Le buone parole della scuola: EQUITA’

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raimondo Giunta

E’ uno dei nodi più difficili da sciogliere nelle scelte di politica scolastica, perchè in genere si intende giocare la sfida dell’equità contro quella ricorrente dell’efficacia, come se non potesse essere garantito quanto è necessario in termini di qualificazioni elevate ed utili alla società, consentendo a tutti pari opportunità di formazione, non lasciando nessuno indietro.
E’ questo un problema che hanno fatto emergere la consapevolezza dell’importanza dell’istruzione nei processi di mobilità sociale e l’insofferenza verso tutte le forme di privilegio sociale, in qualche modo confermate dalla preclusione ad alcuni corsi di studio.
L’istruzione come bene comune è un principio di democrazia che si è fatto strada lentamente nella società ed ha alimentato nei decenni precedenti le lotte politiche tese a renderlo disponibile in una scuola aperta a tutti. L’universalizzazione del diritto all’istruzione e all’educazione è un bisogno della società; è un bisogno di ogni singola persona.
Molti sono stati i modi per affrontare il problema dell’equità a scuola.
La misura ricorrente e iniziale per fare della scuola un’istituzione equa è quella di abbattere ogni forma di barriera al diritto di accesso ad ogni corso di studio.
Non ci sono motivi per sostenerne le ragioni e anche per poterle camuffare.E contro la proclamazione di questo diritto il fatto che si vengano a costituire indirizzi di studio che si distinguono non per le caratteristiche dei propri curricoli ,ma secondo le classi sociali di appartenenza degli alunni che li frequentano. Lo sono anche e soprattutto le cosiddette forme di selezione “cognitiva” (la cui arbitrarietà dovrebbe sempre essere denunciata)per accedere ai corsi a numero chiuso, perchè impediscono a molti giovani di potere dare corso alle proprie aspirazioni e perchè negano il diritto di potersi confrontare con saperi ritenuti importanti per la loro vita. Oltre a questi ostacoli, ma anche se non ci fossero, le vere limitazioni al diritto allo studio e quindi all’equità sono quelle di natura economica-sociale, che impediscono a molti giovani di scegliere o di prolungare la propria carriera scolastica. Basti guardare alle iscrizioni all’università e ai licei, scuole nominalmente e per convenzione sociale più adatte per la carriere accademiche.
La ristrettezza degli aiuti economici (borse di studio, buoni libro) e la mancanza di adeguati servizi (alloggi, mense, trasporti) consolidano questo permanente aspetto dell’iniquità del mondo della scuola e dell’istruzione.
Altro modo per rendere la scuola un’istituzione equa è l’elevamento della scolarità dell’obbligo. C’è un periodo di formazione nella vita di ogni giovane che non può essere negato a nessuno e che necessariamente si dilata nel nostro tempo.
L’innalzamento dell’obbligo scolastico è misura necessaria e adeguata alla società della conoscenza, che rischia di essere inefficace se non viene unita ad una lotta serrata e convinta alla dispersione e se non si dà corso ad un’ampia manutenzione dei curricoli e della didattica.
La permanenza più lunga dentro le aule non risolve da sola il problema di una più estesa e qualificata formazione di tutti i giovani.
La scolarizzazione di questo diritto/obbligo spesso è essa stessa causa di dispersione. L’assenza di un’offerta di formazione professionale articolata, ricca di contenuti, legata al territorio e al mondo del lavoro impedisce di ridimensionare il fenomeno della dispersione e di garantire ad alcuni strati della popolazione giovanile le risorse necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro e per esercitare i diritti di cittadinanza.
Si è ritenuto per molto tempo,oggi un pò meno,che il differimento più lontano possibile delle scelte definitive del tipo di studi fosse una misura per l’equità,che lo fossero i curricoli quanto più possibili unitari.
Molte riforme e molti tentativi di riforma sono stati ispirati da questo convincimento e non solo in Italia.
La differenziazione non è, però, un’invenzione del diavolo; trova spiegazione nella storia dello sviluppo delle istituzioni scolastiche e della società e può essere una soluzione adeguata per valorizzare la pluralità e la differenza dei talenti e delle vocazioni. Trova una sua forte legittimazione solo se ogni indirizzo di studi viene adeguatamente valorizzato e se ogni indirizzo consente di potere proseguire ,se ce ne sono le condizioni, il corso di studi ;se da un indirizzo si possa transitare ad un altro senza particolari difficoltà e se ogni indirizzo è in grado di assegnare a chi lo frequenta il bagaglio necessario per affrontare la navigazione della vita.
C’è un problema di cultura; c’è un problema di orientamento e c’è un problema di stratificazione sociale , quest’ultimo non sempre alla portata della scuola, che bisogna risolvere.
Il rischio di avere indirizzi di studio, socialmente dedicati e frequentati, è dietro l’angolo e non sono solo i curricoli a determinarlo.
C’è sempre un modo per inventarsi un segmento di istruzione che non è alla portata di tutti ed è buono per mantenere intatte le distanze sociali tra gli alunni.
I modi per affrontare il problema dell’equità non sono a costo zero nè per l’amministrazione, nè per il mondo della scuola e dai tentativi messi in atto si vede quanta sensibilità ci sia e quanta volontà per trovare le migliori soluzioni.
Sono di impedimento a volte le regole stesse dell’organizzazione del lavoro e della carriera dell’insegnante.Se non si assegnano gli insegnanti migliori e più esperti con adeguate incentivazioni e tutele alle scuole in zone di disagio sociale difficilmente si può parlare di lotta alla dispersione: i buoni e motivati insegnanti sono la prima E INDISPENSABILE DOTAZIONE TECNOLOGICA PER VINCERE LA BATTAGLIA DEL SUCCESSO SCOLASTICO E DELLE PARI OPPORTUNITA’.




La cura dei giovani: spetta alla scuola o alla famiglia?

di Raimondo Giunta

  • SCUOLA E FAMIGLIE: UN RAPPORTO PROBLEMATICO

Le cronache sconvolgenti di violenza giovanile contro le proprie coetanee ammoniscono sul fatto che l’educazione dei giovani, oggi, è diventato un problema serio, grave, che riguarda tutti indistintamente e purtroppo non facile da affrontare, perché la responsabilità educativa è declinata in modo diverso da chi se ne dovrebbe fare carico. La responsabilità educativa nei confronti dei giovani ricade su chiunque per ruolo o per età con loro abbia o sia tenuto ad avere delle relazioni, anche se diverse per gradi di obbligatorietà.
Nessuno, infatti, può essere responsabile nei confronti dei giovani come sono tenuti ad esserlo i genitori. La responsabilità educativa dei genitori costituisce “l’archetipo di ogni responsabilità” (H. Jonas) e si comprende come sia difficile rimediare ai danni procurati quando questa, come sempre più spesso accade, non viene esercitata, perché ai giovani mancheranno la guida, il buon esempio, i consigli e la cura nello sviluppo del proprio carattere, nella costruzione delle capacità di relazione, nella sollecitazione a regolarsi nella vita secondo principi e valori condivisi.

