Valutazione, valutazione formativa e opinione pubblica

di Raimondo Giunta

  • Non si va molto lontano dalla realtà se si dice che fuori dalla scuola non ci si pone molti problemi su come debba essere esercitata la valutazione a scuola, né ci si domanda se addirittura si possa praticarla in modo diverso nei vari gradi dell’istruzione.
    Fuori dalla scuola è convinzione largamente accettata che in fatto di valutazione oltre quella che distingue e seleziona non possa esserci nulla di serio e che quella numerica non abbia rivali in termini di chiarezza e di precisione.
    Anzi si pensa che sarebbe tanto di guadagnato se gli alunni fin da piccoli venissero abituati ad essere giudicati ed educati a dare il meglio di sé e ad eccellere. A misurarsi e a competere con gli altri, perché la vita è una lotta continua e a questo bisogna prepararli, in modo che quando sarà il momento di incominciare a prendersi qualche responsabilità possano essere pronti  e armati di tutto punto.
  • Nell’opinione pubblica si pretende serietà e questa viene accompagnata dalla richiesta di rigore nelle valutazioni; non a caso si accolgono favorevolmente tutte le campagne contro le promozioni facili, dalla primaria alla secondaria superiore.
    Di mezzo c’è ancora il valore legale del titolo di studio e si pensa che solo la severità in sede di valutazione possa salvaguardarlo, per potere ancora riconoscerne gli effetti per gli impieghi pubblici e sociali ai quali si può accedere. Ne deriva una forte ed evidente insensibilità verso certe forme di esclusione sociale che possono scaturire dal modo in cui viene esercitata la valutazione.
    Non possono essere tutti dottori…I risultati scolastici, racchiusi in un titolo di studio, che meritano di essere apprezzati sono solo quelli per i quali si può dichiarare la loro adeguatezza agli standard delle professioni, delle attività e dei mestieri che si possono esercitare e ai quali si può accedere. Per questo genere di valutazione l’unico interesse che può esserci, di parte o pubblico, è che venga fatta in modo trasparente e con regole concordate e fatte conoscere.
  • L’altro genere di valutazione, quella formativa, è una questione per ora tutta interna alla scuola e raramente fuoriesce dai confini scolastici. Una pratica intra-moenia che ha valore esclusivamente educativo e in genere in questo modo funziona solo in quelle scuole che si obbligano a fare crescere bene ogni alunno e a non lasciare indietro nessuno.
    Una pratica alla quale nessuno fuori dalla scuola darà un valore, anche se potrà consegnare alla società una persona ben-educata e non priva di competenze.
    Facciomocene una ragione. I sistemi di valutazione non hanno una propria ed autonoma esistenza, né tantomeno hanno la forza di determinare da soli il corso degli eventi a scuola. Sono funzionali al rapporto che il sistema di istruzione deve/vuole allacciare con la società e con il mondo del lavoro. Sono funzionali ai risultati che in un dato momento la società, attraverso gli organi che la governano, chiedono alla scuola; risultati in termini di conoscenze, di competenze e anche di attitudini. C’è del cinismo in’ questo un vincolo da rispettare e che può strozzare, indebolire, vanificare non poche buone  prassi pedagogiche. D’altra parte non credo che si possa sottovalutare il fatto che la valutazione formativa entri nella  legislazione scolastica nel ’77 con la legge n. 517, in quegli anni settanta che hanno visto la nascita dello Statuto dei diritti dei lavoratori, della legge del divorzio, degli organi collegiali nella scuola, della delega dei poteri alle regioni e agli enti locali e della legge dell’aborto.
    In quegli anni, se non viene l’itterizia, successivi al ’68.
    Una profonda trasformazione della società, cioè, precede e accompagna una preziosa innovazione pedagogica e culturale. Da sola la valutazione formativa non ce l’avrebbe fatta e da sola rischia di essere fragile e incompresa.
  • La scuola è una costruzione sociale che deve periodicamente chiedersi le ragioni del suo esserci. Niente di quello che fa può essere dato per definitivo e per scontato.
    Perché continui ad esserci dipende da quello che necessariamente è tenuta a fare per tutti e di cui tutti o molti siano convinti.
    Il destino della valutazione formativa nella scuola primaria e la sua eventuale estensione nella secondaria dipendono innanzitutto dal modo in cui sarà praticata a partire da domani e poi dalla crescita della sua condivisione presso l’opinione pubblica.  Vaste programme…



Valutazione formativa: serve solo alla primaria?

di Raimondo Giunta

 

 

 

LA VALUTAZIONE COME AIUTO

La valutazione che per legge diventa formativa nella scuola primaria è ancora un’illustre sconosciuta nella secondaria di secondo grado, dove sarebbe una vera rivoluzione, un cambiamento di paradigma se cominciasse ad essere praticata con coerenza e continuità.
E’ in riferimento a questa prevalente situazione che si intende parlarne.

La valutazione formativa non ha come oggetto diretto il profitto scolastico, ma la relazione pedagogica del processo formativo, che viene valutata per poterla migliorare in modo che l’alunno sia aiutato a identificare, a superare le sue difficoltà e a progredire.
”La valutazione formativa mira a consentire all’alunno di sapere perchè è riuscito in un caso e non in un altro. (. . . . . ) L’obiettivo di questo tipo di valutazione è in effetti di confrontare l’alunno con se stesso e di aiutarlo a compensare le difficoltà identificate da lui e per lui”(De Peretti).
E’ la volontà di favorire e sostenere gli apprendimenti degli alunni a caratterizzare la valutazione formativa. Lo scopo della valutazione formativa è quello di aiutare ciascuno alunno ad apprendere e non quello di rendere conto agli altri del suo rendimento.
La valutazione formativa è essenzialmente un’operazione di natura pedagogica; le funzioni annesse sono, secondo Ch.  Hadji, quelle di: rassicurazione (sostenere la fiducia in sè dell’alunno); assistenza (fornire dei riferimenti, dare dei punti d’appoggio per progredire); feed-back (dare al più presto possibile un’informazione utile sulle tappe raggiunte e sulle difficoltà incontrate); dialogo (nutrire un vero dialogo insegnante-alunno, fondandolo su dati precisi).
La valutazione formativa è una valutazione del durante e non del dopo; ha la funzione di migliorare, orientare e controllare il processo di apprendimento, il comportamento dell’alunno e dell’insegnante nella prospettiva della padronanza degli obiettivi di apprendimento.
Ha un’intenzione di aiuto individualizzato, ma anche di specchio per il docente. Il successo dell’apprendimento è un risultato che si deve alle procedure di correzione e di aggiustamento continuo del processo di formazione, nei casi in cui si riscontrano delle difficoltà. La valutazione formativa è pensata come contributo alla regolazione degli apprendimenti e come contributo alla regolazione dell’insegnamento. Si fonda sulla confidenza e non sulle minacce, sulla cooperazione tra docenti e alunni.
”La regolazione non è un momento specifico dell’azione pedagogica, ma una sua componente permanente”(Ph. Perrenoud).
La regolazione messa in atto dall’insegnante ha un senso se ispira e sostiene la regolazione del processo di apprendimento che deve mettere in atto l’alunno.

