Sette regole per una fondare una “educazione buona”

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

1) La scuola è un luogo strano dove chi sa, fa le domande a chi non sa. Non sarebbe meglio il contrario? L’alunno pone le domande e l’insegnante cerca di rispondere.
Sarebbe la scuola ideale: alunni che hanno desiderio di apprendere e di capire e docenti che sanno e vogliono ascoltare.
Ogni lezione dovrebbe essere una risposta ad una domanda (Dewey).

2) “Il professore insegna a tutti la stessa cosa; il maestro annuncia a ciascuno una verità particolare”(B.Rey): l’insegnamento ex-cathedra conosce l’argomento e spesso misconosce la persona che ascolta e che è tenuta ad ascoltare.
Senza conversazione, senza il faccia a faccia, la contiguità emotiva, il rapporto educativo non decolla, intristisce nel reticolo delle procedure e degli obblighi professionali. L’alunno deve sentire la prossimità umana, la passione, la partecipazione dell’insegnante nel suo faticoso percorso di crescita e di apprendimento.
Una scuola a misura di ciascuno non è possibile, ma nobilita tutto l’impegno per farne un dovere professionale.

3) Una scuola non è un azienda: bisogna smetterla di farne un metro di paragone, di assumerne cultura e valori e di farla finita con l’accanimento docimologico e metodologico che ne è derivato.
Gli alunni non si possono programmare come la produzione dei pezzi di ricambio. Per accendere il desiderio di apprendere bisogna recuperare la dimensione esistenziale del crescere nel sapere: “fatti non foste per viver come bruti/ma per seguir vertute e canoscenza”(Dante).
Bisogna fare rientrare la didattica in una condivisibile filosofia dell’educazione, se si vuole dare un senso e un orientamento alla nostra presenza accanto ai giovani.

4) I giovani con la loro “estraneità” ai codici e alle tradizioni del sistema scuola ci sfidano e ci impegnano a trovare le ragioni dell’esistenza e delle finalità del sistema di istruzione e formazione; ci interpellano con i loro problemi, con la loro inquietudine, con la loro avversione, con la loro opacità.
Pongono problemi di senso, di motivazione, di prospettiva: troppo grandi e spesso inafferrabili per la scuola e gli insegnanti, se vengono lasciati soli o peggio ancora se sono fatti oggetto di campagne mediatiche di denigrazione.

5) La motivazione ad apprendere è diventato un problema di prima grandezza nella nostra società. Per dargli una soluzione bisognerebbe che nella società si aprisse una lotta aperta e vigorosa contro la svalorizzazione del sapere, contro gli scandali permanenti degli incompetenti al potere, contro le pratiche diffuse e offensive di nepotismo e di clientelismo nelle assunzioni, contro gli arricchimenti facili e cospicui derivanti da ogni tipo di illegalità, contro il ciarpame di un edonismo volgare promosso dai media ai danni della serietà, dell’impegno e dello spirito di sacrificio.

6) Nel problema della motivazione ci sono anche aspetti didattici e pedagogici. Credo che la soluzione consista nel dare “senso” ai saperi e nel dare spazio al protagonismo dei giovani nei processi di apprendimento.
Bisogna passare da una pedagogia della sottomissione e dell’obbedienza, ad una pedagogia della libertà, dell’autonomia intellettuale; da una pedagogia della risposta ad una pedagogia della domanda.
“La classe dovrebbe essere il luogo dove la verità della parola non è relativa allo status di chi la pronuncia”(B.Rey).

7) L’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’uomo (Kant) e proprio per questo diventa un diritto inalienabile; ma è anche un elemento fondamentale per la costruzione della democrazia.(Dewey)




Il prestigio dei docenti e le sanzioni contro gli studenti: era davvero necessario cambiare?

di Raimondo Giunta

Con 154 voti a favore, 97 contrari e 7 astensioni la riforma Valditara sul voto di condotta e sulla valutazione degli studenti è stata approvata in via definitiva dalla Camera dei Deputati. Con uno o più regolamenti, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, si dovrà provvedere alla revisione della materia, formulata nel decreto del Presidente della Repubblica 24 giugno 1998, n. 249, nel decreto del Presidente della Repubblica 22 giugno 2009, n. 122 e nel Dlvo n.62 del 2017.

 

I regolamenti devono tenere conto dell’autonomia scolastica.
La motivazione di fondo della revisione delle norme relative alla valutazione del comportamento e del profitto delle studentesse e degli studenti è quella di restituire prestigio e autorevolezza agli insegnanti. Intenzione lodevole, ma è difficile credere che a scuola siano molti gli insegnanti convinti che per difendere la loro autorevolezza e il loro prestigio si debbano aggravare nei confronti degli studenti le sanzioni disciplinari esistenti e si debbano modificare le norme sulla valutazione scolastica.

I momenti di difficoltà della vita scolastica potrebbero essere riassunti solo in quelli che a volte si verificano nelle relazioni alunni/docenti, se ogni scuola fosse ingestibile, oltreché inefficace nello svolgimento ordinario delle attività didattiche; se ogni scuola fosse un inferno da cui non si potrebbe ricavare nulla di buono. Solo l’enfasi spregiudicata dei mezzi di informazione su alcuni spiacevoli fatti di cronaca può farlo credere, come se si trattasse di ciò che succede quotidianamente in un’istituzione con migliaia di sedi, con milioni di utenti e con centinaia di migliaia di operatori scolastici. E’, invece, noto a molti che l’autorevolezza degli insegnanti è stata ed è in atto gravemente incrinata dall’incuria delle condizioni del loro lavoro, dall’erosione continua della loro autonomia professionale, dalla modestia del loro stipendio e dalle continue campagne di diffamazione, anziché dall’indisciplina degli studenti.

Per l’amministrazione la restituzione di potere all’asimmetria dei docenti nei confronti degli alunni sarebbe il rimedio per tornare a fare bene il lavoro a scuola, rimettendo magari la pedana sotto la cattedra e imponendo il saluto in piedi all’ingresso in aula di qualsiasi insegnante…

La riforma Valditara con il pretesto delle insidie all’autorevolezza dei docenti ha inteso dare un colpo duro, e speriamo non definitivo, a tutta la cultura pedagogica che nei decenni passati aveva contribuito a scrivere le relazioni all’interno di ogni istituto, pensando che dovesse essere vissuto come comunità educativa.