Alla responsabilità educativa dei genitori nelle società evolute e complesse si accompagna quella della scuola.  I loro compiti si intrecciano, ma non sono identici. Quelli dei genitori sono relativi alla dimensione personale dei giovani, quelli della scuola, relativi alla dimensione sociale e pubblica, tendono all’integrazione nella società, a sviluppare un rapporto di fiducia con le istituzioni e ad agire nella legalità.
Questo dovrebbe accadere se ognuno facesse la propria parte. I fatti di cronaca, non solo quelli recenti, dicono che qualcosa in questa divisione dei compiti non funziona, perché qualcuno dimentica di assumersi le proprie responsabilità.
Sicuramente negli ultimi tempi funziona molto poco il collateralismo tra scuola e famiglia che nel passato rendeva proficuo e meno difficile il lavoro scolastico; oggi varcano la soglia delle scuole giovani provenienti da ambienti sociali lontani dal sistema di abitudini, di procedure e di valori della scuola e di fronte a questa novità sociologica la scuola incontra difficoltà a reinterpretare il proprio ruolo e a ripensare l’insieme delle proprie finalità.

FINALITA’ EDUCATIVE E SCUOLA

Il problema delle finalità educative presenta molte sfaccettature, perché continuo è il processo di riarticolazione dei “valori” prevalenti in una società che occorre tenere presenti.  Nel merito non ci sono proposte facilmente condivisibili, perché ognuna di esse evoca una propria visione antropologica e una propria concezione della convivenza umana. Si può tentare, però, una soluzione. L’educazione a scuola in una società pluralistica non può essere improntata ai valori dedotti da un’idea astratta dell’uomo o da una particolare antropologia, ma ai principi di regolazione sociale che possono garantire il massimo di libertà per tutti e il massimo di rispetto altrui. L’educazione di cui si ha bisogno ha un senso, se chiunque ne abbia la responsabilità si impegna a far crescere e sviluppare l’umanità che è in ognuno di noi per essere reciprocamente umani, per essere reciprocamente liberi, per essere rispettosi della propria e della dignità degli altri, garanti dei propri diritti e di quelli degli altri. Sono valori che dovrebbero essere di comune accettazione, se si vuole disporre di principi di riferimento per la nostra convivenza.

Ovviamente in ragione di questa scelta vanno esclusi dalla scuola idee e valori che sono contro i diritti inalienabili della persona e che alimentano la violenza, l’odio verso la diversità, l’ingiustizia di qualsiasi specie.

All’interno di questo quadro di obbligazioni morali la scuola definisce le regole che devono governare la vita quotidiana e la convivenza dei giovani che la frequentano: regole che vanno fatte rispettare e difese con energia. A scuola si impara un mestiere e si impara a stare con gli altri; anzi se non si impara a stare con gli altri riesce difficile imparare un mestiere.
La scuola come istituzione ha una propria identità, costituisce un mondo particolare che può diventare significativo per i giovani,  se intorno agli aspetti della vita scolastica si riesce a sviluppare una consapevole attività educativa, ad organizzare un loro percorso di assimilazione(ordine, puntualità, impegno, responsabilità personale, rispetto delle persone e delle cose, ascolto, dialogo, equità, collaborazione, spirito di sacrificio, primato del sapere e della cultura, sensibilità artistica, spirito critico etc).
Nello spazio scolastico si possono giocare partite molto importanti per la promozione della cultura e di valori morali e si può attivare per giovani provenienti da ambienti a rischio un processo di decondizionamento culturale e sociale.

Ad un’educazione così come è stata delineata per grandi tratti negli ultimi tempi è mancato il contributo di tante famiglie, molte delle quali esposte alla precarietà dei propri rapporti interni, disperse e umanamente impoverite nell’anonimato di quartieri senza servizi e senza opportunità di incontro o dove hanno perso capacità di attrazione,  se ancora esistono e resistono :l’oratorio, il sindacato, il partito, l’associazione sportiva etc.
Quartieri dove scompaiono i piccoli negozi e i laboratori artigianali, luoghi dell’umano traffico quotidiano. Questa assenza educativa spesso si trasforma in diffidenza e nell’aperta ostilità dei genitori, interessati a tutelare i propri equilibri familiari e i propri interessi, più che alla crescita e alla formazione dei propri figli. Con la scuola un rapporto forse obbligato, forse utilitaristico, ma non di collaborazione.

Fa fatica a educare i giovani anche la scuola. E questa non è una notizia nuova e tantomeno buona.
E’ il problema dei problemi, perché la maggior parte del tempo dell’educabilità dei giovani trascorre dentro gli spazi degli istituti scolastici. Fino ai 19 anni è più il tempo passato a scuola che quello passato in famiglia e nella società. Le ragioni di questa difficoltà sono diverse e bisognerebbe considerarle ognuna nella propria specificità.
A scuola si cerca in genere di fare educazione alla cittadinanza, ma emerge dai fatti di cronaca la necessità di andare oltre, perché non si ha bisogno solo di questo. Su questo argomento nelle scuole si è spesso solo a livello di esigenza, ma non di convincimento forte e corale e si dimentica quanto è possibile fare partendo, come è stato detto sopra, dagli aspetti della vita quotidiana a scuola.
E’ un dato di fatto che la funzione educativa della scuola non abbia avuto il rilievo che avrebbe dovuto avere. A scuola si è spesso occultato lo spazio delle finalità e si è avuto quasi fastidio ad usare il lessico pedagogico che rinvia a temi etici e che propone il compito della responsabilità educativa.

Per alcuni insegnanti e operatori della scuola l’educazione morale, quella affettiva e l’educazione come sapere stare al mondo o in comunità spetta ai genitori.
E’ lunga la tradizione che vuole gli insegnanti solo come professionisti della trasmissione dei saperi e la scuola come luogo eletto degli apprendimenti delle conoscenze e delle tecniche.
E’ forte l’avversione per attività che si ritengono di altrui competenza. Ma se anche il sapere, le conoscenze fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, l’attività scolastica è un’attività comunitaria e questa si può sviluppare con beneficio di tutti se alcune regole, che non possono essere se non regole di ordine morale, vengono rispettate da tutti.
L’insegnante non può essere solo uno specialista che insegna la propria disciplina, in grado di possedere e di dominare una certa area di conoscenza e di controllare tutti gli aspetti della comunicazione ad essa relativi.
L’insegnante deve sapere non solo cosa insegna e come, ma anche chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che ambienti e in quali famiglie vivono, in che genere di società crescono. In altre parole la cura degli alunni, l’attenzione ai loro problemi, l’accompagnamento nei loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti necessari e senza di essi non si genera la formazione, non si genera la crescita umana.

