L’insofferenza italica per i controlli

di Raimondo Giunta

A scuola ho impiegato notevoli fondi europei per l’allestimento di un corso biennale di IFTS; per averli c’è voluto un dettagliato piano finanziario, un progetto formativo serio e articolato, una proposta gestionale accurata, la disponibiltà documentata di docenti universitari e di esperti del mondo del lavoro, la garanzia di posti di lavoro dove potere svolgere le attività di stage.
Controlli ex-ante e controlli ex-post a volontà.
Controlli dell’ispettorato del lavoro, controlli della Regione Sicilia, controlli della Comunità Europea e per farsi il palato 15 giorni di presenza a scuola della Guardia di Finanza, che voleva mettere in croce l’assessorato regionale ai Beni Culturali, per la parte che gli toccava del finanziamento, che ammontava a 800 milioni delle vecchie lire.
Una somma immensa per una scuola. Mi pare giusto che siano stati effettuati i controlli necessari per certificare la correttezza dell’impiego di quelle risorse pubbliche e non capisco tutte le fisime sulle condizioni per accedere ad un finanziamento o ad un prestito, che sia nazionale o europeo. Solo i soldi rubati sono esenti da condizioni e da controlli nello stato di diritto.

 




E a settembre funzionerà la scuola?

di Raimondo Giunta

Settembre sarebbe stato difficile per la scuola anche senza le incertezze dei dati epidemiologici e delle misure necessarie per garantire la sicurezza al personale della scuola e agli alunni.

Per tanti motivi che solo in malafede si possono scoprire oggi e addebitare all’attuale amministrazione:
1) Tagli ricorrenti del personale docente e del personale ata;
2) Riduzione costante delle risorse assegnate all’istruzione;
3) Edifici inadeguati e spesso non in regola con le norme di sicurezza;
4) Povertà degli spazi e degli arredi;
5) Reclutamento casuale dei docenti;
6 ) Precarizzazione dei rapporti di lavoro;
7) Stipendi da sottoproletari della cultura;
8) Innovazioni curriculari continue e senza fondamento.

Una scuola che di fatto era allo sbando da anni e le cui difficoltà sono cresciute per la pandemia non puo’ d’incanto a settembre mettersi a funzionare a gonfie vele, per di più nel mezzo del più tradizionale gioco italico di non prendersi le proprie responsabilità e di aspettare le altrui decisioni.
A Settembre si potrà iniziare a fare scuola e con non poche difficoltà, se tutti quelli che hanno una qualche responsabilità nel merito faranno tutto quello che è necessario.
Potrà accadere se gli enti locali procureranno in tempo locali idonei e arredati,richiesti dalle scuole sulla base degli iscritti e delle norme anti-covid; se Ministero e CSA saranno in grado di consegnare alle scuole gli insegnanti di cui hanno bisogno,dopo un’attenta riconsiderazione dell’organico di fatto; se si incomincia fin da ora a predisporre le attività didattiche che dovranno essere svolte per consentire il recupero agli alunni promossi con carenze di preparazione ;se saranno formate le classi con i criteri richiesti dalle norme di contrasto alla pandemia; se i docenti sapranno subito a quali classi saranno assegnati; se famiglie,alunni,personale docente e personale  Ata sapranno in tempo a quali classi toccherà la sorte di lavorare nelle sedi decentrate.
E potrebbe non finire qui il catalogo degli impegni,essendo a tutti evidente anche che ognuna delle scelte per fare funzionare la scuola a Settembre potrà essere intralciata e ritardata dalla consueta sequenza di lagnanze,opposizioni e conflitti.
Diciamolo allora.
Senza spirito di sacrificio,senza generosità,senza impegno severo e costante,senza assunzione piena delle proprie responsabilità di tutti gli attori che giocano un ruolo nella scuola e per la scuola a Settembre non sarà per nulla facile iniziare regolarmente le attività didattiche.




