Gli insegnanti sono a scuola in nome di una società che non vuole riconoscere il valore e il significato del ruolo che esercitano nei confronti delle nuove generazioni.
La loro autorevolezza, se e quando viene riconosciuta, deriva da quella della scuola e tutte e due sono necessarie per istituire fin dai primi anni di vita di una persona un rapporto di fiducia con le istituzioni; tutte e due, però, si nutrono del rispetto, delle cure, del prestigio che vengono ad essi assegnati da ogni componente della società. Alla radice dei malumori se non proprio dell’ostilità nei confronti della scuola e degli insegnanti va collocata l’impossibilità per la scuola di mantenere le promesse che nel passato l’hanno accreditata come un’istituzione fondamentale e imprescindibile per il funzionamento complessivo della società: buona e rifinita preparazione civica e professionale degli alunni, certificazioni indubitabili e insostituibili a garanzia di sicuri processi di mobilità sociale.
Il prezzo maggiore di questa divaricazione tra scuola e società lo pagano gli insegnanti, sempre e comunque, come si può constatare ancora oggi, anche se senza il loro contributo determinante si sarebbe perso l’intero anno scolastico a causa della pandemia. Poca comprensione nei confronti degli insegnanti, da troppo tempo al centro di un ostile e prevenuto dibattito, che sarebbe azzardato definire politico e culturale. Accanto ad esso si sono sviluppate, quasi come conseguenza, la percezione diffusa tra i docenti di una propria marginalità sociale e la convinzione di un’assegnazione esorbitante di responsabilità, priva di sostegni e di garanzie.
Nel passaggio da una scuola d’élite, alla quale l’insegnante era contiguo dal punto di vista sociale e culturale, ad una scuola di massa di fatto si è modificato il suo ruolo pubblico, ma non si sono modificati la sua consapevolezza e il suo approccio al compito da svolgere.