Ci sono saperi e saperi

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

Ci sono saperi che valgono in sè e sono quelli che danno un orientamento per dare un senso alla propria vita e ci sono saperi che valgono per orientarsi nel mondo del lavoro; l’approccio per competenze come spesso definito, proposto e incentivato questa distinzione tiene a non farla, tant’è che dappertutto si è visto ridurre il peso delle discipline umanistiche e delle stesse discipline teoretiche della scienza.
Che esistano saperi inerti è una favola da Confindustria; che l’inerzia sia congenita a determinate discipline è un’altra fatta propria dagli apostoli delle competenze.
Ogni sapere è vivido e fruttuoso se viene problematizzato; se si fa comprendere che si è costituito come risposta ai problemi che l’uomo ha dovuto affrontare nella sua storia.
E per la storia è opportuno ricordare che nei tecnici e nei professionali si è sempre considerato il rapporto col mondo del lavoro come proprio principio costitutivo.
Contrariamente a quel che viene detto la scuola che non si lascia trascinare nel dogmatismo dell’approccio per competenze è un scuola che dà strumenti di libertà; la scuola che predica la spendibiltà dei saperi predispone all’accettazione servile, all’adeguamento puro e semplice ai dati del mercato del lavoro.
Un matematico che aveva insegnato negli Stati Uniti e in Italia disse che dal punto di vista della produttività intellettuale è meglio insegnare geometria parlando di segmenti piuttosto che di bastoncini; non c’è nulla di più produttivo di un insegnamento teorico serio, rigoroso e profondo.
Un personaggio come M.Crahay, a cui si deve la realizzazione in Belgio di uno dei primi se non del primo curriculum per competenze in Europa dice della competenza che non ha fondamento e che è simile alla caverna di Alì Babà; non posso tralasciare, infine, B.Rey che delle competenze cosiddette trasversali ha mostrato tutta la loro debolezza, se non proprio l’insostenibilità.
P.S. Le competenze senza conoscenze sono vuote; si è competenti perchè si sa e si sa ciò che viene appreso in materie umanistiche, scientifiche e professionali.




Discutiamo di competenze: cosa sono e come possono “indirizzare” il modo di fare scuola?

Composizione geometrica di Gabriella Romano

di Raimondo Giunta

L’assalto costante alla natura del sapere scolastico e alle sue tradizioni e la sottovalutazione non sempre motivata dei suoi risultati e delle procedure di lavoro che ad essi conducono sono riusciti nell’intento di proporre e di favorire nelle scuole europee nuovi curricoli, improntati all’approccio per competenze.
Le competenze, ormai, sono diventate la fonte della legittimazione del lavoro scolastico e la loro ascesa irresistibile nel mondo della scuola non incontra più ostacoli; intimidisce chi tenta di opporvisi.

Niente succede a caso. La nozione di competenza ha fatto irruzione nel mondo della scuola per le sue difficoltà e i suoi impacci nel rispondere alle richieste della società e di quelle soprattutto del mondo del lavoro.
Ci ricorda, però, autorevolmente Le Boterf che non esiste un solo approccio per competenze. E noi dovremmo chiederci di un concetto così diffuso non solo quali siano le ragioni del suo successo, ma anche e soprattutto quali cambiamenti pedagogici rivela e pretende.

Ma che cosa sono le competenze?

Di definizioni delle competenze si possono fare consistenti dossier senza arrivare a quella che dirime le controversie e accredita la possibilità di poterci costruire serenamente e con sicurezza un curriculum di formazione.   Qualcuno si è chiesto se sia solo una nozione mediatica o un concetto-slogan dalla semantica debole e qualche altro come M.  Crahay ha perentoriamente affermato che “il concetto di competenza è un’illusione semplificatrice che non è sostenuta da una teoria scientificamente fondata. E’ una caverna d’Alì Babà concettuale in cui è possibile incontrare giustapposte tutte le correnti teoriche di psicologia, anche se sono nei fatti contrapposte in “Café Pedagogique” dell’1/6/2009).

Per Ph. Perrenoud la competenza è un costrutto sociale e in quanto tale è un concetto necessariamente provvisorio, il cui valore è il valore d’uso.
Lo si misura dalla sua fecondità, non dalla sua verità assoluta.  Opinione questa condivisa da G. Di Francesco.  A suo parere ci sono processi che stanno costruendo il valore d’uso del concetto di competenza e ne verificano in questo modo la possibilità di essere funzionale come modello di riferimento.
La costitutiva polivalenza del concetto di competenza non impedirebbe che si formino comunità di pratiche che lo utilizzano con efficacia rispetto alle diverse finalità.
Si tratterebbe di una soluzione pragmatica che consiste nell’accettare la provvisorietà e l’ambivalenza teorica e nel distinguere tra definibilità teorica ed utilizzabilità pratica del concetto di competenza.  (cfr “Il laboratorio della riforma-Annali P.I.  1999).
S. Monchatre con esemplare semplicità: “La nozione di competenza rende dei servizi, se si mettono in secondo piano i suoi limiti teorici”.
”Gli usi che sono stati fatti della nozione di competenza non aiutano alla sua definizione e la difficoltà di definirla cresce col bisogno di utilizzarla”(J.  Dolz-E.  Ollagnier).