OSSERVAZIONE O VALUTAZIONE FORMATIVA?

A Perrenoud, però, il concetto di valutazione formativa non garba parecchio; a suo parere per avere un’educazione su misura è meglio parlare di osservazione formativa: “L’osservazione formativa è un affare tra insegnante e alunno. E’ una dimensione del rapporto educativo, la cui forma e intensità variano in funzione delle difficoltà e dei bisogni. (. . . ) E’ meglio parlare di osservazione formativa piuttosto che di valutazione, considerato come questo termine sia associato alla misura, alle classificazioni, alle pagelle. (. . . ) Osservare è costruire una rappresentazione realistica degli apprendimenti, delle loro condizioni, delle loro modalità, dei loro meccanismi, dei loro risultati”.

Che cosa si dovrebbe osservare nelle attività di apprendimento degli alunni?
Interesse e partecipazione, pertinenza degli interventi; persistenza di automatismi impropri; modalità di esecuzione dei compiti; grado di autonomia e spirito di collaborazione; difficoltà a trasferire; originalità; capacità di analisi e riflessiva etc.
L’elenco dei comportamenti da osservare è ancora più vasto e perfettibile e a seguirlo si renderebbe impossibile questa operazione; è alquanto ragionevole, pertanto,  praticare l’osservazione in modo pragmatico sulla scorta delle esperienze fatte e delle necessità che emergono in un preciso momento dell’attività di formazione.
Se l’osservazione formativa deve avere una qualche efficacia  è opportuno disporre di procedure snelle di lavoro.

Sarà proprio così? L’osservazione non è una semplice registrazione, ma una raccolta guidata e consapevole di dati, che va orientata secondo schemi, concetti e ipotesi precisi; non ci sono dati nudi e puri. L’osservazione formativa essendo orientata da specifiche intenzioni, non può non preludere alla formulazione di un giudizio.
”L’osservatore costruisce l’oggetto della sua percezione analizzandolo nello stesso tempo in cui lo registra. Il valutatore non avendo come scopo semplicemente di vedere, ma di pronunciarsi su ciò che vede, tesserà con le sue parole una tela che articola dati osservabili e idee, rappresentazioni, progetti, intenzioni etc per fare nascere del senso”(Ch. Hadji).
L’osservazione non copre l’intero campo della valutazione formativa, anche se ne è la base più significativa e imprescindibile.

IL RUOLO DELL’ALUNNO

La valutazione formativa è un modello affascinante, ma richiede impegno e rigore per metterla in atto. Uno dei suoi principi costitutivi è che possa svilupparsi solo con procedure in cui l’alunno deve partecipare e dare il suo contributo. Il risultato di maggiore pregio che si deve conseguire con la valutazione formativa è la capacità di autovalutazione dell’alunno. Se l’apprendimento è per tutta la vita, è fondamentale imparare a sapere gestire il proprio rapporto al sapere sia in un contesto scolastico-formale, sia nell’ambiente sociale più informale: per sapere valutare le proprie forze e i propri punti deboli, per decidere le scelte delle tappe successive a quelle raggiunte.
L’autovalutazione è una pratica di valutazione, ma è anche un’attività di apprendimento.
E’ apprendimento a sapere agire, a sapere guidare meglio le proprie strategie d’azione e renderle più efficaci. L’autovalutazione “è una maniera di incoraggiare gli alunni a riflettere su ciò che hanno appreso, a cercare i metodi per migliorare il proprio rendimento e a pianificare ciò che permetterà loro di progredire e di raggiungere i propri obiettivi. In quanto tale essa comprende competenze in termini di gestione del tempo, di negoziazione, di comunicazione con gli insegnanti e con i pari, d’autodisciplina e un di più di riflessività, di spirito critico e di valutazione”(P. Broadfoot).
L’autovalutazione è il contributo più cospicuo che l’alunno può dare alla valutazione formativa, ma non può assorbire il contributo che spetta all’insegnante.

Per praticare l’autovalutazione è necessaria la trasparenza dei criteri di valutazione: solo avendo una visione globale del compito da svolgere e degli obiettivi ad esso connessi e da realizzare gli alunni possono sviluppare le competenze metacognitive indispensabili per gestire e padroneggiare tale compito.

VALUTAZIONE FORMATIVA E DIFFERENZIAZIONE

La valutazione formativa è funzionale alla differenziazione dell’insegnamento per un’educazione su misura ed è naturale e necessario che si eserciti soprattutto con gli alunni in difficoltà, essendole connaturale non ricorrere a procedure uniformi e standardizzabili.  La valutazione formativa è comprensibile dentro una scelta di individualizzazione dell’insegnamento e di differenziazione degli interventi. Differenziare significa mettere in atto procedure di trattamento delle difficoltà allo scopo di facilitare il raggiungimento degli obiettivi dell’insegnamento; differenziare significa privilegiare l’alunno, i suoi bisogni e le sue possibilità; differenziare è avere cura della persona; differenziare è tenere presente gli stili cognitivi degli alunni per valorizzarne gli approcci a loro consueti. Nella pratica della valutazione formativa trova una soluzione pedagogica ragionevole la gestione degli errori.
Ben compreso e interpretato l’errore può diventare un’opportunità per la regolazione del processo di formazione, perchè dà informazioni sul grado di padronanza raggiunto da un alunno e sulle difficoltà che incontra nel processo di apprendimento

La valutazione formativa per essere efficace non può essere un esercizio individuale di qualche isolato insegnante, nè essere praticata solo per un tratto di tempo. Richiede continuità e collegialità. Andare verso la valutazione formativa significa rinunciare a fare della selezione il nodo permanente del rapporto pedagogico. La valutazione formativa non ha una vocazione selettiva e in qualche modo suggerisce di sostituire una relazione potenzialmente conflittuale con una fondata sulla cooperazione. E’ l’uso che si fa delle informazioni raccolte sulle attività dell’alunno a rendere formativa la valutazione.
”Ciò che è formativo è la decisione di mettere la valutazione al servizio della crescita dell’alunno e di ricercare tutti i mezzi suscettibili per agire in questo senso”(Ch. Hadji)

VALUTAZIONE FORMATIVA VERSUS VALUTAZIONE SOMMATIVA?

