La scuola dei desideri è andata all’incontrario

di Raimondo Giunta

Della scuola si parla per dire come dovrebbe essere e quello che dovrebbe fare, dimenticando spesso di dire come veramente è e che cosa ragionevolmente si può realizzare, considerate tutte le sue vere condizioni. Forse è la natura stessa della scuola a favorire questo modo di impostare i discorsi, a spingersi costantemente, ingenuamente o maldestramente nel futuro e a sottovalutare il peso della realtà.  La scuola per statuto non può che lanciare lo sguardo oltre l’ostacolo, lavora in funzione di chi deve pensare al proprio avvenire ed è naturalmente proiettato verso il domani. La scuola ha coltivato sempre l’ambizione di potere dire di se stessa che cosa possa e debba essere; purtroppo oggi, più di ieri, la scuola non sarà come vorrebbe essere, ma come la vogliono gli altri, come la vuole la sua amministrazione. Sono evidenti le intenzioni di farne un’istituzione che replichi le scelte e i comportamenti del mondo economico- aziendale, elevato con animo subalterno a modello da imitare; è palese la volontà di piegarla alle esigenze di una società che pratica largamente la competizione, la discriminazione e la selezione sociale, la gerarchizzazione dei rapporti umani e sociali e che irride ogni forma di sapere che non abbia i crismi dell’immediata utilità.

Nell’organizzazione che si è voluto dare alla scuola l’accoglienza, il successo formativo, le pari opportunità, la partecipazione, il dialogo professionale, di cui si sono nutrite per molti anni le pratiche formative per l’impegno di tanta parte degli insegnanti, col tempo faranno parte delle retoriche da recitare, ma non avranno più incidenza nella quotidianità delle attività scolastiche. Saranno confinate nel mondo delle illusioni e dei pii desideri, di cui devono pascersi le rimanenti belle anime degli insegnanti.  L’organizzazione, si sa, modella le coscienze più di molte prediche pedagogiche. Oltre la sacralizzazione dell’organizzazione, il tema della rendicontabilità e la cultura del risultato sicuro e immediato sono stati i prestiti del mondo economico che con fatuo e indiscriminato zelo si è cercato e si cerca ostinatamente di impiantare nel mondo della scuola, stravolgendo il significato che possono avere questi stessi processi nella formazione, dove di sicuro e di immediato c’è molto poco e nel rendere conto non si possono trascurare le caratteristiche culturali e valoriali del contesto, i tratti costitutivi del sistema scolastico, la carenza delle risorse disponibili, le condizioni economico-sociali delle famiglie. Peraltro non si dà conto solo agli organi superiori, ma nei nostri giorni ad ogni gruppo di pressione che pretende qualcosa della scuola, non conoscendone spesso le modalità operative e le responsabilità istituzionali.

E’ venuta fuori negli ultimi anni una scuola impaziente e frettolosa, stiracchiata da ogni parte, quasi costretta a trascurare la dimensione educativa, che ha bisogno di tempi lunghi di elaborazione e di riflessione. Nè può essere taciuto che senza adeguata vigilanza, la cultura del risultato, costantemente professata e inoculata da parte dell’amministrazione, conduce alla costituzione di un modello di istruzione estraneo ai bisogni reali di formazione degli alunni, che sono contestuali al luogo, al genere, alla condizione sociale e alle tradizioni. La scuola è servizio alla persona e istituzione della società e queste funzioni si esprimono principalmente nella salvaguardia e nella trasmissione delle conoscenze, dei valori, della storia, della cultura, delle tradizioni accumulate nel passato. Nella trasmissione di questo patrimonio la scuola aiuta a definire nella coscienza dei giovani la continuità e l’identità della comunità d’appartenenza, diventa ancoraggio per la salvaguardia della civiltà. Trasmettere è associare una persona ad un percorso, ad una storia; è indicare la lunga vicenda della nostra libertà intellettuale; è fare partecipare all’avventura delle scoperte che ci hanno fatto crescere ed hanno allargato il nostro orizzonte. La funzione cruciale di ogni sistema di istruzione è proprio questa ed è irresponsabile alleggerirla per rendere la scuola ancilla docile delle ingiunzioni del sistema economico.