Dare senso al sapere

di Raimondo Giunta

A scuola non si sta insieme per caso e nemmeno per fare qualsiasi cosa; a scuola gli insegnanti devono insegnare e gli alunni devono apprendere; tra docenti e alunni c’è di mezzo il sapere, che i primi devono trasmettere e i secondi devono apprendere. Un rapporto costituito dagli obblighi professionali, anche quando è pieno di rispetto e di attenzione verso gli alunni.
Nel triangolo che nell’azione quotidiana a scuola si viene a costituire tra docenti, sapere e alunni, nessuno dei vertici può essere trascurato in favore degli altri due. Devono esserci per forza tutti e tre con pari dignità. Non può scomparire l’insegnante, come talvolta si favoleggia, perchè l’alunno non impara da sè; non può scomparire il sapere, perchè non ci sarebbe più scuola e nemmeno si può immaginare che l’alunno conti così poco, come se non ci fosse, perchè è per lui che si fa scuola. Tra l’insegnante e l’alunno non c’è solo il sapere, ci sono le istituzioni con le loro ingiunzioni, ci sono le aspettative della società che hanno influenza sul modo in cui il lavoro che si svolge a scuola deve essere fatto.

La trasmissione del sapere, ma anche dei valori e delle tradizioni, alle nuove generazioni è l’atto fondatore con cui la scuola e quindi gli insegnanti per la loro parte garantiscono “la continuità del mondo”(Hannah Arendt).
Le nuove generazioni non devono inventarsi il mondo, se non altro perchè non lo possono fare e perchè già c’è a loro disposizione; bisogna, però, dare loro gli strumenti, le conoscenze, la cultura perchè lo possano abitare in modo appropriato.
E questo non avviene casualmente, ma con un’attività regolare e ordinata di istruzione/educazione.
La trasmissione dei saperi, delle tradizioni e dei valori di una comunità è un’avventura in cui si incontrano chi crede nell’educabilità dei giovani e la volontà del giovane che vuole crescere e che si mette in gioco per il piacere di apprendere e di comprendere.(Ph.Meirieu)

L’insegnante trasmette ciò che ha ricevuto, cercato e fatto proprio, ma deve commisurarlo alle capacità dell’alunno, alla dotazione di conoscenze in suo possesso, ai suoi interessi e ai suoi problemi.
Per rendere vivo ed efficace il proprio lavoro, l’insegnante deve chiedersi che cosa del suo sapere valga per gli alunni che vale anche per lui. E’ il percorso per arrivare ad accendere il desiderio di apprendere e per poterlo soddisfare.

“Partendo da questi esseri viventi deve ritornare alle materie del suo insegnamento per scoprirvi le cose antiche e nuove che sarebbero rimaste ignote al suo proprietario, se la presenza dei suoi interlocutori non gli avesse permesso di trarle fuori dal tesoro che ha acquisito col suo lavoro”(Michel de Certeau).
Le nuove generazioni hanno il diritto di aspettarsi dall’insegnante i frutti di una tradizione che avrà passato al setaccio del presente.
Certamente l’insegnante non può farsi carico di tutto il mondo delle persone che educa, di mobilitarne tutta la loro attenzione; ad una certa età c’è la responsabilità dell’alunno e questa non può essere assorbita dalla responsabilità che ha nei suoi confronti l’insegnante.
Nessuno può apprendere al posto dell’alunno.

Saperi, valori e tradizioni costituiscono un patrimonio che va discusso e ripensato, ma che non può essere abbandonato, perchè significherebbe misconoscere il prezzo pagato dagli altri per le conoscenze di oggi.
Un insegnamento calibrato sulle esigenze degli alunni, sui loro bisogni, sui loro problemi non può e non deve limitare lo spazio e il valore dei contenuti e delle discipline.
Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza è necessario condurre l’alunno alla conoscenza delle grandi tradizioni del sapere, dell’arte, della cultura e della società a cui appartiene.
E’ necessario portarlo all’altezza delle conoscenze e dei saperi che deve possedere; nulla è peggio di una scuola e di un insegnante sottomessi alla tirannia del momento, dimentichi della forza propulsiva che oggi può avere “non la lettera, ma lo spirito di una tradizione.(…)Un presente che si pretende assoluto non si comprende più come un momento”(Michel de Certeau).

Rispetto al sapere che si ha dovere di trasmettere, a prima vista sembra che l’insegnante sia in una posizione diversa rispetto all’alunno, che è interessato e tenuto ad apprenderlo.
E invece rispetto al sapere l’atteggiamento dell’insegnante non può essere diverso da quello che si auspica per l’alunno; un atteggiamento di curiosità, di attenzione, di ricerca, di amore.
La sfida educativa è quella di fare diventare il sapere dell’insegnante oggetto del desiderio dell’alunno: è quella di proteggere e diffondere il senso dei saperi.
E’ fondamentale per una buona formazione tenere sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra l’alunno e il sapere per cercare in tutti i modi di evitare che si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina,una nozione, un metodo, una posizione intellettuale(Ph.Perrenoud).