E’ proprio questo il problema: un concetto polisemico e non ancora stabilizzato come può diventare un principio sicuro ed affidabile di regolazione e di organizzazione dei curricoli?
Perché proporre curricoli per competenze se le difficoltà d’uso del concetto sono non solo di ordine epistemologico e teorico, ma anche pratico?

Per Jonnaert -Barrette-Masciotra-Yaya la competenza “è la messa in opera di una persona in situazione, in un contesto determinato, di un insieme diversificato ma coordinato di risorse.  Questa messa in opera riposa sulla scelta, sulla mobilitazione e sull’organizzazione di queste risorse e sulle azioni pertinenti che esse permettono per un trattamento riuscito di questa situazione” (2006-Ginevra IBE-UNESCO).
Non è per nulla facile redigere un curriculum di studi sulla base di questa idea di competenza, innanzi tutto perché nemmeno si parla del ruolo e della funzione delle conoscenze e poi perché con tutta la buona volontà di questo mondo e con buona pace di tutti la scuola non è il luogo delle situazioni concrete, dove si esercita e si rivela una competenza, ma quello dove si apprendono saperi che sono alcune delle sue risorse e dove con propri mezzi si cerca di capire (stage/simulazioni/attività laboratoriali) l’effetto che fanno.
”Una persona o un collettivo di persone non possono essere dichiarati competenti, se non dopo avere trattato con successo la situazione con la quale si sono confrontati, non prima”(Ph.  Jonnaert).
Lo studioso canadese non si è mai scostato da questa concezione della competenza.

LE COMPETENZE E LE CONOSCENZE

Che il sapere, di cui istituzionalmente tutte le scuole del mondo dovrebbero ancora essere luoghi di trasmissione e di rielaborazione, possa finire per contare poco in orientamenti di questo genere si desume anche da ciò che viene detto in altri parti del documento citato (un documento con l’imprimatur dell’Unesco).
“L’agire competente in situazione si appoggia su una pluralità di risorse e non soltanto su dei saperi disciplinari” e altrove “Il riferimento unico e costante ai programmi disciplinari tradizionali della scuola è un vero ostacolo epistemologico in senso bachelardiano per lo sviluppo situato delle competenze”.
E’ una posizione estremistica dell’approccio per competenze, ma che non è estranea alla sua logica e che apre all’idea sciagurata di opporre conoscenze e competenze.  Per lavorare bene con le competenze si deve dar prova, come dice Perrenoud, che con esse non si voltano le spalle ai saperi.

Si riportano di seguito due definizioni che costituiscono un ragionevole fondamento per l’approccio per competenze e che legano in modo persuasivo le conoscenze e le competenze.
La prima delle due è stata rifatta, dopo 10 anni, con modifiche non del tutto soddisfacenti
(1*cfr.  nota a piè di pagina).

A)  ”Una competenza è la comprovata capacità di UTILIZZARE CONOSCENZE, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale personale.  Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia” (Allegato 1 alla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23-4-2008).

B)  ”La competenza è la capacità di METTERE IN MOTO e di COORDINARE le risorse interne possedute(CONOSCENZE, abilità, disposizioni interne stabili) e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti o di situazioni sfidanti”(M. Pellerey-2008).

Queste due definizioni, molto autorevoli, ci dicono che le competenze non sono esse stesse dei saperi, ma che li UTLIZZANO,  li MOBILITANO e li COORDINANO insieme ad altre risorse personali; ci dicono anche che utilizzazione e mobilitazione sono pertinenti soprattutto in situazione.  Se le competenze funzionano così è evidente che si pongono due seri e grandi problemi: il primo è quello dei contenuti e il secondo è quello delle metodologie.  Non tutti i contenuti, infatti, (o tutte le discipline o tutti i saperi) si piegano ad alcune particolari logiche di utilizzazione, anche se universalmente sono parte imprescindibile dei curricoli.
Le metodologie, poi, devono innestarsi sulle “situazioni” o riproporne il modello per essere idonee ad esercitare gli alunni alla mobilitazione, all’integrazione, al coordinamento delle risorse interne possedute e a quelle esterne disponibili.

DAL MONDO DEL LAVORO ALLA SCUOLA

La competenza entra con forza nel mondo della scuola, perchè è diventata la parola d’ordine degli accadimenti e delle relazioni sociali dei nostri giorni, ma ha cambiato molto dell’antico significato che aveva nelle attività formative.  Il nuovo senso della nozione di competenza nasce nelle profonde trasformazioni del mondo del lavoro, dove è diventata strumento di analisi della professionalità, modalità di classificazione dei lavori, categoria giuridica per la definizione dei rapporti di lavoro, modello di riferimento per la formazione, assumendo un significato socio-professionale, contrattuale e formativo (D.  Nicoli).
Il possesso di competenze pregiate, direbbe la Di Francesco, che il sistema di istruzione si dovrebbe preoccupare di formare, viene ritenuto la condizione per affrontare le molteplici sfide della complessità della nostra società.