Valutazione sommativa e valutazione formativa vanno distinte, ma non contrapposte, anche perchè prima o poi viene posto il problema se e come possano essere utilizzati i dati raccolti nell’esercizio della valutazione formativa ai fini di un giudizio complessivo del rendimento scolastico di un alunno. Operazione che si fa abitualmente a fine anno di corso o a chiusura di un curriculum scolastico un po’ dappertutto, per tutti gli alunni, anche se con valenze pubblico-sociali diverse da nazione a nazione e anche quando non si procede ad alcuna forma di selezione. La difficoltà a far confluire i dati della valutazione formativa in quella sommativa deriva dal fatto che la prima ha come esigenza fondamentale quella di far progredire un alunno, mentre l’altra ha l’esigenza di classificarlo e di situarlo tra altri alunni.

Nascendo da intenzioni diverse e raccolti con metodologie proprie, che sono quelle dell’osservazione, i dati della valutazione formativa non possono essere utilizzati facilmente per farli pesare aritmeticamente nella valutazione sommativa. L’approccio di questo tipo di valutazione è sostanzialmente qualitativo e i suoi risultati non si possono tradurre facilmente in dati numerici, tali da permettere o la media o la somma dei punti.
Perrenoud suggerisce di tentare un’armonizzazione senza calcoli specifici e precisi, basata sull’esperienza. Altrimenti si corre il rischio di un disimpegno da parte degli alunni a partecipare ad un’attività che non conterebbe nulla ai fini dalla valutazione finale, alla quale si dà ancora un grande valore. La valutazione formativa è un’innovazione di costume e non sempre incontra i favori degli alunni e delle famiglie, abituati e spinti dall’utilitarismo di moda e di massa a considerare più il valore formale e pubblico del voto ai fini della carriera scolastica, che non il possesso reale di una competenza, di un sapere.

“La valutazione formativa è ancora allo stadio dell’utopia, certamente importante, ma utopico”(Ch. Hadji).

Merita di essere considerata un ideale perché ”si mette deliberatamente al servizio di un fine che le dà senso, divenendo un momento determinante dell’azione pedagogica; essa si propone sia di contribuire ad una evoluzione dell’alunno, sia di dire lo stato attuale della cosa.” (Ch. Hadji).
I modelli ideali, però, fanno fatica a diventare operativi senza studio e impegno. . .  L’armonizzazione della valutazione formativa e della valutazione sommativa rimane, pertanto, un’impresa artigianale, tendenzialmente intuitiva. Forse solo col portfolio si può tentare l’impresa, se viene esplicitamente costruito per rendere conto del progresso nella padronanza di un sapere. Nella valutazione formativa prevale, tuttavia, la prospettiva della regolazione e dell’aiuto; nella valutazione sommativa il riconoscimento sociale degli apprendimenti, le esigenze di attestazione e di certificazione.

 




Lo sceriffo e l’insegnante

di Raimondo Giunta

Sceriffi a scuola si diventa da dirigenti, perchè l’ultima manomissione del sistema scolastico a questo tendeva, anche se si è provveduto ultimamente a fare qualche cambiamento.
Un passaggio che a molti dirigenti sembra naturale compiere, perchè di fatto nell’autonomia sono prevalenti i tratti amministrativi su quelli culturali e pedagogici; amministrativi, non gestionali.
E in amministrazione si finisce per amare il potere gerarchico e il potere di vigilanza…A tanti di questi amministrator/dirigenti scolastici sfugge che la scuola appartiene ad un territorio, ad una comunità con cui deve mettersi in rapporto e che questo fatto cancella l’autoreferenzialità del capo che ogni giorno dirama gli ordini di servizio ai propri dipendenti.
Quel che è grave è il disconoscimento praticato e a volte esibito della particolare struttura collegiale della gestione della scuola, attenuata, ma non cancellata.
Nella collegialità il dirigente non è il primus inter pares, ma solo uno dei tanti come viene sottolineato da Mario Maviglia.


Per un’istituzione che eroga saperi e formazione in una società democratica la collegialità non è un’opzione, ma una sua interna necessità, perchè il lavoro che vi si svolge può dare frutti solo se ogni insegnante, collaborando con gli altri insegnanti e con il dirigente, lavora con scienza, con coscienza e in libertà.
L’autonomia non è il luogo in cui può scorrazzare il dirigente, ma lo spazio in cui deve potersi esprimere per il bene degli alunni la responsabilità e la professionalità di ogni docente, aspetto che gode ancora della tutela della Costituzione.
L’autonomia non funziona spesso non solo per colpa dei piccoli autocrati che non hanno senso delle istituzioni, ma anche per mancanza di “autonomia ” dei docenti, che non conoscono la propria forza o che si lasciano trascinare nella corsa sgradevole al premio che il dirigente vorrebbe elargire, senza alcuna trattativa.
La scuola è un’istituzione pubblica, forse l’unica, che ancora conserva le stimmate della grande stagione della democratizzazione della pubblica amministrazione, ma anche l’unica nella quale chi ha qualche potere spesso svicola per non esercitarlo.
Solo dirigenti che amano l’autonomia professionale dei docenti e insegnanti che ci tengono a dare il proprio contributo potranno salvare la scuola e darle un futuro.




C’è ancora un futuro per la scuola?

di Raimondo Giunta

 

RIPENSARE LA SCUOLA

Ragionare di scuola nei giorni in cui viene sacrificata e costretta alla didattica a distanza per coprire le pubbliche inadempienze soprattutto in materia di trasporti pubblici, dopo mesi estenuanti e difficili in cui gli istituti scolastici hanno lavorato per garantire in sicurezza la ripresa delle attività didattiche del nuovo anno scolastico, può sembrare un mero esercizio retorico; forse una provocazione in un clima di esasperata delusione.
Credo invece che serva per alzare lo sguardo “in modo da contrastare il rischio di ritirarci impauriti e talvolta rabbiosi nel nostro particulare.” (Chiara Saraceno).
Se vogliamo pensare al futuro con ragionevole speranza, sempre con la scuola dobbiamo fare i conti, perché necessariamente ci proietta su quello che potrebbe essere il nostro domani, avendo il compito di prendersi cura delle nuove generazioni .