GLI OSTACOLI

Se anche la scuola volesse sul serio farsi carico dei compiti educativi che le spettano, compresi quelli nuovi che emergono dai fatti di cronaca, bisogna vedere a quali condizioni sia possibile farlo. Non mancano, infatti, gli ostacoli che si frappongono all’assunzione e allo svolgimento di questi compiti.  Il più serio di questi ostacoli è costituito dall’organizzazione stessa degli istituti,  così come la si è voluta configurare negli ultimi anni :

A) La dimensione prescritta degli istituiti per avere e per conservare l’autonomia comporta per il dirigente scolastico un aggravio consistente dei compiti gestionali, che anche involontariamente possono essere svolti a scapito di quelli culturali e pedagogici;

B) Non pochi interventi legislativi hanno messo a dura prova gli equilibri interni e la logica stessa della scuola come comunità educativa, perché alimentano non casualmente i conflitti e rischiano di mandare fuori orizzonte la preoccupazione educativa;

C)La precarietà di parte significativa del personale docente rende aleatori i legami dentro i consigli di classe, unici luoghi di armonizzazione degli stili professionali e di attenzione educativa. E se non funzionano i consigli di classe ogni preoccupazione educativa diventa superflua;

D)L’organizzazione del tempo scolastico diventa ogni giorno sempre più incompatibile con quella del tempo di lavoro e del tempo vissuto nella famiglia e questo causa una contraddizione sempre più stridente tra quotidianità e scuola, tra bisogni vitali della famiglia e organizzazione scolastica;

E)L’assenza in molte scuole di spazi,  di tempi e di strutture di convivialità, che non aiuta a praticarsi,  ad accettarsi e a rispettarsi. Ci sono scuole senza palestre e senza cortili…

Non sono solo le questioni gestionali e organizzative dei singoli istituti a rendere complicato e a volte evanescente il compito educativo. Qualcosa va ricercato anche all’interno della stessa struttura curriculare.
L’affollamento delle discipline, ma con relativa diminuzione di quelle umanistiche, allontana le possibilità di un apprendimento riflessivo e quindi di maturazione intellettuale e di fatto impedisce l’applicazione di metodologie collaborative nei tempi limitati dell’orario settimanale di lezioni: risorsa fondamentale per motivare, responsabilizzare e fare crescere nella capacità di ascolto. L’ossessione valutativa che si accanisce sulla scuola fa il resto del lavoro, perché finisce per dare rilievo solo ai risultati di apprendimento, costi quel che costi.

PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI O EDUCATIVI?

L’educazione è fatta di buone testimonianze e di esortazioni; è fatta di divieti, di regole da rispettare e di sanzioni per chi non li rispetta, che devono essere funzionali all’educabilità, ma anche al regolare andamento della vita scolastica. A scuola ci sono minorenni e ci sono maggiorenni e questo dato impone una diversificazione degli eventuali provvedimenti disciplinari. Di fronte a fatti ripetuti che incidono sulla sicurezza e l’incolumità delle persone o come si deve talvolta constatare sulla dignità delle istituzioni e di chi le rappresenta, se le norme disciplinari interne si rivelano insufficienti, bisogna ricorrere ad altre norme. E nelle proprie norme non si può escludere l’allontanamento dalla scuola, quando dopo tutti i tentativi messi in opera questa misura è l’unica alla quale affidarsi per tornare alla normalità in una classe o in un istituto.
Non si può restare disarmati rispetto a chi deliberatamente vuole fare del male alle persone con cui divide lo spazio di una classe e di un istituto e per farlo deliberatamente non è necessario essere maggiorenni.

Se un istituto deve avere delle norme interne di vivibilità, questo non comporta l’installazione di telecamere nelle classi e nei corridoi per facilitare il compito; una scuola non deve diventare un istituto di sorveglianza. Le norme di vivibilità hanno bisogno solo di adulti che le rispettino costantemente, come proprio compito e che dimostrino nei fatti e quotidianamente di amare il proprio mestiere e di volere il bene delle persone che loro sono state date in affidamento.

Il dramma è proprio questo.
Una scuola che non si curi o che non è messa nelle condizioni di curarsi dei giovani rischia di non potere assolvere i compiti di formazione delle competenze e di trasmissione dei saperi, per i quali istituzionalmente esiste. Il compito educativo che le compete, però, non può essere svolto nel pieno di una costante campagna di delegittimazione o con l’ostilità crescente dei genitori. Il compito educativo a scuola è un compito plurale e di collaborazione e la collaborazione non è la competizione, la corsa al primato individuale che si è voluto innestare nel corpo professionale.

Deve essere pensato e progettato nel collegio dei docenti e svilupparsi nei consigli di classe.
E’ l’intero istituto che deve porsi come luogo di accoglienza e di reciproco rispetto. Per educare non è necessario inventarsi l’ora di educazione morale o di quella affettiva, ma solo far vivere nei gesti quotidiani di ogni attività scolastica, a partire da quella didattica, il rispetto di sé e degli altri.




Esami di Stato e prove Invalsi

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

E’ difficile sperare che della scuola si possa parlare con giudizio e razionalità sulla base di una adeguata conoscenza della sua realtà, dei suoi meccanismi, della sua cultura, delle sue finalità e anche del suo personale. Ogni occasione è buona per parlarne come di un mondo modesto e bizzarro in balia di se stesso, sempre pronto a scandalizzare per quello che vi succede platee affollate di immancabili censori ora per l’incuria delle sue strutture, ora per la supposta imperizia dei docenti, ora per l’incorreggibilità degli studenti, ora per l’arretratezza dei curricoli, ora per l’avversione al mondo aziendale.
Non può sfuggire in questo genere di letteratura l’occasione offerta annualmente dalla differenza tra i dati emersi nell’ indagine INVALSI e quelli riscontrati negli esami di maturità appena conclusi. Nelle regioni del Sud, nelle quali gli studenti dell’ultimo anno nell’indagine INVALSI avevano denunciato carenze in più discipline, si sono avuti agli Esami di Stato risultati ampiamente diversi e migliori.

E allora ci si chiede quali dati siano davvero affidabili sulla preparazione degli studenti e ancora se un esame che fa tutti promossi dappertutto sia davvero un esame che può darci informazioni sul funzionamento dell’attività didattica delle scuole. Mettere in contrasto i dati INVALSI e quelli degli Esami è un gioco facile e si sa in anticipo come va a finire.

Va a finire con la demonizzazione del lavoro degli insegnanti, con la riprovazione della loro incerta etica professionale, con la perorazione di nuove e più incisive forme di valutazione della scuola e degli insegnanti. Per il bene della scuola, invece, vanno migliorati sia gli scopi e i metodi delle indagini INVALSI, sia soprattutto l’architettura degli Esami di Stato.
Il vizio di fondo degli Esami di Stato, che compromette qualsiasi buona intenzione e che va cancellato, è costituito dalla composizione delle commissioni. Fino a quando le commissioni saranno composte paritariamente tra membri interni e membri esterni; fino a quando i commissari devono essere scelti solo tra gli insegnanti della provincia in cui ha sede un istituto i risultati saranno sempre gli stessi. Tutti promossi e tutti con voti più o meno alti, soprattutto dove è difficile e complicato sottrarsi all’ambizione di potere documentare un ricco palmares della propria scuola e talvolta alle sollecitazioni interessate di autorevoli patrocinatori delle sorti degli alunni.