E’ di fatto la rivincita rancorosa di chi, non riuscendo a pensare le relazioni se non nella fattispecie della disciplina e della gerarchia, ricorre al rimedio facile e consentaneo alla propria cultura, quello del regime delle pene e dei premi, incardinato nell’uso strumentale del voto in condotta e dei voti in ogni singola disciplina. Un capovolgimento dell’idea che la crescita delle nuove generazioni debba essere costruita a scuola sul rispetto reciproco, sulla

fiducia, sul consenso e sulla corresponsabilità educativa, ma in linea con il disegno di legge sulla sicurezza, varato recentemente dal governo.

LA FUNZIONE EDUCATIVA DELLA SCUOLA

Il peso assegnato al voto di condotta nel curriculum di ogni studente rinvia direttamente al problema della funzione educativa della scuola. Il sistema scolastico non può non avere delle finalità educative, se vuole orientare, motivare e promuovere nei giovani comportamenti positivi, sviluppare le loro capacità, guidarli alla conquista di significati per la loro vita.
Si sa che scuola e mondo giovanile da molto tempo sono in rotta di collisione, che la situazione è difficile, ma non irrimediabile, e che su di essa sarebbe necessario lavorare con passione e intelligenza e non con le minacce di sanzioni, riducendo semplicisticamente una questione sociale in un problema di ordine e disciplina.

Con la riforma Valditara la funzione educativa della scuola rischia di esplicarsi principalmente nella regolamentazione e nel contenimento dei comportamenti e degli atteggiamenti che intralcerebbero il regolare svolgimento del processo di insegnamento/apprendimento.
Diventerebbe un momento di una strategia di normalizzazione sociale e di controllo di parte del mondo giovanile, insofferente all’ordine costituito a scuola e fuori della scuola.

Tutto questo non vuol dire che la scuola non debba avere propri principi di condotta, cui riferirsi per definire le regole che devono governare la vita quotidiana e la convivenza dei giovani che la frequentano. La scuola può avere un significato particolare per i giovani, se si riesce intorno agli aspetti della vita scolastica a sviluppare una adeguata attività educativa, che li renda consapevoli come siano importanti per la loro crescita valori come puntualità, responsabilità, rispetto delle cose e delle persone, ascolto, trasparenza ed equità, collaborazione, primato del sapere e della cultura, sensibilità artistica, spirito critico.

In questo caso la testimonianza, l’esempio e la pratica corrente sono gli strumenti più efficaci per farli accettare e per raggiungere qualche risultato.

Se gli alunni non vedono e non sperimentano nella comunità in cui sono inseriti pratiche di libertà e di giustizia; se non vedono insegnanti impegnati, attenti e dediti agli altri difficilmente aderiranno alle loro sollecitazioni morali e difficilmente li porterà sulla buona via il rischio di sanzioni disciplinari. I buoni valori si apprendono praticandoli e vedendoli praticare per esperienza diretta. (M.Pellerey)

Ciò nonostante, non è detto che siano immediati ed estesi i risultati. Le resistenze dell’alunno alle intenzioni e ai progetti dell’insegnante e della scuola sono intralci da superare per garantire la regolarità dei processi educativi, ma possono essere anche occasioni di ripensamento delle prassi e della responsabilità educativa, una sollecitazione a cercare di comprendere e di aiutare.

UNUM CASTIGABIS, CENTUM EMENDABIS

Quello che si vorrebbe dire è che né le motivazioni utilitaristiche del voto, né le minacce delle sanzioni possono indurre facilmente le nuove generazioni a impegnarsi in un percorso di vita che richiede comunque sacrifici e rinunce, se l’insieme delle condizioni della vita scolastica non dà assicurazioni di accoglienza, di rispetto e di dedizione.
Leggendo le nuove norme sulla valutazione ci si convince che non si sia andati molto lontani dall’antico adagio “unum castigabis,centum emendabis”, molto congeniale al tenore culturale dell’attuale amministrazione della scuola.

Servirà a qualcosa la revisione delle norme disciplinari?
Le scuole hanno vissuto momenti più turbolenti rispetto a quelli odierni. Basta risalire agli anni 60/70, quando non c’era scuola media superiore che non procedesse ad occupazioni e ad autogestioni studentesche, con relativo corredo di violenze e di danni agli edifici, sebbene fossero in vigore sanzioni disciplinari estreme, che avrebbero dovuto dissuadere gli studenti dal farle.
Era prevista, allora, l’espulsione dell’alunno dal proprio istituto e anche quella da tutti gli istituti dell’Italia, se le infrazioni al regolamento interno erano di una certa gravità.
Non sarà il rigore delle sanzioni, quindi, a spingere gli studenti indisciplinati a migliore consiglio, se hanno intenzione di non volerlo seguire.

ANALIZZIAMO ALLORA LE INNOVAZIONI VALDITARA

  • Nelle scuole secondarie di I grado la valutazione del comportamento dovrà essere espressa in decimi e avrà un impatto sulla media generale dello studente, modificando così la riforma del 2017. La valutazione del comportamento influenzerà anche i crediti per l’ammissione all’Esame di Stato conclusivo della scuola secondaria di secondo grado e per avere diritto al punteggio più alto bisognerà avere al meno nove decimi in condotta. Si torna, quindi, all’indigeribile commistione tra profitto scolastico e comportamento dell’alunno, che invece andrebbero rigorosamente e laicamente separati. Un provvedimento questo che avrà come effetto certo la crescita della dissimulazione e dell’ipocrisia degli alunni, ma non dell’adesione convinta alle regole che tutelano la convivenza in una scuola.
  • A seguito di un voto insufficiente in condotta non solo per casi di violenza o di commissione di reati, ma anche per comportamenti che costituiscono gravi e reiterate violazioni del Regolamento di Istituto non si è promossi alla classe successiva e non si è ammessi agli esami di Stato.
  • Per gli studenti che abbiano riportato una valutazione pari a sei decimi nel comportamento il Consiglio di classe, in sede di scrutinio finale, sospende il giudizio di promozione e assegna loro un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale. La mancata presentazione dell’elaborato prima dell’inizio dell’anno successivo o una sua valutazione insufficiente, da parte del consiglio di classe, determinano la non ammissione degli studenti all’anno scolastico successivo.

