Saper scrivere, per mettere ordine nelle nostre idee

di Raimondo Giunta

La parola ci aiuta a tenere a bada, a regolare la molteplicità delle cose che fanno parte del nostro mondo e delle nostre esperienze.
Ci costringe a mettere ordine nelle nostre idee, a dare una direzione alla nostra volontà. In questo modo crea lo spazio delle nostre relazioni e la possibilità, se lo si vuole, di metterci d’accordo, di comunicare, di dialogare. Nella parola scompare la particolarità, l’individualità della cosa; vi rimane attaccata la sua essenza, l’eidos, come dicevano i greci, l’immagine che ci facciamo della cosa e che per questo diventa il significato del nome che la indica.

La parola “orale” è immediata, fisica, contestuale; si accompagna alle emozioni e le provoca.
E’ la parola della conversazione, dell’ascolto, della rabbia, della gioia, del pianto. La sussurri, ma la puoi anche gridare, mettendoci tutta l’anima. la Parola scritta è di suo astratta, riflessiva, malleabile modificabile, reversibile. E’ muta e per questo adatta al dialogo interiore.

E’ la parola da leggere, che è nello stesso tempo un vedere e un ascoltare, anche se la pronunci in silenzio; ma richiede tempo, richiede la separatezza del raccoglimento; richiede attenzione: risorse tutte in via di estinzione nell’universo della chiacchiera multimediale e della nostra vita quotidiana.

La funzione normativa e regolatrice della parola si esalta nella parola scritta, alla quale si deve la possibilità dell’accumulazione e del trasferimento delle esperienze per la sua radicale sinteticità. Non consacra nella tra-dizione l’intera memoria sociale, l’intera nostra storia, perché non potrebbe farlo, neanche se lo volesse. Ma quel che la parola scritta può trasmettere lo consegna con sicurezza, e di esso si può fare istruzione, perché disponibile nei “testi”.

La riproducibilità dei testi fonda la modernità della ricerca individuale, del libero esame, di una soggettività padrona del proprio pensiero. Modifica un costume collettivo rispetto al principio di autorità e al concetto di verità. Ci si istruisce attraverso i testi, ma non si dovrebbe dimenticare mai quanta parte del “mondo dell’esperienza” non vi è più rappresentato, che in essi son date delle risposte a domande che bisogna sempre tenere presenti o recuperare. Senza testi scritti non si può fare scuola. La scuola trasmette saperi e conoscenze perché il mondo dell’esperienza viene riassunto e recuperato attraverso quanto è stato scritto e riprodotto nelle discipline scolastiche. Il testo a scuola è il sostegno dell’oralità nella trasmissione dei saperi, il punto di partenza della conversazione educativa e del dialogo e non ha alcun senso rinunciarvi (. . si dovrebbe sempre ricominciare daccapo). Impone la logica stessa del modo di insegnare.

E’ insegnabile, infatti, tutto ciò che entra nell’ordine del discorso, e può essere ricostruito nella sua identità e struttura. La scrittura deve essere posseduta da tutti per potere partecipare alle pratiche sociali che da essa vengono trasmesse e rappresentate; proprio per questo va salvaguardata dalle pratiche educative che la sottomettono ad altre priorità, che ne misconoscono le potenzialità formatrici.

La scrittura stabilizza la nostra esperienza e differisce l’espressione immediata delle nostre reazioni, delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, delle nostre intuizioni collocandole nello spazio purificato della riflessione, con la quale diventano risorse del nostro pensiero. La scrittura mezzo di distanziamento e di riflessione nel mondo dell’immediatezza. Per questo è necessario a scuola valorizzare in tutti i modi, tutti i modi della scrittura. L’ingresso nella scrittura è il passaggio obbligato per ogni forma di autonomia intellettuale.




Contro la meritocrazia e per la giustizia a scuola

di Raimondo Giunta

La giustizia a scuola è oggi l’unica ragione della sua esistenza.
La scuola pubblica deve formare cittadini uguali, con uguali chances di partecipare alla vita pubblica, economica e sociale.
Il problema della giustizia a scuola è quello dell’accesso libero e paritario al sapere e alla conoscenza da parte di tutti i giovani.
Il sapere, il patrimonio collettivo di esperienze e conoscenze consegnatoci dalle generazioni precedenti è al servizio di tutti e non di pochi privilegiati. La conoscenza e il sapere sono, devono essere un bene pubblico e un bene pubblico per definizione non può essere posseduto da pochi.
E questo postulato non si deve dimostrare, altrimenti non si capisce perché si debba mantenere e finanziare un sistema pubblico di istruzione.
Contro l’ideologia del merito ci si deve battere, perché a scuola si possano ancora fare scelte di giustizia.

Ne cito qualcuna:
1) Ogni giovane, qualunque sia la sua origine sociale, deve riuscire ad affrontare gli altri su un piano di parità
2) La scuola deve offrire ad ognuno la possibilità di realizzare il suo potenziale umano per vivere secondo il principio di dignità
3) Nessuno deve restare indietro. Nessuno deve uscire dal sistema scolastico, senza il bagaglio necessario di competenze per non essere emarginato e vivere una vita dignitosa
4) La scuola non deve contribuire ad aumentare le differenze di riuscita tra individuo e individuo
5) Quelli che sono allo stesso livello di talento, di capacità e hanno lo stesso desiderio di utilizzarli devono avere le stesse prospettive di successo senza tener conto della loro posizione sociale.
Per trattare le persone in modo uguale, per offrire una vera uguaglianza di opportunità, la società e la scuola devono consacrare più attenzione agli svantaggiati, quanto ai doni naturali, e ai più sfavoriti socialmente per nascita.
“Un’eredità ineguale di ricchezza non è intrinsecamente più ingiusta di un’eredità ineguale di intelligenza” (J.Rawls).
Per essere giusto un sistema scolastico dovrebbe contrastare le disuguaglianze che conducono alla marginalità sociale.