Il Codice di Camaldoli, 80 anni dopo

disegno di Matilde Gallo, anni 10

di Raimondo Giunta

E’ giusto che si torni a parlare del Codice di Camaldoli, del suo significato e della sua possibile attualità, soprattutto nella fase politica in cui si proclama di volere mettere ancora una volta mano alla Costituzione, per farla diventare altra da quella che è e da quella che era stata pensata e desiderata.

Il Codice di Camaldoli è a distanza siderale dalla situazione di oggi, dalle scelte di oggi, dallo spirito di oggi, dagli uomini di oggi.

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Parlare di Camaldoli non è però inutile.
Significa parlare del modo in cui si fa una Costituzione, del modo in cui si pensa una Costituzione e anche del tempo che ci vuole per avere UNA BUONA COSTITUZIONE.
Tutto comincia in una settimana del mese di Luglio del ‘43. Parte del mondo cattolico sente ”l’urgenza di prendere posizione di fronte alle più vive e dibattute questioni sociali ed economiche”(Codice) per essere preparata, quando si sarebbe presentata l’occasione, a dare soluzioni ai problemi di una nazione, che già era prostrata da tre lunghi e sanguinosi anni di guerra e si trovava le truppe straniere in casa.

Venne organizzato un convegno nell’Eremo di Camaldoli, cui partecipò una trentina di studiosi laici ed ecclesiastici. I partecipanti ai lavori, che durarono una settimana, si proponevano di dare forma organica e scientifica e anche sintetica alle enunciazioni del Magistero della Chiesa sui principali problemi della vita economica e sociale; di sceverare tra le affermazioni quelle più adatte alle contingenze del tempo con particolare riguardo ai problemi della ricostruzione di un ordine sociale dopo il collasso della guerra; di tentare una prudente opera di esegesi e di interpretazione e se necessario di integrazione e sviluppo del pensiero espresso nei documenti ufficiali.

Inizia in quei giorni un percorso che si concluderà nel Dicembre del ‘47 con l’approvazione del testo della Costituzione, che sarà promulgata nel primo giorno del mese di Gennaio del ‘48.
Gli anni 43-47 nella storia contemporanea dell’Italia sono stati anni di rara vitalità intellettuale e politica. In quel tempo per grandi linee venne definito il destino dell’Italia Repubblicana e non mancò il contributo importante del mondo cattolico che “non viveva chiuso in un recinto, ma ormai in confronto diretto e in certi casi in alleanza con le forze della sinistra operaia e della democrazia laica” (P.Ingrao).

Si ebbe una politica democristiana che agiva a favore di uno sbocco democratico. La scelta delle istituzioni liberal-democratiche per la nuova Costituzione non può essere considerata senza significato e non era un esito scontato, perché si dovette superare un insieme di forze (apparati dello Stato, Monarchia, industria, truppe occupanti, settori della Chiesa) che avrebbero preferito avere un assetto conservatore-oligarchico.
Lo scontro tra questi diversi orientamenti si concluse a favore delle forze progressiste, perché in quegli anni ci fu un accostamento tra ceti vissuti per lungo tempo nella separazione; ci fu un contatto con le correnti politiche avanzate, che diede vita all’esperienza unitaria della Resistenza (P.Ingrao).

Cattolici e Sinistra lavoravano per fare della democrazia l’unico quadro della vita della nazione, l’unico metodo per dare soluzioni ai problemi della società. Per tutti e due i mondi politici era una conquista e l’inizio di un nuovo cammino politico, che per i comunisti non fu privo di incertezze e contraddizioni.
Dice P.Scoppola: ”La Chiesa non aveva mai accettato il principio liberal-democratico, ossia che fini e contenuti della vita sociale fossero affidati alla libera auto-determinazione della società stessa in un’aperta concorrenza di idee e di forze, cioè al consenso degli individui e in definitiva al numero nelle forme proprie del sistema di governo parlamentare”.
In quegli anni viene superata la tradizionale indifferenza della dottrina sociale cattolica nei confronti della democrazia.

Il gruppo dei “professorini” che faceva capo a Dossetti assunse il ruolo di guida della Democrazia Cristiana nei lavori della Costituente (E.Ragionieri).
La Costituzione uscita fuori dal confronto delle diverse culture politiche dei padri Costituenti era diversa da quelle liberali; era una Costituzione impegnata a definire e a tutelare oltre ai diritti di libertà, anche i diritti sociali. A difesa di queste alte finalità fu disegnata un’architettura delle istituzioni, che apriva molti spazi agli sviluppi democratici e si reggeva su un sapiente equilibrio dei poteri dello Stato.
Determinante il contributo dei cattolici democratici.
La sinistra, dice Ragionieri, non aveva una pari e salda cultura delle istituzioni.

La Costituzione del ‘48 è stata un vero miracolo di saggezza politica. Definita proprio mentre si sfilacciava l’unità antifascista; messa al riparo dalle vicende politiche contingenti e da qualsiasi scelta del Governo. Non si ebbero né sostituzione autoritaria di commissari, né espedienti per impedire il confronto, né voti di fiducia.
Non può e non deve essere sottovalutato il fatto che alla scrittura della Costituzione lavorò un’Assemblea costituente eletta dal popolo col sistema proporzionale.
Non può e non deve essere sottovalutato che la Costituzione del ‘48 è stata approvata a larghissima maggioranza.

All’Assemblea Costituente i cattolici, che si affermarono per il contributo dato al confronto delle idee e alla stesura del testo costituzionale, sono stati quelli che si erano formati nel lungo e fecondo tirocinio, iniziato con la settimana di studio di Camaldoli e concluso con la pubblicazione nel 1945 del testo ”Per la Comunità Cristiana-Principi dell’Ordinamento Sociale “ (Ed.Studium).
Ne furono curatori E. Vanoni-S.Paronetto-P.Saraceno- G.Capograssi: uomini che saranno protagonisti in molti fatti importanti della storia repubblicana, fatta eccezione per Paronetto, deceduto precocemente all’età di 34 anni, prima di aver potuto mostrare per intero il suo grande valore. Coautori e ispiratori del testo furono uomini di forte personalità come La Pira, Fanfani, Taviani, Vanoni, Saraceno, Paronetto, Dossetti, Gonella, Capograssi, Nosengo, Moro: quasi tutti giovani e qualcuno giovanissimo. Provenienti dalla Fuci, dal Movimento dei laureati cattolici, dall’Università Cattolica.