4) L’insufficienza in condotta in fase di valutazione periodica comporterà il coinvolgimento degli studenti in attività di approfondimento in materia di cittadinanza attiva e solidale, finalizzate alla comprensione delle ragioni e delle conseguenze dei comportamenti che hanno determinato tale voto.

5) Cambia il regime delle sospensioni, coniugando come da manuale, autoritarismo e benevolenza; sanzione, penitenza e redenzione. Le sospensioni fino a 2 giorni richiederanno più impegno scolastico e coinvolgeranno lo studente sospeso in attività di riflessione e di approfondimento sui comportamenti che hanno condotto alla sanzione disciplinare.
Tali attività saranno assegnate dal consiglio di classe e culmineranno nella produzione di un elaborato critico da parte dello studente, che sarà poi oggetto di valutazione da parte del consiglio di classe. L’alunno indisciplinato avrà, quindi, un compito scritto in più rispetto ai propri compagni, stabilendo in questo modo la regola che scrivere è proprio una penitenza…
In caso di sospensioni superiori ai 2 giorni, lo studente sarà chiamato a svolgere attività di cittadinanza solidale presso strutture convenzionate, ammesso che esistano e siano disposte a svolgere questo compito di rieducazione. Sempre nel caso di sospensione superiore ai 2 giorni, se verrà ritenuto opportuno dal consiglio di classe, l’attività di cittadinanza solidale potrà proseguire oltre la durata della sospensione, e dunque anche dopo il rientro in classe dello studente, secondo principi di temporaneità, gradualità e proporzionalità. Ciò al fine di stimolare ulteriormente e verificare l’effettiva maturazione e responsabilizzazione del giovane rispetto all’accaduto.
Se quindi, una volta l’indisciplina di un alunno era un fatto interno alla scuola, con questi rimedi diventa un fatto di pubblica risonanza, con tanti saluti al diritto alla privacy ed è legittimo chiedersi se ancora vige il diritto alla riservatezza dello studente.

6) Alla scuola primaria, il giudizio descrittivo sarà semplificato e affiancato da una valutazione sintetica con aggettivi come “ottimo”, “buono”, “sufficiente” e “insufficiente”.

7) Una novità degna di rilievo, ma congruente con l’egemonia del denaro nella nostra società, sono le sanzioni pecuniarie (multe che vanno dai 500 ai 10 mila euro) per reati commessi ai danni del dirigente scolastico e del personale della scuola a causa o nell’esercizio delle proprie funzioni.

I COMPITI DELLE SCUOLE

Alle scuole ora toccherà di riscrivere il codice interno delle sanzioni disciplinari e tutti i criteri di valutazione del comportamento e del profitto scolastico degli studenti.
Dovranno farlo con molta attenzione e con molto equilibrio, perché alcune decisioni potrebbero essere ritenute sotto diversi profili lesive degli interessi e dei diritti di ogni singolo alunno.
Ampia e dettagliata deve essere la definizione di ogni mancanza disciplinare e chiara e comprensibile la sanzione, come chiare e comprensibili devono essere le procedure da rispettare da parte degli organi competenti a irrogare le punizioni.
E proprio adesso con l’aggravamento delle pene si rende necessario rispettare il diritto di ogni studente ad una valutazione trasparente e tempestiva, incardinata su criteri pubblici e congruenti sia con il tenore delle sanzioni, sia con il residuo significato educativo che potrebbero ancora avere.

E’ giusto chiedersi, infine, se con queste nuove norme l’educazione a scuola potrà essere ancora educazione alla libertà e all’autonomia e potrà aiutare le nuove generazioni ad essere cittadini consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri. E’ difficile crederlo, perché solo una scuola che consente alle persone che la frequentano di esserne protagonisti e di godere di ampi spazi d’azione, di pensiero e di ricerca può ottenere questo risultato

 

 




La formula magica 4+2 per l’istruzione tecnica e professionale

di Raimondo Giunta

A partire da quest’anno scolastico avrà inizio la sperimentazione dei corsi di studio quadriennali dell’Istruzione secondaria tecnica e professionale, che dovrebbero assicurare agli studenti il raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento e delle competenze già previsti per i normali corsi quinquennali, garantendo il conseguimento in anticipo del diploma di istruzione secondaria di secondo grado all’esito dell’Esame di Stato.
Sono 176 gli istituti che ospiteranno questi corsi e 95 sono collocati nel Sud.

Nei 4 anni di studio avranno grande rilievo le attività di alternanza scuola lavoro, il potenziamento delle discipline STEM, il processo di internazionalizzazione, la didattica laboratoriale e l’adozione di metodologie innovative.
È previsto il coinvolgimento di docenti aziendali, che avranno il compito di adeguare la formazione degli studenti ai bisogni del territorio e alle innovazioni.

E’ tratto caratteristico e identitario dei corsi 4+2 la scelta dell’integrazione con il mondo del lavoro.
Per dare inizio alla sperimentazione le scuole, infatti, hanno dovuto sottoscrivere almeno un accordo di partenariato con un’azienda del territorio, grazie al quale potrà essere sviluppata l’alternanza scuola-lavoro, ritornata alle 400 ore complessive per quattro anni di corso. La collaborazione delle aziende potrà, inoltre, consentire lo sviluppo di corsi specifici rispondenti alle singole esigenze territoriali, ricorrendo al potenziamento di una o più materie di indirizzo.

Non è dato di sapere se questa innovazione prenderà piede nelle scuole, ma non è improbabile che possa trovare il consenso di molte famiglie che vedrebbero di buon occhio la riduzione del tempo scolastico, soprattutto se condita con l’illusione di una più rapida inclusione dei propri figli nel mondo del lavoro.
Perché questa è di fatto la promessa che sta dietro l’innovazione dei corsi quadriennali.
L’obiettivo dichiarato è quello di offrire agli studenti una formazione vicina alle esigenze del mondo del lavoro, che agevoli al contempo sia la prosecuzione degli studi nei percorsi di istruzione terziaria degli ITS, con il conseguimento finale, in sei anni, di un titolo di alta specializzazione tecnica, sia l’iscrizione all’Università.