Ma la scuola così come l’abbiamo vissuta e così come ancora funziona ha un suo futuro? Questo è il problema e non è per nulla ozioso che in modo particolare chi riveste un ruolo in un sistema di istruzione si chieda come dovrebbe/potrebbe essere la scuola fra qualche anno. Pensarci significa impegnarsi per impedire, ognuno per la propria parte, che la scuola si lasci trascinare dagli eventi, anche se non è dato di potere definire con nettezza i confini di quel che sarà la nostra società tra un decennio, ma sapendo già che sono cambiati gli orientamenti e le scelte di moltitudini di persone relativi ai processi di istruzione e formazione.
La scuola che verrà dovrà fare i conti sia con le mutate esigenze di molte famiglie e della società, sia col fatto che fuori della scuola esistono tanti modi di istruirsi e tanti modi di far valere quello che si è imparato fuori dai circuiti istituzionali.

Grandi sono sempre in questo campo le responsabilità delle autorità preposte alla guida e alla direzione di una società; responsabilità che per forza di cose si iscrivono nella logica politica e culturale di chi deve prendere delle decisioni, portarle avanti e darle un senso, proponendo di conseguenza valori e criteri prioritari con cui governare l’eventuale processo di rinnovamento del sistema di istruzione e formazione.
Responsabilità che non dovrebbero privarsi del contributo di pedagogisti, di sociologi, di uomini di scienza e di cultura, di uomini di scuola e del mondo del lavoro.
Su questo tema, sotto gli auspici della Revue Internationale d’Education de Sèvres, si è svolto il convegno “Réformer l’éducation”,di cui sono stati pubblicati gli atti, anche on-line(n83/2020).Vale la pena di leggerli.
Negli interventi degli studiosi provenienti da diverse parti del mondo vengono affrontati quei problemi sui quali dovrebbe esercitarsi la riflessione per potere elaborare proposte di rinnovamento del sistema di istruzione e formazione, che tengano conto dei fattori di trasformazione della società e del ruolo che la scuola vi deve avere.
Un convegno che non si è dovuto misurare con le ferite arrecate alle scuole in ogni parte del mondo dalla pandemia del COVID 19, che ha reso più acuti gli interrogativi sul destino della scuola, sull’identità e sul significato che debba avere.
La stessa necessità di ricorrere alla didattica a distanza per mantenere nei limiti del possibile il rapporto educativo con gli alunni si è subito trasformata in una opportunità per proporre di ristrutturare le procedure abituali dell’insegnamento, di riconfigurare con uno sguardo proiettato nel futuro gli ambienti di apprendimento e l’articolazione del rapporto tra alunni e luoghi di formazione.

LA SCUOLA E I MOLTI LUOGHI DELL’ APPRENDIMENTO

Da tempo non c’è pace nel mondo dell’istruzione; un mondo attraversato da fortissime tensioni che possono lacerarne il tessuto e che se non sono adeguatamente governate possono sfociare in soluzioni che rischiano di farne perdere la complessità e la ricchezza culturale. E la complessità va governata, non mutilata a colpi di accetta.
Sono le tensioni fra tradizione, saperi consolidati e attualità e saperi emergenti; tra scuola formale e molteplicità dei luoghi e delle occasioni di apprendimento; tra ripiego comunitario e apertura alla diversità; tra funzione educativa e adattamento funzionale ai cambiamenti della società; tra zone favorite e quelle sfavorite; tra servizio pubblico e scuola a domanda individuale.
Fa da sfondo a queste polarità lo sviluppo impetuoso della multimedialità e dell’informatica, che segneranno qualsiasi soluzione potrà essere data nel futuro al sistema di istruzione e formazione, perché costituiscono di fatto lo spazio degli ambienti di apprendimento.

Alla scuola non è dato di pensare di restare ferma, ma nemmeno di infilarsi in modifiche che invece di rinnovarla, la possono snaturare. Non ha bisogno di scelte casuali, ma di quelle sensate, siano a breve o a lungo termine.
E queste sono possibili se ci si curerà del quadro generale dell’istruzione e della formazione; se ci si curerà del come, del cosa, ma soprattutto del perché si debba fare scuola.
La scuola è un’istituzione in cui si opera bene soltanto lavorando secondo finalità. Se riforme/innovazioni devono esserci, per misurarle e per valutarle bisognerà vedere fin dove e come riescano a salvaguardare il carattere dell’istruzione/formazione come bene comune, disponibile per tutti, come fondamento di coesione sociale; bisognerà constatare se e come siano riuscite a dare una risposta alle richieste più significative che dalla società nel suo insieme vengono formulate.

Un problema che acquista un rilievo crescente nei sistemi di istruzione è quello che emerge nel rapporto tra scuola formale e la molteplicità dei luoghi e delle occasioni di apprendimento, fenomeno questo che può trasformare il mondo della scuola e alterarne la natura.

Ci sono bisogni di apprendimento sempre più estesi e in vario modo sostenuti, che non sempre hanno risposte dentro i sistemi scolastici; per un verso cresce la corsa a rifornirsi in luoghi altri dalla scuola e per un altro si cerca di condizionare ogni singolo istituto con la richiesta  di modifica dei curricoli e di integrazioni formative a immagine e a convenienza di quel gruppo di persone che sono in grado di sostenerla e di farla valere.
Un fenomeno che potrebbe sfuggire di mano e che in alcuni settori della società potrebbe fare crescere l’aspettativa di un superamento di un sistema che non riesce o che non vuole accompagnare questa corsa all’impossessamento privato di quel bene pubblico che è la conoscenza.

In questo potenziale conflitto è in gioco il destino della funzione conoscitiva della scuola.
Nel momento in cui in qualsiasi luogo si può apprendere, che cosa si deve e si può apprendere a scuola? Non è una novità che la scuola e quindi l’insegnante non siano più nella società attuale gli unici dispensatori di conoscenze.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non lo possano più essere.
Questo comporta che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata.
Il sistema scolastico è legittimato ad esistere, perché ancora è tenuto a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze, di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti.
La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze solide e strutturate.
A scuola si costruiscono, si formano le basi concettuali di alcuni saperi che si ritengono necessari e con le quali in seguito si può progredire in autonomia in quello che si sceglie di coltivare.
I saperi sono beni immateriali che costituiscono l’infrastruttura della nostra civiltà; sono fini da rispettare e mezzi per crescere e per apprendere altri saperi.
Ma si apprendono con procedure rigorose e controllate. Questo risultato non può essere ottenuto attraverso i media o con internet, nei quali è prevalente la componente emotiva e con i quali è possibile informarsi, ma non istruirsi seriamente.