E’ indubitabile il rapporto tra l’emergenza del concetto di competenza e le esigenze attuali del mondo economico-aziendale.  La nozione di competenza, infatti, esalta la disposizione all’adattabilità, alla mobilità e al senso dell’iniziativa, qualità umane non solo richieste, ma quasi prescritte oggi dal mercato del lavoro.  Non c’è, però, da sciogliere inni e canti di gioia.  Nel mondo del lavoro il ricorso alle competenze fa parte di un’offensiva contro i diplomi e le qualifiche, per indebolirli più che per sostituirli per inefficacia (M. Stroobants).

”La logica delle competenze è innanzitutto una tecnica manageriale di gestione che mira a sostituire con nuove regole le antiche.
Una logica di risultato che sostituisce la logica del posto; il riconoscimento del merito individuale che sostituisce la progressione sistematica per anzianità; la retribuzione delle competenze che sostituisce la remunerazione del livello” (A.  Dietrich).

Nei posti di lavoro la gestione delle competenze è una tecnica al servizio di obiettivi di razionalizzazione.
”Il concetto di competenza permette di fare dell’uomo un oggetto di gestione.  Se Taylor scomponeva il lavoro in gesti elementari per impiantare la misura dei tempi e dei movimenti e ottimizzare il rendimento, la nozione di competenza identifica e scompone le capacità e le attitudini di un individuo per mobilizzarle e ottimizzarle in un contesto dove la reattività organizzativa diventa essenziale.  Ciascuna di queste capacità puo’ essere misurata, sviluppata con l’apprendimento, accresciuta con la formazione, trasferita con la mobilità o il tutorato” (D.Cazal-A.Dietrich).

L’azienda con le competenze si appropria della dimensione personale interna e soggettiva del lavoratore.
Il giudizio di competenza, funzionale alla carriera interna e alla progressione economica, rischia di essere a differenza di quello inerente alla qualifica un giudizio su una persona in quanto persona e non in quanto lavoratore.
C’è di più.  Mobilità, flessibilità e competenze, tratti strutturali dell’attuale organizzazione del lavoro, cambiano le relazioni sociali e rendono transitori e fragili i legami tra i lavoratori.
La gestione delle risorse umane attraverso le competenze può facilmente diventare funzionale alla strategia di disfare ogni forma di solidarietà di categoria nel posto di lavoro.
Le competenze possono essere utilizzate, inoltre, per sottrarre potere contrattuale al lavoratore, il cui patrimonio cognitivo-professionale potrà essere riconosciuto e valorizzato non in sede di contrattazione, ma in quello del giudizio non sempre sindacabile della controparte.

LA SFIDA DELLE COMPETENZE

Se nella sociologia del lavoro si incominciano a intravedere i rischi della gestione delle competenze, nel mondo della scuola si continuano, a prescindere, a celebrarne le magnifiche sorti progressive.
E questo non è un fatto positivo.  La mancanza di senso critico può condurre ad esiti negativi nel processo di formazione.
Se è corretto contrastare il rifiuto pregiudiziale dell’approccio per competenze, è anche necessario guardarsi bene dall’assunzione dogmatica delle indicazioni istituzionali e dalle suggestioni economicistiche del modello aziendale-economico.

Il sistema di istruzione svolge la sua funzione, se è in grado di progettare curricoli che formano le competenze richieste, in una data fase storica, dalla società nel suo insieme.  La formazione dovrebbe garantire alle nuove generazioni gli strumenti che consentono l’adattamento al proprio ambiente, al proprio tempo, al proprio mondo del lavoro.  La scuola è servizio alla società; ma è anche servizio alla persona: due compiti che devono armonizzarsi senza il bisogno di doverne sacrificare uno dei due.
”L’istruzione e la formazione hanno sempre come funzione essenziale l’integrazione sociale e lo sviluppo personale mediante la condivisione di valori comuni, la trasmissione di un patrimonio culturale e l’apprendimento dell’autonomia.  Ma oggi questa funzione essenziale è minacciata, se non è accompagnata dall’apertura di una prospettiva in materia di occupazione” (Libro Bianco ‘95).

Per dare a scuola un orientamento corretto all’approccio per competenze bisogna tenere sempre presente che “La competenza è una nozione di frontiera tra economia ed educazione” (S.  Monchatre) e che a scuola il lato proprio della competenza è quello dell’educazione, anche se questo non autorizza nessuno a chiuderla in un anacronistico isolamento autoreferenziale.  L’aspetto più significativo dell’approccio per competenze è la forte sollecitazione a scoprire il senso dei saperi, a renderli in prospettiva utili e significativi per lo sviluppo personale e quello della società.  L’approccio per competenze esige il protagonismo della persona in contesti di esperienza variabili per impegno cognitivo e relazionale.  ”La nozione di competenza si inscrive nel quadro di una pedagogia decisamente centrata sull’allievo” (B.  Rey).