Tutto bello e tutto facile, ma si dimentica che ci si lamenta e ci si è lamentati spesso della qualità dei diplomati e dei laureati. Com’è possibile, allora, che come rimedio si proponga la riduzione degli anni di scolarità in uno degli indirizzi più significativi della scuola italiana?
Chi conosce la scuola sa che va riqualificata, riassettata, stabilizzata, rasserenata e sostenuta e sa che gli alunni nella quasi totalità hanno bisogno di tempi lunghi e non di didattiche brevi per maturare sul piano umano, intellettuale e professionale.

Questa storia dei quattro anni delle superiori o quella dell’età di uscita dalla scuola, di un anno in più rispetto alle scuole europee, è una scusa per ridurre le spese dell’istruzione? Risponde davvero al requisito dell’occupabilità delle nuove generazioni?
L’ampiezza della disoccupazione giovanile è un vero problema, ma non dipende solo dal disallineamento tra istruzione ed esigenze del mondo del lavoro e allora perché questa fretta?
Non toccherà forse all’attuale generazione il destino di andare in pensione a 70 anni?

Questa riforma vorrebbe rispondere ai bisogni immediati di personale delle aziende; risponde anche alle esigenze di una forte e duratura preparazione dei giovani che hanno scelto gli indirizzi tecnici e professionali?
E’ possibile che quando si parla di istruzione tecnica e professionale l’unica preoccupazione sia l’immediata e fantasticata occupabilità e che ne debba fare le spese l’approfondimento culturale delle discipline base della formazione tecnica?

L’istruzione tecnica è il prodotto originale del sistema scolastico italiano, che bisognerebbe difendere e tutelare con grande energia, e invece negli ultimi 20 anni non c’è ministro che non voglia passare alla storia per averla messa a soqquadro. L’innovazione 4+2 andrebbe iscritta nella ricorrente e immotivata pretesa di trasformare i percorsi di istruzione tecnica e professionale in lunghi periodi di formazione professionale, sperando di andare incontro nello stesso tempo alle esigenze immediate delle aziende e al bisogno di occupazione di alcune fasce sociali.
Non ha un grande respiro e forse nemmeno un grande futuro.
Le scuole della facile occupabilità sono quelle che vanno fuori mercato più facilmente e prima nelle società con alto tasso di innovazione e di sviluppo. Lo scarto tra istruzione e mondo del lavoro è strutturale e non è la ricorsa all’ultima novità che colmerà il distacco; potrà farlo un’istruzione che coltivi la solidità del possesso dei saperi e delle metodologie che li connotano; unico modo per orientarsi nel mondo che non smette mai di cambiare.

Mette tristezza doversi confrontare con questi tentativi periodici di ridimensionare la durata dei curricoli scolastici; si vuole chiudere per sempre la stagione nella quale si vantava come conquista di civiltà portare a 5 anni i professionali e il magistrale.
A pensarci bene non è proprio un bel messaggio quello che si invia alle nuove generazioni.

 




La scuola che vorrei

di Raimondo Giunta

L’erba voglio non cresce e non è mai cresciuta da nessuna parte e tantomeno a scuola.
La scuola che ho voluto, anche se non è stata quella che potevo fare, mi ha aiutato nei tanti anni di servizio a superare le difficoltà del momento e a rendere migliore quella che abitavo .
La scuola è oggi spesso in rotta di collisione con la vita quotidiana delle famiglie e dei giovani. Gli orari, il calendario, la struttura fisica degli istituti sono espressione di un ordinamento, compatibile con altri ritmi di vita, con altre regole sociali, con altre tendenze dei rapporti umani.
L’attuale struttura della scuola è lo specchio di una società che da tempo non esiste più. Alla radice del disagio scolastico, che può debordare in degrado, si trova questa crescente contraddizione tra quotidianità e scuola, bisogni vitali della società e organizzazione scolastica.
La scuola italiana ancora oggi è in moltissimi casi fisicamente preordinata alla sola attività didattica delle lezioni.
In molte scuole non si puo’ fare nemmeno l’educazione fisica per mancanza di palestre; non si fa decentemente ricreazione per mancanza di cortili. Se funzionasse bene,ma non è così,essa sarebbe funzionale solo ai compiti di istruzione, alla formazione intellettuale, ma oggi tutto questo, per quanto importante possa essere, non basta.
I giovani in questo particolare momento della società hanno bisogno d’altro o meglio hanno bisogno di qualcosa di più.
Hanno bisogno di cura della persona, dell’attenzione a tutti gli aspetti non intellettuali della loro formazione (sensibilità/affettività/valori).
Queste nostre scuole piene di discipline, di ore di lezioni, di compiti pomeridiani,di progetti, ma privi di spazi e di momenti di convivialità cominciano a fare danni.
L’adeguamento dei curricoli, che maniacalmente si sbandiera ad ogni cambio di governo e di ministro, deve andare di pari passo con la trasformazione radicale degli spazi e del tempo scuola, se vuole raggiungere i risultati che si propone.
Ma non basta.
Le sorti dell’innovazione e dell’efficacia del servizio scolastico sono nelle mani degli insegnanti, mai così maltrattati e mai così poco difesi ed apprezzati dalle famiglie, dall’opinione pubblica e dall’amministrazione.
Con un esercito smisurato di sottoproletari della cultura è già tanto se la scuola si tenga in piedi.
Ristabilito, come il buon senso richiede e come si fa in altre nazioni, il decoro sociale dello status degli insegnanti, perchè devono poter svolgere il proprio lavoro senza imbarazzo e senza umiliazioni, bisognerebbe fare una rivoluzione professionale per cambiare un mestiere ritagliato solo per alcuni compiti.
L’insegnante deve poter sapere non solo che cosa insegnare e come, ma anche e soprattutto chi sono i suoi allievi, in che genere di ambiente e di famiglia vivono, in che genere di società loro stessi e gli alunni vivono.
Ci vuole più cultura pedagogica, più cultura istituzionale, più cultura sociologica, più cultura psicologica..
La società italiana, se venissero utilizzati in tempo e bene le risorse del Recovery fund, potrebbe avere una scuola diversa: scuola aperta dalla mattina alla sera, scuola con spazi, scuole con mense, scuole con convitto, scuole con più e diversi operatori; scuole con più libertà, scuole con più mezzi; scuole integrate nel territorio.
Ecco è questa la scuola che vorrei per gli studenti, per gli insegnanti e per le famiglie.