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La centralità dell’insegnante, dall’insegnamento all’apprendimento

di Raimondo Giunta 

Nel processo di formazione l’insegnante svolge opera necessaria di mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non può essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, perché la funzione e la posizione dell’insegnante non possono essere sostenute da alcuna pretesa di potere sugli alunni. Ciò nondimeno, anche sgombrate da ogni forma impropria di autoritarismo la funzione e la posizione dell’insegnante, da qualche tempo e da più parti sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che fondate.

Si sa che la scuola e quindi l’insegnante non sono più nella società attuale gli unici dispensatori delle conoscenze, divenute ormai reperibili in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmetterle o che non lo possano più fare. Questo comporta che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata. Fatto che richiede specifiche prestazioni professionali, connesse necessariamente alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.

Da più parti si afferma che la centralità della figura dell’insegnante, come si constatava nei modelli educativi del passato, debba essere sostituita da quella che deve avere l’alunno nel nuovo modo di fare scuola.
Una rivoluzione copernicana, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali e con gli orientamenti di alcuni filoni della psicologia. Significativa, perché esalta anche il dovere di attenzione e di cura, trascurato a volte per lo spazio esclusivo assegnato al compito di trasmettere saperi e conoscenze. Bisogna, allora, cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano, se questa tensione etico-pedagogica metta in discussione il primato della conoscenza goduto nel passato e che ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante con la sua cultura. Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere.

Sul piano gnoseologico il nuovo modello educativo propone per una maggiore efficacia di dare spazio maggiore, se non esclusivo, all’apprendimento.  Una proposta che può destare qualche perplessità, se si vuole lasciare intendere che in questo ribaltamento l’alunno possa apprendere da solo e l’insegnante col suo sapere sia un impedimento.  Il primato dell’apprendimento ad ogni buon conto non può prescindere dal valore dei contenuti e dai saperi che si possono e si devono apprendere a scuola.  Il sistema scolastico è legittimato ad esistere, perché tenuto a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze, di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti.
La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze solide e strutturate. Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza, i giovani devono portarsi all’altezza dei saperi e delle conoscenze che è necessario possedere.

Delle innovazioni non si deve avere paura, e quando le circostanze lo richiedono vanno introdotte, ma sapendo in partenza definire i propri fattori di riuscita e quelli eventuali di insuccesso; sapendo conoscere e praticare le regole del giuoco che si vuole fare. Non si cambia per il semplice gusto di cambiare. I modelli educativi, che sono cosa seria, variano in funzione della concezione che si ha dell’uomo, della società e delle loro relazioni e non per caso o per moda.

 

ARTEFICI DEL PROPRIO APPRENDIMENTO

 

Nel paradigma che si vuole sviluppare ed estendere l’iniziativa dell’apprendimento viene affidata all’alunno e l’insegnante da mediatore privilegiato del sapere si trasforma in un organizzatore di situazioni di apprendimento. A soccorso di questa innovazione vengono chiamate diverse formulazioni del costruttivismo, secondo le quali l’apprendimento è visto come attività di chi apprende, sia individualmente sia in un gruppo di pari. Le concezioni costruttivistiche sottolineano la centralità del soggetto apprendente che attivamente e intenzionalmente costruisce la propria conoscenza e riflette sul proprio modo di apprendere. Sono teorie che intendono creare un quadro di intelligibilità delle pratiche didattiche, anche se non ne privilegiano qualcuna in particolare e stimolano a precisare le intenzioni pedagogiche e a determinare meglio le procedure più adeguate per gli scopi che si vogliono realizzare.

Sono un quadro di riferimento, non modelli da applicare ciecamente.
Per cui fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire” le loro conoscenze non sarà per nulla facile, perché comporta un lavoro di innovazione di un certo rilievo e soprattutto perché non viene mai meno il compito dell’insegnante di convincere gli studenti, che spesso non mostrano particolare attenzione e interesse per tutto quello che si fa a scuola, del valore e dell’importanza degli argomenti che vengono affrontati nelle attività didattiche.  Altrimenti sarebbe difficile vederli all’opera; a spingerli a lavorare non sarà la propria autonomia, ma il convincimento di fare cosa buona e giusta.

Ad ulteriore chiarimento va detto che se si possono modificare gli ambienti di apprendimento per dare spazio all’attività del soggetto apprendente, l’epistemologia dei saperi da apprendere non cambia affatto. Le strutture del sapere sui quali devono essere edificate le competenze non sono nella libera disponibilità degli alunni e dei docenti e non è una buona idea non educare gli alunni a misurarsi con i vincoli di questa necessità.  Per possedere certi saperi è una necessità apprendere quel che va appreso, quale che sia il modo di apprenderlo. Per consentire ai giovani di accedere a particolari professioni e a determinate occupazioni è assolutamente indispensabile che il tenore dei contenuti, la loro progressione debba essere stabilita da chi dirige il sistema di istruzione; responsabilità delegata alle singole scuole e agli insegnanti e che non può essere né negata, né trascurata, né arbitrariamente modificata.