LA FUNZIONE CONOSCITIVA

La funzione conoscitiva della scuola, oggi, va esaltata e rinforzata; non c’è senso critico, di cui si ha grande bisogno, se non si possiede una rete concettuale ampia, solida e strutturata.
Non è l’ultima conoscenza, l’ultima novità che qualifica il lavoro a scuola, ma la capacità di saperne cogliere il senso e il valore.

La scuola moderna affonda le proprie radici nella cultura illuministica; ne sono derivati come finalità del proprio operare, il desiderio di conoscere, il sapere critico e documentato, la ricerca metodica, l’amore per le scienze, la lotta contro le superstizioni e le credenze popolari. Tenendovi fede, a scuola si può far compiere negli alunni il passaggio dal senso comune all’interpretazione razionale di sè e del mondo che li circonda, li si può rendere capaci di controllare la consistenza e la veridicità di molte informazioni che circolano nel mondo, li si può formare ad utilizzare bene internet e le risorse dell’informatica.
Altrimenti come dice B.Vertecchi gli alunni saranno fortemente attratti da dispositivi che riducono la loro operatività; che limitano le acquisizioni di capacità di scrittura, di lettura ad alta voce, di calcolo, di osservazione dei fenomeni, di soluzione dei problemi, di acquisizione di un lessico appropriato per formulare e comunicare concetti.

La scuola per sostenere la funzione conoscitiva non può parlare di qualsiasi cosa. E’ tenuta ad adottare criteri ragionevoli e condivisi dalla società per proporre i saperi e le conoscenze che siano conformi alle sue competenze.
E’ necessario passare dal paradigma dell’allargamento dell’enciclopedia dei saperi, come fin qui si è fatto, a quello della loro selezione, perché la scuola non si disperda nella moltiplicazione degli intrecci col mondo esterno. L’autonomia del sistema scolastico si esprime nella capacità di avere propri criteri di riferimento per stabilire la gerarchia dei saperi che deve trasmettere e delle competenze che deve formare; nella capacità di dettare codici di comportamento, di organizzare modi di apprendimento, di difendere il proprio linguaggio e le proprie regole di comunicazione.
Questi criteri di riferimento sono l’anima culturale di un sistema scolastico. Autonomia, non autoreferenzialità: nessun sistema scolastico potrebbe sopravvivere chiudendosi ai grandi temi culturali della propria epoca, ai problemi della società in cui è collocato.
Quello che si vuole dire è che la scuola non è solo apertura; è anche per certi aspetti ” diversità” e “separatezza”.
“La storia della scuola è la storia di una separazione: separazione dei bambini rispetto agli adulti; separazione della preparazione alla vita relativamente alla vita stessa; messa in disparte degli apprendimenti rispetto all’attività produttiva”(B.Rey).
Il paradosso della scuola  è quello di essere un’istituzione separata nella quale si dispensano conoscenze slegate dalla vita quotidiana ed avere la vocazione di preparare alla vita sociale .La scuola non è il luogo delle situazioni reali.
“La scuola è un luogo dove si svolge un particolare tipo di lavoro intellettuale che consiste nel ritirarsi dal mondo quotidiano, al fine di considerarlo e valutarlo, un lavoro che resta coinvolto con quel mondo, in quanto oggetto di riflessione e di ragionamento”(L.Resnick).
La scuola non può e non deve limitarsi ad assicurare una semplice continuità con la società che l’attornia o con l’esperienza quotidiana.
“Essa è quella particolare comunità in cui si fa l’esperienza di scoprire le “cose” usando l’intelligenza e ci si introduce in nuovi e inimmaginati campi d’esperienza”(J.Bruner)

In pagine di aspra ed efficace polemica contro certe tendenze pedagogiche e di politica scolastica, G. Ferroni nella “Scuola sospesa” affermava che non è sensato rendere il sistema scolastico subalterno ai modelli della comunicazione di massa e al consumo tecnologico, perché i quadri concettuali delle discipline e i metodi che sono loro propri non cambiano per l’uso delle tecnologie. Affermava, anche, che bisogna evitare ogni forma di illusione, di accecamento tecnologico.

Questo non significa che non si debbano considerare e comprendere le implicazioni della tecnologia dell’informazione nella trasmissione del sapere, che non ci si debba fare arricchire dalla tecnologia, di usarla come mezzo. Nell’organizzazione e nella trasmissione delle conoscenze, delle tecniche e del patrimonio culturale del passato i saperi scolastici per le loro caratteristiche (analiticità, sequenzialità, astrazione, logicità, primato della scrittura) superano di gran lunga altre forme di diffusione e di comunicazione delle conoscenze.
Per risultati di questo genere gli alunni devono imparare a porre proposizioni limpide, a compiere processi di astrazione, a fare ordinate classificazioni, a svolgere argomentazioni rigorose, a immaginare modelli, ad enunciare generalizzazioni, a procedere ad applicazioni ai casi particolari .

Riproporre e sostenere con forza la funzione conoscitiva della scuola significa fare la parte più grande della riscrittura della missione della scuola nel XXI secolo. La scuola deve ricentrarsi sul compito cruciale dell’istruzione, così come si è tentato di parlarne; deve per equità garantire l’uguaglianza di tutti davanti all’accesso al sapere; deve educare a riconoscere la pertinenza delle informazioni e il valore dei saperi; deve educare ad amare sapere e conoscenza e convincere che l’apprendimento non è mestiere che vale solo per la scuola, ma per tutta la vita di ognuno di noi. Nella situazione odierna la posizione di una persona nella società e nella cultura di appartenenza non dipende da un processo casuale di apprendimento; ma da una specifica e programmata attività di formazione che solo a scuola può svolgersi.
Scuola della conoscenza ed equità sono la stessa cosa.
Bisogna scommettere su una scuola che afferma alto e forte la sua missione cognitiva.




La centralità dell’insegnante

di Raimondo Giunta

  • DALL’INSEGNAMENTO ALL’APPRENDIMENTO.