Ci sono saperi e saperi

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Ci sono saperi che valgono in sè e sono quelli che danno un orientamento per dare un senso alla propria vita e ci sono saperi che valgono per orientarsi nel mondo del lavoro; l’approccio per competenze come spesso definito, proposto e incentivato questa distinzione tiene a non farla, tant’è che dappertutto si è visto ridurre il peso delle discipline umanistiche e delle stesse discipline teoretiche della scienza.
Che esistano saperi inerti è una favola da Confindustria; che l’inerzia sia congenita a determinate discipline è un’altra fatta propria dagli apostoli delle competenze.
Ogni sapere è vivido e fruttuoso se viene problematizzato; se si fa comprendere che si è costituito come risposta ai problemi che l’uomo ha dovuto affrontare nella sua storia.
E per la storia è opportuno ricordare che nei tecnici e nei professionali si è sempre considerato il rapporto col mondo del lavoro come proprio principio costitutivo.
Contrariamente a quel che viene detto la scuola che non si lascia trascinare nel dogmatismo dell’approccio per competenze è un scuola che dà strumenti di libertà; la scuola che predica la spendibiltà dei saperi predispone all’accettazione servile, all’adeguamento puro e semplice ai dati del mercato del lavoro.
Un matematico che aveva insegnato negli Stati Uniti e in Italia disse che dal punto di vista della produttività intellettuale è meglio insegnare geometria parlando di segmenti piuttosto che di bastoncini; non c’è nulla di più produttivo di un insegnamento teorico serio, rigoroso e profondo.
Un personaggio come M.Crahay, a cui si deve la realizzazione in Belgio di uno dei primi se non del primo curriculum per competenze in Europa dice della competenza che non ha fondamento e che è simile alla caverna di Alì Babà; non posso tralasciare, infine, B.Rey che delle competenze cosiddette trasversali ha mostrato tutta la loro debolezza, se non proprio l’insostenibilità.
P.S. Le competenze senza conoscenze sono vuote; si è competenti perchè si sa e si sa ciò che viene appreso in materie umanistiche, scientifiche e professionali.




Discutiamo di competenze: cosa sono e come possono “indirizzare” il modo di fare scuola?

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

L’assalto costante alla natura del sapere scolastico e alle sue tradizioni e la sottovalutazione non sempre motivata dei suoi risultati e delle procedure di lavoro che ad essi conducono sono riusciti nell’intento di proporre e di favorire nelle scuole europee nuovi curricoli, improntati all’approccio per competenze.
Le competenze, ormai, sono diventate la fonte della legittimazione del lavoro scolastico e la loro ascesa irresistibile nel mondo della scuola non incontra più ostacoli; intimidisce chi tenta di opporvisi.

Niente succede a caso. La nozione di competenza ha fatto irruzione nel mondo della scuola per le sue difficoltà e i suoi impacci nel rispondere alle richieste della società e di quelle soprattutto del mondo del lavoro.
Ci ricorda, però, autorevolmente Le Boterf che non esiste un solo approccio per competenze. E noi dovremmo chiederci di un concetto così diffuso non solo quali siano le ragioni del suo successo, ma anche e soprattutto quali cambiamenti pedagogici rivela e pretende.

Ma che cosa sono le competenze?

Di definizioni delle competenze si possono fare consistenti dossier senza arrivare a quella che dirime le controversie e accredita la possibilità di poterci costruire serenamente e con sicurezza un curriculum di formazione.   Qualcuno si è chiesto se sia solo una nozione mediatica o un concetto-slogan dalla semantica debole e qualche altro come M.  Crahay ha perentoriamente affermato che “il concetto di competenza è un’illusione semplificatrice che non è sostenuta da una teoria scientificamente fondata. E’ una caverna d’Alì Babà concettuale in cui è possibile incontrare giustapposte tutte le correnti teoriche di psicologia, anche se sono nei fatti contrapposte in “Café Pedagogique” dell’1/6/2009).

Per Ph. Perrenoud la competenza è un costrutto sociale e in quanto tale è un concetto necessariamente provvisorio, il cui valore è il valore d’uso.
Lo si misura dalla sua fecondità, non dalla sua verità assoluta.  Opinione questa condivisa da G. Di Francesco.  A suo parere ci sono processi che stanno costruendo il valore d’uso del concetto di competenza e ne verificano in questo modo la possibilità di essere funzionale come modello di riferimento.
La costitutiva polivalenza del concetto di competenza non impedirebbe che si formino comunità di pratiche che lo utilizzano con efficacia rispetto alle diverse finalità.
Si tratterebbe di una soluzione pragmatica che consiste nell’accettare la provvisorietà e l’ambivalenza teorica e nel distinguere tra definibilità teorica ed utilizzabilità pratica del concetto di competenza.  (cfr “Il laboratorio della riforma-Annali P.I.  1999).
S. Monchatre con esemplare semplicità: “La nozione di competenza rende dei servizi, se si mettono in secondo piano i suoi limiti teorici”.
”Gli usi che sono stati fatti della nozione di competenza non aiutano alla sua definizione e la difficoltà di definirla cresce col bisogno di utilizzarla”(J.  Dolz-E.  Ollagnier).

E’ proprio questo il problema: un concetto polisemico e non ancora stabilizzato come può diventare un principio sicuro ed affidabile di regolazione e di organizzazione dei curricoli?
Perché proporre curricoli per competenze se le difficoltà d’uso del concetto sono non solo di ordine epistemologico e teorico, ma anche pratico?

Per Jonnaert -Barrette-Masciotra-Yaya la competenza “è la messa in opera di una persona in situazione, in un contesto determinato, di un insieme diversificato ma coordinato di risorse.  Questa messa in opera riposa sulla scelta, sulla mobilitazione e sull’organizzazione di queste risorse e sulle azioni pertinenti che esse permettono per un trattamento riuscito di questa situazione” (2006-Ginevra IBE-UNESCO).
Non è per nulla facile redigere un curriculum di studi sulla base di questa idea di competenza, innanzi tutto perché nemmeno si parla del ruolo e della funzione delle conoscenze e poi perché con tutta la buona volontà di questo mondo e con buona pace di tutti la scuola non è il luogo delle situazioni concrete, dove si esercita e si rivela una competenza, ma quello dove si apprendono saperi che sono alcune delle sue risorse e dove con propri mezzi si cerca di capire (stage/simulazioni/attività laboratoriali) l’effetto che fanno.
”Una persona o un collettivo di persone non possono essere dichiarati competenti, se non dopo avere trattato con successo la situazione con la quale si sono confrontati, non prima”(Ph.  Jonnaert).
Lo studioso canadese non si è mai scostato da questa concezione della competenza.