Il rischio più grave che bisogna evitare è quello di circoscrivere le ambizioni del sistema di istruzione e formazione, appiattendolo e costringendolo in una prospettiva utilitaristica di saperi immediatamente spendibili.  Se l’aria dei tempi esalta l’uomo d’azione efficace, che sa risolvere i problemi che gli si presentano, la scuola per responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni non può inchinarsi agli idoli del momento e deve lavorare per le altre dimensioni della persona umana, per il suo integrale sviluppo, in modo da renderla capace di comprendere il mondo, la società, l’altro e se stesso e di esercitare i diritti e i doveri di cittadinanza attiva.  La cultura è plurale e nessuna componente (scientifica, umanistica, professionale etc) può essere trascurata.  E’ la cultura nel suo insieme che ci fornisce gli strumenti per organizzare e per capire il nostro mondo in forme comunicabili.  (J.  Bruner).

Nell’approccio per competenze è insita una logica di adattamento che può mortificare o cancellare la funzione emancipatrice della conoscenza e rendere residuale il mondo dei valori; una logica che finisce, se viene acriticamente sposata, per esaltare l’addestramento a svantaggio della trasmissione dei saperi e della cultura.
“Per sviluppare competenze occorre lavorare perchè l’alunno possegga in modo significativo, stabile e fruibile concetti e quadri concettuali, saperi e conoscenze desunti dalle discipline e raggiunga adeguate abilità intellettuali e pratiche sapendo come, quando e perchè utilizzarle” (M.  Pellerey).

Le competenze non si insegnano direttamente: si creano le condizioni del loro sviluppo grazie a situazioni d’apprendimento, a dispositivi di esercitazioni e di riflessione sulle esperienze fatte.  L’approccio per competenze richiede l’ancoraggio all’esperienza, alle pratiche sociali, alla realtà.  Formare competenze significa richiedere prestazioni complesse e sfidanti basate sulla produzione di soluzioni a problemi tratti dal mondo reale.  Per garantire, però, un percorso strutturato e sequenziale di formazione i problemi, i casi concreti, i contesti lavorativi devono essere sistemati in una successione razionale ed organica, altrimenti rischia di far saltare il curriculum, frantumandolo in una raccolta casuale di iniziative, di progetti, di attività.
Fare agire gli alunni nelle situazioni di apprendimento per “costruire” le conoscenze comporta un lavoro di innovazione serio e rigoroso.  Bisogna saperlo che il cantiere per raggiungere questo obiettivo è aperto da molto tempo, ma che i risultati nella pratica quotidiana possono ancora modesti o limitati

L’approccio per competenze pone nuovi problemi e suscita perplessità in alcuni settori del mondo degli insegnanti, perchè confligge con le tradizioni più accreditate e seguite del sistema scolastico e con le consuetudini professionali.  Richiede, infatti, un cambiamento significativo nelle procedure didattiche e nel modo di pensare e agire nei processi formativi.
La preparazione delle attività, il processo formativo e il coordinamento didattico in un curriculum per competenze esigono tempo di lavoro molto più ampio di quello attualmente contrattualizzato e soprattutto insegnanti stabili, provetti, con notevoli capacità progettuali.  L’approccio per competenze mette in crisi l’individualismo magistrale, ma non può svilupparsi in un contesto di precarietà e di sudditanza professionale.




Sanzioni disciplinari agli studenti per salvare il prestigio dei docenti. Il Governo ci crede davvero

di Raimondo Giunta

Mai avrei pensato che per difendere l’autorevolezza degli insegnanti si dovesse pensare di aggravare nei confronti degli studenti indisciplinati e irrispettosi le sanzioni disciplinari esistenti. E’ facilmente comprensibile ai più che l’autorevolezza degli insegnanti è stata gravemente incrinata dall’incuria delle condizioni del lavoro, dall’erosione continua della loro libertà, dalla modestia del loro stipendio, dalle aggressioni dei genitori e dalle continue campagne di diffamazione dei media e non dall’indisciplina degli studenti.

Vediamole allora queste nuove sanzioni disciplinari!

1) Nelle scuole secondarie di I grado, se il disegno di legge del ministro Valditara sarà approvato definitivamente, sarà ripristinata la valutazione del comportamento, che dovrà essere espressa in decimi e avrà un impatto sulla media generale dello studente, modificando così la riforma del 2017. La valutazione del comportamento influenzerà anche i crediti per l’ammissione all’Esame di Stato conclusivo della scuola secondaria di secondo grado e per avere diritto al punteggio più alto bisognerà avere al meno nove decimi in condotta.
Si torna, quindi, all’indigeribile commistione tra profitto scolastico e comportamento dell’alunno, che invece andrebbero rigorosamente e laicamente separati. Un provvedimento questo che avrà come effetto certo la crescita della dissimulazione e dell’ipocrisia degli alunni, ma non dell’adesione convinta alle regole che tutelano la convivenza in una scuola.

2) A seguito di un voto insufficiente in condotta non solo per casi di violenza o di commissione di reati, ma anche per comportamenti che costituiscono gravi e reiterate violazioni del Regolamento di Istituto non si è promossi alla classe successiva e non si è ammessi agli esami di Stato.