Negli anni passati si è proceduto a innovazioni curriculari senza adeguato e approfondito dibattito pubblico e non credo che si sia tenuto nel dovuto conto che le scelte effettuate su ciò che si debba insegnare nelle scuole non sono prive di importanza e di significato. A seconda di ciò che si insegna o non si insegna gli studenti acquisiscono diversi valori, diverse competenze sociali o economiche, diverse visioni del mondo. Si sta perdendo il senso del destino della scuola, della sua funzione conoscitiva e della sua funzione politica ed educativa. La scuola dovrebbe essere il luogo della riflessione e dei tempi lunghi e invece si cerca di praticare la soddisfazione immediata delle diverse pulsioni pubbliche che si scaricano dentro di essa. La scuola dovrebbe essere il luogo dell’appropriazione della conoscenza e dell’esercizio a saperla trasferire e invece si esercitano gli alunni alla ripetizione mnemonica e alla risposta immediata ai test da pubblicità o da propaganda. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui si professa e si pratica la ricchezza della lingua scritta e strutturata e invece si riducono di numero le prove scritte di ogni genere e i tempi necessari per elaborarle come si deve. La scuola dovrebbe essere il luogo della costruzione del senso di comunità e invece con premi e cotillons si mettono gli uni contro gli altri sia gli insegnanti, sia gli alunni. Si dice società della conoscenza e si fa, invece, la scuola dove si è perduto di vista la funzione autentica della conoscenza, il senso dei saperi e della cultura.




L’insegnante è come un regista, gli alunni sono gli attori

di Raimondo Giunta

Non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche ,ma ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema non è quale pratica adottare, ma quali apprendimenti si devono conseguire e misurare su questi la pertinenza dei mezzi e delle procedure usati, tenendo presente che una pratica non può essere separata dalle intenzioni che l’animano e dal modo in cui viene messa in atto.

Ogni apprendimento impegna l’attività intellettuale di colui che apprende e ne porta il segno; ogni conoscenza è legata al contesto sociale e culturale in cui scaturisce e nei luoghi di formazione il protagonismo dei discenti e le pratiche sociali di cui è quotidianamente partecipe non possono essere trascurate.

L’alunno deve sentire come scoperta personale il possesso del sapere e “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
E’ indispensabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento sul modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra.

“Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).
Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problemi, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta un radicale cambiamento dell’insegnamento.

E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).

Per raggiungere questo risultato una buona scuola deve dare spazio alla negoziazione, al dialogo, alla riflessione perché in questo modo l’alunno può crescere bene e trovare fiducia nelle sue forze.

Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione” delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.

Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.

Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.

Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante ,risorse di apprendimento per i propri pari

L’insegnante favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.

E’ presenza fondamentale nei momenti preliminari, e soprattutto durante l’attività didattica. E’ un ruolo di guida ,ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche. Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità. Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere.

Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca.
Deve far vedere che ha in sé il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.

 




Scuola e comunità locale

Stefanel

di Raimondo Giunta

Il modello della scuola separata dal mondo, lontana dai turbamenti delle vicende quotidiane, se è esistito, ha compiuto il suo percorso e comunque ad ogni buon conto non avrebbe davanti a sè un grande futuro.

Con la nascita degli stati nazionali la scuola ha preso in carico il compito di legare le nuove generazioni ai valori e agli interessi delle nuove organizzazioni statuali. Da quel momento diventa luogo di riproduzione dei saperi e di formazione dei comportamenti ritenuti necessari per l’accesso ai ruoli di comando della società e per il mantenimento della sua coesione.

Pur separata ha coltivato un disegno egemonico sulla società; ha ritenuto di doversi considerare il suo “dovere essere”, di rappresentare il paradigma, l’esempio dei principi e dei valori che andavano ovunque praticati.

La scuola dell’educazione nazionale nasce nel seno della cultura illuministica e ne conserva ereditariamente i tratti, gli impulsi, le tensioni e le procedure.  E’ una scuola che non conosce i propri limiti e che crede di essere e rappresentare la “cultura”, di avere l’esclusiva della vera e unica educazione; di essere nella nazione la sola dispensatrice del sapere critico, razionale, dei valori estetici e spirituali.

La scuola del nostro passato è stata il luogo del testo scritto, dei linguaggi formali, dell’astrazione concettuale: strumenti indispensabili di riduzione, unificazione e mediazione dei saperi alti. Operazioni possibili proprio per la sua separatezza. E’ stata una scuola elitaria nella cultura dei suoi curricoli, selettiva nella sua organizzazione, discriminatoria nella sua composizione sociale.
Questa scuola ha dato ai saperi una propria forma, l’ha dato anche alle procedure di trasmissione, al rapporto conoscitivo con la realtà e al dialogo formativo. Se questa non era la” cultura”, è però stata la sua cultura, dalla quale le riesce difficile distaccarsi.

La scuola dell’educazione nazionale è stata necessariamente una scuola uniforme, accentrata, diretta dall’alto.
E’ stata gestita con ordini di servizio e direttive indiscutibili, come si credeva che dovesse essere l’enciclopedia dei saperi che doveva trasmettere; è stata una scuola che ha funzionato finché è stata piccola la platea dei suoi studenti, limitato l’accesso ad ogni grado di istruzione.  Ha funzionato finché è stata semplice la composizione sociale della nazione e finché governabili sono stati i processi di cambiamento tecnico e lo sviluppo delle conoscenze.

