La valutazione esatta e quella giusta. Per una critica della docimologia

di Raimondo Giunta

La scuola esiste per trasmettere valori, saperi e competenze; la sua funzione costitutiva e intrascendibile è quella conoscitiva e l’insegnamento è il lavoro che se ne occupa e la rende operante presso le nuove generazioni.
Protagonista indiscusso di questo processo di trasmissione è l’insegnante col suo bagaglio di esperienze e di saperi.
Mediatore tra la cultura, le conoscenze del passato e del presente, e il bisogno e il dovere di apprendimento delle nuove generazioni. In questo spazio si costruiscono il suo ruolo e la sua legittimazione sociale. E’ il sapere il punto d’origine del lavoro scolastico e tutto il resto è strumentale alla loro acquisizione.

• Le scienze cosiddette dell’educazione entrano in servizio per favorire e rendere efficace questo compito. Sono convocate per farci conoscere l’alunno e per offrire i mezzi più adeguati per consentire il successo dell’apprendimento.
Sono scienze funzionali all’insegnamento e al diritto di formazione delle nuove generazioni. Nessuno purtroppo sa stare al proprio posto.
La tentazione delle scienze dell’educazione è quella di dirigere il lavoro scolastico e non di servirlo, di proporre la propria strumentalità in finalità di tutto il processo di formazione. Questo succede in modo evidente con la docimologia, per lo spazio egemonico assegnato alla valutazione nell’intero sistema di istruzione; senza adeguate garanzie e tutele rischia di essere la vera regista di tutto il sistema di istruzione.

Della valutazione si possono distinguere diversi aspetti, colti e differenziati nel corso degli ultimi decenni ed esercitati secondo le necessità contingenti dei sistemi scolastici.
E’ innegabile, però, che da quando il sistema scolastico è diventato un servizio sociale di massa, che copre per intero ogni classe d’età, alla valutazione è stato assegnato in via prioritaria il compito di garantire al mercato del lavoro la quantità e la qualità di forza lavoro necessaria al suo funzionamento.
A maggior ragione questo si verifica nelle società dove ancora sopravvive e funziona il valore legale del titolo di studio. La valutazione con le relative certificazioni serve a legittimare le posizioni sociali dei detentori di un titolo di studio e a gestire forme di controllo istituzionale sulla formazione della classe dirigente del paese. A rigore di logica, quindi, alcuni modi di esercitare la valutazione non sono essenziali all’insegnamento e tantomeno al diritto allo studio.

• La valutazione, ancorchè sofisticata o grossolana, è stata e viene ancora esercitata in funzione della selezione degli alunni e spesso senza mettere in discussione la legittimità delle operazioni compiute e senza mettere in discussione gli imperativi che la vogliono in azione. La valutazione può essere scientificamente smaliziata, più o meno tollerante e aperta, ma spesso è praticata in via esclusiva per individuare ed esaltare le competenze professionali e le attitudini sociali che si ritengono conformi a scopi che non elabora la pedagogia, ma l’amministrazione; che non sono frutto di ricerche e di dibattiti teorici, ma di scontri e di rapporti di forza politico-sociali.

• C’è molta cura e non solo in chi gestisce il sistema scolastico nel nascondere le responsabilità sociali della valutazione, nel renderle impalpabili, trincerandola dietro la cortina fumogena della scientificità, con la quale si potrebbero e si dovrebbero condurre le sue operazioni. Molti modi di esercitare la valutazione sono funzionali solo alla carriera dei singoli studenti, alla scalata sociale di un certo tipo di studenti: quelli provenienti da ambienti sociali molto attenti ai punteggi e inclini a considerare la selezione un’operazione normale e dovuta in una scuola dove si vorrebbe di norma la competizione tra gli alunni, per abituare a quella che viene praticata con tanta ferocia nella società.

• L’incontro tra scienze dell’educazione e insegnamento nel luogo cruciale della valutazione rischia di non dare un buon servizio alle finalità dell’educazione e della promozione umana, che si proclamano scritte nel frontone di ogni scuola della nazione. E’ necessario depurare la valutazione di tutte le scorie che la rendono inadatta a migliorare la scuola. In quanto giudizio di valore, il giudizio di valutazione è problematico per costituzione, nel senso che non può arrogarsi la facoltà di dire qualcosa con certezza o come verità incontrovertibile sui risultati di apprendimento.
Dire qualcosa con certezza è stato ed purtroppo ancora l’obiettivo di quelle correnti della docimologia, che hanno coltivato e coltivano il sogno della misura esatta nella valutazione.

• “Per essere misurato un oggetto deve essere definibile su una sola dimensione. Se l’oggetto ha parecchie dimensioni, ciascuna deve essere isolabile e dovrà essere stimata separatamente.(….).Si potrà stimare l’insieme, cioè l’oggetto considerato nelle stesso tempo in tutte le dimensioni, se queste possono essere ridotte ad una nuova, unica scala”(Gh.Hadji). Operazione impossibile per un oggetto multidimensionale come l’apprendimento, a meno che non si ricorra alla semplice quantificazione e alla semplificazione dei dati che si prendono in considerazione.
”La valutazione non si riduce mai ad una semplice misura ed è sempre cosa diversa dalla semplice osservazione”(Ch.Hadji).

• C’era e c’è del buono, che non bisogna dimenticare, nei tentativi di fondare “oggettivamente” le decisioni che si prendono nell’assegnare un valore preciso ai risultati di apprendimento. Sono le intenzioni di assicurare trasparenza, equità, credibilità pubblica alle pratiche di valutazione e alle certificazioni che vengono rilasciate. La ricerca docimologica ha evidenziato i rischi e i limiti che vi sono connessi e che si annidano nelle varie tipologie di prove (orali, scritti, esami etc.). Ha squarciato la presunzione di innocenza e di validità di decisioni, prese a volte senza fondamento o senza adeguata giustificazione.