Il desiderio di apprendere è una disposizione morale che bisogna coltivare e che va accompagnata con l’orientamento al dialogo e all’ascolto. Sboccia se lo si riesce quotidianamente a suscitare nella coscienza dei giovani. E non serve molto per questo scopo mostrare gli aspetti utili e le convenienze sociali del sapere.
Il sapere deve avere un senso per chi lo deve possedere; deve inserirsi, cioè, dentro un sistema di significati personali: quelli che guidano i comportamenti e le scelte delle persone.

L’insegnante non insegna da solo; a scuola si insegna insieme, come insieme si apprende; c’è una responsabilità collegiale degli insegnanti, nella diversità degli stili in cui si esprimono i compiti professionali, nel cercare di dare un senso alla crescita degli alunni.
Nella pluralità dei linguaggi, comuni devono essere gli intendimenti; da ogni insegnante deve generarsi un contributo di senso per arricchire l’attività didattica. Le differenze bisogna renderle necessarie, coabitanti le une con le altre all’interno di un processo, che se non può essere arbitrario, non deve strozzare la fantasia e la libertà che reclama il faccia a faccia con chi apprende

Il rapporto con gli alunni, mediato dal sapere, non può essere privato del suo sapore esistenziale; non può essere spadroneggiato dall’algoritmo che stabilisce il come, il quando e il dove.
Si deve essere consapevoli che il “senso” è tendenzialmente emarginato dal funzionamento delle grandi organizzazioni alle quale appartiene anche l’istruzione e dentro il lavoro scolastico come è diventato e prescritto non sempre è garantita la possibilità di darlo a ciò che si fa in classe.
Le risposte che pretende il sistema dell’istruzione sono relative all’adeguamento al fare richiesto in ogni momento dall’organizzazione sociale del lavoro e nel migliore dei casi all’assimilazione dei valori civici; estranei spesso con la loro retorica alle domande esistenziali che bisognerebbe perlomeno ascoltare e insegnare a porre.

Nell’insegnamento ci vogliono certezze morali e certezze scientifiche e non bisogna dimenticare che ogni pratica educativa sottintende una concezione dell’uomo oltre quella dell’apprendimento e rinvia all’etica della convinzione .
Ogni insegnante in classe propone, anche inconsapevolmente, un modello educativo in cui le sue conoscenze si intrecciano con scelte di valore, evidenziate queste dai suoi comportamenti.
E’ un dovere rendere tutto esplicito e commisurarlo al rispetto dell’autonomia dell’alunno . Per educare bisogna fare lavorare la classe come comunità morale, come comunità democratica, come comunità di apprendimento.
A scuola istruire ed educare è una responsabilità condivisa.

L’impegno a fare amare il sapere non può limitarsi agli alunni che riescono; sarebbe molto facile.
L’impegno prioritariamente va dedicato a quanti incontrano difficoltà e restano indietro. Nessuno insegnante a cuor leggero può metterli da parte. Non è giustizia lasciarli al posto dove si sono fermati.
Oggi la povertà culturale priva davvero del diritto effettivo di cittadinanza e della comunicazione con gli altri; gli alunni che per varie circostanze non hanno varcato la porta del sapere saranno i poveri della nostra società, tanto più reietti, quanto più aperta sembra essere la scuola.
L’insegnante che si fa carico delle sue responsabilità educative non ha mai fretta, aspetta non solo i ritardatari, ma anche gli assenti e questi ultimi, se è necessario li va a cercare.