Nel processo di formazione l’insegnante svolge opera necessaria di  mediazione tra il sapere costituito e il bisogno di apprendere dell’alunno; un bisogno che non può essere preso a pretesto per volerne la sottomissione, perché la funzione e la posizione dell’insegnante non possono essere sostenute da alcuna pretesa di potere sugli alunni. Ciò nondimeno, anche sgombrate da ogni forma  impropria di autoritarismo la funzione e la posizione dell’insegnante, da qualche tempo e da più parti  sono state sottoposte a critiche severe, alcune delle quali più suggestive che fondate.

Si sa che la scuola e quindi l’insegnante non sono più nella società attuale  gli unici dispensatori delle conoscenze, divenute ormai  reperibili in ogni momento e in ogni luogo.
Che non siano più gli unici, non vuol dire che non debbano più svolgere la funzione di trasmetterle o che non lo possano più fare.
Questo comporta che con chiarezza debba essere circoscritta, indicata e valorizzata l’area specifica che in questo campo attiene alla scuola e che solo a scuola può essere coltivata.
Fatto che richiede specifiche  prestazioni professionali, connesse necessariamente alla funzione magistrale dell’insegnante, alla sua responsabilità di orientamento e di direzione nei processi di formazione.

Da più parti si afferma che la centralità della figura dell’insegnante, come si constatava nei modelli educativi del passato, debba essere sostituita da quella che deve avere  l’alunno nel nuovo modo  di fare scuola.
Una rivoluzione copernicana, in sintonia con le trasformazioni di costume, con l’espansione dell’area delle libertà individuali e con gli orientamenti  di alcuni filoni della psicologia.
Significativa, perché esalta anche il dovere di attenzione e di cura, trascurato a volte per lo spazio esclusivo assegnato al compito di trasmettere saperi e conoscenze.
Bisogna, allora, cercare di capire quali siano le conseguenze che ne derivano, se questa tensione etico-pedagogica metta in discussione il primato della conoscenza goduto nel passato e che  ha avuto come suo interprete autorevole l’insegnante con la sua cultura.
Se sono un problema di prima grandezza il ruolo e la posizione che l’alunno deve avere nelle relazioni pedagogiche, certamente in queste non può sparire l’insegnante e non può sparire il sapere.

Sul piano gnoseologico il nuovo modello educativo propone per una maggiore efficacia di dare spazio maggiore, se non esclusivo, all’apprendimento. Una proposta che può destare qualche perplessità, se si vuole lasciare intendere che in questo ribaltamento l’alunno possa apprendere da solo e l’insegnante col suo sapere sia un impedimento.
Il primato dell’apprendimento ad ogni buon conto non può prescindere dal valore dei contenuti e dai saperi che si possono e si devono apprendere a scuola. Il sistema  scolastico è legittimato ad esistere, perché tenuto a svolgere il compito di trasmettere da una generazione ad un’altra il patrimonio di saperi, di conoscenze ,di tecniche e di valori del passato e solo per questo ha un senso che in ogni scuola si incontrino studenti e docenti.
La scuola non può smettere di essere luogo di trasmissione razionale e ordinata del sapere, luogo di formazione di conoscenze solide e  strutturate.
Per essere in grado di partecipare alla vita sociale ed esercitare i diritti di cittadinanza, i giovani devono portarsi all’altezza dei saperi e delle conoscenze che è necessario possedere.
Delle innovazioni non si deve avere paura, e quando le circostanze lo richiedono vanno introdotte, ma sapendo in partenza definire i propri fattori di riuscita e quelli eventuali di insuccesso; sapendo conoscere e praticare le regole del giuoco che si vuole fare.
Non si cambia per il semplice gusto di cambiare .I modelli educativi, che sono cosa seria, variano in funzione della concezione che si ha dell’uomo, della società e delle loro relazioni e non per caso o per moda.

  • ARTEFICI DEL PROPRIO APPRENDIMENTO

Nel paradigma che si vuole sviluppare ed estendere l’iniziativa dell’apprendimento viene affidata all’alunno e l’insegnante da mediatore privilegiato del sapere si trasforma in un organizzatore di situazioni di apprendimento.
A soccorso di questa innovazione vengono chiamate  diverse formulazioni del costruttivismo, secondo le quali l’apprendimento è visto come attività di chi apprende ,sia individualmente sia in un gruppo di pari.
Le concezioni costruttivistiche sottolineano la centralità del soggetto apprendente che attivamente e intenzionalmente costruisce la propria conoscenza e riflette sul proprio modo di apprendere .Sono teorie che intendono creare un quadro di intelligibilità delle pratiche didattiche, anche se non ne privilegiano qualcuna in particolare e stimolano a precisare le intenzioni pedagogiche e a determinare meglio le procedure più adeguate per gli scopi che si vogliono realizzare. Sono un quadro di riferimento, non modelli da applicare ciecamente.
Per cui fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire “ le loro conoscenze non sarà per nulla facile, perché comporta un lavoro di innovazione di un certo rilievo e soprattutto perché non viene mai meno il compito dell’insegnante di convincere  gli studenti ,che spesso non mostrano particolare attenzione e interesse per tutto quello che si fa a scuola, del valore e dell’importanza degli argomenti che vengono affrontati nelle attività didattiche. Altrimenti sarebbe difficile vederli all’opera; a spingerli a lavorare non sarà la propria autonomia, ma il convincimento di fare cosa buona e giusta.

Ad ulteriore chiarimento va detto che se si possono modificare gli ambienti di apprendimento per dare spazio all’attività del soggetto apprendente, l’epistemologia dei saperi da apprendere non cambia affatto.
Le strutture del sapere sui quali devono essere edificate le competenze non sono nella libera disponibilità degli alunni e dei docenti e non è una buona idea non educare gli alunni a misurarsi con i vincoli di questa necessità. Per possedere certi saperi è una necessità apprendere quel che va appreso, quale che sia il modo di apprenderlo. Per consentire ai giovani di accedere a particolari professioni e a determinate occupazioni è assolutamente indispensabile che il tenore dei contenuti, la loro progressione debba essere stabilita da chi dirige il sistema di istruzione; responsabilità delegata alle singole scuole e agli insegnanti e che non può essere nè negata, nè trascurata, nè arbitrariamente modificata.

Il valore fondante del nuovo modello pedagogico è l’autonomia dell’alunno, che in tanto è possibile formare e sostenere , in quanto viene messa alla prova nelle relazioni del processo formativo, nelle modalità di sviluppo delle procedure didattiche.
Autonomia, si spera, come “capacità di autodeterminazione e di autoregolazione, secondo un adeguato senso di responsabilità verso se stessi, verso gli altri, la comunità, l’ambiente sociale e naturale”(M.Pellerey)
L’autonomia dell’alunno è una finalità di alto profilo, ma sarebbe incomprensibile che per essa si voglia alleggerire l’insegnante della responsabilità di trasmettere i contenuti della sua disciplina.