Il Codice di Camaldoli si fa apprezzare ancora per autorevolezza e organicità.
I suoi cardini erano:
1) primato della persona rispetto alle istituzioni. Lo Stato non crea, ma riconosce i diritti e li tutela;
2) forte accentuazione del ruolo della Comunità Politica, come garante e promotrice dei fondamentali valori di giustizia e di uguaglianza fra i cittadini;
3) funzione sociale della proprietà;
4)Insufficienza del mercato, anche se necessario, come istituzione della vita economica;
5) necessità dell’intervento dello Stato per sopperire alle deficienze del mercato;
6) piena occupazione e programmazione economica;
7) redistribuzione del reddito attraverso la progressività delle imposte;
8) collaborazione tra le classi sociali nell’organizzazione del lavoro.
Queste idee sono del Codice, ma, se si osservano bene le cose, sono anche idee della Costituzione del ‘48.

In poche parole il Codice afferma la priorità dei fini sociali rispetto agli interessi economici privati e la priorità dei fini morali su quelli sociali e politici. Se si legge bene quel testo, ma a mio parere anche la Costituzione, ne viene fuori una terza via tra società ad economia privata capitalistica e società ad economia statalizzata. Viene proposto un modello di società che fa della piena occupazione, della dignità del lavoro e dei lavoratori il suo più importante fondamento.
Della giustizia sociale la sua stella polare.

La democrazia ha un prezzo alto e inevitabile: quello di garantire ad ognuno le stesse opportunità, il proprio spazio vitale.
Conosce un solo metodo per farlo pagare: la partecipazione senza impedimenti e limitazioni alle scelte che contano: rappresentanti e contenuti politici. Purtroppo è cresciuto e si è rafforzato da tempo il fronte di quelli che non intendono più pagarlo.
Attraverso leggi elettorali di stampo maggioritario si è fatta strada una specie di tendenza oligarchica, che con le mentite spoglie della necessità di decidere ha ridotto gli spazi e le occasioni di rappresentanza, di partecipazione e di confronto politico.

Il mito della democrazia che decide ci perseguita da più di 30 anni e vuole celebrare altri trionfi Ma il problema non è prendere decisioni, perchè se ne prendono a centinaia; il problema è quello di renderle esecutive e questo problema è di pertinenza della Pubblica Amministrazione.
Non c’è bisogno di sfigurare la Costituzione.
Si vuole chiudere una volta per sempre la stagione del riformismo democratico che aveva puntato sull’allargamento della partecipazione popolare e dei luoghi in cui questa si potesse esercitare .Una stagione che comincia con la Costituzione del ‘48,prosegue con l’impianto della Corte Costituzionale, l’istituzione delle Regioni, lo Statuto dei lavoratori, gli organi collegiali della scuola, la delega dei poteri ai Comuni, l’esercizio dei referendum, l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali.

A partire dalla metà degli anni ‘80 è iniziato il percorso che ci sta portando inesorabilmente dalla cittadinanza alla sudditanza. Per 30 anni si è auspicato e alla fine si è avuto un riformismo adattivo alle esigenze attuali degli interessi forti e prevalenti del sistema economico, allergici ai principi democratici.
Un riformismo che allontana il cittadino dal controllo della Cosa Pubblica e che radica il suo fondamento nella violazione del principio costituzionale dell’uguaglianza del voto dei cittadini.

Le Costituzioni sottolineano i passaggi più significativi della storia di una nazione e ne riassumono, se lo si vuole, il passato e ne prefigurano il futuro. Non sono eterne, ma esprimono lo spirito del tempo.
Quella del ‘48 è la Costituzione della rinascita, dei diritti, della libertà e della giustizia sociale.

Ci vorrebbe un nuovo Dossetti per gridare come nel ’94 ”Sentinella, quanto resta della giornata?”.
E’ alta la scommessa .Nel Novecento democrazia e stato sociale sono andati di pari passo. Se smonti la prima, finisce anche il secondo come sua naturale conseguenza.
La democrazia è il luogo in cui i conflitti sociali si esprimono e si risolvono nella mediazione. Il suo ridimensionamento è il risultato della scelta di lasciare ai rapporti di forza e solo a quelli la soluzione dei problemi sociali.
Questo significa abbandonare a se stessa una parte consistente e crescente della società.
Quella in difficoltà.

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La scuola: una comunità di adulti che ha cura di una comunità di alunni

di Raimondo Giunta

Frammenti di riflessione sull’azione educativa

1) La pedagogia è l’attività di riflessione che si esercita sull’azione educativa per poterne delineare in modo persuasivo le finalità e le procedure ad esse congruenti. Riflette sull’educazione come oggetto e sull’educazione come progetto, soprattutto se e quando si vuole mettere in campo un’idea di umanità e di società che abbia come valori fondanti la libertà, la dignità e la responsabilità delle persone. In una società democratica i valori dell’educazione sono quelli che rendono possibile l’esercizio della democrazia. Con questa necessaria e continua opera di riflessione la scuola può essere ancora un luogo di speranza per i giovani e affrontare le sue quotidiane difficoltà. La pedagogia è, quindi, l’educazione che si pensa, che si parla, che si giudica, che si progetta.
“La pedagogia è l’insieme delle strategie che l’intelligenza dispiega in una società, affinchè l’arbitrarietà di un’educazione bene o mal fatta ceda il posto alla scelta di fare meglio”(E. Durkheim-1911). La riflessione pedagogica è indispensabile per contestualizzare il discorso formativo e per poterne rinnovare le pratiche in una situazione di sovvertimento continuo dei saperi e dei paradigmi scientifici. La pedagogia è situata all’incrocio tra educazione reale, educazione possibile ed educazione “sperata”. E’ impossibile educare senza credere, senza sperare, senza preoccuparsi dello stato in cui si trova il bene più prezioso di una società: i suoi giovani.

2) L’attività educativa ha una dimensione naturale di progettualità, di futuro e di liberazione; solo per abdicazione può essere piegata ad una logica dell’adattamento alle condizioni date. Senza finalità non c’è attività educativa. Le finalità ci conducono a scelte di valore che oltrepassano sempre quelle pragmatiche dell’efficacia e dell’efficienza, alle quali si finisce per rifugiarsi talvolta in nome di un malinteso senso di razionalità. Le finalità sottintendono una particolare figura d’uomo: quella che vorremmo è l’uomo consapevole della sua posizione, libero, cittadino, capace di affrontare in modo razionale i problemi, aperto alle novità, disponibile all’accettazione della diversità e al dialogo. Dovrebbero cogliere aspetti della sua consistenza e tentare una configurazione della sua complessità. Devono rispondere alle domande “Chi”, “Perchè” e “Per quale scopo” istruire ed educare. Le finalità devono aiutarci a comprendere in quale mondo vogliamo vivere, quale avvenire speriamo per i nostri figli, quali saperi occorre trasmettere, quale tipo di cultura si dovrebbe privilegiare. La problematizzazione delle finalità educative è la pedagogia.