3) Per gli studenti che abbiano riportato una valutazione pari a sei decimi nel comportamento il Consiglio di classe, in sede di scrutinio finale, sospende il giudizio di promozione e assegna loro un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale.
La mancata presentazione dell’elaborato prima dell’inizio dell’anno successivo o una sua valutazione insufficiente, da parte del consiglio di classe,  determinano la non ammissione degli studenti all’anno scolastico successivo.

4) L’insufficienza in condotta in fase di valutazione periodica comporterà il coinvolgimento degli studenti in attività di approfondimento in materia di cittadinanza attiva e solidale, finalizzate alla comprensione delle ragioni e delle conseguenze dei comportamenti che hanno determinato tale voto.

5) Cambia il regime delle sospensioni, coniugando come da manuale autoritarismo e benevolenza; sanzione, penitenza e redenzione. Le sospensioni fino a 2 giorni richiederanno più impegno scolastico e coinvolgeranno lo studente sospeso in attività di riflessione e di approfondimento sui comportamenti che hanno condotto alla sanzione disciplinare.
Tali attività saranno assegnate dal consiglio di classe e culmineranno nella produzione di un elaborato critico da parte dello studente,  che sarà poi oggetto di valutazione da parte del consiglio di classe.
L’alunno indisciplinato avrà, quindi, un compito scritto in più rispetto ai propri compagni, stabilendo in questo modo il principio che scrivere è proprio una penitenza…In caso di sospensioni superiori ai 2 giorni,  lo studente sarà chiamato a svolgere attività di cittadinanza solidale presso strutture convenzionate,  ammesso che esistano e siano disposte a svolgere questo compito di rieducazione.
Sempre nel caso di sospensione superiore ai 2 giorni,  se verrà ritenuto opportuno dal consiglio di classe, l’attività di cittadinanza solidale potrà proseguire oltre la durata della sospensione,  e dunque anche dopo il rientro in classe dello studente,  secondo principi di temporaneità, gradualità e proporzionalità.
Ciò al fine di stimolare ulteriormente e verificare l’effettiva maturazione e responsabilizzazione del giovane rispetto all’accaduto.
Se quindi, una volta l’indisciplina di un alunno era un fatto interno alla scuola, con questi rimedi diventa un fatto di pubblica risonanza, con tanti saluti al diritto alla privacy.

6) Tralascio di parlare sul ripristino del giudizio sintetico finale nella scuola primaria e delle motivazioni che sono state portate.
Lo hanno fatto in tanti in nome e per conto della buona pedagogia, che come pare non sta di casa in Viale Trastevere.

In proposito ho i miei dubbi. Se la memoria non mi inganna, credo che le scuole abbiano vissuto momenti più turbolenti rispetto a quelli odierni. Basta risalire agli anni 60/70, quando non c’era scuola media superiore che non procedesse ad occupazioni e ad autogestioni studentesche, con relativo corredo di violenze e di danni agli edifici, sebbene fossero in vigore sanzioni disciplinari estreme, che avrebbero dovuto dissuadere gli studenti dal farle.
Era prevista, allora, l’espulsione dell’alunno dal proprio istituto e anche quella da tutti gli istituti dell’Italia, se le infrazioni al regolamento interno erano di una certa gravità.
Non sarà il rigore delle sanzioni, quindi, a spingere gli studenti indisciplinati a migliore consiglio, se hanno intenzione di non volerlo fare.

Le norme disciplinari che entreranno in funzione in nome e per conto del ritorno alla serietà e della rispettabilità del personale della scuola hanno, tra l’altro, più di qualche legame con quelle sancite negli articoli che vanno dal 19 al 25 del capo III del R.D.653/1925 “Delle punizioni disciplinari”.
Quelle proposte dal ministro Valditara possono a tutti gli effetti essere considerate una loro moderna riscrittura …Mancano i decreti di espulsione dagli istituti, ma le motivazioni per stabilire le nuove norme disciplinari sono pressoché identiche a quelle indicate nel Regio Decreto del ventennio.
Una novità degna di rilievo, ma congruente con l’egemonia del denaro nella nostra società, sono le sanzioni pecuniarie (multe che vanno dai 500 ai 10 mila euro) per reati commessi ai danni del dirigente scolastico e del personale della scuola a causa o nell’esercizio delle proprie funzioni.

C’è da meravigliarsi per questo legame? Non è proprio il caso. Dopotutto questo è un governo di destra con evidenti tendenze autoritarie ed evidenti radici neofasciste.
Rifugge dalla complessità della natura e delle cause di un problema, nel nostro caso il ribellismo giovanile, perché non ha gli strumenti per la loro comprensione e ricorre alle sole misure che riesce a concepire: quelle securitarie delle pene e dei castighi.
Ma se non hanno funzionato nel passato, perché dovrebbero funzionare nel presente?