Negli ultimi decenni il contesto di riferimento della scuola è profondamente mutato, è diventato quasi irriconoscibile rispetto al passato. Si potrebbe dire con grande approssimazione che fino a ieri la scuola è stata la scuola degli stati e delle economie nazionali, la scuola del primo secolo di industrializzazione, ma che oggi si trova fuori posto nei tempi dell’universalizzazione delle economie e dei mercati, del deperimento degli stati nazionali e della costituzione di comunità statuali multietniche e multiculturali.
Pare a molti evidente che il sistema scolastico necessariamente debba scommettersi e sfidarsi in un nuovo cammino; dalla sicurezza delle precedenti stagioni deve avviarsi alla ricerca di una nuova identità.
La scuola deve vivere con consapevolezza il suo paradosso che è quello di innovare, ma anche di conservare; di confrontarsi con i cambiamenti, ma di non illudersi di poterli afferrare e assimilare nella loro interezza; di porsi ancora come momento possibile di unificazione nazionale, ma di dare spazio alla diversità,  di aprirsi alla pluralità delle culture locali; di trasmettere un patrimonio,  ma anche di innovarlo. La condizione di separatezza, che l’ha distinta, si deve sciogliere in un rapporto di reciproco dialogo e di scambio con la società. Tra scuola e società c’è qualche necessaria barriera, ma non la cortina di ferro.

L’autonomia della scuola è sembrata lo strumento adatto per far compiere alla scuola questo nuovo percorso. La scuola non più luogo di esecuzione, ma di ricerca e di elaborazione curriculare; di creatività didattica; luogo in cui trovano spazio la libertà professionale e la responsabilità del personale della scuola.  L’apertura al territorio che era stata nel passato una vaga opzione culturale è diventata oggi un compito specifico da assolvere. Il territorio non è più un ambito di conquista e di colonizzazione; il depositario di conoscenze, di valori e di simboli di una cultura ritenuta minore e pertanto da censurare e da rimuovere, ma un partner educativo.
Con l’autonomia la scuola, pur rimanendo dentro l’apparato delle istituzioni statali, incomincia a qualificarsi come ente di servizio territoriale, la cui funzione si esprime nella formulazione di proposte formative che devono tener conto del contesto locale e interpretarne la storia.

La scuola da luogo di conformità diventa luogo di confronto culturale e valoriale. La scuola si arricchisce perché si possono recuperare gli elementi di contiguità e di continuità col mondo circostante e perché in questo modo in ogni situazione si può riannodare il filo della comunicazione con le generazioni che ci hanno preceduto; la scuola può diventare luogo della ricostruzione della memoria e delle tradizioni locali.
L’accortezza e la sapienza delle scuole devono fare in modo che l’apertura al territorio non comporti l’irruzione acritica del folklore e dell’aneddotica municipale nel curriculum, perché il compito è quello di dare spazio ai saperi “altri” rispetto a quelli ufficiali, ma nella forma seria del sapere critico e storico e di comprendere che tra territorialità, spazio nazionale e relazioni internazionali si giuoca la partita della buona educazione delle nuove generazioni.




C’è proprio bisogno del tutor?

di Raimondo Giunta

Il ricorso a parole anglosassoni (seppure riprese con varianti semantiche dal vecchio latino..) accompagna talvolta qualche innovazione o qualche idea pedagogica,  con la speranza che forniscano un adeguato corredo di prestigio …Una di queste parole è “Tutor”.

Nel mondo giuridico, in cui è nata la parola,  il tutore è la persona che si prende le responsabilità di proteggere e guidare i minori,  in assenza o in sostituzione dei genitori .E’ la persona che deve assicurare la salvaguardia dei diritti e degli interessi del tutelato nel contesto sociale in cui vive e deve crescere.
E nella scuola?

A scuola la persona da tutelare è l’alunno, in posizione di minorità rispetto agli insegnanti e rispetto all’istituzione scolastica e chiaramente solo rispetto agli uni e all’altra.

A rigore, una figura terza come il tutor, tra l’insegnante e l ‘alunno, che sostenga quest’ultimo nell’esercizio del diritto a essere formato ed educato non dovrebbe esserci, perché questa cura dovrebbe essere indissolubilmente legata all’attività di docenza di qualsiasi docente.
Ciò nondimeno, in diverse forme dell’attività formativa (formazione professionale, educazione degli adulti, corsi di aggiornamento,  etc) questa figura si è resa necessaria, come supporto alla docenza e come aiuto all’apprendimento; figura di mediazione e di accompagnamento.
Ma c’è questo particolare bisogno nell’attività didattica di ogni classe di ogni tipo e grado di istruzione? A quale tipologia di alunno dovrebbe essere dedicata questa particolare figura professionale?
A quelli che restano indietro o anche a quelli che marciano da soli in avanti come vorrebbe il ministro? La preoccupazione per le sorti del “minore” in educando è ancora in capo ad ogni insegnante o viene delegata al tutor?