LE COMPETENZE E LE CONOSCENZE

Che il sapere, di cui istituzionalmente tutte le scuole del mondo dovrebbero ancora essere luoghi di trasmissione e di rielaborazione, possa finire per contare poco in orientamenti di questo genere si desume anche da ciò che viene detto in altri parti del documento citato (un documento con l’imprimatur dell’Unesco).
“L’agire competente in situazione si appoggia su una pluralità di risorse e non soltanto su dei saperi disciplinari” e altrove “Il riferimento unico e costante ai programmi disciplinari tradizionali della scuola è un vero ostacolo epistemologico in senso bachelardiano per lo sviluppo situato delle competenze”.
E’ una posizione estremistica dell’approccio per competenze, ma che non è estranea alla sua logica e che apre all’idea sciagurata di opporre conoscenze e competenze.  Per lavorare bene con le competenze si deve dar prova, come dice Perrenoud, che con esse non si voltano le spalle ai saperi.

Si riportano di seguito due definizioni che costituiscono un ragionevole fondamento per l’approccio per competenze e che legano in modo persuasivo le conoscenze e le competenze.
La prima delle due è stata rifatta, dopo 10 anni, con modifiche non del tutto soddisfacenti
(1*cfr.  nota a piè di pagina).

A)  ”Una competenza è la comprovata capacità di UTILIZZARE CONOSCENZE, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale personale.  Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia” (Allegato 1 alla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23-4-2008).

B)  ”La competenza è la capacità di METTERE IN MOTO e di COORDINARE le risorse interne possedute(CONOSCENZE, abilità, disposizioni interne stabili) e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti o di situazioni sfidanti”(M. Pellerey-2008).

Queste due definizioni, molto autorevoli, ci dicono che le competenze non sono esse stesse dei saperi, ma che li UTLIZZANO,  li MOBILITANO e li COORDINANO insieme ad altre risorse personali; ci dicono anche che utilizzazione e mobilitazione sono pertinenti soprattutto in situazione.  Se le competenze funzionano così è evidente che si pongono due seri e grandi problemi: il primo è quello dei contenuti e il secondo è quello delle metodologie.  Non tutti i contenuti, infatti, (o tutte le discipline o tutti i saperi) si piegano ad alcune particolari logiche di utilizzazione, anche se universalmente sono parte imprescindibile dei curricoli.
Le metodologie, poi, devono innestarsi sulle “situazioni” o riproporne il modello per essere idonee ad esercitare gli alunni alla mobilitazione, all’integrazione, al coordinamento delle risorse interne possedute e a quelle esterne disponibili.

DAL MONDO DEL LAVORO ALLA SCUOLA

La competenza entra con forza nel mondo della scuola, perchè è diventata la parola d’ordine degli accadimenti e delle relazioni sociali dei nostri giorni, ma ha cambiato molto dell’antico significato che aveva nelle attività formative.  Il nuovo senso della nozione di competenza nasce nelle profonde trasformazioni del mondo del lavoro, dove è diventata strumento di analisi della professionalità, modalità di classificazione dei lavori, categoria giuridica per la definizione dei rapporti di lavoro, modello di riferimento per la formazione, assumendo un significato socio-professionale, contrattuale e formativo (D.  Nicoli).
Il possesso di competenze pregiate, direbbe la Di Francesco, che il sistema di istruzione si dovrebbe preoccupare di formare, viene ritenuto la condizione per affrontare le molteplici sfide della complessità della nostra società.

E’ indubitabile il rapporto tra l’emergenza del concetto di competenza e le esigenze attuali del mondo economico-aziendale.  La nozione di competenza, infatti, esalta la disposizione all’adattabilità, alla mobilità e al senso dell’iniziativa, qualità umane non solo richieste, ma quasi prescritte oggi dal mercato del lavoro.  Non c’è, però, da sciogliere inni e canti di gioia.  Nel mondo del lavoro il ricorso alle competenze fa parte di un’offensiva contro i diplomi e le qualifiche, per indebolirli più che per sostituirli per inefficacia (M. Stroobants).

”La logica delle competenze è innanzitutto una tecnica manageriale di gestione che mira a sostituire con nuove regole le antiche.
Una logica di risultato che sostituisce la logica del posto; il riconoscimento del merito individuale che sostituisce la progressione sistematica per anzianità; la retribuzione delle competenze che sostituisce la remunerazione del livello” (A.  Dietrich).

Nei posti di lavoro la gestione delle competenze è una tecnica al servizio di obiettivi di razionalizzazione.
”Il concetto di competenza permette di fare dell’uomo un oggetto di gestione.  Se Taylor scomponeva il lavoro in gesti elementari per impiantare la misura dei tempi e dei movimenti e ottimizzare il rendimento, la nozione di competenza identifica e scompone le capacità e le attitudini di un individuo per mobilizzarle e ottimizzarle in un contesto dove la reattività organizzativa diventa essenziale.  Ciascuna di queste capacità puo’ essere misurata, sviluppata con l’apprendimento, accresciuta con la formazione, trasferita con la mobilità o il tutorato” (D.Cazal-A.Dietrich).

L’azienda con le competenze si appropria della dimensione personale interna e soggettiva del lavoratore.
Il giudizio di competenza, funzionale alla carriera interna e alla progressione economica, rischia di essere a differenza di quello inerente alla qualifica un giudizio su una persona in quanto persona e non in quanto lavoratore.
C’è di più.  Mobilità, flessibilità e competenze, tratti strutturali dell’attuale organizzazione del lavoro, cambiano le relazioni sociali e rendono transitori e fragili i legami tra i lavoratori.
La gestione delle risorse umane attraverso le competenze può facilmente diventare funzionale alla strategia di disfare ogni forma di solidarietà di categoria nel posto di lavoro.
Le competenze possono essere utilizzate, inoltre, per sottrarre potere contrattuale al lavoratore, il cui patrimonio cognitivo-professionale potrà essere riconosciuto e valorizzato non in sede di contrattazione, ma in quello del giudizio non sempre sindacabile della controparte.