Non è scritto da nessuna parte che l’apprendimento debba essere noioso; è scritto che ci si debba preoccupare di renderlo interessante e anche piacevole, se è possibile.
E’ scritto soprattutto che debba essere solido e duraturo.
E a proposito di iniziativa e di autonomia dell’alunno in quali campi possono essere esercitate?
Sulla scelta degli argomenti?
Sulle modalità del lavoro scolastico?
Sulla valutazione dei risultati di apprendimento?
Sulla tipologia delle prove?
”Un processo costruttivo che voglia essere valido e fecondo implica che chi lo mette in pratica abbia a disposizione un progetto chiaro e puntuale nelle sue varie componenti, sintetizzabili nella questione; perchè e come. Ma è ben difficile che nel caso dell’apprendimento di nuove conoscenze il progettista e il capocantiere possa essere lo stesso studente”(M.Pellerey)

  • IL MAGISTERO DELL’INSEGNANTE

Le ricerche di John Hattie sull’efficacia delle metodologie didattiche hanno messo in evidenza la funzione centrale del docente nei processi di formazione e che quando manca la sua direzione gli approcci didattici innovatori ,ai quali si affidano molte speranze , non danno i risultati sperati. I metodi meno direttivi favoriscono gli alunni migliori ,mentre danneggiano i più deboli, perché per loro è più pesante il carico cognitivo per fare fronte alle responsabilità loro assegnate.
Le procedure di insegnamento diretto, contro le quali si continua a schierarsi, danno migliori risultati.
”Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito.”(M.Pellerey).

Se un alunno deve affrontare un contenuto nuovo e di un certo spessore culturale e teorico, il buon senso dice che è opportuno che venga introdotto nei concetti che lo costituiscono e che venga guidato nella pratiche messe in campo per acquisirne le abilità essenziali.
Solo dopo che avrà acquisito gli elementi fondamentali e li ha conservati ben strutturati nella sua memoria può essere indirizzato a svolgere in autonomia le proprie ricerche o a risolvere i problemi che gli vengono assegnati.
L’insegnamento esplicito e diretto, che nella lezione ha uno dei modi di realizzarsi, non toglie nessuna iniziativa all’alunno, non ne menoma il compito e l’impegno di apprendere ,anzi facilita questa avventura intellettuale, perché toglie di mezzo tanti ostacoli superflui.
Sono il significato e la funzione che si danno a questo tipo di intervento a determinare il grado di autonomia che viene lasciato all’alunno e che si dà alla sua attività di apprendimento.
Lasciato a se stesso non è detto che l’alunno eserciti la sua autonomia nel modo migliore e più efficace.
L’insegnamento diretto non si riduce chiaramente alla lezione frontale, e tutti gli altri modelli didattici non possono fare a meno della direzione e della guida culturale dell’insegnante.
Solo svolgendo la sua funzione magistrale l’apprendimento dell’alunno potrà essere, stabile, significativo e fruibile.
Il suo compito non si colloca dopo l’apprendimento dell’alunno, ma prima e accanto e non è ragionevole e in alcun modo giustificato ridimensionarne l’importanza.
Certamente l’alunno apprende da sè e nessun altro può farlo al suo posto, ma appoggiandosi sul sostegno e l’esperienza dell’insegnante.
Per apprendere l’alunno ha bisogno di incontrare situazioni di comunicazione, di scambio e di confronto con chi ha esperienza e conoscenza.

Con questo non si vuole dire che il sapere dell’insegnante debba essere replicato dall’alunno, ma che è necessario per fare comprendere la distanza tra esperienza personale e sapere costituito, la complessità dei contenuti ai quali ci si deve avvicinare, le difficoltà per conquistarli, l’inestinguibilità del dovere di conoscere .
Il  sapere degli insegnanti serve per fare apprendere e se utilizzato bene per fare comprendere.
Insomma l’insegnante non è un tecnico di laboratorio e nemmeno uno psicologo.
Nessuno mette in discussione che ci sia bisogno di una diversa relazione educativa tra docente e alunno; una relazione da instaurare sul principio del valore assoluto della persona dell’alunno, che ha tutto il diritto di sapere, di capire e di farsi sempre una propria idea; perché solo la sua partecipazione attiva al processo di formazione renderà solido l’apprendimento.
Nessuno mette in discussione che per fare crescere in autonomia e in libertà l’alunno, bisogna interpellarlo, aiutarlo a problematizzare, coinvolgerlo in attività di elaborazione di senso, dargli fiducia.
Nessuno, se tutto ciò viene fatto, ha bisogno però di escogitare nuovi primati nelle relazioni educative.

”Certo anche nelle altre classi si insegnavano molte cose ,ma un pò come s’ingozzavano le oche. Si presentava loro un cibo pre-confezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del signor Bernard per la prima volta in vita loro sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo” (A.Camus).

 

 




Le immagini pubbliche degli insegnanti

Un convegno promosso da Gessetti Colorati

di Raimondo Giunta

Le immagini pubbliche di un gruppo professionale o di una componente della società qualche volta  non esprimono la realtà delle cose, ma hanno purtroppo una sicura incidenza nei rapporti umani, condizionandone lo sviluppo, gli esiti e la qualità.

Nel caso degli insegnanti ci si trova di fronte ad una molteplicità di rappresentazioni pubbliche, alcune delle quali, molto negative, sono il risultato di giudizi, che oscillano dall’avversione preconcetta alla misconoscenza delle condizioni dell’esercizio dell’insegnamento: “lavorano poco”; “non si aggiornano”; “non hanno professionalità”; “non sanno ascoltare”; “non sanno valutare”; “è un mestiere per donne “; “inculcano valori ostili alla famiglia”; ”nei momenti cruciali si danno per malati” e così via pre-giudicando.

Immagini costruite nel tempo senza parsimonia di mezzi dai media e anche da formazioni politiche che non godono del sostegno degli insegnanti. Altre rappresentazioni, che interagiscono spesso con le prime volendone essere una risposta, scaturiscono dal seno stesso della categoria degli insegnanti e alimentano la loro amarezza: “le famiglie non ci aiutano”; “pretendono cose che non ci appartengono”; “siamo insegnanti, non genitori o assistenti sociali”; “il lavoro che svolgiamo, quello vero, non è riconosciuto e nemmeno pagato”; ”come si fa a valutare un insegnante?”; ”ci vogliono servi, non professionisti responsabili e liberi cittadini” e così via imprecando.