Le funzioni di guida e di orientamento sono costitutive dell’adulto e del genitore, figure finora e ancora ambedue assorbite e interpretate in modi particolari dal docente nell’esercizio dei suoi compiti. Non sarà più così?

Il Ministro dell’Istruzione e del Merito(?) sicuramente sa che un tentativo di introdurre il tutor nella scuola italiana c’è già stato e che  per vari motivi non se ne è più fatto cenno.

Prima di riparlarne non bisognerebbe partire dalle ragioni di quel fallimento? La cura, l’attenzione ai problemi degli alunni, la guida nel loro processo di apprendimento, l’affiancamento nel loro processo di crescita non sono azioni possibili del e nel processo educativo, ma azioni doverose. Fanno parte delle responsabilità di ogni figura professionale che entra in una classe per svolgervi il proprio lavoro,  sapendo  che senza di esse non si genera la formazione, l’educazione, la crescita umana dell’alunno.

Non è sufficiente  sollecitare ed esaltare  queste responsabilità per affrontare i problemi che sorgono nella gestione quotidiana di una classe?

Si è vissuta una lunga stagione in cui con superbia intellettuale questi problemi sono stati giudicati marginali nella professione docente, tutta centrata sulle tecniche didattiche e organizzative.

Si sono sminuiti come superflui il mondo delle relazioni e la dimensione affettiva del lavoro, deresponsabilizzando il docente dal suo dovere di “cura” e di attenzione nei confronti di ogni singolo alunno.

Si è insistito con protervia nella formalizzazione di un processo dinamico, complesso, ricco, intrigante, emotivo, sentimentale come quello dell’educazione.  Molti, abusivamente a mio parere, hanno ridotto l’insegnamento alla sola dimensione conoscitiva, alla professionalità,  al culto della disciplina.

La dimensione educativa è stata spesso rinviata alla famiglia o nella versione più laica all’equipe psico-pedagogica.

Il problema è che le famiglie non sempre ci sono e se ci sono, spesso latitano, ma i ragazzi e i giovani ci sono e quindi non può essere eluso, da chi se li trova davanti per la gran parte del tempo della loro crescita,  il loro bisogno di “tutela”.

Se non si fosse giocato parecchio con la separatezza tra educazione e istruzione, se gli insegnanti non si fossero trincerati dietro il loro specialismo e non avessero difeso ad oltranza il loro insindacabile individualismo, rendendo di fatto impossibile l’assunzione della responsabilità collegiale di fare crescere armoniosamente l’alunno, a nessuno sarebbe venuta e verrebbe in mente l’idea di parlare di tutor.

Al massimo si sarebbe parlato dei nuovi compiti del coordinatore di classe, del coordinamento dell’azione unitaria dell’educare e dell’istruire.
Con la figura del tutor di fatto si scompone la figura del docente e se ne gerarchizzano le funzioni.

Il tutor a condizioni immutate del normale esercizio dell’insegnamento, senza una riconsiderazione radicale del suo svolgimento, potrebbe essere una pezza peggiore del buco che vorrebbe coprire, perché  professionalizzarebbe la funzione d’accompagnamento (con i rischi di impoverimento culturale ed umano del restante personale) e accentuerebbe e giustificherebbe la deresponsabilizzazione educativa dei docenti .In una parola è meglio lasciar perdere.

 

 




Tra scuola e società il dialogo è necessario, anzi indispensabile

di Raimondo Giunta

La scuola vive dei suoi rapporti con la società; si alimenta delle sue esigenze, si muove sulla spinta dei suoi problemi. Scuola e società reciprocamente si richiamano; si dovrebbero aiutare, ma più spesso negli ultimi tempi confliggono. Va da sé che per cogliere frutti buoni, però, è necessaria la loro stretta, solidale collaborazione, nella distinzione dei compiti e dei ruoli e nel rispetto delle funzioni professionali, culturali ed educative che in autonomia la scuola deve svolgere. Se la scuola non entra in sintonia con i problemi della società e con i temi culturali del proprio tempo, prima o poi perde la propria ragione d’essere.
La riflessione su questo nodo cruciale dell’istruzione deve essere permanente e costituirsi come principio di orientamento nell’azione quotidiana a scuola, per evitare il rischio che si avviti e si impoverisca nella sua solitaria autoreferenzialità. La scuola non può tenere né porte, né finestre chiuse. Operazione assurda e inefficace; ci penserebbero gli alunni e le famiglie eventualmente a portare dentro la scuola il mondo che sta fuori. Il problema è come la scuola debba pensare e vivere le questioni che agitano la società e questo non è di pacifica e concorde soluzione. C’è un modo proprio della scuola per svolgere questo compito e solo rispettandone stile e natura si possono avere risultati utili.
Nella costruzione del rapporto scuola-società ci sono scelte che attengono alle responsabilità generali dello Stato e scelte che sono nelle mani delle singole scuole, dotate degli strumenti che loro può dare l’autonomia.
Tutto, nel piccolo e nel grande, si sviluppa intorno al rapporto tra domanda sociale d’istruzione e capacità del sistema scolastico di soddisfarla. La composizione della domanda sociale di istruzione muta secondo i tempi, la forza sociale dei soggetti che la formulano, la natura dei bisogni collettivi che in un dato momento si pensa che possano e debbano essere soddisfatti.
Che la scuola anche quando lo voglia non riesca a tenere il passo con le esigenze della società è fatto naturale che non dovrebbe sorprendere. Le risposte del sistema di istruzione arriverebbero sempre con un po’ di ritardo… anche se fosse in grado di programmare e di applicare le innovazioni.