• La ricerca affannosa della misura esatta, però, ha finito talvolta per privare un atto del processo di formazione di parte significativa del suo valore educativo, perchè di fatto la valutazione viene fatta fermare davanti al risultato di apprendimento e finisce per trascurare i processi intellettivi sottostanti che l’hanno reso possibile, inattingibili agli strumenti di tipo statistico di cui spesso si compiacciono certi cultori della ricerca docimologica.
Gli apprendimenti non sono dati da contabilizzare, ma una realtà da comprendere e interpretare. Valutare senza interpretare equivale a fermarsi ai puri dati fattuali.
La valutazione è invece prelievo di dati della realtà per dare loro un senso in funzione di un’ipotesi di interpretazione. La complessa strumentazione della docimologia può tornare utile (con tutte le riserve espresse) in funzione del raccordo tra formazione e mercato del lavoro, ma in misura decisamente minore in funzione della maturazione e dello sviluppo delle doti, delle attitudini della persona degli alunni. Le scorie di natura scientistica che si porta appresso la docimologia possono essere di intralcio alla responsabilità di un’educazione integrale della persona.

• Nella valutazione il nemico da combattere non è la soggettività, ma l’arbitrarietà, tenendo presente che alla valutazione si deve richiedere un modo cosciente, rigoroso e critico di procedere.
”Il progresso non va dalla soggettività all’oggettività, ma dall’inadeguato al pertinente”(Ch.Hadji).
Dice ancora Hadji: “Bisogna comprendere che essere oggettivo non vuol dire cogliere scientificamente un oggetto misurabile, ma sostenere un giudizio sicuro sul valore di quest’oggetto ,considerato da un punto di vista oggettivabile, cioè esplicabile”. Nella valutazione non bisogna farsi illudere da una analogia ingannevole con le scienze esatte, che possono misurare o pesare gli oggetti di loro pertinenza.
”Valutare non è pesare un oggetto che si potrebbe isolare sul piatto di una bilancia e apprezzare questo oggetto in rapporto ad altra cosa rispetto ad esso”(Ch.Hadji).

• Per preservare la dimensione educativa della valutazione è necessario considerarla un’operazione che assume il proprio significato nel dare un valore, nel valorizzare il lavoro, le prestazioni, il comportamento degli alunni. Occorre rinunciare a fare della selezione il nodo cruciale del rapporto educativo.
Occorre andare verso la valutazione formativa, sostituire una relazione tendenzialmente conflittuale con una relazione cooperativa. Nella valutazione formativa emerge la prospettiva della regolazione e dell’aiuto, ma non viene delegittimata l’esigenza di dare garanzie sulla validità delle certificazioni e degli attestati.

• Nella fase attuale si sente l’esigenza di cercare la convergenza tra la valutazione come atto ermeneutico e la valutazione incline alla logica oggettivistica della misurazione, evocata in qualche modo dalla volontà di mantenere il valore legale dei titoli di studio. Non si può scegliere una sola prospettiva perchè c’è sia la necessità di conoscere e di attestare il grado di padronanza delle competenze da parte dei soggetti in formazione, sia quella di conoscere, capire e sostenere i processi cognitivi che le hanno prodotte.

• La valutazione non può essere usata per stigmatizzare ed escludere. Non c’è buona scuola senza buona valutazione: quella che suscita un’autentica motivazione ad apprendere; quella che valorizza lo sforzo e il superamento delle difficoltà e degli ostacoli; quella che dà opportunità di rimediare ai ritardi e di sostenere l’apprendimento; quella che non tende a sorprendere in fallo e non demonizza gli errori.




Galli Della Loggia, come un Salvini qualsiasi

ripresa_scuoladi Raimondo Giunta

Ernesto Galli della Loggia sa come va il mondo e come va raddrizzato e ne ha per tutti quelli che non sanno quello che fanno e il danno che fanno.
A cominciare dal Papa, al quale in più di un intervento ha spiegato dove e come sbaglia, per finire ai sindacati scuola e soprattutto alla Cgil-Scuola, che si permette di avere come segretario “un tizio che palesemente in vita sua non si è seduto dietro una cattedra neppure per un’ora”.
Ha praticamente tolto le parole a Salvini, secondo cui la CGIL comanda in Italia.
E se comanda in Italia, chiaramente comanda al Ministero della Pubblica Istruzione.
Mai attacco ai sindacati è stato così violento e volgare.
Provo a mettere le cose in ordine e lo farò da uomo di scuola, che è stato dietro una cattedra per 17 anni e per 21 anni in una presidenza.
1) La scuola è una comunità educativa e da ciò consegue che un sindacato che si rispetti, confederale direi, deve rappresentare unitariamente il mondo che vi lavora: docenti e personale Ata. Al sottoscritto andava bene anche i presidi, ma il mio parere non contava niente