LA SFIDA DELLE COMPETENZE

Se nella sociologia del lavoro si incominciano a intravedere i rischi della gestione delle competenze, nel mondo della scuola si continuano, a prescindere, a celebrarne le magnifiche sorti progressive.
E questo non è un fatto positivo.  La mancanza di senso critico può condurre ad esiti negativi nel processo di formazione.
Se è corretto contrastare il rifiuto pregiudiziale dell’approccio per competenze, è anche necessario guardarsi bene dall’assunzione dogmatica delle indicazioni istituzionali e dalle suggestioni economicistiche del modello aziendale-economico.

Il sistema di istruzione svolge la sua funzione, se è in grado di progettare curricoli che formano le competenze richieste, in una data fase storica, dalla società nel suo insieme.  La formazione dovrebbe garantire alle nuove generazioni gli strumenti che consentono l’adattamento al proprio ambiente, al proprio tempo, al proprio mondo del lavoro.  La scuola è servizio alla società; ma è anche servizio alla persona: due compiti che devono armonizzarsi senza il bisogno di doverne sacrificare uno dei due.
”L’istruzione e la formazione hanno sempre come funzione essenziale l’integrazione sociale e lo sviluppo personale mediante la condivisione di valori comuni, la trasmissione di un patrimonio culturale e l’apprendimento dell’autonomia.  Ma oggi questa funzione essenziale è minacciata, se non è accompagnata dall’apertura di una prospettiva in materia di occupazione” (Libro Bianco ‘95).

Per dare a scuola un orientamento corretto all’approccio per competenze bisogna tenere sempre presente che “La competenza è una nozione di frontiera tra economia ed educazione” (S.  Monchatre) e che a scuola il lato proprio della competenza è quello dell’educazione, anche se questo non autorizza nessuno a chiuderla in un anacronistico isolamento autoreferenziale.  L’aspetto più significativo dell’approccio per competenze è la forte sollecitazione a scoprire il senso dei saperi, a renderli in prospettiva utili e significativi per lo sviluppo personale e quello della società.  L’approccio per competenze esige il protagonismo della persona in contesti di esperienza variabili per impegno cognitivo e relazionale.  ”La nozione di competenza si inscrive nel quadro di una pedagogia decisamente centrata sull’allievo” (B.  Rey).

Il rischio più grave che bisogna evitare è quello di circoscrivere le ambizioni del sistema di istruzione e formazione, appiattendolo e costringendolo in una prospettiva utilitaristica di saperi immediatamente spendibili.  Se l’aria dei tempi esalta l’uomo d’azione efficace, che sa risolvere i problemi che gli si presentano, la scuola per responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni non può inchinarsi agli idoli del momento e deve lavorare per le altre dimensioni della persona umana, per il suo integrale sviluppo, in modo da renderla capace di comprendere il mondo, la società, l’altro e se stesso e di esercitare i diritti e i doveri di cittadinanza attiva.  La cultura è plurale e nessuna componente (scientifica, umanistica, professionale etc) può essere trascurata.  E’ la cultura nel suo insieme che ci fornisce gli strumenti per organizzare e per capire il nostro mondo in forme comunicabili.  (J.  Bruner).

Nell’approccio per competenze è insita una logica di adattamento che può mortificare o cancellare la funzione emancipatrice della conoscenza e rendere residuale il mondo dei valori; una logica che finisce, se viene acriticamente sposata, per esaltare l’addestramento a svantaggio della trasmissione dei saperi e della cultura.
“Per sviluppare competenze occorre lavorare perchè l’alunno possegga in modo significativo, stabile e fruibile concetti e quadri concettuali, saperi e conoscenze desunti dalle discipline e raggiunga adeguate abilità intellettuali e pratiche sapendo come, quando e perchè utilizzarle” (M.  Pellerey).

Le competenze non si insegnano direttamente: si creano le condizioni del loro sviluppo grazie a situazioni d’apprendimento, a dispositivi di esercitazioni e di riflessione sulle esperienze fatte.  L’approccio per competenze richiede l’ancoraggio all’esperienza, alle pratiche sociali, alla realtà.  Formare competenze significa richiedere prestazioni complesse e sfidanti basate sulla produzione di soluzioni a problemi tratti dal mondo reale.  Per garantire, però, un percorso strutturato e sequenziale di formazione i problemi, i casi concreti, i contesti lavorativi devono essere sistemati in una successione razionale ed organica, altrimenti rischia di far saltare il curriculum, frantumandolo in una raccolta casuale di iniziative, di progetti, di attività.
Fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire” le conoscenze comporta un lavoro di innovazione serio e rigoroso.  Bisogna saperlo che il cantiere per raggiungere questo obiettivo è aperto da molto tempo, ma che i risultati nella pratica quotidiana possono ancora modesti o limitati

L’approccio per competenze pone nuovi problemi e suscita perplessità in alcuni settori del mondo degli insegnanti, perchè confligge con le tradizioni più accreditate e seguite del sistema scolastico e con le consuetudini professionali.  Richiede, infatti, un cambiamento significativo nelle procedure didattiche e nel modo di pensare e agire nei processi formativi.
La preparazione delle attività, il processo formativo e il coordinamento didattico in un curriculum per competenze esigono tempo di lavoro molto più ampio di quello attualmente contrattualizzato e soprattutto insegnanti stabili, provetti, con notevoli capacità progettuali.  L’approccio per competenze mette in crisi l’individualismo magistrale, ma non può svilupparsi in un contesto di precarietà e di sudditanza professionale.




Sanzioni disciplinari agli studenti per salvare il prestigio dei docenti. Il Governo ci crede davvero

di Raimondo Giunta

Mai avrei pensato che per difendere l’autorevolezza degli insegnanti si dovesse pensare di aggravare nei confronti degli studenti indisciplinati e irrispettosi le sanzioni disciplinari esistenti. E’ facilmente comprensibile ai più che l’autorevolezza degli insegnanti è stata gravemente incrinata dall’incuria delle condizioni del lavoro, dall’erosione continua della loro libertà, dalla modestia del loro stipendio, dalle aggressioni dei genitori e dalle continue campagne di diffamazione dei media e non dall’indisciplina degli studenti.