Il valore fondante del nuovo modello pedagogico è l’autonomia dell’alunno, che in tanto è possibile formare e sostenere, in quanto viene messa alla prova nelle relazioni del processo formativo, nelle modalità di sviluppo delle procedure didattiche. Autonomia, si spera, come “capacità di autodeterminazione e di autoregolazione, secondo un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, la comunità, l’ambiente sociale e naturale” (M. Pellerey)

L’autonomia dell’alunno è una finalità di alto profilo, ma sarebbe incomprensibile che per essa si voglia alleggerire l’insegnante della responsabilità di trasmettere i contenuti della sua disciplina.

Non è scritto da nessuna parte che l’apprendimento debba essere noioso; è scritto che ci si debba preoccupare di renderlo interessante e anche piacevole, se è possibile.
E’ scritto soprattutto che debba essere solido e duraturo.  E a proposito di iniziativa e di autonomia dell’alunno in quali campi possono essere esercitate? Sulla scelta degli argomenti? Sulle modalità del lavoro scolastico? Sulla valutazione dei risultati di apprendimento? Sulla tipologia delle prove?

”Un processo costruttivo che voglia essere valido e fecondo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nella questione; perché e come. Ma è ben difficile che nel caso delll’apprendimento di nuove conoscenze il progettista e il capocantiere possa essere lo stesso studente”(M. Pellerey).

 

IL MAGISTERO DELL’INSEGNANTE

 

Le ricerche di John Hattie sull’efficacia delle metodologie didattiche hanno messo in evidenza la funzione centrale del docente nei processi di formazione e che quando manca la sua direzione gli approcci didattici innovatori, ai quali si affidano molte speranze, non danno i risultati sperati. I metodi meno direttivi favoriscono gli alunni migliori, mentre danneggiano i più deboli, perché per loro è più pesante il carico cognitivo per fare fronte alle responsabilità loro assegnate. Le procedure di insegnamento diretto, contro le quali si continua a schierarsi, danno migliori risultati.
”Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito. ”(M. Pellerey).

Se un alunno deve affrontare un contenuto nuovo e di un certo spessore culturale e teorico, il buon senso dice che è opportuno che venga introdotto nei concetti che lo costituiscono e che venga guidato nelle pratiche messe in campo per acquisirne le abilità essenziali. Solo dopo che avrà acquisito gli elementi fondamentali e li ha conservati ben strutturati nella sua memoria può essere indirizzato a svolgere in autonomia le proprie ricerche o a risolvere i problemi che gli vengono assegnati. L’insegnamento esplicito e diretto, che nella lezione, ha uno dei modi di realizzarsi, non toglie nessuna iniziativa all’alunno, non ne menoma il compito e l’impegno di apprendere, anzi facilita questa avventura intellettuale, perché toglie di mezzo tanti ostacoli superflui. Sono il significato e la funzione che si danno a questo tipo di intervento a determinare il grado di autonomia che viene lasciato all’alunno e che si dà alla sua attività di apprendimento. Lasciato a se stesso non è detto che l’alunno eserciti la sua autonomia nel modo migliore e più efficace. L’insegnamento diretto non si riduce chiaramente alla lezione frontale, e tutti gli altri modelli didattici non possono fare a meno della direzione e della guida culturale dell’insegnante. Solo svolgendo la sua funzione magistrale l’apprendimento dell’alunno potrà essere, stabile, significativo e fruibile. Il suo compito non si colloca dopo l’apprendimento dell’alunno, ma prima e accanto e non è ragionevole e in alcun modo giustificato ridimensionarne l’importanza. Certamente l’alunno apprende da sé e nessun altro può farlo al suo posto, ma appoggiandosi sul sostegno e l’esperienza dell’insegnante. Per apprendere l’alunno ha bisogno di incontrare situazioni di comunicazione, di scambio e di confronto con chi ha esperienza e conoscenza.

Con questo non si vuole dire che il sapere dell’insegnante debba essere replicato dall’alunno, ma che è necessario per fare comprendere la distanza tra esperienza personale e sapere costituito, la complessità dei contenuti ai quali ci si deve avvicinare, le difficoltà per conquistarli, l’inestinguibilità del dovere di conoscere. Il sapere degli insegnanti serve per fare apprendere e se utilizzato bene per fare comprendere. Insomma l’insegnante non è un tecnico di laboratorio e nemmeno uno psicologo. Nessuno mette in discussione che ci sia bisogno di una diversa relazione educativa tra docente e alunno; una relazione da instaurare sul principio del valore assoluto della persona dell’alunno, che ha tutto il diritto di sapere, di capire e di farsi sempre una propria idea; perché solo la sua partecipazione attiva al processo di formazione renderà solido l’apprendimento. Nessuno mette in discussione che per fare crescere in autonomia e in libertà l’alunno, bisogna interpellarlo, aiutarlo a problematizzare, coinvolgerlo in attività di elaborazione di senso, dargli fiducia, Nessuno, se tutto ciò viene fatto, ha bisogno però di escogitare nuovi primati nelle relazioni educative.

”Certo anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come s’ingozzavano le oche. Si presentava loro un cibo pre-confezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard per la prima volta in vita loro sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo”(A. Camus).