Compito della scuola non è la previsione delle esigenze della società, ma quello di interpretarle quando queste vengono esposte. Ogni realtà ha i propri tempi di funzionamento e il proprio statuto e prenderne atto è operazione dovuta e opportuna. Come comprendere che non esistono soluzioni definitive per i problemi della scuola. Le risposte del sistema di istruzione e formazione ad ogni buon conto sono nell’ordine del ragionevole e del plausibile. Questo non vuol dire volere una scuola effimera, ridiscutibile anno per anno.
La scuola deve avere un impianto solido, offrire curriculi strutturati e rigorosi con una parte ovviamente stabile e una riprogettabile che apra una finestra sul mondo
Nella domanda sociale di istruzione tende ad assorbire ogni spinta e a rappresentarla per intero quella che proviene dal mondo economico.
E’ una pretesa ricorrente dalla quale bisogna sapersi difendere, perché, se è impossibile teorizzare l’indipendenza dei processi di scolarizzazione rispetto a quelli economico-sociali, è altresì impossibile farne l’unico destino, perché la funzione professionale non è l’unica che deve svolgere un sistema scolastico.
Il mondo del lavoro e delle occupazioni, tra l’altro, per i processi continui di profonda, tumultuosa trasformazione che lo distinguono, non è un punto di riferimento stabile come nel passato e nessun sistema di istruzione può essere insensibile ai cambiamenti di costume, psicologici e sociologici dell’utenza scolastica. La scuola deve essere, infatti, sempre all’altezza del compito di socializzazione e di formazione culturale e umana delle nuove generazioni, al quale per nessun motivo può abdicare.
Nel leggere il rapporto tra scuola e società molti si soffermano sul loro scarso grado di integrazione; altri si lamentano dei tentativi di subordinare il sistema di istruzione alle leggi del mercato e delle imprese e di violarne l’autonomia. Per il sistema scolastico è quasi impossibile la simbiosi con la società; inaccettabile la sua subordinazione; convengono e sono proficui solo il confronto e il dialogo aperto e permanente nella diversità dei ruoli. Nel trattare questo problema non si può dimenticare che quando si parla del sistema di istruzione e formazione ci si deve riferire alla condizione attuale di pluralismo formativo, alla condizione, cioè, che vede la scuola in posizione di centralità fra tante altre agenzie formative, ma con connotati diversi rispetto a quelli che un tempo ne disegnavano l’indiscutibile supremazia.
E’ il tempo dell’industria culturale e della pervasività dei nuovi media. E’ il tempo dell’apprendimento lungo tutta la vita. E tutto questo rende molto difficile indicare una sola linea di confronto tra scuola e società, tra scuola ed esigenze individuali delle persone.
Ad ogni buon conto la scuola non può perdere il controllo del proprio programma culturale, ha la responsabilità di non disperdere la propria identità nell’allargarsi e nell’infittirsi dei suoi intrecci con la società; il mestiere della scuola consiste nel sapere escludere e selezionare i contenuti che devono entrare nei curricoli. Non deve rischiare di soffocare per ingordigia. La scuola non deve limitarsi ad assicurare una semplice continuità con la società che l’attornia o con le esperienze quotidiane.
”Essa è quella particolare comunità in cui si fa l’esperienza di scoprire le cose usando l’intelligenza e ci si introduce in nuovi e inimmaginati campi d’esperienza”(J. Bruner).
”La scuola è un luogo dove si svolge un particolare tipo di lavoro intellettuale che consiste nel ritirarsi dal mondo quotidiano, al fine di considerarlo e valutarlo;un lavoro che resta coinvolto con quel mondo, in quanto oggetto di riflessione e di ragionamento”(L. Resnick).
Il funzionamento del sistema formativo dovrebbe essere speculare all’apparizione di una nuova e consolidata tendenza esistenziale non più strutturata a blocchi (scuola/lavoro/pensione) ma segnata dall’alternanza di fasi di lavoro e momenti di formazione e dalla crescente importanza della capacità di apprendimento, dalla capacità di apprendere ad apprendere come si dice sempre più spesso.
Bisogna chiedersi, allora, che genere di cultura e di formazione debbano avere le nuove generazioni, che cosa debbano saper fare i giovani appena usciti dalla scuola, come sia possibile tenere il passo nei confronti delle trasformazioni della società e del mondo del lavoro.
Il sistema di istruzione svolge la sua funzione, se è in grado di progettare i curricoli che formano, a partire dalla scuola primaria fino all’università, le competenze richieste in questa fase storica dalla società nel suo insieme e non solo dal sistema economico-aziendale. Si parla da alcuni decenni di flessibilità, adattabilità, mobilità ed oggi di competenze chiave, di competenze trasversali, di soft-skills. Sono problemi di prima grandezza, bisognosi di risposte che devono contemperare l’immediato e la prospettiva, cioè difficili e nello stesso tempo transitorie. Nel mondo dei problemi con cui bisogna confrontarsi entrano da protagonisti nuovi contenuti, nuovi saperi, nuove tecnologie, nuovi media, personalizzazione dei percorsi formativi, ricerca di radici locali, conoscenza del mondo, momenti di creatività e di espressività. Vi restano con la loro forte presenza la lotta alla dispersione scolastica, la consistenza della cultura comune, le metodologie adatte ad esaltare l’iniziativa di chi apprende. Resta, inoltre, immutata la necessità di conciliare obiettivi di promozione umana e culturale con quelli di professionalizzazione e quella di evitare scelte precoci e socialmente inique.
Alla conclusione del corso di studi i giovano dovrebbero avere la capacità di riconoscere e controllare le condizioni e le modificazioni della propria condizione sociale e di lavoro. Dovrebbero sapere formulare ragionamenti chiari e fondati, compiere processi di astrazione, fare ordinate classificazioni, immaginare modelli ed enunciare generalizzazioni, procedere ad applicazioni del proprio sapere a casi nuovi e particolari.
La loro preparazione dovrebbe essere connotata da conoscenze specifiche e da metodologie tecniche relative alla professione di riferimento, se hanno frequentato scuole tecniche e professionali. La missione educativa della scuola non è più solo quella di arricchire una persona di conoscenze sempre più varie e complesse, ma anche quella di renderla sicura dei propri mezzi per affrontare in qualsiasi nuova situazione le proprie responsabilità di cittadino e di lavoratore.