I dettagli del diavolo

di Raimondo Giunta

  • Il piano scuola 2020-2021 elaborato per garantire una ripresa delle attività didattiche all’insegna della normalità è corredato dall’accordo delle Regioni e dall ’impegno di risorse aggiuntive da utilizzare per l’assunzione di migliaia di nuovi docenti e di nuovo personale ATA . Il ritorno a scuola è in sé un fatto positivo e consentirà di riallacciare e rafforzare il legame con la società.Tutto dipenderà dalla passione e dall’entusiasmo con cui si lavorerà con gli alunni.L’esperienza fa dire che anche a moltiplicare le risorse che saranno disponibili,gli inizi del nuovo anno scolastico saranno complicati un po’ dappertutto.Non è nella disponibilità delle più efficienti amministrazioni predisporre e arredare i locali per il 15% della popolazione scolastica italiana,che non potrebbe rientrare a scuola, se si vogliono e si devono rispettare le norme di sicurezza prescritte dal CTS e fatte proprie dal Piano Scuola, nel giro di appena due mesi,uno dei quali dedicato alle ferie nella stragrande maggioranza delle aziende della nazione.Non è pensabile nemmeno,anche se auspicabile,che nello stesso lasso di tempo sia possibile dare corso a tutte le operazioni necessarie per garantire che a settembre entrino in servizio i dirigenti,gli insegnanti e il personale che mancano.Il buonsenso ,se ce n’è ancora,consiglierebbe pertanto di non alimentare richieste e proteste che si scontrerebbero con la durezza dei dati della realtà.Una scuola non si rivolta come un calzino in pochi giorni dell’anno;un anno questo in cui la scuola non è l’unico problema da affrontare.Per quanto riguarda la scuola,invece, farei un po’ più di attenzione a quanto viene detto e consigliato nel paragrafo che va sotto il titolo “Tra sussidiarietà e corresponsabilità educativa”.
  • Credo che si debba aprire una discussione seria su quello che vi si propone ,perchè le ambiguità che si nascondono dietro i buoni propositi rischiano di impoverire e di ridimensionare il ruolo della scuola e le sue funzioni.Viene detto:”in una logica di MASSIMA ADESIONE al principio di sussidiarietà e di corresponsabilità educativa” le scuole,soggetti pubblici,privati e terzo settore possono sottoscrivere,attraverso apposite conferenze di servizio,Patti educativi di comunità per “la più ampia realizzazione del servizio scolastico nelle condizioni del presente scenario”.Si sa come gli Enti locali debbano concorrere a realizzare il servizio scolastico ;un po’ meno come vi possano concorrere soggetti privati e del Terzo Settore;ciò che necessita capire è che cosa significhi e che cosa possa comportare la sussidiarietà nella realizzazione del servizio scolastico.Recita il comma 4 dell’art.118 della Costituzione che la istituisce:” Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. La sussidiarietà di cui si parla nel piano della scuola dovrebbe essere quella orizzontale, che in genere propone un criterio di ripartizione delle competenze tra soggetti pubblici,soggetti privati ed enti locali,ma che in una sua accezione letterale potrebbe operare come limite all’esercizio delle competenze da parte delle istituzioni scolastiche.Il sogno ricorrente di tutti quelli che vogliono disfare il sistema pubblico dell’istruzione: che vi possa dare adito,anche in un futuro lontano, un piano di rientro a scuola dopo la pandemia non puo’ non lasciare stupefatti e scandalizzati. “La sussidiarietà orizzontale si basa sul presupposto secondo cui alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedono direttamente i privati cittadini (sia come singoli, sia come associati) e i pubblici poteri intervengono in funzione ‘sussidiaria’, di programmazione, di coordinamento ed eventualmente di gestione”.(Enciclopedia Treccani on line).
  • E’ allora bisogna chiedersi se veramente sia necessario ricorrere alla sussidiarietà per rimettere in piedi il servizio scolastico e che senso abbia ancora l’autonomia scolastica alla quale è stata assegnata una tutela costituzionale,proprio per sottrarla a possibili intrusioni degli enti territoriali e dei privati.Sotto il velo della corresponsabilità educativa viene messa a rischio la specificità epistemologica e tecnica e dell’insegnamento,della trasmissione della conoscenza e dei saperi.La competenza dell’istruzione non è affidata agli enti locali e ai volontari del terzo settore,ma alle scuole.
  • Tutti nella società hanno responsabilità educative nei confronti delle nuove generazioni ,ma solo le scuole sono tenute ad istruirle.Istruire,non informare, per garantire un apprendimento rigoroso e strutturato.Nell’esercizio della funzione conoscitiva non ha senso che la scuola ricorra alla sussidiarietà ,perché perderebbe il ruolo che gli è stato assegnato nella società.L’autonomia è soprattutto elaborazione e possesso del curriculum e suona perlomeno strano affermare che le conferenze di servizio abbiano come obiettivo ultimo quello di “fornire unitarietà di visione ad un progetto organizzativo ,pedagogico e DIDATTICO,legato anche alle specificità e alle opprtunità territoriali”.L’autonomia scolastica non si declina nell’autosufficienza e nella chiusura ;si esprime nella capacità propria di connettere esigenze emergenti nel territorio di pertinenza alle indicazioni generali che delineano il compito che deve essere svolto.Un lavoro ermeneutico che la scuola puo’ svolgere perché dispone del personale che sa farlo e spesso anche senza l’esaltato contributo dei privati,del Terzo settore e degli Enti Locali.C’è del discredito nei confronti della scuola e ci sono non pochi pericoli per la sua incolumità nel ricorrente appello alla sussidiarietà e alla collaborazione educativa con tutto ciò che si muove nella società.Ragione per cui prima di organizzare una conferenza di servizio le scuole ci pensino non sette volte,ma settanta volte sette.