 




Dispersione scolastica, qualcosa si può fare

di Raimondo Giunta

Nei giorni che precedevano l’inizio delle lezioni, finchè sono stato in servizio, impegnavo il collegio dei docenti e i gruppi di coordinamento a discutere sui risultati dell’anno precedente e in modo particolare su quelli che fanno parlare di dispersione scolastica. Il proposito era quello di vedere come e se era possibile contenerla. Trasmettevo ai miei docenti la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

La definizione degli insuccessi scolastici come dispersione non mi è mai piaciuta e non mi piace ancora. Sembra quasi che si tratti di un fenomeno naturale, che si verifichi a prescindere dalle decisioni degli uomini, dalle scelte fatte dagli uomini. Una volta con più precisione si parlava di selezione, ma il termine era ed è sovraccarico di molteplici significati contrastanti e pro bono pacis non lo si usa più, tranne negli articoli di quegli intellettuali che nei quotidiani la reclamano ad alta voce per dare prestigio alla scuola e al sapere e anche per darsi un alto contegno…

Che la dispersione scolastica (ci atteniamo alla vulgata ministerial-pedagogica. . ) continui a verificarsi nonostante le lotte che le sono state dichiarate è un fatto grave sul quale è giusto soffermarsi a ragionare. Senza dimenticare che nel fenomeno della dispersione oltre agli abbandoni bisogna includere ripetenze e scarso livello di conoscenze e competenze

A determinarla nelle proporzioni che vengono messe in luce dalle statistiche ministeriali non sono solo le scelte di parte sempre minoritaria del corpo docente, ancora arroccata a difesa di procedure di valutazione che non hanno alcun valore pedagogico e docimologico; a determinarla contribuiscono la disarticolazione dei rapporti tra enti locali e istituzioni scolastiche, ma anche e in modo preponderante la stessa scuola come sistema. La scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale non è priva di responsabilità in questo campo.

L’apertura della scuola e il sostegno economico, ma sempre in crescente riduzione (esenzione tasse, libri gratis, borse di studio, trasporto gratuito) non hanno realizzato le condizioni perché tutti potessero godere pienamente del diritto allo studio e avere le stesse chances di successo. I pierini fino a qualche anno di studio si trovano accanto i gianni come compagni di classe, ma i primi concludono gli studi, fanno carriera si inseriscono nel mondo del lavoro, gli altri si disperdono, incespicano e a parità di talento fanno meno strada.

A scuola non si riesce a compensare lo squilibrio del patrimonio culturale ereditato dagli alunni; non ci si riesce perchè alla fine non si comprende il meccanismo, la logica che impedisce l’integrazione dei “nuovi “alunni con la scuola e quali nodi della struttura scolastica vadano sciolti per consentirla.

Il problema non è di facile soluzione perchè non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale, e non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.

Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti. E’ importante considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica)che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita. .

Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.

Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere. Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno.

Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola.
La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’ indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo.

Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono.
In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica. Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola.

In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi ? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?

La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali. La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.

Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire. Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana.

Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.

L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione. L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D. Nicoli).

Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione. Non si può avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento

A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione. Ma senza amore, senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta. Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.

Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).

 




Le sfide per una scuola senza scarti umani

di Raimondo Giunta

“La divisione politica si situa tra coloro che affidano alla scuola il compito di trasmettere una somma di saperi tecnici tali da garantire al termine l’impiegabilità del soggetto e coloro per i quali la scuola ha una vocazione culturale che supera la somma delle competenze tecniche che essa permette di acquisire” (Philippe Meirieu)

LA LIBERTA’ DELL’INSEGNANTE

Ciò che dovrebbe fare l’insegnante a scuola in gran parte è stabilito dall’amministrazione dello Stato attraverso i suoi ordinamenti; in gran parte, perché in democrazia qualche voce in capitolo dovrebbero averla genitori e alunni.
In una parola non è lasciato al suo arbitrio ciò che va fatto,
L ‘incidenza delle leggi e delle direttive ministeriali, però, se può svilupparsi sui contenuti del curriculum, non può e non dovrebbe pesare sull’organizzazione dell’attività didattica, che appartiene alla responsabilità professionale dell’insegnante,
L’amministrazione, nell’esercizio dei suoi poteri deve rispettare i principi e i valori sanciti nelle norme costituzionali, che dell’insegnante tutelano la libertà e la dignità,
Se non vuole ridursi ad un semplice operatore tecnico a cui ogni giorno vengono date le istruzioni per lavorare, l’insegnante deve farsi una propria idea di società, di scuola e d’insegnamento, coltivarla e confrontarla con le pratiche che gli vengono richieste,
Solo su questo solido fondamento è possibile difendere il proprio diritto alla libertà di insegnamento,
L’ insegnante deve sapere che la sua libertà a scuola è al riparo dalle ingiunzioni e dai tentativi che la vogliono limitare, se è vasta e indiscutibile la sua cultura e se la sua attività didattica è improntata ad una irreprensibile correttezza professionale e al rispetto dell’autonomia e della dignità dell’alunno,


La società farebbe a meno degli insegnanti liberi, ma alla crescita dei giovani sono utili solo quelli intellettualmente autonomi, ”Nell’educazione l’autonomia è essenzialmente autonomia di decisione; è libertà di interpretazione; è capacità di pensare lontano; è prefigurazione di scenari che per quanto sbagliati possano essere ,lo saranno sempre di meno di quelli sollecitati da un senso comune incapace di progettualità educativa e subalterno a modelli di interpretazione del reale che rispondono a tutt’altre logiche” (B, Vertecchi)
Il lavoro dell’insegnante, oggi, non gode il prestigio sociale di un tempo ed è fatto oggetto spesso di critiche immotivate da parte dei media, delle famiglie e della propria amministrazione e tutto questo nonostante siano cresciuti la complessità dei suoi compiti e il carico degli adempimenti, Sembra a volte che deliberatamente non si voglia riconoscerne la peculiarità, il significato e il valore civico indispensabile per la società, Si trascura il fatto che l’insegnamento solo con la collaborazione e col sostegno dei partner sociali e istituzionali può dare frutti, perché grandi e difficili sono le sfide che deve affrontare e superare,