2) Se la scuola è una comunità educativa non metto gli insegnanti di ruolo contro gli insegnanti precari; gli insegnanti contro il personale di segreteria; il personale di segreteria contro i collaboratori scolastici.
Un contratto unitario non uniforma il trattamento dei diversi settori professionali;cerca di distinguerli senza metterli l’un contro l’altro armati. A scuola il buon senso funziona ancora.
3) Non è vero che il mondo della scuola sia rappresentato solo dai sindacati e da sindacati che pensano solo a mettere in ruolo i precari; in Italia lavorano associazioni professionali d’alto profilo che contribuiscono a rendere migliore la scuola.
Ne cito alcune e mi scuso per quelle che dimentico: CIDI, MCE, UCIIM, AIMC etc.
Nessuna persona che pretende di parlare di scuola, può ignorarne la presenza e le attività.
4) In ruolo si dovrebbe arrivare per regolare concorso, ma è anche vero che non si può dubitare per principio della competenza di chi da precario ha lavorato per anni a scuola, senza che se ne facesse scandalo, purchè l’anno scolastico potesse partire con l’organico a pieno regime.
5) A scuola si può entrare in diverso modo, ma tutti devono lavorare con lo stesso impegno.
Se mancanza c’è, questa non riguarda i concorsi, ma la valutazione del servizio, che svolta in modo collegiale e su base contrattuale potrebbe distinguere chi fa il proprio dovere e chi non lo fa;6)A chi ha avuto la responsabilità di dirigere la scuola è successo spesso di constatare come a scuola fossero proprio i precari a dare il meglio di sè per offrire agli alunni un insegnamento di qualità;7)Un ricordo personale;ogni volta che per una supplenza si presentava un giovane alle prime armi,cercavo sempre di metterlo a proprio agio;lo consegnavo nelle mani degli insegnanti più generosi ed esperti della materia.Lo trattavo come avrei voluto che trattassero i miei figli.Per questo non comprendo ,anzi detesto ogni forma di avversione contro i precari.
8) Gli articoli come quelli che scrive E. Galli della Loggia non aiutano la scuola e su di essa riversano secchiate di pericoloso discredito.

 

 




PRENDERSI LA SCUOLA IN DIFFICOLTA’

arcobalenodi Raimondo Giunta

Si pensava che fosse una dichiarazione dal senno uscita per caso quella dei dirigenti scolastici che alcune settimane fa gridavano “LASCIATECI LAVORARE” e invece era il preannuncio del documento uscito da poco a nome dell’Anp, uno dei sindacati dei dirigenti scolastici, che crede fin dalla sua nascita di essere l’unica voce autorizzata a parlare come si deve della scuola.
Un documento per nulla originale nelle tesi di fondo che inopportunamente e con clamore viene lanciato nei giorni in cui per inadeguatezza crollano i miti delle leadership solitarie, degli uomini solo al comando, perché, come sempre insegna la vita, nei momenti buoni e soprattutto in quelli cattivi il rapporto fiduciario, il dialogo, la collaborazione tra le persone sono gli unici mezzi per fare bene tutto quello che deve essere fatto.

Che cosa vuole l’ANP ?
Di cose ne vuole tante, ma quella che fra tutte le preme è l’eterna richiesta di pieni poteri a scuola, accampata con il pretesto che le difficoltà create dall’epidemia esigano risposte chiare, immediate e indiscutibili.
A questa se ne accompagnano alcune che si dispongono come semplici corollari.
In termini vagamente istituzionali chiede di ridefinire i ruoli del personale della scuola così come le relazioni della scuola con studenti, famiglie e territorio; in termini più comprensibili vuole ridimensionare l’autonomia professionale dei docenti e riformulare l’attuale struttura degli organi collegiali, che di fatto non prevedono un capo che comanda , ma un una persona capace di governare in situazioni di democrazia diffusa .
L’ANP vuole che i dirigenti scolastici siano liberati da ”vincoli e costrizioni che nulla hanno a che fare col principio costituzionale del buon andamento, ma che favoriscono al contrario conflittualità deleterie per il clima relazionale e in definitiva per la funzionalità del sistema”.

Richiamare la Costituzione per cancellare la democrazia nelle scuole e la libertà di insegnamento addebitando ad esse la causa di conflitti e di disfunzionalità è quanto di più grottesco si potesse escogitare .
Sono le parole di chi non conosce né il linguaggio della democrazia, né il linguaggio della pedagogia, né il linguaggio della buona gestione.

Essere liberati da ogni forma di confronto e di controllo non basta; chiedono che in loro soccorso venga creata una stabile struttura intermedia, che consenta di alleggerire di fatto il rapporto diretto del dirigente con gli insegnanti e di allontanarlo dall’immersione nella gestione di un’istituzione, che ogni giorno deve potere stabilire le sue regole e i suoi scopi su una varietà di accadimenti che rischiano di metterla in difficoltà.
Per riservarsi il tempo e lo spazio necessari per pensare orizzonti di più vasta portata…

Il dirigente, però, non potrebbe comandare a proprio piacimento nella scuola, se non potesse disporre secondo propri criteri, insindacabili nel vero senso della parola, di fondi adeguati con cui premiare e fidelizzare gli insegnanti che non fanno storie; anzi, gli insegnanti che fanno la corsa per accaparrarsi incarichi ed emolumenti.
L’ANP chiede “l’incremento dei fondi a disposizione dei dirigenti scolastici per compensare il lavoro straordinario, sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo, del personale docente e ata”
Si noti bene: si parla di fondi a disposizione dei dirigenti scolastici, non della scuola.
Le richieste attinenti all’esercizio libero dei poteri del dirigente scolastico, a mio parere, sono il pezzo forte del documento dell’ANP; le altre, però, non possono essere prese e accettate come ovvietà sulle quali sorvolare, perché di fatto tendono a disegnare una scuola diversa da quella che abbiamo.
Quando si parla di spazi di apprendimento “generalmente schiacciati sulla didattica di aula”, non ci vuole molto a capire che nei desideri di questa organizzazione la didattica a distanza non vuole essere una soluzione di emergenza,ma un’opportunità da sviluppare come struttura di sistema, per le diverse evenienze e comunque a danno della formazione in presenza e della coesione del gruppo classe, con tutto quello che puo’ significare in termini di educazione delle nuove generazioni.
Ne consegue che debbano essere potenziate le infrastrutture di rete e le strumentazioni digitali in tutte le scuole, “per garantire lo svolgimento di attività in modalità sincrona e asincrona”, cioè con attività in cui molti insegnanti diventano assistenti d’aula e che possono non essere pertinenti con quello di cui una classe ha davvero bisogno e con attività svolte da insegnanti per gruppi di alunni lasciati per necessità nei loro domicili .
La fattibilità di questa proposta dipende ovviamente dall’attuazione di un adeguato piano di formazione di tutti i docenti sia dal punto di vista tecnologico sia, soprattutto, da quello didattico.