 




Chiamale se vuoi linee guida

di Raimondo Giunta

Il desiderio di tornare  alla normalità dopo la lunga quarantena con cui ci si è difesi dal coronavirus è giustificabile, ma non dovrebbe travolgere le norme di prudenza alle quali ci si dovrebbe attenere per salvaguardare alunni, docenti e personale della scuola, considerato che non si dispone di un vaccino per contrastare il virus e che nessuno può escludere una seconda ondata della pandemia.
Le linee guida per la riapertura delle scuole risentono di questa incertezza, della modestia delle risorse assegnate, dell’impossibilità di ottemperare alle indicazioni, proposte dal CTS, nel tempo irrisorio di due mesi, agosto compreso.
Solo chi non ha idea dei tempi che si prendono anche le più efficienti amministrazioni può sperare che in questo lasso di tempo  si trovino aule sufficienti e idonee e il personale che manca; che tutti gli enti locali e tutti i CSA facciano avere quello che manca ed è necessario.

Ciò nondimeno è evidente che alcune misure di contrasto al virus bisogna rispettarle. Compito che spetta alle regioni e ai comuni per la predisposizione degli edifici scolastici e per allestire e arredare le aule e gli spazi che necessariamente serviranno e alle singole scuole che dovranno riorganizzare le attività didattiche in funzione della sicurezza degli alunni.

Da quel che si capisce gli enti locali, non tutti, cercano di minimizzare i rischi, per minimizzare gli oneri di cui si devono fare carico e il ministero, col poco che è riuscito ad ottenere, non può forzare la mano e non può andare oltre alcune misure di buon senso.
Il minimalismo in termini di preoccupazione non può evitare, però, che si facciano i doppi turni e che se si fanno i doppi turni è evidente che ci vorrà più personale ATA.
E poi se le classi si dividono in piccoli gruppi, è evidente che ci vorranno più insegnanti, anche se si aumentasse l’orario di servizio come pare si voglia fare; se, infine, si divide la classe, è evidente che si ritorna alla didattica a distanza a turnazione tra i vari gruppi.
L’affidamento alle regioni, ai comuni  e alle singole scuole del compito di assicurare in sicurezza le attività didattiche del nuovo anno scolastico  ha come naturale conseguenza un’ulteriore disarticolazione del sistema di istruzione nazionale, che per necessità sarà declinato in tante versioni quante sono perlomeno le regioni.

I problemi da affrontare sono davvero grandi e richiede un grande spirito di servizio da parte di tutti quelli che sono coinvolti nella responsabilità di fare funzionare il sistema scolastico. Tutto questo non può esimerci, però, dal sottolineare che, considerate le  dimensioni sociali del sistema pubblico di Istruzione e Formazione, l’incidenza che ha nella vita quotidiana di milioni  di persone  e nel futuro della società, alla scuola sono state assegnate le briciole  delle  risorse di cui disporrà il governo ed è stato dato  il minimo di attenzione che meritava, se si voleva dare avvio ad un nuovo ciclo della storia della nostra scuola, come si recita ogni volta che se ne parla.
Per tutti questi motivi   pare  poco opportuna l’enfasi sui gruppi che si formano e si disfano per classi parallele e addirittura per anni diversi; che si possa dare solidità al quotidiano della scuola  con la solita fuga in avanti, nascondendo tra l’altro una perdita di  valore, com’è l’unitarietà  della classe ai fini della crescita dei alunni più giovani.
E  perché si dovrebbe procedere in questo senso?
Per recuperare spazi? Per evitare doppi turni? Accompagnare questa misura con la sollecitazione ad accorpare le discipline in ambiti pluridisciplinari, anche dove in genere non si usa, significa ricostruire da cima a fondo per un intero istituto il curriculum degli alunni, procedere ad un’attività richiede un lavoro immenso e certosino, profondo di lunga durata, se non si vuole buttare tutto in aria.
Un lavoro che va fatto nella collegialità e nella convinzione profonda dei docenti.
Quando? Un lavoro che deve convincere gli alunni e le famiglie.
Quando? E non bisogna dimenticare che in assenza di un organico completo molte delle buone intenzioni rischiano di non andare a buon fine. Se poi si pensa che ogni lezione dovrebbe durare poco più di 40 minuti, sarebbe quanto meno giusto spiegare come si possa andare oltre la lezione frontale con così poco tempo a disposizione, chiamato l’appello e preso atto delle giustificazioni delle assenze degli alunni.