LE SFIDE DELLA SCUOLA

Il lavoro dell’insegnante è sfidato, messo a dura prova, perché deve svolgersi in ambienti di apprendimento che non hanno più i confini dello spazio-aula, perché deve rivolgersi ad una popolazione scolastica sempre più multietnica e multiculturale, e tenere presente la differenziazione dei bisogni educativi (famiglie disperse, migrazioni etc, ) di una società in cui con l’ampliamento del diritto all’istruzione e alla formazione di fatto si è alzato il livello delle sue ambizioni sociali ,
Su questo fronte un insegnante democratico e aperto, anche se dovesse essere isolato, anche se non viene apprezzato per quello che fa e vale, deve impegnarsi senza cedimenti e compromessi, perché una così grande conquista di civiltà non venga vanificata.
In una scuola che pretende di definirsi come comunità educativa nessuno può essere condannato all’insuccesso e all’esclusione,
Nella trasmissione dei saperi e della cultura né la scuola né gli insegnanti possono darsi come obiettivo l’abbandono di una parte degli alunni. La scuola e gli insegnanti non possono dimenticare che il loro ruolo non può non essere legato ad un progetto di liberazione umana e intellettuale, allo sviluppo dell’umanità di ogni alunno,
Le sfide che si devono affrontare quotidianamente a scuola si riassumono in quella dell’educabilità di ogni alunno e quindi nel suo diritto/dovere ad apprendere. L’educabilità di ogni alunno è un criterio di orientamento a cui ogni docente dovrebbe ispirarsi per difendere il suo insegnamento dalle ingiunzioni del sistema , che nonostante i suoi alti proclami pretende solo risultati, molti dei quali indifferenti alla crescita degli alunni che gli vengono affidati, ”E’ evidente che nell’ambito di concezioni utilitarie l’educazione perde la sua autonomia”(B. Vertecchi).
Piegarsi alla sudditanza di certe prescrizioni dal netto sapore economicistico è un tradimento della funzione educativa.
La cultura del risultato cui soggiace quella della valutazione, soprattutto quando si molestano le scuole con asfissianti e ripetute richieste di reperimento di dati, ha impoverito la vita delle scuole e rende difficile una buona educazione dei giovani,

UNA SCUOLA SENZA SCARTI UMANI

Si promuove e si esalta la centralità degli alunni nel processo educativo, senza fare cenno alle difficoltà che si incontrano in un sistema in cui di fatto, soprattutto con l’accettazione dogmatica dell’’approccio per competenze, al centro sono state messe le esigenze dell’apparato economico.
Non è senza costi lavorare per la crescita degli alunni e questo tra le tante cose significa togliere gli ostacoli al loro apprendimento, apprezzare i loro progressi nel profitto, non colpevolizzare i loro errori, ascoltarli, ma anche metterli alla prova.
Per mettere al centro dei processi formativi gli alunni bisogna battersi contro l’idolatria del risultato immediato; occorre togliere all’insegnamento certe scorie professionistiche che a volte rendono gli insegnanti insensibili alle richieste di confidenza, di aiuto e anche di affetto, perché l’insegnante educa con il comportamento, non solo con le parole della sua disciplina.
A quanti queste indicazioni fanno storcere la bocca si deve ricordare che la gestione delle relazioni umane è cruciale per assicurare un buon clima interno alla classe e che solo su questo solido fondamento possono innestarsi con successo anche le pratiche didattiche che presentano un certo grado di difficoltà.
L’educazione dei giovani è una questione di incontri positivi: ”quello del preside con gli insegnanti, quello degli insegnanti con gli alunni, quello degli alunni con la cultura (Claude Lessard).
Non è un processo direttivo di produzione dal sicuro effetto, dipendente soltanto da rapporto mezzi/fini.
L’insegnamento è un incontro dove non è detto quello che PUÒ SUCCEDERE, Ragion per cui a scuola l’insegnante, che si sente responsabile di parte del futuro dei suoi alunni, deve farsi testimone di un’etica della sollecitudine e della necessità del dialogo e opporsi a qualsiasi suggestione che conduca al lavoro di scarto dei prodotti ritenuti difettosi.
L’insegnante di qualità vuol vedere andare avanti tutta la classe e non ama predicare nel deserto,
Il primo compito dell’insegnante è quello di rendere intellegibile il sapere che deve trasmettere e farlo amare.
Per raggiungere questo risultato deve trovare gli accorgimenti organizzativi e metodologici per diradare l’indifferenza degli alunni che può crearsi intorno ad esso e uno dei più sicuri è quello di dare visibile prova della sua passione per ciò che insegna. Questo è il primo compito, perché la scuola non ha senso, se viene privata o impoverita della funzione imprescindibile della trasmissione del patrimonio di cultura, di tradizioni, di valori, di saperi e di tecniche alle nuove generazioni, se viene occultata o sminuita la sua funzione conoscitiva.
La storia non ricomincia ogni volta da zero; continua e continua per l’azione di conservazione e di trasmissione svolta dalla scuola attraverso i suoi insegnanti,