Per l’Anp nel futuro della scuola non ci sono più le classi omogenee per età, che si succedono le une alle altre secondo un criterio di difficoltà e di complessità crescenti.
La scuola che pensa l’ANP è una scuola a domanda individuale, quella in cui le famiglie scelgono la dieta curriculare per i propri figli e gli alunni si costituiscono in gruppi in funzione delle opzioni fatte.
E’ la scuola a immagine e somiglianza dell’individualismo delle famiglie e che non si pone più lo scopo di essere luogo di educazione all’appartenenza e al senso della comunità.
Solo così si spiega la richiesta dell’incremento degli organici “per garantire insegnamenti differenziati e personalizzati” e quella dello snellimento dei curricoli ordinamentali, per offrire “maggiori opzionalità e facoltatività per le scelte delle famiglie”.

La scuola che si conosce e che dovrebbe restare è un’altra cosa.E’ il luogo in cui si riuniscono soggetti in età di formazione per dare loro la possibilità di pensare il loro avvenire in comune,perché la scuola è apprendere insieme e non ha alcun senso trasformarla in una congerie di vane e impossibili risposte a domande individuali.
Se la scuola non ha un progetto comune per tutti gli alunni, finisce di essere progetto educativo per tutti e se non la si fa funzionare in questo modo, vuol dire che si ha intenzione di cancellare fin dai primi anni di formazione scolastica ciò che può unire le nuove le nuove generazioni.
Ridotta alla misera funzione ancillare delle esigenze delle famiglie l’istruzione non avrebbe più una funzione pubblica, sociale ed educativa eun Governo che si rispetti non puo’ prendere sul serio queste specifiche richieste dell’ANP; significherebbe che non ha alcuna intenzione di proteggere la scuola dalla mercificazione del sapere e dall’individualismo dei suoi utenti.
La scuola pensata dall’Anp non potrà mai essere luogo di convivenza e di integrazione dei diversi. Come non bastasse l’impostazione dell’offerta formativa per insegnamenti differenziati e personalizzati accrescerebbe l’ineguaglianza a scuola, perchè non tutti sanno scegliere gli insegnamenti più convenienti e hanno gli strumenti per scegliere.
All’ANP piace una scuola
che non vuole colmare le fratture sociali; piace una scuola che promette di accentuarle e quindi di riprodurle.
Una scuola che non è quella della Costituzione.

Ai progetti dell’ANP,come a certe velleità autoritarie di certi dirigenti scolastici, è di ostacolo lo stato giuridico dell’insegnante, imperniato sulla libertà di insegnamento, sulla stabilità della sede, sull’orario di cattedra e sulla distinzione tra insegnamento e attività funzionali all’insegnamento, quest’ultime regolarmente quantificate.
Nei progetti dell’ANP invece sarebbe necessario finalmente “superare la rigida delimitazione a 18 ore della tradizionale cattedra” e stabilire l’apertura delle scuole su un arco di 8-10 ore .Ma per fare che cosa?

Se il problema è quello di garantire un sistema di istruzione efficace e rispondente alle necessità del momento e della società, questo problema non trova la soluzione nel dotare di maggiori poteri il dirigente scolastico, ma nel riaffidargli e ricordargli  le sue  responsabilità di leadership morale ed educativa nella propria scuola.
L’autorità di un dirigente scolastico non puo’ fondarsi sul potere di assegnare discrezionalmente premi di incentivazione,sul rafforzamento dei poteri disciplinari, sulla sua posizione gerarchica, sulla sua superiorità nei confronti degli organi collegiali, sentiti eventualmente e a malapena sulle materie più importanti della vita di un istituto.
In una comunità educativa che fa propri i valori della democrazia, del dialogo professionale l’autorità del dirigente scolastico si deve fondare  sulla capacità di fare della propria scuola un modello di convivenza collegiale e culturale.
L’autorità di un dirigente non puo’ derivare dalla somma di tutti i suoi poteri, ma dalla quotidiana testimonianza della propria coerenza tra principi e prassi, dalla capacità di spiegare e giustificare anche in termini morali le proprie decisioni.

Il problema che c’è a scuola è quello di trovare ogni giorno ragioni e significato dell’educare e dell’essere educati.
Chi conosce la fatica del fare scuola sa che non c’è alcun bisogno di padroni, ma di professionisti riflessivi, dotati di scienza, di esperienza e di intuizione creativa.
La scuola ha bisogno di collaborazione, non di intimidazione; di dirigenti che facciano degli insegnanti dei leaders educativi,capaci di iniziativa, e non dei docili  e impauriti subordinati.
La scuola ha bisogno di dirigenti che siano uomini di cultura capaci governare.

L’autonomia ha un senso se viene pensata e gestita per dare diritto di parola, per consentire la partecipazione a tutte le scelte; per valorizzare tutte le professionalità esistenti in ogni singolo istituto.
L’autonomia scolastica funziona efficacemente e dà buoni frutti solo se c’è cooperazione, dialogo tra le componenti professionali .
Senza un reale potere sul proprio lavoro,senza autonomia intellettuale non c’è professionalità e senza professionalità dei docenti non c’è autonomia.
I dirigenti che vogliono comandare e solo comandare devono ricordare che scuole senza gli insegnanti che vi lavorano con il loro sapere, con la loro cultura, con la loro professionalità, con il loro spirito di sacrificio e con la loro dedizione non ne esistono.
Proprio per questa loro ineludibile centralità, laddove c’è ancora qualche traccia di intelligenza pedagogica, ci si preoccupa di assicurare ai docenti le migliori condizioni di lavoro.