La scuola che vorrei

di Raimondo Giunta

L’erba voglio non cresce e non è mai cresciuta da nessuna parte e tantomeno a scuola. La scuola che volevo, però, mi ha aiutato nei tanti anni di servizio a superare le difficoltà del momento e a rendere migliore quella che abitavo.
La scuola è oggi in rotta di collisione con la vita quotidiana delle famiglie e dei giovani; gli orari, il calendario, la struttura fisica degli istituti sono espressione di un ordinamento, compatibile con altri ritmi di vita, con altre regole sociali, con altre tendenze dei rapporti umani. L’attuale struttura della scuola è lo specchio della società come era qualche decennio fa.

Alla radice del disagio scolastico, che può debordare in degrado, si trova questa crescente contraddizione tra quotidianità e scuola, bisogni riconosciuti della società e organizzazione scolastica.

La scuola italiana ancora oggi in moltissimi casi è fisicamente preordinata alla sola attività didattica delle lezioni. In molte scuole non si può fare nemmeno l’educazione fisica per mancanza di palestre; non si fa decentemente ricreazione per mancanza di cortili; sono entrati i laboratori, ma non ancora la didattica laboratoriale.  Se funzionasse bene, ma non è così, essa sarebbe funzionale solo ai compiti di istruzione, alla formazione intellettuale, ma oggi tutto questo, per quanto importante possa essere, non basta. I giovani in questo particolare momento della società hanno bisogno di qualcosa di più. Hanno bisogno di cura della persona, dell’attenzione a tutti gli aspetti non intellettuali della loro formazione(sensibilità/affettività/valori).

Queste nostre scuole piene di discipline, di ore di lezioni, di compiti pomeridiani, di progetti, ma privi di spazi e di momenti di convivialità cominciano a fare danni. L’adeguamento dei curricoli, che maniacalmente si sbandiera ad ogni cambio di governo e di ministro, deve andare di pari passo con la trasformazione radicale degli spazi e del tempo scuola, se vuole raggiungere i risultati che si propone.  Ma non basta. Le sorti dell’innovazione e dell’efficacia del servizio scolastico sono nelle mani degli insegnanti, mai così maltrattati e mai così poco difesi ed apprezzati dalle famiglie, dall’opinione pubblica e dall’amministrazione. Con un esercito smisurato di sottoproletari della cultura è già tanto se la scuola si tenga in piedi.