UNA SCUOLA COME ISTITUZIONE COLLETTIVA

Ad una scuola che non vuole creare scarti si propone come strategia adeguata la personalizzazione e/o l’individualizzazione dei percorsi; una scuola su misura si sarebbe detto in altri tempi. Ci sono tante e reali difficoltà per mettere in atto un modello simile e solo la modularizzazione del curriculum potrebbe essere una soluzione adeguata.
Di fatto se questo dovesse essere il solo rimedio per evitare di creare scarti, la scuola diventerebbe il luogo della giustapposizione di trattamenti individuali e non avrebbe più alcun carattere di istituzione collettiva, centrata sul bene comune; non sarebbe più capace, nell’età che hanno gli alunni che la frequentano, di educarli alla convivenza stabile con un proprio gruppo di riferimento. La scuola diventerebbe una struttura pubblica nelle modalità e nelle pratiche simile ad una casa di cura più che ad un luogo di istruzione e formazione, dove si impara a crescere insieme.
Credo che sfugga a tanti come in questo modo la scuola diventerebbe omologa ad una società che non vuole legami comunitari; ad una società che non vuole essere società.
Con questo modello educativo, tra l’altro, si rende difficile all’insegnante il compito di mobilitare gli alunni su interessi che non siano quelli che già ha e alla fine la scuola si darebbe come vero ed unico obiettivo solo quello di fare riuscire l’alunno in qualche modo, non quello di aiutarlo a crescere, a comprendere e a migliorarsi.
L’alunno sarebbe confermato, bloccato nella propria strategia di apprendimento e l’insegnamento non libererebbe le sue energie, perché si ridurrebbe ad una strategia di adattamento.
L’alunno non uscirebbe mai dai suoi limiti. Non andrebbe mai oltre se stesso. I giovani non hanno bisogno di essere diversificati per curriculum, ma di essere accettati e compresi nella propria diversa identità, nella propria storia personale, nella propria provenienza sociale, religiosa ed etnica.
Hanno bisogno di una pedagogia dell’aiuto reciproco, della cooperazione. Hanno bisogno di essere migliori di se stessi, non migliori degli altri. La verità è che c’è la classe e c’è l’insegnante e non l’insegnante e ogni singolo alunno. L’insegnante deve potere parlare ad ognuno dei suoi alunni, pur indirizzandosi a tutti.
E’ difficile, non impossibile.

CONTRO L’AZIENDALISMO

L’insieme dei ragionamenti fin qui svolti delineano una linea di opposizione al modello della scuola efficace che, oltre ad essere la cornice istituzionale in cui gli insegnanti devono lavorare e alla quale non dovrebbero sottrarsi, è anche la proposta che più facilmente passa nella pubblica opinione, perchè ne intercetta il senso comune e le aspirazioni. Non si è cercato, né voluto elaborare un succinto pro-memoria di sollecitazioni tecnico-metodologiche; si è inteso proporre un appello alla dimensione etico-pedagogica del lavoro dell’insegnante.
Nell’insegnamento c’è una vocazione intrinseca all’umanità che non si può trascurare, né scambiare come un semplice ed eventuale aspetto della professionalità docente. E tutto questo senza prescindere dalle contraddizioni che abitano il lavoro dell’insegnante e dalle sue estese condizioni reali di disagio e di precarietà professionale.
Con quello che si è detto si tende, con i mezzi a disposizione, a dare risalto e dignità civica e valore alle scelte che lo potrebbero sottrarre all’umiliazione quotidiana, con la quale si vuole farne un esecutore servizievole di un’organizzazione che nell’iper-attivismo nasconde la perdita di senso dell’insegnamento.
Si prova a farlo scendere dalla gioiosa macchina delle educazioni per cercare il senso autentico dell’educazione.
Non si è proposto, però, un invito alla solitudine, a disdegnare le giuste alleanze tra i colleghi, senza le quali sarebbe difficile fare della scuola il vero luogo dell’autonomia: quella intellettuale e morale.
Si è voluto scrivere una sollecitazione a ritrovare la capacità di decidere, espropriata da quanti sono interessati a rendere la scuola funzionale soprattutto al sistema produttivo.
La scuola come azienda non ha senso; ce l’ha solo come comunità educante, in cui non si dovrebbero spendere molte parole per mettere in risalto i valori della responsabilità, della collaborazione e del dialogo e in cui non se ne dovrebbero usare per invitare gli insegnanti a non partecipare alle misere corse per premi messi in palio per spingerli alla competizione tra loro. Arrivismo e carrierismo dovrebbero esserne banditi.
Solo insegnanti liberi e generosi possono formare giovani liberi e generosi, dotati di tutti gli strumenti per essere cittadini in grado di partecipare alle scelte della propria comunità e di assumere le responsabilità nel mondo del lavoro per le quali sono stati formati. I compiti della scuola non possono essere riassunti in quello di produzione di capitale umano per la competizione tra sistemi economici.
Bisognerebbe, pertanto, guardare con sospetto ai prestiti culturali della cultura aziendale, resistere alle suggestioni consumistiche che si nascondono dietro il luccichio delle nuove tecnologie e non leggere i dati delle comparazioni internazionali come pagine della nuova buona novella pedagogica.
Dice B. Vertecchi: ”Siamo di fronte a una contrapposizione drammatica fra concezioni educative centrate sui tempi brevi e concezioni che guardano ai tempi lunghi”; la scuola che si cura di tutti e che a tutti ha qualcosa da dire è una scuola che non deve avere fretta e alla quale non si dovrebbe fare fretta. In questo scenario l’insegnante di fatto è costretto a scegliere la propria parte e quella che si suggerisce di prendere è impegnativa e veramente difficile, perchè con molta probabilità lo metterà in contrasto con la propria amministrazione e con le stesse famiglie degli alunni.
A questo proposito va detto con chiarezza che se gli insegnanti non vengono tutelati, se le loro scelte impegnative non hanno alcun sostegno sociale, politico e sindacale, non essendo nessuno obbligato all’eroismo, ma solo alla responsabilità personale, molti come purtroppo avviene svolgeranno il proprio difficile lavoro con l’intendimento di non avere fastidi.
Ma così l’insegnante perderà l’anima e la scuola la sua funzione educativa.
Se la scuola di fronte ai cambiamenti della società è tenuta a rinnovarsi e a ridefinire le proprie funzioni nella società, l’insegnante non può restare fermo alle esperienze maturate; è tenuto a ripensare il proprio ruolo e le modalità di esercizio dei suoi compiti. Non può essergli estranea la consapevolezza di stare esercitando una professione complessa, diversificata, in costante evoluzione che richiede una riflessione continua sulle proprie pratiche e un continuo aggiornamento.
La professionalità del docente non può essere ridotta all’insieme delle competenze tecniche; non può essere pensata priva di responsabilità morale e sociale, né tantomeno di passione educativa.
Se così fosse, sarebbe destinata all’insuccesso.