L’insegnamento appartiene alla categoria delle attività intellettuali, alle quali togliere libertà e autonomia è togliere l’aria che serve per vivere.
Ai dirigenti che non vogliono intralci si deve ricordare che la libertà di insegnamento ha rilevanza costituzionale e non si piega alle loro interessate e comode interpretazioni e non puo’ essere subordinata alla capziosa interpretazione del buon andamento affidato nelle mani esclusive del dirigente, se non altro perché la responsabiltà educativa a scuola è ancora collegiale e appartiene al Dirigente come ai consigli di classe, come al Collegio dei docenti e al Consiglio di istituto.




Errando discitur. Appunti per una riflessione sulla valutazione

votidi Raimondo Giunta 

  • “Pensare è andare da un errore all’altro”(Alain);”Lo spirto scientifico si costruisce su un insieme di errori rettificati”(G.Bachelard).”Se gli uomini sono i soli a poter fare gli errori, sono anche i soli a poterli correggere”(G.Le Boterf).
  • Di simili citazioni se ne possono raccogliere tante altre, ma a scuola anche nei momenti drammatici che stiamo vivendo e che dovrebbero indurre a ripensare tutte le procedure di valutazione, per darle un senso che faccia presa sulla realtà effettuale del lavoro svolto, non mancano gli insegnanti per i quali  gli errori nei compiti, le carenze e i limiti di preparazione sono una colpa di cui si deve rendere in qualche modo conto e di cui si deve pagare pegno. Altrimenti non ci sarebbe più serietà. Soffermiamoci sugli errori, fatto salvo l’impegno degli studenti.

Gli errori non sono colpe da condannare, nè imperfezioni da disprezzare. Sono sintomi interessanti degli ostacoli con i quali si confronta il pensiero degli alunni e si collocano dentro il processo di apprendimento. L’ostacolo incontrato e non superato ci parla dei processi intellettuali messi in giuoco dall’alunno. L’errore segnala a volte un’incomprensione delle consegne da parte degli alunni o il loro disinteresse per l’argomento trattato o ancora la loro lontananza dalla cultura della scuola. Può essere l’affiorare di concezioni proprie dell’ambiente umano e sociale di provenienza degli alunni; è prova del loro modo di ragionare. L’errore può essere anche l’ostacolo creato dal modo in cui gli alunni agiscono e riflettono con i mezzi di cui dispongono.
Non bisognerebbe cercare l’errore, ma la logica che l’ha prodotto.  Bisogna considerare gli errori come tappe dello sforzo di comprendere dell’alunno e dargli i mezzi per superarli. Non si deve perdere la memoria del cammino fatto dal sapere e dalla scienza, degli ostacoli, delle incertezze, delle vie traverse dei momenti di panico che l’hanno contrassegnato.
Si è proceduto da sempre laicamente per tentativi ed errori: solo dove e quando il sapere costituito vuole assurgere al ruolo di verità inconfutabile, l’errore si connota negativamente come devianza, opposizione, rifiuto.

  • L’errore diventa imperdonabile solo in un contesto in cui la conoscenza non è ricerca personale, volontà di capire e risultato del dibattito e del confronto di opinioni e di teorie, ma trasmissione vincolante e dogmatica di saperi pre-costituiti; l’errore è imperdonabile dove il rapporto educativo non è fondato sul dialogo, ma sull’obbedienza ad autorità dichiarate indiscutibili; dove non si crea, ma si ripete; dove non si parla, ma si deve solo ascoltare.
  • Se l’alunno non è il vaso da riempire, ma il soggetto autonomo che deve fare in proprio il cammino che porta alla conoscenza, l’errore può diventare uno strumento straordinario per insegnare a ragionare. Bachelard affermava che una buona didattica delle discipline tenta di comprendere gli errori, prima di condannarli e combatterli.
  • Perché, allora, nell’accresciuta consapevolezza pedagogica del significato dell’errore  a scuola si fa fatica a cambiare  registro? Credo che giochi a favore di questo stato di fatto il convincimento che per quanto riguarda le superiori debba essere mantenuto il valore legale dei titolo di studio, che in qualche modo è incline alla logica oggettivistica della misurazione e alla pretesa di rilasciare certificazioni corrispondenti alla reale preparazione posseduta da una persona al termine di un tratto o di tutto il percorso di formazione  .La valutazione a scuola, però, non può fermarsi alla logica giudiziaria della prova;valutare non vuol dire istituire il tribunale delle colpe e degli errori con tutto il corredo di drammatizzazione, di stress, di angoscia( Ph.Perrenoud).
    Gli insegnanti non possono essere ridotti al ruolo di contabili dei  punti e degli errori; sono e devono essere le guide del processo di formazione dei propri alunni, di cui devono comprendere gli ostacoli e le resistenze ad esso frapposti. Gli alunni non sono dati da giudicare, ma soggetti da conoscere, da capire e da ascoltare, perchè hanno una storia cognitiva da raccontare.
    Solo nelle pratiche di una valutazione che vuole essere formativa trova una soluzione pedagogica soddisfacente la gestione degli errori e dei limiti di apprendimento. Con accurata strumentazione diventano un’opportunità per la regolazione del processo di formazione, perchè danno informazioni all’insegnante sul grado di padronanza raggiunto da un alunno e sulle difficoltà che incontra.
  • La valutazione formativa non ha come oggetto diretto il risultato scolastico, anche se a suo modo se ne cura, ma la relazione pedagogica del processo formativo, che viene valutata per poterla migliorare, in modo che l’alunno sia aiutato a identificare, a superare le sue difficoltà e a progredire.
    “La valutazione formativa mira a consentire all’alunno di sapere perchè è riuscito in un caso e non in un altro(…).L’obiettivo di questo tipo di valutazione è in effetti di confrontare l’alunno con se stesso e di aiutarlo a compensare le difficoltà identificate da lui e per lui” (A.De Peretti).
    Andare verso la valutazione formativa significa rinunciare a fare della selezione il nodo permanente del rapporto pedagogico. La valutazione formativa non ha una vocazione selettiva e in qualche modo suggerisce di sostituire una relazione cooperativa ad una relazione potenzialmente conflittuale tra alunni e docente.
  • La valutazione formativa dovrebbe esercitarsi soprattutto sugli alunni in difficoltà; è funzionale alla differenzazione dell’insegnamento per un’educazione su misura. La buona valutazione è quella che suscita motivazione ad apprendere; è quella che valorizza lo sforzo e il superamento delle difficoltà e degli ostacoli; è quella che  non tende a sorprendere in fallo e non demonizza gli errori.
  • Nelle operazioni di valutazione convivono naturalmente sia l’intenzione della misurazione, per gli esiti pubblicistici di cui si è parlato, sia l’intenzione dell’interpretazione che si realizza nel giudizio di valore. Intenzioni che allo stato di fatto esistono e che bisognerebbe saper conciliare, perchè danno consistenza al significato della valutazione.
    Bisogna saper conciliare la prospettiva dell’aiuto e della regolazione con quella del riconoscimento sociale degli apprendimenti, dell’attestazione e della certificazione.
  • Nei fatti si registra un’oscillazione costante tra una concezione democratica della valutazione ,inclusiva e a sostegno delle pari e migliori opportunità per tutti ,e una concezione elitista ,formalmente meritocratica,ma funzionale alla riproduzione delle distanze sociali esistenti ad un certo momento della storia della società.
    “Altro è la selezione, altro è volere che le persone apprendano ad agire con efficacia,permettendo di riflettere se sono stati ottenuti gli effetti voluti.”(G.Le Boterf) .
    Per preservare la dimensione educativa della valutazione è necessario considerarla come l’operazione che assume il proprio significato nel dare un valore, nel valorizzare il lavoro,l’impegno, la prestazione degli alunni.
  • “Bisogna spostare il senso ultimo dell’attività valutativa dalla polarità del controllo e della sanzione, a sostegno di una logica premiale o punitiva, a quella della ricerca e sostegno dell’innovazione” (M.Ambel).
    Verrà il giorno in cui prove e valutazione non saranno considerate con timore e terrore?