I giorni difficili che la società sta vivendo hanno fatto emergere senza veli e reticenze come al suo equilibrio e alla sua civiltà sia necessaria una scuola che funzioni a pieno regime.
Non solo;  nello stesso vociare fastidioso di chi mai si è interessato della scuola oggi rimbalza prepotentemente il bisogno di avere sempre e comunque tanti, ma tanti insegnanti a disposizione.
Di necessità bisogna fare virtù e cogliere questa occasione per rimettere a posto le cose. C’è una responsabilità di quelli che fanno e condizionano l’opinione pubblica, innanzitutto, del governo, dei partiti, dei sindacati, ma anche degli insegnanti stessi a ricondurre le immagini circolanti di questa professione alle dimensioni della realtà per ritrovare le idee e gli stimoli indispensabili per farne ancora un’attività preziosa e imprescindibile dello sviluppo civile di una società.

Il primo dato da considerare è che l’insegnamento è un mestiere cambiato e non può essere esercitato come qualche decennio fa.
Ed è cambiato perchè diversa è la collocazione della scuola nella società; diversa è una scuola d’élite dalla scuola di massa in cui si deve lavorare. Diversi sono diventati gli ambienti di apprendimento. C’è bisogno di una più ricca e articolata professionalità.

Secondo dato.
La sofferenza nel mestiere d’insegnante non è una suggestione psicologica di categoria, ma la realtà registrata in tutte le ricerche sociologiche sulla condizione degli insegnanti. Dallo status di “vestale della classe media” a quello di professionista proletarizzato si snoda il percorso del disincanto e della delusione. L’insegnante povero cristo non serve a nessuno; deve invece per il bene di tutti svolgere il proprio lavoro senza imbarazzo e senza umiliazioni.

Terzo dato.
Una società senza scuola e senza insegnanti non è pensabile e non ha senso. C’è un obbligo morale a scoprire e a valorizzare la ricchezza umana e sociale di questa professione al di là, oltre e contro tutti i pregiudizi.
E questo compito spetta a tutti: anche agli insegnanti che devono fare della dignità professionale un principio d’orientamento dentro e fuori la scuola. Un’arma di legittima difesa!

Quarto dato.
Gli stipendi non consentono agli insegnanti di condurre una vita dignitosa e anche se non si vuole o non si può arrivare alla fatidica meta degli stipendi europei, si deve procedere  senza inventarsi nuovi carichi di lavoro ad aumenti sostanziosi.
Ci si può accontentare  anche del necessario quando si è consapevoli di essere protagonisti  di una grande battaglia di civiltà; per gli insegnanti entrati in servizio nei primi anni ’70  è stata la democrazia a scuola e la difesa del diritto allo studio per tutti; 50 anni dopo deve essere ancora la battaglia per la democrazia a scuola e nella società e per la giustizia nella società partendo dalla scuola.




Riapertura scuole, fra promesse non mantenute ed errori più o meno gravi

di Raimondo Giunta

Una volta che al buon senso non si è dato retta, a settembre ci si sta trovando in più di un pasticcio con i problemi della scuola.

 

 

1) Promettere dopo quello che si è passato in primavera un rientro normale a scuola era e resta un pio desiderio.

2) La riapertura delle scuole nei primi giorni di settembre, rispettando le nuove norme di sicurezza, richiedeva un intervento sollecito e imperioso non solo del Governo, ma anche delle Regioni, di quel che resta delle vecchie Province e dei Comuni,
ai quali spetta da sempre garantire un sistema di trasporti locali funzionale alle esigenze della scuola e fornire locali idonei e arredi.
Non mi pare che gli enti locali abbiano fatto per intero il loro dovere.
Si può anzi dire che in tanti l’hanno presa comoda per mettere nei guai il governo.

3) Per avere il personale scolastico aggiuntivo, di cui da tempo si è evidenziata la necessità per ridurre il numero degli alunni per classe, misura obbligata per garantire il distanziamento, occorreva un dispositivo di spesa che consentisse nuove assunzioni (stabili e/o temporanee), ma anche la determinazione estiva scuola per scuola dell’organico di fatto, congruo con i nuovi obblighi da ottemperare.
Compito questo dei dirigenti scolastici e degli Uffici Scolastici Regionali, che devono avallare numeri e motivazioni.
Le risorse aggiuntive sono state deliberate.
Le richieste di nuovo personale sono state inoltrate?
Sono state accolte?

4) Il personale scolastico necessario per colmare i vuoti lasciati da quelli che sono andati in pensione e hanno avuto il trasferimento e quelli creati dalle norme di contrasto al coronavirus pare che ammonti a molto più di centomila unità, nella migliore delle ipotesi.
Per reperirlo subito si sarebbe potuto attingere alle vecchie graduatorie per supplenze e nominare gli insegnanti fino all’arrivo degli aventi diritto ,come sempre si è fatto e invece con nota del 5 Settembre si dichiara che sono tutte “caducate”.
Le scuole devono utilizzare le nuove, anche se con molti errori.
E’ questo il modo giusto per rispettare le centinaia e centinaia di migliaia di laureati e di diplomati che hanno fatto richiesta di essere inclusi nelle graduatorie?

5) Trovare milioni di banchi monoposto nei mesi estivi era ed è impresa titanica, se non altro perchè le ditte in grado di produrli, avrebbero dovuto avere in magazzino il materiale indispensabile.
E’ normale amministrazione aziendale, come si sa, ridurre i costi di magazzino…Farne polemica è da sciacalli di professione;

6) Che si sarebbe fatto cagnara sui ritardi per la riapertura era facile previsione, perchè la posta in gioco per certe formazioni politiche e per tanti organi di stampa era ed è la credibilità del Governo, non il buon funzionamento delle scuole;

7) Il Governo ha fatto l’errore grave di non anticipare le elezioni come il buon senso richiedeva e di stabilire la riapertura delle scuole successivamente a questo evento politico.
Con  la pandemia ancora in corso ritardare l’inizio delle lezioni non sarebbe stata una tragedia e nemmeno tanto difficile spiegarlo.
Per avere i fatidici 200 giorni di lezioni basta posticiparne il termine.
Una volta si imparava tanto con una scuola che cominciava il 1° ottobre e con gli Esami di Stato che avevano inizio il 1° luglio.
Non per nostalgia, ma per ragionevole uso della prudenza e della saggezza.