Qualche regola per gli scrutini finali

di Raimondo Giunta

In ogni fase della valutazione e soprattutto in quella finale l’insegnante assume diverse responsabilità, che vanno affrontate con professionalità e con sensibilità civica, riscoprendo il significato e l’importanza della propria funzione pubblica (valuta e certifica per gli alunni e la società) e della propria funzione educativa (valuta per il bene degli alunni e nel senso della giustizia).
La valutazione è un’operazione che trova fondamento e significato nell’insieme dei principi pedagogici che regolano l’attività formativa e che non può essere affidata alla libera interpretazione dell’insegnante, se certificazioni e titoli di studio vogliono avere ancora una valenza pubblica.
In questo caso bisogna tenere conto dei vincoli posti dalle norme che presidiano questo campo dell’attività di formazione. La valutazione degli alunni non è un affare privato delle singole scuole e dei singoli insegnanti: si fa come è stabilito e nei termini e nei tempi in cui è stabilito.
All’insegnante resta il compito importante di difendere e far valere gli aspetti educativi della valutazione (equità nei giudizi, valorizzazione dell’impegno e dei progressi, sviluppo personale e autonomia dell’alunno, partecipazione al dialogo educativo); di misurare su questa base il significato dei vincoli di natura pubblicistica e di convalidare la legittimità dei criteri di valutazione adottati. Non bisogna dimenticare che la valutazione e in modo particolare quella finale mette spesso in opposizione alunni e docenti, docenti e famiglie ed è per questo che va svolta con rigore ed equità.
Valutare non significa aprire il tribunale delle pene e delle condanne. E’ sempre un’operazione che va incardinata nelle complessive finalità educative che ogni sistema scolastico si dà. Per evitare conflitti, in cui si gioca la rispettabilità della scuola, è necessario informare correttamente alunni e famiglie e in tempi utili sui risultati di apprendimento.
Operazione che va fatta in modo che sia comprensibile.
Questo significa che l’intera impostazione del processo di valutazione deve essere nota all’interno e all’esterno della scuola.


Degli apprendimenti degli alunni dovrebbero avere cura non solo gli insegnanti e le famiglie, ma anche le istituzioni per la parte di responsabilità che loro compete nella costruzione del migliore ambiente possibile per la vita scolastica degli alunni.
Per una buona valutazione finale suggerirei poche regole, ma sensate:

1) E’ necessario tenersi lontani da qualsiasi forma di arbitrarietà. Non si può e non si deve utilizzare la valutazione come strumento di affermazione o di conferma del potere dell’insegnante e come strumento disciplinare.Si deve, quindi, procedere nella valutazione rispettando i criteri che si è dichiarato pubblicamente di volere seguire. Il nodo da sciogliere nella valutazione è quello di sapere comunicare agli alunni ciò che ci si attende da loro e di incitarli a condividere le finalitàdell’educazione (B.Rey), rispettando rigorosamente la coerenza tra presupposti educativi e didattici e procedure e strumenti di valutazione. Quanti sono coinvolti nella valutazione devono essersi appropriati delle sue finalità,dei suoi metodi e dei suoi criteri;
2)La valutazione deve sempre essere funzionale alla crescita degli alunni e al miglioramento dell’insegnamento, di cui è parte integrante. Valutare per insegnare meglio; essere valutato per meglio apprendere.
La valutazione deve integrarsi nel percorso di costruzione del sapere, deve permettere agli alunni di prendere coscienza del proprio modo di apprendere e delle risorse di cui dispongono. La valutazione deve aiutare gli alunni a conoscere le proprie strategie d’azione per guidarle e renderle più efficaci e oltre ai livelli di apprendimento raggiunti deve mettere in evidenza i progressi degli alunni. La semplice misura degli scarti tra risultati e obiettivi fissati non dà i mezzi per migliorare. Non è valutazione, ma controllo (Le Boterf).
L’insegnante in sede di valutazione finale non può ridursi al ruolo di contabile di errori e di punti; è ancora l’accompagnatore del percorso di crescita e di apprendimento degli alunni;
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3)Bisogna sempre tenere presenti le implicazioni sociali della valutazione. Fatte salve le condizioni stabilite dalle norme generali dell’istruzione, messe in atto tutte le strategie di motivazione e di compensazione, disposti tutti i percorsi di recupero e di riorientamento, la formulazione di un giudizio negativo deve essere fondata sull’impossibilità di procedere diversamente. Nelle valutazioni, fino a quando avranno effetti legali, pubblici e sociali, si mette in palio il rapporto di fiducia dei giovani nelle istituzioni e nella legalità e pertanto ci vuole etica professionale e molta prudenza. La scuola e gli insegnanti dovrebbero essere uno degli aspetti più civili e umani del volto delle istituzioni pubbliche presso le nuove generazioni.
La competenza in valutazione è una delle componenti più complesse della professionalità del docente ed una delle più difficili da esercitare. All’insegnante richiede equilibrio, senso delle istituzioni, passione educativa, attenzione al lavoro dell’alunno e cura delle sue sorti. Richiede un’eccellente cultura socio-pedagogica. “Immagino un giorno, in un futuro non lontano, nel quale le prove e la valutazione non saranno considerate con timore e terrore, non saranno separate dall’insegnamento e apprendimento, non saranno usate per punire o per proibire l’accesso a un apprendimento importante e non saranno considerate riti privati o mistici.
Al contrario, valutazione e attività di insegnamento /apprendimento saranno intercambiabili; l’una influenzerà l’altra in modo da crescere entrambe. La valutazione rivelerà non solo che cosa gli studenti sanno e comprendono,ma anche svelerà come questi apprendimenti hanno luogo e determinano una varietà e qualità di lavoro da mostrare la profondità ,l’ampiezza e lo sviluppo del pensiero di ogni studente”(Earl & Cousins-1995)