3) C’è buona educazione dove e se si coltiva la libertà dell’uomo, dove ci si può costruire in libertà e dignità a partire dalle condizioni in cui ci si trova. L’essere umano è una libertà che si forma e deve sfuggire ad ogni logica di potere e di dominio. Educare, allora, per promuovere la libertà di ciascuno e non per agire in conformità ad un gruppo di appartenenza, anche se non si possono mettere in opposizione emancipazione e integrazione sociale. Il principio di libertà è essenziale nell’educazione se non si vuole che essa diventi manipolazione, quello di integrazione se si vuole valorizzare la dimensione sociale della persona.
Solo in quanto soggetto, autore e attore della propria vita capace di mettersi in rapporto con altri soggetti e con le appartenenze che li caratterizzano (etnica, religiosa, politica, locale etc.) la persona può dare un senso e una direzione alla propria esistenza. Il soggetto di cui si deve occupare la pedagogia è il soggetto che costitutivamente è posto tra gli altri.

4) L’educazione è una relazione asimmetrica, necessaria, ma provvisoria la cui attività deve scomparire man mano che comincia ad emergere l’autonomia del soggetto e la sua capacità di valorizzare le potenzialità, che lo distinguono. Per questo obiettivo è necessaria la rinuncia ad esercitare il potere sulla volontà altrui per ritrovare il potere, senza riservarselo, sulle condizioni che permettono all’altro di “farsi opera di se stesso” (Pestalozzi). L’apprendimento non si decreta, non è il risultato dei doni naturali, nè è casuale; dipende dagli sforzi e dall’impegno di renderlo possibile.
“Lasciare ciascuno libero di apprendere vuol dire rassegnarsi alle ineguaglianze, perchè i poveri non sanno che cosa si guadagna ad apprendere”(Lettera ad una professoressa-Scuola di Barbiana);

5) Educare significa formare l’intelligenza e forgiare la personalità dell’alunno, accettarne l’estraneità e anche l’avversione, prenderlo com’è e rinunciare al rapporto di forza, curare l’umanità nelle relazioni pedagogiche. Proprio per questo vi è della sofferenza nel rapporto educativo, perchè ogni costrizione è una sconfitta. Per educare bisogna avere dell’umiltà. Il buon educatore è colui che fa posto all’esistenza dell’alunno, alla sua singolarità tra programmi, regole e valutazioni e ne capisce, quando sopravvengono, le sue resistenze, le sue difficoltà, i suoi rifiuti.
L’educatore si interroga sulle resistenze dell’altro e non tenta di violarle. Per paradosso si può dire che compito dell’educatore è quello di educare gli ineducabili.
Il momento educativo si realizza nell’accettazione di un qualcuno che non si lascia dimenticare e che non vuole essere ricondotto all’anonimato di un gruppo indifferenziato (classe, istituto, ambiente).
E’ impossibile e non ha senso pensare di dominare l’irriducibilità del soggetto. Questo ci ricorda la buona pedagogia.
“Andare fino in fondo all’esigenza di singolarità è darsi la più grande chance di accedere all’universalità”(P. Ricoeur);

6) La pedagogia non è una scienza e non le si conferisce dignità pretendendo che lo sia; sarebbe peraltro una scienza senza l’onere e la responsabilità di portare le prove. . .
La pedagogia non è nemmeno l’insieme delle cosiddette scienze dell’educazione, in grado forse di rispondere alla domanda “COME”, ma non a quella “PERCHE’ ” educare e che non sono riuscite finora a rimpiazzare la riflessione filosofica sull’uomo.
E senza antropologia di supporto non c’è pedagogia e nemmeno buona educazione. I sospetti sulla pedagogia sono a volte un esercizio di superbia accademica che stride con la problematicità e la drammaticità dell’azione educativa nella società contemporanea. Istruire senza educare è un mito positivista che non funziona più. Istruire è sempre scegliere un tipo d’uomo e di società anche quando si pensa di non farlo. Nel processo formativo ci si illude di evitare le scelte di valore.

7) Come ogni attività che abbia come campo d’applicazione ciò che è umano l’attività educativa rinvia al discernimento, alla capacità di cogliere le occasioni e di decidere alla luce di conoscenze solide e con l’aiuto di tutti i mezzi disponibili nella consapevolezza dei problemi da affrontare. C’è dell’arte e dell’intuizione nell’attività educativa. L’educazione sfugge all’epistemologia disciplinare. In quanto praxis l’educazione non può pretendere di avere fondamenta inconfutabili. Il suo discorso può essere allora più che una dimostrazione un racconto o l’esplicitazione di un “exemplum”. Pensare l’educazione come praxis aiuta ad accettarla come incontro con l’alunno con tutte le sue difficoltà e resistenze. “L’educazione è l’insieme dei processi che permettono ad ogni bambino di accedere progressivamente alla cultura essendo la cultura ciò che distingue l’uomo dall’animale”(O, Reboul(1989)-La filosofia dell’educazione).
“L’uomo non è uomo se non per l’educazione”(Kant). Si educa , perchè si ritiene che sia possibile e doveroso farlo.

8) A scuola si deve coltivare la capacità riflessiva come requisito per esplorare il significato dei valori costitutivi della cittadinanza e per appropriarsi della dimensione sociale e problematica dei saperi. Ricondurre il sapere ai problemi che l’hanno generato è necessario per recuperarne la connotazione esistenziale, per comprendere cosa sia una “theoria” autentica. Curiosità e spirito critico sono le espressioni naturali dell’atteggiamento problematico, che occorre orientare e sviluppare la prima naturalmente proiettata verso il futuro, il secondo alla ricerca dei fondamenti dei problemi. Bisogna apprendere l’arte di suscitare il desiderio di apprendere. L’obiettivo più alto dell’educazione è comprendere, più alto ancora di quello di riuscire.

9) Educare perchè si impari a porre e a porsi delle domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare gli strumenti per potere discutere e dialogare, per potere resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze.
Per educare a porre domande, ogni lezione dovrebbe essere un’interrogazione sul senso del sapere. La scuola dovrebbe essere un luogo dove si può sbagliare, senza rischiare nulla (Meirieu).
“La classe è un luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di colui che la pronuncia”(B. Rey). Una pedagogia aperta deve misurarsi, però, con quella parte di disordine, di negoziazione che essa comporta. In pedagogia non è possibile aprire il registro delle certezze.

10) Uno dei compiti più difficili da affrontare oggi è quello di ricondurre i giovani cresciuti nel mondo virtuale alla serietà dei problemi del mondo reale.
Rompere l’involucro gratificante dell’irrealtà per misurarsi con le fatiche quotidiane di conoscenza e di lavoro non sarà facile, ma è la nuova missione educativa della scuola e degli insegnanti.

11) L’educazione dei giovani è un’impresa collettiva e non il risultato casuale di contributi individuali degli insegnanti e di altre figure di adulti. Il problema è lavorare insieme, imparare l’uno dall”altro; essere una comunità professionale, dove si è reciprocamente risorsa per l’altro. Dare e ricevere aiuto non significa essere incompetenti, ma partecipare alla ricerca comune per rendere migliore l’apprendimento dei giovani.