Le scuole vivono dentro le città, ne fanno parte integrante e ne condizionano la vita.
Finora sono state le scuole ad adattarsi; ma con gli ingressi differenziati, la diffusione dei doppi turni e con l’alto tasso di pendolarismo alle superiori dovranno essere le città, i paesi e le regioni ad adattarsi alle scuole.
Non pare che si sia chiaramente consapevoli delle difficoltà che bisogna affrontare e che ci sia la volontà di prenderne atto.
Si cercheranno le scorciatoie, invece, di prendere di petto i problemi.
Una scorciatoia sicuramente è l’idea di affidarsi a patti educativi di comunità  con associazioni di volontariato, addirittura anche per l’assegnazione dei compiti di vigilanza.
Un passo gigantesco verso l’esternalizzazione dei compiti e delle funzioni della scuola, che dovrebbe essere contrastato con energia e furore.
Diciamolo allora. Si sta pensando ad una ripresa delle attività didattiche come se il virus fosse stato sconfitto o come se fosse facile poterci convivere.
Si mente sulla realtà, per non pagare i prezzi che ciò comporta.
Per questo è giusta la giornata di lotta per scuotere il governo e indurlo a migliori propositi.

 




C’è giustizia nelle valutazioni?

di  Raimondo Giunta

  • Il titolo di studio è ancora  garante  delle competenze in possesso dei giovani che escono dai nostri istituti superiori? Che valore ha oggi ?
    Gli effetti sociali,se ancora ce ne sono,sono proporzionali ai punteggi ottenuti dagli studenti. Per alcuni comportano la legittimazione ad entrare in alcuni settori universitari, se non si procede ai test di ammissione,e in alcuni limitati ambiti del mercato del lavoro,per gli altri ,invece,possono significare l’esclusione o la marginalità sociale.
  • nche se il titolo di studio è ridotto ad evidente malpartito, nei procedimenti di valutazione conclusiva come in tutti gli altri che li precedono si aprono questioni di giustizia, che non dovrebbero essere ignote ai responsabili di ogni singolo istituto, ai docenti e ai commissari degli Esami di Stato.
    L’insuccesso  non è solo la bocciatura o l’esclusione dagli esami di Stato;vanno considerati come insuccesso la totalità dei voti vicini al minimo e questi, che non sono pochi,costituiscono un problema sul quale si dovrebbe ragionare.
    Un problema che non nasce in sede di esami, perché in quella sede ha la sua ultima manifestazione.
  • Quando si parla di valutazione, da molto tempo, è diventato abituale nascondere le dimensioni sociali di un’operazione che ha comunque un’incidenza sul destino dei giovani che attraversano l’istituzione scolastica.
    La valutazione non è un atto esclusivamente didattico; non è pensabile come se ci fosse il vuoto tra scuola e società. Si trascura il peso che vi gioca il contesto in cui opera un’istituzione scolastica e in cui vivono gli alunni o i soggetti in formazione. Si obietta che l’attenzione posta all’insuccesso scolastico spinge a trascurare la valorizzazione dei meriti individuali, dando per scontato e necessario che l’una e l’altra debbano essere per forza in contraddizione.
  • Alcune forme di valutazione, purtroppo, funzionano spesso come sanzione per gli alunni in difficoltà e per quelli più deboli.
    La valutazione viene impiegata per escludere e stigmatizzare e spesso si dimentica che potrebbe/dovrebbe essere un’opportunità per consentire agli alunni di apprendere meglio. Nei fatti si registra un’oscillazione costante tra una concezione democratica della valutazione, inclusiva e a sostegno delle pari e migliori opportunità per tutti e una concezione elitista, formalmente meritocratica, funzionale alla riproduzione delle distanze sociali esistenti ad un certo momento della storia di una società.
    Successo e insuccesso scolastico non sono solo legati, come spesso si vorrebbe fare credere, alle caratteristiche degli alunni; verosimilmente sono il risultato di un giudizio degli attori del sistema scolastico sulla “distanza” di un alunno dalle norme di eccellenza scolastica in vigore.