Vediamole allora queste nuove sanzioni disciplinari!

1) Nelle scuole secondarie di I grado, se il disegno di legge del ministro Valditara sarà approvato definitivamente, sarà ripristinata la valutazione del comportamento, che dovrà essere espressa in decimi e avrà un impatto sulla media generale dello studente, modificando così la riforma del 2017. La valutazione del comportamento influenzerà anche i crediti per l’ammissione all’Esame di Stato conclusivo della scuola secondaria di secondo grado e per avere diritto al punteggio più alto bisognerà avere al meno nove decimi in condotta.
Si torna, quindi, all’indigeribile commistione tra profitto scolastico e comportamento dell’alunno, che invece andrebbero rigorosamente e laicamente separati. Un provvedimento questo che avrà come effetto certo la crescita della dissimulazione e dell’ipocrisia degli alunni, ma non dell’adesione convinta alle regole che tutelano la convivenza in una scuola.

2) A seguito di un voto insufficiente in condotta non solo per casi di violenza o di commissione di reati, ma anche per comportamenti che costituiscono gravi e reiterate violazioni del Regolamento di Istituto non si è promossi alla classe successiva e non si è ammessi agli esami di Stato.

3) Per gli studenti che abbiano riportato una valutazione pari a sei decimi nel comportamento il Consiglio di classe, in sede di scrutinio finale, sospende il giudizio di promozione e assegna loro un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale.
La mancata presentazione dell’elaborato prima dell’inizio dell’anno successivo o una sua valutazione insufficiente, da parte del consiglio di classe,  determinano la non ammissione degli studenti all’anno scolastico successivo.

4) L’insufficienza in condotta in fase di valutazione periodica comporterà il coinvolgimento degli studenti in attività di approfondimento in materia di cittadinanza attiva e solidale, finalizzate alla comprensione delle ragioni e delle conseguenze dei comportamenti che hanno determinato tale voto.

5) Cambia il regime delle sospensioni, coniugando come da manuale autoritarismo e benevolenza; sanzione, penitenza e redenzione. Le sospensioni fino a 2 giorni richiederanno più impegno scolastico e coinvolgeranno lo studente sospeso in attività di riflessione e di approfondimento sui comportamenti che hanno condotto alla sanzione disciplinare.
Tali attività saranno assegnate dal consiglio di classe e culmineranno nella produzione di un elaborato critico da parte dello studente,  che sarà poi oggetto di valutazione da parte del consiglio di classe.
L’alunno indisciplinato avrà, quindi, un compito scritto in più rispetto ai propri compagni, stabilendo in questo modo il principio che scrivere è proprio una penitenza…In caso di sospensioni superiori ai 2 giorni,  lo studente sarà chiamato a svolgere attività di cittadinanza solidale presso strutture convenzionate,  ammesso che esistano e siano disposte a svolgere questo compito di rieducazione.
Sempre nel caso di sospensione superiore ai 2 giorni,  se verrà ritenuto opportuno dal consiglio di classe, l’attività di cittadinanza solidale potrà proseguire oltre la durata della sospensione,  e dunque anche dopo il rientro in classe dello studente,  secondo principi di temporaneità, gradualità e proporzionalità.
Ciò al fine di stimolare ulteriormente e verificare l’effettiva maturazione e responsabilizzazione del giovane rispetto all’accaduto.
Se quindi, una volta l’indisciplina di un alunno era un fatto interno alla scuola, con questi rimedi diventa un fatto di pubblica risonanza, con tanti saluti al diritto alla privacy.

6) Tralascio di parlare sul ripristino del giudizio sintetico finale nella scuola primaria e delle motivazioni che sono state portate.
Lo hanno fatto in tanti in nome e per conto della buona pedagogia, che come pare non sta di casa in Viale Trastevere.

In proposito ho i miei dubbi. Se la memoria non mi inganna, credo che le scuole abbiano vissuto momenti più turbolenti rispetto a quelli odierni. Basta risalire agli anni 60/70, quando non c’era scuola media superiore che non procedesse ad occupazioni e ad autogestioni studentesche, con relativo corredo di violenze e di danni agli edifici, sebbene fossero in vigore sanzioni disciplinari estreme, che avrebbero dovuto dissuadere gli studenti dal farle.
Era prevista, allora, l’espulsione dell’alunno dal proprio istituto e anche quella da tutti gli istituti dell’Italia, se le infrazioni al regolamento interno erano di una certa gravità.
Non sarà il rigore delle sanzioni, quindi, a spingere gli studenti indisciplinati a migliore consiglio, se hanno intenzione di non volerlo fare.

Le norme disciplinari che entreranno in funzione in nome e per conto del ritorno alla serietà e della rispettabilità del personale della scuola hanno, tra l’altro, più di qualche legame con quelle sancite negli articoli che vanno dal 19 al 25 del capo III del R.D.653/1925 “Delle punizioni disciplinari”.
Quelle proposte dal ministro Valditara possono a tutti gli effetti essere considerate una loro moderna riscrittura …Mancano i decreti di espulsione dagli istituti, ma le motivazioni per stabilire le nuove norme disciplinari sono pressoché identiche a quelle indicate nel Regio Decreto del ventennio.
Una novità degna di rilievo, ma congruente con l’egemonia del denaro nella nostra società, sono le sanzioni pecuniarie (multe che vanno dai 500 ai 10 mila euro) per reati commessi ai danni del dirigente scolastico e del personale della scuola a causa o nell’esercizio delle proprie funzioni.

C’è da meravigliarsi per questo legame? Non è proprio il caso. Dopotutto questo è un governo di destra con evidenti tendenze autoritarie ed evidenti radici neofasciste.
Rifugge dalla complessità della natura e delle cause di un problema, nel nostro caso il ribellismo giovanile, perché non ha gli strumenti per la loro comprensione e ricorre alle sole misure che riesce a concepire: quelle securitarie delle pene e dei castighi.
Ma se non hanno funzionato nel passato, perché dovrebbero funzionare nel presente?