12) Una buona scuola è una comunità di adulti che prende in carico una comunità di alunni e non un guazzabuglio informe di ore di lezioni.




E portò via anche l’origano…

di Raimondo Giunta

Non ci sono parole per esprimere il disgusto per quello di cui è stata accusata la dirigente dell’ICS GIOVANNI FALCONE, situato nel quartiere Zen a Palermo.
Il danno arrecato alla scuola e al principio di legalità in terra di mafia è incalcolabile e non sarà per nulla facile riedificare ciò che è stato distrutto, soprattutto se si considera quanti vengono colti in questioni di malaffare ,regolarmente coperte da quotidiane esternazioni contro la mafia.
Questa orribile vicenda mi spinge a fare qualche riflessione sul ruolo del dirigente in regime di autonomia scolastica,perché credo che ci siano tanti modi e tante ragioni per evitare che possano ripetersi fatti come quelli verificatisi allo Zen di Palermo.
In una scuola che vuole essere una comunità educativa l’autorità del dirigente scolastico si dovrebbe fondare sulla capacità di fare della propria scuola un modello di convivenza collegiale e culturale e non sull’esercizio arbitrario dei poteri che gli affida la legge.
Non sono pochi, purtroppo, i dirigenti scolastici che ritengono di non potere fare bene il proprio mestiere ,perché sarebbero molestati dagli insegnanti che sollevano obiezioni e perplessità sul loro operato, e perché devono tenere conto di quello che ancora si decide nei collegi degli insegnanti e nei consigli di istituto.
Ricordo ancora la dichiarazione pubblica “LASCIATECI LAVORARE”, sottoscritta da alcuni dirigenti scolastici, in piena pandemia, come se il lavoro a scuola consista nell’esecuzione dei loro ordini di servizio.


Il prestigio di un dirigente non deriva dall’esercizio incontrastato dei suoi poteri, ma dalla capacità di spiegare e giustificare le proprie decisioni in termini pedagogici, professionali e anche morali e dalla capacità di interpretare e affermare i principi costitutivi di una istituzione che è e deve restare democratica nel suo assetto e nelle sue procedure.
Si parla di management delle risorse umane, scimmiottando il mondo aziendale, mentre invece si dovrebbe capire che a scuola il problema più serio è oggi e sarà domani il management dei significati.
Il problema vero è sempre quello di impegnarsi in favore di valori educativi da condividere con tutto il personale, con gli alunni, con le famiglie, con la comunità di riferimento, per trovare il senso delle cose che si fanno e dello stare insieme, per trovare passione, entusiasmo, motivazioni profonde nel lavoro a scuola, soprattutto nelle scuole collocate nelle cosiddette zone a rischio.
Il problema quotidiano che si deve affrontare è quello di trovare ragioni e significato dell’educare e dell’essere educati.
Chi conosce la fatica del fare istruzione ed educazione sa che non c’è alcun bisogno di padroni a scuola , ma di professionisti riflessivi ,dotati di scienza , di esperienza e di intuizione creativa.
C’è bisogno, proprio in regime di autonomia, di professionisti che sappiano integrare valori e culture, non semplici risorse umane; che abbiano strategie motivazionali e che rifuggano da qualsiasi forma di prevaricazione.
L’autonomia ha un senso se viene pensata e gestita per dare diritto di parola, per consentire la partecipazione a tutte le scelte; per valorizzare tutte le professionalità esistenti in ogni singolo istituto. L’autonomia scolastica funziona efficacemente e dà buoni frutti solo se c’è cooperazione, dialogo tra le componenti professionali .Senza un reale potere sul proprio lavoro, senza autonomia intellettuale non c’è professionalità e senza professionalità dei docenti non c’è autonomia.
I dirigenti che vogliono comandare e solo comandare devono ricordare che scuole che funzionano, senza gli insegnanti che vi lavorano con il loro sapere, con la loro cultura, con la loro professionalità, con il loro spirito di sacrificio e con la loro dedizione non ne esistono.Solo
all’interno di istituzioni autoritarie o che pretendono di diventarlo se ne fanno e se ne vogliono fare dei docili esecutori delle direttive dell’amministrazione.Il lavoro dell’insegnante appartiene alla categoria delle attività intellettuali,alle quali togliere libertà e autonomia è togliere l’aria che serve per vivere .
Non credo che la dirigente della scuola GIOVANNI FALCONE dello Zen a Palermo si sia attenuta a qualcuna di queste regole di buonsenso.Non è un caso che tutta l’inchiesta sia partita dalla denuncia di un’insegnante che vi lavorava .




La pedagogia per amica

di Raimondo Giunta

Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perché pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.  Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica.
Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia.
La sostituii con filosofia della religione.

L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione.
Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi. Mi ponevo queste domande ogni volta che mi scontravo con una difficoltà o con un problema imprevisto. Erano i ragazzi senza prerequisiti; erano i ragazzi stanchi per il lavoro fatto nei campi; erano i ragazzi che non volevano starci a scuola; erano i ragazzi che non avevano a casa tempo, spazi e modi per imparare; erano i ragazzi di famiglie numerose che non ci credevano; erano i ragazzi che si distraevano e quelli che provavano vergogna per come si sentivano, per come erano vestiti e per come erano giudicati. Da tutti mi dovevo fare capire; da tutti mi dovevo fare accettare e da tutti qualcosa dovevo ottenere.

Ero senza mestiere e ho capito che dovevo costruirmelo subito e da solo, ma avevo passione e fantasia da vendere nel lavoro e i ragazzi venivano a scuola perché gli leggevo e raccontavo storie interessanti, perché comprendevo i loro errori, perché rispettavo i loro tempi, perché per ognuno avevo un gesto di attenzione, un sorriso, una battuta. Andavo per tentativi e poi ci ragionavo.
Penso che il compito della pedagogia sia quello di accompagnare, sostenere, illuminare la fatica di fare crescere le nuove generazioni. Credo che la pedagogia si ponga come aiuto alla definizione delle finalità educative e come sapere critico che interroga la congruenza tra fini proclamati e mezzi utilizzati nelle esperienze formative. Non so se sia molto, nè se con questi convincimenti abbia superato la mia giovanile diffidenza; ma poco o tanto che sia questa specificità andrebbe difesa e richiesta, perché senza la buona pedagogia il lavoro a scuola diventa una faticosa routine senza orientamento.

Si diceva con convinta superficialità “rem tene, verba sequentur”, che bastasse, cioè, una solida preparazione disciplinare per fare bene a scuola. L’insegnante, però, non deve sapere solo cosa deve insegnare, ma anche come si deve insegnare; deve sapere chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che genere di famiglia e ambiente vivono. La cura degli allievi, l’attenzione ai loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti dovuti. Senza di essi non si genera formazione, non si genera crescita umana.