Ristabilito, come il buon senso richiede e come si fa in altre nazioni, il decoro sociale dello status degli insegnanti, perchè devono poter svolgere il proprio lavoro senza imbarazzo e senza umiliazioni, bisognerebbe fare una rivoluzione professionale per cambiare un mestiere ritagliato solo per alcuni compiti. L’insegnante deve poter sapere non solo che cosa insegnare e come, ma anche e soprattutto chi sono i suoi allievi, in che genere di ambiente e di famiglia vivono, in che genere di società loro stessi e gli alunni vivono. Ci vuole più cultura pedagogica, più cultura istituzionale, più cultura sociologica, più cultura psicologica..

La società italiana con i fondi del Recovery fund potrebbe avere una scuola diversa: scuola aperta dalla mattina alla sera, scuola con spazi, scuole con mense, scuole con convitto, scuole con più e diversi operatori; scuole con più libertà, scuole con più mezzi; scuole integrate nel territorio. Ecco è questa la scuola che vorrei per gli studenti, per gli insegnanti e per le famiglie.

 




Se 80mila abbandoni vi sembran pochi

di Raimondo Giunta

La ricerca “Quanto futuro perdiamo?” promossa dall’impresa sociale “Con i Bambini”, presieduta da Marco Rossi Doria, e realizzata dall’Istituto Demopolis”, nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà minorile rivela un dato sul quale si dovrebbe meditare seriamente, perché rivela un quadro di fragilità sociale, in cui può perdersi una frazione consistente delle nuove generazioni.

Nell’anno scolastico passato oltre 80 mila studenti sono stati respinti per il numero delle assenze. E’ un fatto di evidente gravità che un numero così grande di studenti abbia regolato il proprio rapporto con la scuola assentandosi; un fenomeno vero e proprio di rigetto della scuola, che dovrebbe rappresentare una sfida culturale ed educativa da affrontare con energia e con le necessarie misure di contrasto.

All’origine di questa emergenza educativa gli italiani, secondo questa ricerca, pongono i problemi relativi alle strutture, perché troppo vecchie (64%); la carenza di attività di recupero per i ragazzi in difficoltà (58%) e l’inadeguatezza delle strategie che vengono attivate (63%); la scarsa motivazione degli insegnanti (56%).
ll fenomeno della dispersione e dell’abbandono è considerato un problema dal 53% della popolazione e viene percepito in via di peggioramento. Al centro del problema vengono collocate la fragilità del contesto familiare d’origine (74%), l’inefficacia delle istituzioni locali nel trattare il problema (58%), la vacuità del sistema di relazioni famiglia, scuola, istituzioni (57%).

E’ però un dato significativo che per l’85% del campione la responsabilità educativa delle nuove generazioni debba essere distribuita tra tutte le componenti di una comunità e non appartenga solo alla scuola; senza dubbio un fatto importante che indica una crescita della consapevolezza sociale dei problemi relativi ai nostri giovani. Non è, però, irragionevole pensare che a determinare l’abbandono scolastico di tanti giovani contribuisca, oltre alla disarticolazione dei rapporti tra enti locali, istituzioni scolastiche e famiglie, anche la stessa scuola come sistema, la scuola come istituzione con le sue regole, con la sua organizzazione, con i suoi codici di valore, con la sua identità culturale.
Tuttavia non è di questo aspetto del problema che ci si preoccupa di più per aumentare la capacità di attrazione della scuola e la sua efficacia, ma del bullismo e della violenza giovanile.
Questo aspetto è invece una delle soluzioni del problema e riguarda la parte delle responsabilità proprie della scuola all’interno di quelle che la società e le altre istituzioni hanno sull’educazione delle nuove generazioni
In ogni scuola il primo argomento del primo collegio dell’anno scolastico dovrebbe essere dedicato all’analisi e alla valutazione dei risultati degli scrutini finali dell’anno precedente, soffermandosi su quei dati che rinviano all’annosa questione della dispersione scolastica, alla quale in qualche misura non c’è scuola che non dia il proprio contributo….Il proposito da formulare e da tenere sempre presente dovrebbe essere quello di vedere come e se sia possibile contenerla. In nessuna scuola dovrebbero mancare la preoccupazione e l’amarezza di vedere tanti giovani perdersi e perdere le occasioni per istruirsi, per andare avanti, per impossessarsi degli strumenti che sono indispensabili per diventare cittadini e lavoratori all’altezza dei tempi.