    I criteri di eccellenza cosi come quelli di sufficienza non sempre sono adeguatamente giustificati e scevri di connotati sociali, così come le prove che li dovrebbero convalidare.
    Per dirla chiaramente, nella valutazione si annida spesso un certo grado di arbitrarietà. Sia nei valori di riferimento, sia nella scelta vincolante dei saperi e delle competenze da valutare.
  • Per potere affermare che c’è giustizia nelle valutazioni scolastiche, bisogna vedere se ogni giovane,qualunque sia la origine sociale, riesce a confrontarsi in classe  con gli altri su un piano di parità; bisogna vedere se ogni giovane ha la possibilità di valorizzare  le proprie attitudini  per vivere secondo il principio di dignità; bisogna vedere se si è contribuito a diminuire le differenze di riuscita tra giovane e giovane e se quelli che sono allo stesso livello di talento, di capacità e hanno lo stesso desiderio di utilizzarli hanno avuto le stesse possibilità di successo,senza tener conto della loro condizione sociale.
    Per fare giustizia nella valutazione si deve aver chiara l’idea che le disuguaglianze della società si riversano nella scuola e agiscono attraverso i meccanismi della sua organizzazione.
    I fattori interni che possono produrre effetti di iniquità, registrati e riassunti nel modo di fare valutazione, sono collegati al curriculum, alla dotazione degli organici, al reclutamento e alla formazione dei docenti, alle risorse disponibili, all’unitarietà e differenzazione degli indirizzi, alla formazione delle classi, all’assegnazione dei docenti alle classi.
  • Il curriculum ufficiale, quando evidenzia la prevalenza degli aspetti logici, linguistici e astratti, rende probabile l’insuccesso di determinati alunni.
    ”L’ineguale distanza dalla cultura scolastica è un fattore di successo per alcuni,di insuccesso per altri.Non partendo tutti dallo stesso punto,non hanno lo stesso cammino da percorrere per padroneggiare il curriculum. Basta che la scuola tratti gli alunni della stessa età come eguali in diritti e doveri per trasformare le differenze di patrimonio culturale in disuguaglianze di successo scolastico”(Bourdieu-1966).
    Senza questa consapevolezza l’aura di oggettività con cui si cerca di rivestire le pratiche di valutazione serve solo a dissimulare la riproduzione dell’ordine sociale esistente, con le sue grandi ingiustizie,mentre si proclamano ad alta voce il merito individuale e la mobilità sociale.



Le buone ragioni della soggettività nella valutazione

di Raimondo Giunta

  • “Se la valutazione deve essere il più possibile equa,ci sono molte buone ragioni per restare soggettiva”(J.Cardinet-1992).
  • Dopo la pressante stagione in cui si è cercato e si è preteso di arrivare alla misura esatta nella valutazione, da tempo si cerca di superare questo orientamento per trovare nuove e più sentite pratiche di valutazione, che rispecchino la sua funzione educativa e la liberino dai sospetti che si aggirano intorno ad essa, come dice Perrenoud.
  • Forse è un sogno irrealizzabile l’oggettività o forse è una forma di ideologia cancellare la soggettività in alcune attività e in alcuni momenti del processo di formazione.
    Per quel che riguarda la valutazione è possibile affermare che essa si può dare proprio perchè viene implicata la soggettività di chi valuta. Non è la standardizzazione delle prove il modo per evitare l’arbitrarietà dei giudizi, giustamente sottolineata e condannata dalla docimologia.
  • “Non bisogna coltivare il sogno che sia sradicata ogni forma di soggettività, che l’insegnante sia una macchina per valutare senza pregiudizi, nè preferenze, senza errori e omissioni, senza stanchezza e noia. Bisogna rompere con questa diffidenza che rende stupida la valutazione” (Perrenoud).
    Nè tantomeno ci si può fermare alla logica giudiziaria della prova, che è insita nella pretesa della misura esatta.