La scuola è ancora il posto giusto per qualche esercizio di libertà

di Raimondo Giunta

Non credo che le classi dirigenti della nostra società siano molto preoccupate se la scuola non rende migliori le nuove generazioni rispetto a come erano quando hanno incominciato a frequentarla.
A loro interessa solo che escano dalla scuola come quelle che le hanno preceduto e che fuori sgomitano, competono, confliggono, si adattano e si fanno i fatti propri.
Unica preoccupazione delle classi dirigenti è che le nuove generazioni, dopo il lungo tirocinio scolastico, siano in grado di adeguarsi alle condizioni di vita e di lavoro che sono state predisposte.
Significa che amerebbero avere gente che non crea problemi, che si rende utile dove e quando e ogni volta che dovranno svolgere una qualche mansione.
Che siano collaborativi e anche autonomi, ma fin dove è stato stabilito che lo possano essere.

Per un obiettivo di questa portata operano, si impegnano, intrigano, sollecitano con i tanti mezzi a disposizione e con le dovute alleanze per ridurre al minimo il margine di autonomia del sistema di istruzione e di ogni singolo istituto ;solo a questa condizione potranno avere una società a propria immagine e somiglianza.
Per volere le nuove generazioni integrate e fidelizzate ci vuole, infatti, un’educazione apposita, una continua opera di convincimento e di persuasione.
A questo evidente e consapevole impoverimento pedagogico pensano che si possa ovviare magnificando le mille luci della modernizzazione, dei nuovi ambienti di apprendimento, della padronanza delle nuove tecnologie; inneggiando ai miracoli quotidiani del fare nei tanti laboratori ,che manderanno in soffitta le aule e le classi.

Per fortuna quelli che comandano o che hanno voce grossa in capitolo anche nella nostra sgarrupata democrazia, non sono diventati i padroni della scuola o meglio non sono ancora riusciti a diventarlo.

Nonostante i loro mai smessi tentativi di condizionare vita e destino del sistema di istruzione, lo spazio della scuola per la combattività di parte del corpo docente, delle associazioni professionali e dei sindacati di categoria, è ancora il posto giusto per qualche esercizio di libertà di pensiero; è ancora il posto giusto dove è possibile col proprio lavoro e con le proprie idee mantenere viva la speranza o l’illusione di dare un contributo con la formazione dei giovani per una migliore qualità della convivenza.
E’ l’ultima trincea di quelli che non s’arrendono al mondo come è diventato e come lo si vuole fare diventare; l’unica occasione per confliggere con le pressioni a fare dei giovani, persone silenti , disponibili e adattabili a qualsiasi situazione e condizione venga loro imposta.
La scuola, se si vuole, può essere ancora il luogo dove si apprende che la verità di una parola, non è relativa allo statuto di colui che la enuncia (B.Rey)

La libertà della scuola risiede nella capacità di essere fedele ai propri valori e alla propria missione, che è quella di fare amare il sapere e di preparare al mondo del lavoro, alla responsabilità di cittadino e all’autonomia personale le nuove generazioni, senza farsi molte illusioni su quello che poi succederà nella società.
Gli insegnanti e i dirigenti scolastici, se credono che alla scuola tocchi un margine di indipendenza rispetto al sistema socio- economico, devono in ogni singolo istituto garantire che ci sia lo spazio per la riflessione, per la comprensione e per gli interrogativi sul significato della propria esistenza.
Devono ritenere imprescindibile che si lavori per formare e per esercitare i giovani a ragionare correttamente e per fare capire che le pretese di dire la verità devono passare al vaglio della ragione.
Una scuola che si ponga questi obiettivi è una scuola che non ha fretta, che si dà del tempo per arrivarci.
Lo spazio conquistato a scuola per il pensiero, per il confronto e per il dialogo è uno spazio di libertà e per la libertà e bisogna difenderlo da qualsiasi forma di intromissione o di intimidazione.
Per un motivo molto semplice. La scuola che vuole educare nel senso che si è tentato di definire è la scuola che ha come suo insostituibile punto di riferimento i valori della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” (art.9,comma1)
”L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (art.33,comma1).