La forma della scuola. La didattica a distanza tende a modificarla

ripresa_scuoladi Raimondo Giunta

    • I giorni difficili della pandemia hanno aperto non pochi interrogativi sul destino della scuola, sull’identità e sul significato che debba avere.  Ne è stata causa la necessità di ricorrere alla didattica a distanza per mantenere nei limiti del possibile il rapporto educativo con gli alunni; una necessità che per alcuni si è subito trasformata in una opportunità per pensare di ristrutturare le procedure abituali dell’insegnamento,di riconfigurare con uno sguardo proiettato nel futuro gli ambienti di apprendimento e l’articolazione del rapporto tra alunni e luoghi di formazione.
      Di cambiamenti nel modo di essere scuola se ne sono visti tanti negli ultimi decenni e in qualche modo la scuola è riuscita a reinventarsi rimanendo se stessa, conservando la propria forma.
      Sarà ancora una volta così?
    • La scuola è un’istituzione ancora facilmente identificabile per i luoghi in cui le sue attività si svolgono, per le finalità che deve  o che dovrebbe realizzare, per l’organizzazione complessiva che la distingue da ogni altra istituzione pubblica.
      Fino ad oggi l’insegnamento è ancora distribuito per anni, secondo un criterio di difficoltà e di complessità crescenti, per classi omogenee di  età, che si succedono le une alle altre.