 




Ragionando sulla dispersione scolastica

di Raimondo Giunta

La lotta alla dispersione scolastica è uno dei compiti più nobili che si possa svolgere nelle singole scuole, perchè dà respiro sociale ed educativo a tutta l’attività formativa. Nella società della conoscenza, dell’apprendimento durante tutta la vita, chi fuoriesce anticipatamente dal sistema formativo senza il possesso di adeguate e solide competenze per svolgere il ruolo di cittadino e di lavoratore è destinato all’emarginazione sociale.
E in linea di principio nessuno dovrebbe accettare un fatto del genere.

Alla scuola è stato indicato l’obiettivo di ridurre drasticamente la dispersione scolastica e nel frattempo anche quello di aumentare in modo cospicuo la percentuale dei diplomati di quanti frequentano le superiori per allinearsi alle relative medie europee.  I risultati sono in via di miglioramento, anche se non sono completamente soddisfacenti, perchè il fenomeno della dispersione è ancora consistente, per vecchi e inestirpati fattori, ma anche per nuovi, come la scolarizzazione dei figli degli immigrati, per la quale non si è sempre e dappertutto preparati.

A partire dagli anni ‘60 le porte delle scuole sono state aperte a tutti, soprattutto alle superiori. I risultati di questa necessaria scolarizzazione di massa, però, sono ancora contraddittori. A parità di “qualità umane”, infatti, non si ha tra i giovani parità di risultati, di successo formativo e di possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.

Si è intervenuto su alcuni ostacoli di natura economica, ma negli ultimi tempi con risorse sempre decrescenti, (riduzione delle tasse di iscrizione, borse di studio, gratuità dei servizi di trasporto, buoni-libro, ma rare volte con le mense scolastiche). Questi provvedimenti hanno favorito l’accesso di tantissimi giovani alle scuole, ma non sono riusciti a tenervi dentro tutti quelli che vi entravano e a farli uscire a tempo dovuto con il bagaglio necessario di preparazione per affrontare la vita.

Questo significa che gli ostacoli alla piena scolarizzazione delle nuove generazioni non erano e non sono esclusivamente di natura economica.  E’ un problema di prima grandezza il contrasto di fondo che si sviluppa tra scuola, cultura scolastica, codice interno del sistema scolastico da una parte, mondo giovanile, cultura giovanile e soprattutto nuova utenza dall’altra. Il peso delle discipline logico-linguistiche, il primato della scrittura, l’astrazione inevitabile di alcuni saperi scolastici, la subalternità e la debolezza delle attività laboratoriali nei curricoli scolastici, l’organizzazione del tempo scolastico sono congeniali ad un certo tipo di alunni :quelli predisposti e in qualche modo allenati in ambienti familiari che ne comprendono e ne accettano le ragioni, per altro genere di giovani, cioè di altre estrazioni sociali, queste caratteristiche del mondo scolastico costituiscono difficoltà da superare.

Il problema più rilevante nell’insuccesso scolastico è quello costituito dalla povertà dell’eredità culturale di cui dispongono tanti giovani che entrano nel sistema di istruzione, A scuola non sempre si riesce a contenere i disagi che ne derivano.
Si registra ancora una preoccupante correlazione tra successo scolastico e patrimonio culturale in possesso degli alunni, tra status culturale della scuola e quello delle famiglie di ceto medio. Nelle scuole, anche in quelle ad indirizzo tecnico e nelle stesse medie, vengono esaltate e premiate le forme di intelligenza che si esprimono nel rapido e più ampio possesso delle conoscenze. Poco spazio si dà al sapere fare e al sapere agire, anche se in queste finalità si devono individuare le condizioni di una vera democratizzazione del curriculum e della valutazione,

Accanto a questo primo grande problema, altri ne sono sorti, che rendono difficile per molti il successo formativo.
A) La fine della mobilità sociale che nel titolo di studio trovava alimento e giustificazione; causa fondamentale della motivazione a studiare, non sostituibile col piacere della cultura, con il diritto ad una piena cittadinanza, con la necessità di una vita continua come apprendimento. Neppure la cognizione della marginalità sociale conseguente alla povertà di cultura e alla carenza di professionalità riesce ad avere capacità di motivazione. Lo scambio sacrifici oggi per eventuali vantaggi domani non funziona e non viene praticato da molti giovani.

B) L’incapacità di dominare le nuove tecnologie per ricavarne risorse per il lavoro e per la cittadinanza.

