a scrivere.
Questa condiscendenza, ai limiti dell’irresponsabilità, non aiuta i giovani.

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Dalla alternanza scuola/lavoro ai PCTO (percorsi per competenze trasversali e per l’orientamento)

di Raimondo Giunta

All’alternanza scuola/lavoro sono subentrati con il comma 785 dell’art. 1 della legge 145 del 30 dicembre 2018 i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento.
Diciamolo.  Nel primo caso ci si trovava di fronte ad una pia illusione, perché di alternanza si può parlare quando i tempi tra attività formative ed esperienze di lavoro si equivalgono; nel secondo caso ci si trova nel campo controverso delle competenze trasversali.
La vecchia formulazione straripava in termini di spazio e di obbligatorietà e finiva per stravolgere in alcuni indirizzi la regolarità delle dovute attività curriculari; il nuovo indirizzo per i tempi più ristretti (per fortuna) non può andare oltre una pratica di orientamento al lavoro e alla cultura del lavoro, dignitosa in sè e non bisognevole dell’ addobbo delle competenze trasversali. Trattasi, infatti, di uno stage, che bisogna sapere organizzare bene dal punto di vista didattico se si vuole che fruttifichi qualcosa.
E a proposito che cosa sono le competenze trasversali? A cosa devono cotanto fascino?

Il fascino indiscreto delle competenze trasversali

A partire dagli anni ’90 le ricerche e i contributi dell’ISFOL hanno fatto emergere, accompagnato e consolidato in Italia la cultura delle competenze e un linguaggio che le significava per gli usi che si incominciavano a fare nelle attività della formazione professionale.  Un ruolo particolare veniva assegnato alle competenze che venivano chiamate trasversali (diagnosticare, relazionarsi, affrontare); le altre venivano distinte in competenze di base e in competenze professionali.

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Il valore educativo del dialogo

di Raimondo Giunta

La scuola per certi aspetti è un luogo strano, dove chi sa fa le domande e chiede conto e ragione a chi non sa; ma dovrebbe essere il contrario e se lo fosse sarebbe, come affermava molti anni fa Guido Calogero, la scuola ideale, perché avremmo alunni che hanno desiderio di apprendere e di capire e docenti che sanno e vogliono ascoltare.
Diceva Dewey che ogni lezione dovrebbe essere la risposta ad una domanda. E’ proprio questo intreccio di domande e risposte il dialogo; è l’ascolto reciproco la buona educazione.
Si domanda per apprendere, si domanda per insegnare e a nessuno dovrebbe essere vietato di porre domande, se si vuole che la relazione educativa sia una relazione dialogica.
La scuola, come dice B.Rey, dovrebbe essere il luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di chi la pronuncia.
“Le verità non derivano da un’autorità testuale o pedagogica, ma da dimostrazioni, argomentazioni e ricostruzioni. Questo modello di educazione è fondato sulla reciprocità e sulla dialettica” (J.Bruner).
Il riconoscimento del valore della parola dell’alunno è il fondamento dell’educazione autentica e richiede l’attribuzione del potere di pronunciarla; richiede il riconoscimento del suo diritto di partecipare con spirito di iniziativa e responsabilità nel processo educativo.
“Le persone si lasciano convincere più facilmente dalle ragioni che esse stesse hanno scoperto, piuttosto che da quelle scaturite dalla mente altrui”(Pascal).

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C’era una volta il preside

di Raimondo Giunta

Ho fatto sempre una grande fatica a immedesimarmi nel mestiere di preside e siccome non me l’ha prescritto il medico, ho cercato di farlo nel modo migliore possibile.
L’ho praticato con dedizione e sempre l’ho vissuto con un certo distacco. Il mio disagio è cresciuto in modo esponenziale con la dirigenza scolastica, che tra i pochi non desideravo per vari motivi che cercherò di esporre. In nessun modo, poi, avrei cambiato un nome così bello e pregnante di significato, come quello di preside (prae-sedes, prae-sidium=chi sta davanti, chi è presidio etc) per uno dei tanti participi presenti che pretendono di diventare sostantivi…

La dirigenza, peraltro, di tipo prevalentemente amministrativo, seppur colorata con tutte le forme di retorica aziendalistica, era l’espediente che si era trovato per sfuggire al contratto unico della scuola e dare ai presidi l’agognato, meritato e giustificato riconoscimento economico per le responsabilità che erano e sono in capo al ruolo di chi dirige e rappresenta una scuola.

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