Se Il problema della dispersione è senza dubbio di prima grandezza, non bisogna dimenticare, però, che non è di facile soluzione, perché non si dà una sola ipotesi interpretativa di questo fenomeno sociale e perché non c’è una sola causa di inconciliabilità tra istituzioni scolastiche e nuova popolazione scolastica, peraltro accresciuta dalla presenza di centinaia di migliaia di ragazzi di famiglie di recente immigrazione.
Sono varie le forme di disagio, scaturite dai contesti umani e culturali di provenienza degli alunni che si riversano sulla scuola e con cui si dovrebbero fare i conti .Nell’affrontare il problema della dispersione è opportuno considerare (e questo lo fa dire l’esperienza diretta della vita scolastica) che ad una certa età scolare, per lo più dopo il biennio delle superiori, non è tanto il possesso di specifici saperi di famiglia a determinare un migliore rendimento scolastico, ma la percezione del valore sociale dell”investimento in cultura, la conoscenza della profittabilità del sapere in tutto l’arco della vita, la pratica quotidiana dell’importanza delle competenze, della professionalità nella vita.
Nel processo di formazione il giovane che conosce il guadagno ricavabile dallo studio è in grado di sostenere la sfida quotidiana tra soddisfazione immediata e sacrificio, di intendere cioè il senso dello scambio tra sacrifici attuali ed eventuali vantaggi futuri.
Questo tipo di alunni conoscono le ragioni più rilevanti che motivano nello studio, conoscono i tempi, i ritmi e le difficoltà del percorso da compiere. Questo sapere esperienziale che la scuola possiede non sempre viene messo a disposizione di quei gruppi consistenti di giovani, che dal proprio ambiente non riescono ad avere questo importante sostegno. Vi è, inoltre, un problema di corrispondenza tra comportamenti individuali, acquisiti in ambienti sociali deprivati, e regole interne della scuola. La formalità dei comportamenti esigiti per assicurare un regolare svolgimento delle attività didattiche contrasta con le abitudini di molti alunni, soprattutto nella scuola dell’obbligo, molto vicine all’ indisciplina e questo impedisce spesso l’accettazione della scuola e del suo mondo. Il gruppo più numeroso di problemi è costituito, però, dal contrasto forte tra le procedure naturali di apprendimento e i processi di astrazione, di formalizzazione delle procedure d’apprendimento richieste dai saperi scolastici e dai linguaggi in cui questi si esprimono. In una parola dal contrasto tra cultura giovanile e cultura scolastica.
Rendere il processo di apprendimento attraente per le nuove generazioni è la sfida più impegnativa da affrontare a scuola. In questa contraddizione si concentrano gli insuccessi, i ritardi; si forma la consapevolezza della propria incapacità e matura molto spesso la decisione di abbandonare.
E allora quali saperi? Quali metodi? Quali tempi ? Quali metodi di valutazione? Come recuperare?
La scuola non può essere ritagliata su misura del primato logico-linguistico o peggio ancora sulla particolare figura di studente, estratta dall’ambito sociale che sul possesso del codice linguistico, ampio e ricco ha fondato e legittimato le proprie posizioni sociali.
La scuola si deve misurare con la pluralità dei linguaggi, dei saperi e delle intelligenze e dare a questa complessità il rilievo che merita e trarne le conseguenze.
Per gli alunni che si sentono fuori casa, estranei nel mondo scolastico è importante partire dai problemi che danno un senso al sapere che bisogna acquisire.
Bisogna adottare metodologie attive e realistiche che lancino un ponte con le pratiche sociali in cui gli alunni sono immersi. Bisogna tentare, nei limiti in cui è possibile, andare oltre l’aula per ritrovare tutti gli elementi possibili di contiguità tra saperi scolastici e i processi della vita quotidiana. Non si recupera lo svantaggio che denunciano molti alunni con l’aggiunta di ore di attività, che ripetono quelle che l’insuccesso hanno determinato, ma col cambiamento delle relazioni docente-saperi-alunno; con l’implementazione del patrimonio linguistico, chiave di accesso ai saperi; con metodologie dove il parlare abbia la stessa importanza del fare, il muoversi la stessa importanza dello stare fermi.
L’aula non è un auditorium e la cattedra un palcoscenico dove qualcuno recita la parte del sapere; l’aula deve essere un laboratorio che deve impegnare tutte le energie degli alunni, suscitare emozioni e il piacere della scoperta personale, attivare l’immaginazione. L’alunno deve rapportarsi al sapere con spirito amichevole e curiosità (D.Nicoli). Bisogna lavorare con dibattiti, con situazioni-problema, con esperimenti, con progetti di ricerca; bisogna dare spazio al dialogo, alla negoziazione, alla riflessione.
Non si deve avere paura di attivare processi di partecipazione e di coinvolgimento
A scuola si deve lavorare senza rassegnarsi ai dati acquisiti della “dispersione” come se fossero naturali e immodificabili.
La scommessa è quella di condurre i giovani alla conquista del sapere; una scommessa che va fatta ogni giorno e in ogni lezione. Ma senza amore, senza passione per il sapere e per il proprio mestiere non può essere vinta.
Testimoniare concretamente l’amore per il sapere che si vuole far possedere agli altri è la regola aurea per superare a scuola molte difficoltà nel lavoro di insegnamento.
Lunga è la vita dei precetti; corta e infallibile quella degli esempi (Seneca).