Sono due sfide al sistema scolastico, ma solo la seconda è davvero nelle sue possibilità con i dovuti finanziamenti e con la necessaria predisposizione dell’infrastruttura materiale e professionale. La soluzione della questione fondamentale della mobilità sociale è nelle mani di chi ha la responsabilità della politica industriale e degli investimenti economici. La scuola deve soltanto non perdere battute nel preparare i giovani ad inserirsi nel modo migliore e con il dovuto bagaglio professionale e culturale nel mondo del lavoro se e quando per loro si aprono le porte

Oltre a questi problemi in Meridione se ne devono affrontare altri molto seri e che non vengono adeguatamente considerati nel nuovo e appassionante sport nazionale delle graduatorie degli istituti scolastici. . .
Problemi riassumibili nella povertà del capitale culturale del territorio (insufficienza di sedi scolastiche, grave deterioramento degli edifici scolastici, rarità di biblioteche, povertà di centri e di associazionismo culturali, disattenzione degli enti locali, casualità dei servizi alle persone, scarsa partecipazione civica alle scelte locali, vuoto e dissipazione dei mesi estivi, deprivazione culturale di molte famiglie etc) e nella disgregazione sociale del territorio di riferimento (lacerazione dei rapporti familiari, redditi familiari incerti, precarietà nel lavoro e disoccupazione di massa, illegalità e criminalità diffuse, quartieri senza servizi, degrado urbanistico, servizi dei trasporti insufficienti e sgangherati etc). Problemi che aggravano le condizioni del disagio giovanile e ostacolano il percorso di formazione di quanti provengono da questi ambienti.

Nella dispersione scolastica lavorano, quindi, a pieno regime fattori economico-sociali, fattori culturali, motivazionali e valoriali.
Per questo è una lotta difficile e dai risultati incerti. E’ una lotta che va condotta su diversi terreni, che richiede una strategia plurale e la capacità di tessere le alleanze necessarie sul territorio, perchè da sola la scuola non risolverà mai questo problema. Chiamare, allora, gli enti locali alle proprie responsabilità, le associazioni per il loro contributo, le aziende per la collaborazione, le famiglie per la partecipazione alla vita scolastica, gli insegnanti all’innovazione e alla creatività metodologica.

A scuola non dovrebbero mancare iniziative per cercare, laddove il problema si pone, di recuperare il rapporto tra generazioni; di superare ogni forma di comunicazione non dialogante all’interno della comunità scolastica; di spingere le famiglie alla riassunzione della loro responsabilità educativa, qualora come spesso succede vi avessero rinunciato; di valorizzare nello studio e nella riflessione la storia, le tradizioni, la cultura del proprio territorio per riportare criticamente i giovani alle proprie radici.

Il lavoro più importante resta sempre quello che viene quotidianamente fatto in classe; ma non al modo di sempre, perchè è quello che in parte produce la dispersione. Un lavoro che deve essere fondato sulla fiducia che viene riposta negli alunni, sulla valorizzazione del loro impegno, sull’incoraggiamento e sulla loro responsabilizzazione.
Vedi cosa sai fare? puoi farcela e in alcuni casi devi farcela.  Potrebbero essere i principi con cui regolarsi nell’attività didattica. Principi che richiamano la passione educativa dell’insegnante, la sua umanità professionale.

In situazioni in cui nell’immediato è impossibile il recupero educativo della famiglia e del territorio, con rischi incombenti di degrado e di marginalità sociale per tanti nostri giovani, le uniche risposte al problema della dispersione sono quelle che solo la scuola puo’ dare, considerando il grande patrimonio umano, culturale e professionale dei suoi insegnanti.

E se non la scuola, chi?

 




La pedagogia per amica

di Raimondo Giunta

Quand’ero studente di filosofia a Padova guardavo con sufficienza la pedagogia, perchè pensavo che dovesse interessare i maestri elementari o i futuri direttori didattici, ma non gli studenti che avrebbero dovuto insegnare storia e filosofia nei licei.

Non mi aiutava a cambiare opinione nei confronti di questa disciplina l’avversione viscerale verso il cattedratico, che ne teneva le lezioni, per la sua esibita alterigia accademica. Quando venne la stagione della libertà dei piani di studio non mi sembrò vero che potessi togliermi dai piedi la pedagogia. La sostituii con filosofia della religione.

L’insegnamento alle medie mi ha costretto ad una rapida inversione di rotta; non ho avuto giorni migliori e più felici di quelli trascorsi con i ragazzi che andavano dagli undici ai quattordici anni e per come sono fatto, per non perdere tempo e per fare nel modo migliore il mio lavoro, mi sono messo subito davanti testi di didattica, di pedagogia, di psicologia, di linguistica, di storia delle istituzioni scolastiche, di sociologia dell’educazione. Sono stati anni ti travolgente entusiasmo e di fervide letture.
Ho incominciato seriamente a chiedermi quali fossero le finalità del lavoro che facevo, come sarebbe stato giusto farlo, che cosa ne doveva essere dei ragazzi delle mie classi.
Mi ponevo queste domande ogni volta che mi scontravo con una difficoltà o con un problema imprevisto. Erano i ragazzi senza prerequisiti; erano i ragazzi stanchi per il lavoro fatto nei campi; erano i ragazzi che non volevano starci a scuola; erano i ragazzi che non avevano a casa tempo, spazi e modi per imparare; erano i ragazzi di famiglie numerose che non ci credevano; erano i ragazzi che si distraevano e quelli che provavano vergogna per come si sentivano, per come erano vestiti e per come erano giudicati.