Per molto tempo con superbia intellettuale questi aspetti della funzione docente sono stati giudicati inessenziali, non pertinenti come il possesso di un sapere specialistico. Si è espunto come superflua la dimensione affettiva e valoriale. Si è insistito e si insiste ancora nella scelta di formalizzare un processo dinamico, complesso, emotivo, ricco come quello del rapporto educativo. Con l’ausilio della sola professionalità e della propria competenza disciplinare, anche se irrorate da un forte senso del dovere e dall’etica del conoscere, nei nostri giorni l’insegnamento rischia di essere sterile o di conseguire risultati modesti. Non si va molto lontano quando la persona dell’alunno non è al centro dell’attenzione e il principio-guida dell’attività formativa. Se anche il sapere, la disciplina scolastica fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, lo scopo della formazione non è quello di sottomettere la natura indocile dell’alunno al sapere, ma quello di fare diventare “sapiente” l’alunno indocile.

A poco a poco mi sono convinto che è opportuno liberarsi dal fastidio e dalla diffidenza nei confronti della pedagogia e di tornare a familiarizzare con i suoi richiami ai temi etici e alla responsabilità educativa del docente. Mi sono convinto che tutto ciò può convivere col modello di professionalità proposto negli ultimi decenni e che questo è l’unico modo per non farsi sfuggire di mano il controllo del mondo, su cui gli insegnanti sono chiamati a intervenire. C’è stato molto lavoro sulle tecniche, sull’organizzazione didattica, sulla metodologia; ce n’è stato poco sui valori fondanti e condivisi dell’educazione dei giovani. La pedagogia aiuta a riflettere sulle relazioni tra docenti, alunni e sapere; mette sotto osservazione le relazioni umane e anche l’enciclopedia dei saperi di un curriculum scolastico, perché anche con l’esperienza dei saperi si costituiscono gli orientamenti delle proprie condotte e la visione della vita.

Non penso che della pedagogia si possa fare scienza, come si pretende di fare ogni volta che ci si imbatte con una disciplina umanistica, pensando di conferirle una maggiore dignità epistemologica.
Ci sono modi e modi di essere critici, di non sprofondare nel dogmatismo. Provvisorietà e fluidità sono i caratteri intrinseci di tutte le discipline umanistiche. Fluidità vuol dire problematicità; la stabilità dei concetti inconfutabili non viene reclamata nemmeno nelle scienze cosiddette esatte. Nelle discipline umanistiche la stabilità è quella costituita dalle convenzioni, dall’accordo più ampio possibile. Bruner ne “La mente a più dimensioni” esalta la natura negoziale, euristica, transazionale dei concetti delle scienze sociali e umane. ”Se qualcuno si chiede dove risiede il significato dei concetti sociali, nel mondo, nella mente di chi li pensa o nella negoziazione interpersonale, non potrà rispondere se non che la risposta giusta è quest’ultima. Il significato è ciò su cui possiamo convenire o perlomeno ciò che possiamo accettare come base di lavoro per la ricerca di un accordo sui concetti in questione”.
E ancora sempre nello stesso testo: ”Il linguaggio dell’educazione se vuole essere uno stimolo alla riflessione e alla creazione di cultura non può essere il cosiddetto linguaggio incontaminato dei fatti e dell’oggettività”.

Si fa spesso della buona pedagogia raccontando esperienze più che elaborando teoremi. Esperienze che possono essere di successo, ma anche esperienze di fallimenti.  Si impara molto, andando a scrutare il senso delle scelte fatte, analizzando la logica dei comportamenti messi in atto dai protagonisti, valutando la natura dei mezzi adoperati e quella dei risultati ottenuti.
”La lettera ad una professoressa” della SCUOLA DI BARBIANA, diretta e ispirata da Don Lorenzo Milani, appartiene a questo genere di letteratura e non casualmente ha affascinato e trascinato la generazione di nuovi docenti che si affacciava sulla scena della scuola italiana alla fine degli anni 60 e negli anni ‘70.

Vedo la pedagogia come sapere autonomo che si avvale di molteplici apporti interdisciplinari; nè ancilla della filosofia quanto ai fini, nè delle varie sezioni della psicologia quanto ai mezzi, nè madre autoritaria di ogni metodo didattico, ma capacità di riflessione sulle pratiche educative sulla base di criteri che non possono non essere che finalità di sviluppo umano e sociale. E se l’ordine dei fini ai quali attinge la pedagogia è collocato fuori dalle scienze, non per questo può essere discreditata, perché non può fare a meno di servirsene. La pedagogia come Pratica -teoria o Teoria-pratica dell’azione educativa. Non ha bisogno di dissolversi in psicologia applicata, nè allontandosi dal fatto educativo trasformarsi in antropologia o in filosofia morale. E in questo rapporto teoria-pratica che scaturiscono le invenzioni, le creazioni, che si rinnova l’insegnamento. Dopo tanti teorici dell’educazione per fare bene a scuola si può ragionevolmente attingere anche al sapere di chi ha fatto lunga esperienza di educazione. . .

La buona educazione scaturisce dall’azione sensata, alla cui origine si trova la fronesis di aristotelica memoria, il discernimento, non la scienza. Il rigore dell’azione educativa non deriva dal rigore del sapere dell’azione e questo dal rigore della scienza. Il come fare trova la sua verità nella coerenza dello stesso fare e non in saperi esterni che si proclamano scientifici. Non serve a molto perdere tempo per stabilire se la pedagogia debba essere una scienza.
E se per caso non lo possa essere, perché mai non dovrebbe essere utile? La pedagogia è una bella ed utile disciplina se i suoi concetti non pretendono di valere per sempre e in ogni situazione, se si convince che ogni sua congettura vale fino a prova contraria e le prove contrarie in educazione purtroppo si presentano anche quando nessuno se le aspetta.  Le buone idee si devono misurare con le ristrettezze della realtà e con i limiti che essa impone.

La buona pedagogia prima o poi si mette di traverso rispetto alle scelte amministrative e dell’organizzazione scolastica, perché è insita in essa un seme di utopia e di ribellione. Il destino pensato per gli alunni può essere, infatti, molto diverso da quello predisposto dagli assetti economico-sociali e dalle scelte politiche ad essi congruenti. E nella scuola dove non mancano i loro cantori, la buona pedagogia fa la guardia all’autonomia del pensiero, cerca di mettere in salvo l’umanità e i diritti degli alunni, soprattutto se sfavoriti, combatte la sua quotidiana battaglia per difendere la missione liberatrice della conoscenza e per mettere a nudo le mistificazioni di tante celebrate innovazioni.  Senza pedagogia è difficile cambiare ciò che l’educazione conserva e conservare ciò che con tanto impegno si è riusciti a cambiare.

“La pedagogia non è soltanto un’arte, una scienza e una filosofia. E’ una forma di vita, un mezzo di essere felice mediante la gioia di fare crescere i fanciulli, i figli degli altri” (M. Debesse).