  • La scuola tradizionale  di cui abbiamo ereditato la forma nasce con i Gesuiti (Ratio Studiorum)  e con Comenio (Didactica Magna).
    Quasi inevitabile che nel secolo del Metodo se ne elaborasse qualcuno per la scuola per aiutarla a realizzare i suoi compiti con razionalità.
    “Nascono le classi  e compare il libro di testo;il manuale scolastico incarna la scuola della tradizione.E’ una scuola organizzata al riparo dell’imprevisto e della casualità.L’insegnante deve sapere fino a  quale punto vuole condurre gli allievi in un anno,in un mese,in un giorno,in un’ora e deve ripartire i compiti esattamente in funzione di queste divisioni del tempo” (G.Snyders).
    Fondata sul nesso separatezza  e mondo classico,che incomincerà a sciogliersi in parte coll’avvento della borghesia e con la Rivoluzione Francese, la scuola della tradizione era riservata alla formazione della classe dirigente.Il collegio gesuitico fisicamente assicurava il regolare svolgimento di queste funzioni.
  • Era questo il modo con cui  si credeva di formare l’uomo adatto a dirigere  quella società: si imparava a ubbidire, per sapere domani comandare; separatezza, ma non estraneità alla società.
    Nel tempo la forma della scuola si è dilatata per comprendere nuovi contenuti e nuova popolazione, ma  a pensarci bene non è sostanzialmente cambiata.
    Si sono moltiplicati gli spazi e le aule;si è creato qualche laboratorio, si è diversificata l’enciclopedia dei suoi saperi,ma la sua forma (progressione dei contenuti/classi progressive per età,orari,procedure organizzative,attività) fino ad oggi è rimasta fedele a se stessa.
    I cambiamenti  per moltissimo tempo hanno riguardato i contenuti più che i metodi di lavoro e  questo è potuto avvenire perchè è esistito sempre a suo modo un rapporto tra scuola e società.
  •  A scuola si afferma un procedimento di formazione delle conoscenze  necessariamente capovolto rispetto a  quello naturale delle esperienze di vita.
    Renderlo attraente è stata la preoccupazione dei migliori  educatori,che hanno dovuto imparare a graduare  prove  e difficoltà. Con l’avvento degli stati nazionali per necessità e per scelta l’istruzione diventa un’arma di combattimento, tra le altre disponibili, nella competizione tra le nazioni europee.
  • La scuola viene fatta funzionare come una macchina da guerra contro i dialetti per imporre la lingua nazionale,contro le culture locali a vantaggio di valori comuni, contro i privilegi familiari per permettere in teoria un accesso paritario alle funzioni pubbliche, contro le corporazioni per rinforzare il potere della nazione e della sua amministrazione(Ph.Meirieu )
    Con l’obbligo scolastico, che fa la sua strada molto lentamente fino a metà del secolo passato, si tende a sottrarre il bambino alla famiglia e al prete.
    La scuola fa propri i valori della nazione e nel migliore dei  casi quelli del cittadino-.
  • Oggi si tenta di fare il percorso inverso e si va verso modelli pedagogici transnazionali e l’approccio per competenze e le indagini PISA ne sono i corifei e le truppe d’assalto.
    Ma una scuola che non faccia riferimento alla propria cultura nazionale rischia di diventare solo una scuola senza anima.
    La scuola è fonte di coesione solo se è strumento di  diffusione di valori comuni e di cultura comune.(lingua -storia-cultura -tradizioni).
    Non esiste vera cittadinanza senza partecipazione alla memoria collettiva, che costituisce l’identità della società alla quale si appartiene. Si è avuto con le trasformazioni della società una costante, inarrestabile scolarizzazione dei saperi, di ogni genere di sapere.
    La scuola a poco a poco e fino ad oggi è stata per vocazione o per costrizione l’unico luogo in cui si tramandano cultura ,tradizioni,valori,conoscenze e competenze.
  • I saperi tecnici e professionali sono stati gli ultimi ad entrare nell’enciclopedia dei saperi scolastici e per quanto impegno si sia profuso in questo senso sono rimasti i figli poco desiderati del sistema scolastico.In Italia anche nel tempo delle tecnologie e della società della conoscenza l’istruzione tecnica rimane legata a limitate intenzioni di mobilità sociale.
    L’istruzione professionale e tecnica entrando nella forma scuola incomincia a liberarsi dai legami e dalle funzioni caritatevoli che hanno segnato le sue origini.
    Manterrà per molto tempo e forse  per merito di  molti operatori scolastici  mantiene ancora l’ispirazione di essere scuola del progresso sociale, del riscatto sociale, dell’elevamento morale e sociale di parte considerevole della nostra gioventù.
  • L’istruzione tecnica e professionale non è nata per essere scuola di conformità istituzionale, non è stata garante e guardiana dell’ordine costituito e della riproduzione delle elite. Entrando nella forma scuola l’istruzione tecnica e professionale libera l’allievo dal rapporto carismatico col maestro e si universalizza; rompe il sancta sanctorum del segreto professionale, del segreto del mestiere.
    E’ una novizia che pretende un proprio spazio e che esige necessariamente metodologie attive e realistiche in controtendenza con le tradizioni della scuola.
    La scuola per lunghissimo tempo è stata un auditorium; oggi si richiede che diventi un laboratorio:si vuole e si deve passare dall’ascolto e dalla ripetizione all’attività e alla ricerca.
    L’insegnante da fonte della conoscenza  deve trasformarsi in guida dei processi di apprendimento.
  • La scuola dispensa linguaggi (istruzione), metodi (formazione) e coltiva interessi (educazione).
    Non è stato facile essere sempre fedele a questa consegna e lo diventa ancor di più oggi nella società della conoscenza, che ha visto la modificazione strutturale dei luoghi di apprendimento: saltano i principi tradizionali dell’unicità del tempo, del luogo e dello spazio.
    V.Cesareo parlava, già tanti anni fa,  di policentrismo  formativo, fatto che non mette in discussione solo primati istituzionali, ma il modo di guardare ai processi di diffusione e creazione delle conoscenze con cui si deve sempre confrontare la scuola.
  • La sfida più seria  alla forma scuola proviene dalla necessità di articolarsi con propri compiti nei dispositivi della strategia dell’apprendimento lungo tutto la vita; sfida  che propone l’ impegno di verificare la propria congruenza ed efficacia con la pressante richiesta di valorizzazione degli apprendimenti informali e non formali, che rischia di portare il sistema scuola dal centro del sistema complessivo di formazione alla sua periferia.
    Connessa a questa sfida è la richiesta crescente di modularizzazione del curriculum,ritenuta necessaria per sostenere l’impianto del longlife learning, per garantire la capitalizzazione e la portabilità delle competenze,comunque acquisite,e l’alternanza lavoro/formazione,che pare debba distinguere le attuali condizioni del rapporto di lavoro.
  • La modularizzazione dei curricoli porta al superamento del percorso formativo per classi e anni di corso,inscindibile nelle sue parti e valevole solo nella sua interezza.
    Il superamento del gruppo classe e dell’anno di corso rompe con l’organizzazione tradizionale della scuola,comunemente accettata sia dagli insegnanti,sia dagli alunni,sia dalle famiglie sia per la sua semplicità sia per la sua razionalità.
    Nell’immaginario collettivo classe e anno di corso restano i pilastri della scuola. Il superamento è davvero una sfida eccezionale e potrebbe trasformare l’istruzione pubblica in un servizio a domanda individuale; potrebbe contribuire a smantellare il senso di comunità che i giovani apprendono vivendo insieme nella stessa classe e di cui hanno un grande bisogno.
    Un problema che non si puo’ sottovalutare e che in veste mutata si riproporrebbe con la didattica a distanza, se dovesse diventare una modalità ricorrente o peggio ancora permanente del lavoro scolastico.