    Valutare non vuol dire istituire il tribunale delle colpe e degli errori con tutto il corredo di drammatizzazione, di stress e di angoscia (Perrenoud). Se valutare serve per apprendere, bisogna ricordare che l’apprendimento vero si realizza in una relazione educativa esigente, autorevole, coerente,ma fondata sul rispetto assoluto del lavoro e della persona dell’alunno,sulla fiducia reciproca e sulla collaborazione.

Il problema da affrontare nella valutazione non è la soggettività, ma l’arbitrarietà. E contro di essa che bisogna combattere tenendo presente che la valutazione è un atto del pensiero, al quale si deve richiedere un modo cosciente, rigoroso e critico di procedere. Nella valutazione ”il progresso non va dalla soggettività all’oggettività, ma dall’inadeguato al pertinente”(Ch.Hadji). Nella valutazione non bisogna farsi illudere da analogie ingannevoli con le scienze esatte, che possono misurare o pesare gli oggetti di loro pertinenza.

“Valutare non è pesare un oggetto che si potrebbe isolare sul piatto di una bilancia e apprezzare questo oggetto in rapporto ad altra cosa rispetto ad esso”(Ch.Hadji).  La buona valutazione va sempre alla ricerca dell’attendibilità.

La valutazione liberata dalla tentazione oggettivistica aiuta a intavolare e a nutrire un dialogo proficuo tra docente e alunno e a permettere a quest’ultimo di gestire i propri apprendimenti, perchè potrà disporre di informazioni che lo possono illuminare, incoraggiare, guidare nell’analizzare la propria attività e nel porre attenzione ai propri punti di debolezza e di forza.

Valutare è un atto della soggettività. E’ prendere partito sull’accettabilità di una realtà:

A) La valutazione prepara una decisione. Secondo il tipo di decisione tutto il processo di valutazione sarà finalizzato al raggiungimento dell’obbiettivo fissato. C’è sempre qualcuno che sceglie il tipo di obbiettivo che bisogna raggiungere e questa scelta è un’espressione di soggettività;

B) Una volta conosciuto il genere di decisione bisogna scegliere i criteri ai quali dovrà corrispondere l’oggetto valutato. Per ogni valutazione c’è una molteplicità di criteri che possono essere presi in considerazione. Bisogna fare una scelta che non sia casuale. La scelta dei criteri è un’operazione importante da cui dipende la buona decisione. Si è sempre nella logica della soggettività;

C) I criteri definiscono in modo astratto e generale l’ideale a cui deve corrispondere l’oggetto valutato. Per sapere se i criteri saranno soddisfatti bisogna disporre di un certo numero di indicatori per ogni criterio. Gli indicatori sono tanti: bisogna farne una scelta. La scelta degli indicatori è una scelta soggettiva;

D) Per raccogliere le informazioni degli indicatori il valutatore deve scegliere un metodo tra i tanti possibili. La scelta del metodo è un’operazione soggettiva

E) Raccolti dati e informazioni bisogna confrontare indicatori e criteri per vedere se c’è o no adeguatezza tra realtà e norma. Momento cruciale della valutazione. Momento in cui si determina il valore, si assegna il “significato” attraverso un giudizio di valore. Un giudizio non arbitrario, ma conseguente alla procedura prima indicata e che deve essere in ogni fase ampiamente motivata.
L’assegnazione di un “valore” è un atto della soggettività di chi valuta. Con la chiarezza e la profondità che lo distinguono B.Rey afferma: ”La dimensione che si misura e che si prende in considerazione è l’effetto di una scelta soggettiva”.

A ben vedere tutte le operazioni inerenti alla valutazione sono tutte segnate dall’apporto consapevole e responsabile della soggettività del valutatore. Non ha senso evitarla, perchè è essa stessa a dare un significato alla valutazione.
Bisogna essere coscienti della propria implicazione personale, regolarla ed evitare ogni forma di arbitrarietà e di oscurità.

La valutazione a tutti gli effetti, sgombrate le macerie dell’oggettivismo e della misura esatta, è un atto ermeneutico in cui non si può trascendere da se stessi, anzi in cui si pone se stessi, ma in cui occorre fare chiarezza con rigore per evitare che la realtà venga assoggettata a criteri non debitamente formulati e motivati.

La valutazione spesso è un messaggio più che una misura. E’ quindi un problema di comunicazione, un problema di dialogo. Come messaggio, la valutazione deve essere chiara, accessibile e dotata di senso per quanti la ricevono.