Vorrei una scuola che non lascia indietro nessuno

io_noidi Raimondo Giunta

La scuola che vorrei è quella che non lascia nessuno indietro e in cui gli insegnanti si impegnano affinché tutti gli alunni posseggano i saperi indispensabili per orientarsi nella vita e per inserirsi nel mondo del lavoro.
Una scuola che tiene fede a queste finalità non abbassa il livello delle proprie esigenze,anzi; sceglie soltanto di non essere un luogo di discriminazione; di volere il successo di tutti e non quello di una minoranza.

Gli alunni in difficoltà, come dice Meirieu, rendono un servizio immenso agli insegnanti e ai compagni, perchè li rendono consapevoli dei problemi che bisogna affrontare per crescere e andare avanti.
E molti alunni a scuola sono in difficoltà, perché spesso sono arbitrarie le mete che si dovrebbero raggiungere ,arbitrari i livelli da superare,arbitrari i criteri di valutazione, non adeguati i metodi di insegnamento.
Oggi diventa fondamentale esercitare i giovani a sapere utilizzare l’immenso capitale culturale parallelo ed esterno a quello della scuola;farli diventare capaci di discernimento e di selezione delle informazioni.
L’educazione e l’istruzione sono diventate una sfida difficile,ma sono le uniche alternative alla stupidità e alla violenza,alla seduzione dei media e dei social che non danno conoscenza.
Se si vuole il bene dei giovani, se si vuole sottrarli alla realtà virtuale, la scuola sia per loro l’incontro con le cose, le persone, le tradizioni e i valori del mondo circostante.
Sia per loro l’incontro con la realtà. Per apprendere a scuola e fuori della scuola bisogna volerlo; questo significa che bisogna motivare i giovani a volerlo, perché senza il piacere di volere imparare non si produce apprendimento.
Non ci sono in giuoco, però, solo elementi intellettuali e cognitivi. Questi sono alcuni aspetti del problema, che non è solo un problema pedagogico-scolastico.

Un modo per affrontare e vincere questa sfida è quello di sapere trasformare i contenuti e gli scopi della formazione in interessi presenti e quotidiani per i giovani. Non è un’operazione facile.
Per raggiungere i risultati sperati occorre misurarsi con la crescita esponenziale dell’insofferenza di parte non insignificante dei giovani verso la scuola;molti non sono preparati come un tempo a vivervi dentro e ad accettarne cultura, regole, organizzazione e ritmi.
Tanti giovani, abituati a casa ad un regime di vita senza tanti controlli, a volte abbandonati a se stessi, a scuola non riescono a trovarsi a proprio agio e ad accettare quelle limitazioni alla propria libertà che consentono di potere svolgere regolarmente le attività di formazione.
Occorre fare comprendere che a scuola è necessario che tutti si riconoscano vincolati, per potere stare insieme, da quei principi che consentono nelle stesso tempo di rispettare le altrui esigenze e le proprie; gli altrui convincimenti e i propri e che lo spazio comune di convivenza sia gelosamente delimitato e difeso.
Il mondo giovanile che riempie la scuola è diventato complesso e a volte indecifrabile a motivo della sua sempre più frastagliata composizione sociale, della sua diversa provenienza nazionale, della sua molteplice appartenenza religiosa.
Nella scuola che è diventata multietnica e multiculturale non si viene a capo dei problemi da affrontare, proponendo come indiscutibile un solo modello di razionalità, di cultura e di umanità; a scuola non ci dovrebbero essere mondi da civilizzare; l’etno-centrismo delle nostre tradizioni scolastiche non è un fattore di integrazione e andrebbe seriamente discusso, quando si elaborano i curricoli scolastici.
Si richiedono ai giovani capacità di iniziativa, attitudini al lavoro di gruppo e alla collaborazione, senso di responsabilità; ma come possono acquisirli se in classe si crea un clima competitivo individualistico e si lavora con una didattica autoritaria?
D’altra parte l’educazione al senso di responsabilità non compete solo alla scuola, perchè se dovesse appartenere solo alla scuola, non si andrebbe molto lontano con tanti cattivi esempi nelle istituzioni e nella società. Per fare bene il proprio mestiere e per rispondere al bisogno di educazione e di formazione delle nuove generazioni la scuola ha bisogno di tempo; a volte di molto tempo.
Nella scuola, invece, si ha sempre fretta, perché ci sono tante scadenze, tanti impegni da onorare; tanti progetti da portare a compimento.

Al posto della riflessione regna sovrana la concitazione. E’ forse questa la causa che impedisce di prestare la dovuta attenzione ad ogni alunno e ai particolari problemi che può presentare.
Ogni volta che si entra in classe ogni insegnante dovrebbe chiedersi per quale tipo di società si sta istruendo e formando i giovani e dovrebbe farlo per dare un senso al proprio lavoro.
Certo, il primo dei compiti della scuola è quello di dare a loro gli strumenti per costruire il proprio progetto di vita e per inserirsi nel mondo del lavoro.
Credo che non basti.
La scuola deve sviluppare e proteggere l’umanità che è in ognuno di noi,è questo è possibile rendendo i giovani eredi consapevoli del patrimonio di conoscenze e di valori della società alla quale appartengono,spronandoli ad essere persone accoglienti, dialoganti, aperte alla comprensione e all’accettazione delle diversità.
Lo si voglia o no, per fare una buona scuola, oggi, si deve porre attenzione alle dimensioni affettive della persona.
A molti ragazzi mancano la presenza, la guida e l’affettività della famiglia, ma non dovrebbero mancare le attenzioni della scuola.
Bisogna preoccuparsi della formazione degli alunni, ma anche dei problemi della loro esistenza.
Il mondo è talmente cambiato che i giovani devono reinventarsi tutto (M.Serres) e non possono essere lasciati soli.