Da tutti mi dovevo fare capire; da tutti mi dovevo fare accettare e da tutti qualcosa dovevo ottenere.
Ero senza mestiere e ho capito che dovevo costruirmelo subito e da solo, ma avevo passione e fantasia da vendere nel lavoro e i ragazzi venivano a scuola perchè gli leggevo e raccontavo storie interessanti, perchè comprendevo i loro errori, perchè rispettavo i loro tempi, perchè per ognuno avevo un gesto di attenzione, un sorriso, una battuta. Andavo per tentativi e poi ci ragionavo.

Penso che il compito della pedagogia sia quello di accompagnare, sostenere, illuminare la fatica di fare crescere le nuove generazioni. Credo che la pedagogia si ponga come aiuto alla definizione delle finalità educative e come sapere critico che interroga la congruenza tra fini proclamati e mezzi utilizzati nelle esperienze formative. Non so se sia molto, nè se con questi convincimenti abbia superato la mia giovanile diffidenza; ma poco o tanto che sia questa specificità andrebbe difesa e richiesta, perchè senza la buona pedagogia il lavoro a scuola diventa una faticosa routine senza orientamento.
Si diceva con convinta superficialità “rem tene, verba sequentur”, che bastasse, cioè, una solida preparazione disciplinare per fare bene a scuola.

L’insegnante, però, non deve sapere solo cosa deve insegnare, ma anche come si deve insegnare; deve sapere chi sono i suoi allievi, di che cosa hanno bisogno, in che genere di famiglia e ambiente vivono. La cura degli allievi, l’attenzione ai loro processi di crescita non sono azioni possibili “del” e “nel” rapporto educativo, ma atti dovuti. Senza di essi non si genera formazione, non si genera crescita umana.
Per molto tempo con superbia intellettuale questi aspetti della funzione docente sono stati giudicati inessenziali, non pertinenti come il possesso di un sapere specialistico. Si è espunto come superflua la dimensione affettiva e valoriale. Si è insistito e si insiste ancora nella scelta di formalizzare un processo dinamico, complesso, emotivo, ricco come quello del rapporto educativo. Con l’ausilio della sola professionalità e della propria competenza disciplinare, anche se irrorate da un forte senso del dovere e dall’etica del conoscere, nei nostri giorni l’insegnamento rischia di essere sterile o di conseguire risultati modesti. Non si va molto lontano quando la persona dell’alunno non è al centro dell’attenzione e il principio-guida dell’attività formativa. Se anche il sapere, la disciplina scolastica fossero le uniche ragioni che spiegano e fondano il rapporto docente-alunno, lo scopo della formazione non è quello di sottomettere la natura indocile dell’alunno al sapere, ma quello di fare diventare “sapiente” l’alunno indocile.

A poco a poco mi sono convinto che è opportuno liberarsi dal fastidio e dalla diffidenza nei confronti della pedagogia e di tornare a familiarizzare con i suoi richiami ai temi etici e alla responsabilità educativa del docente. Mi sono convinto che tutto ciò può convivere col modello di professionalità proposto negli ultimi decenni e che questo è l’unico modo per non farsi sfuggire di mano il controllo del mondo, su cui gli insegnanti sono chiamati a intervenire.
C’è stato molto lavoro sulle tecniche, sull’organizzazione didattica, sulla metodologia; ce n’è stato poco sui valori fondanti e condivisi dell’educazione dei giovani. La pedagogia aiuta a riflettere sulle relazioni tra docenti, alunni e sapere; mette sotto osservazione le relazioni umane e anche l’enciclopedia dei saperi di un curriculum scolastico, perchè anche con l’esperienza dei saperi si costituiscono gli orientamenti delle proprie condotte e la visione della vita.

Non penso che della pedagogia si possa fare scienza, come si pretende di fare ogni volta che ci si imbatte con una disciplina umanistica, pensando di conferirle una maggiore dignità epistemologica.
Ci sono modi e modi di essere critici, di non sprofondare nel dogmatismo. Provvisorietà e fluidità sono i caratteri intrinseci di tutte le discipline umanistiche. Fluidità vuol dire problematicità; la stabilità dei concetti inconfutabili non viene reclamata nemmeno   nelle scienze cosiddette esatte. Nelle discipline umanistiche la stabilità è quella costituita dalle convenzioni, dall’accordo più ampio possibile. Bruner ne “La mente a più dimensioni” esalta la natura negoziale, euristica, transazionale dei concetti delle scienze sociali e umane. ”Se qualcuno si chiede dove risiede il significato dei concetti sociali, nel mondo, nella mente di chi li pensa o nella negoziazione interpersonale, non potrà rispondere se non che la risposta giusta è quest’ultima. Il significato è ciò su cui possiamo convenire o perlomeno ciò che possiamo accettare come base di lavoro per la ricerca di un accordo sui concetti in questione”. E ancora sempre nello stesso testo: ”Il linguaggio dell’educazione se vuole essere uno stimolo alla riflessione e alla creazione di cultura non puo’ essere il cosiddetto linguaggio incontaminato dei fatti e dell’oggettività”.

Si fa spesso della buona pedagogia raccontando esperienze più che elaborando teoremi. Esperienze che possono essere di successo, ma anche esperienze di fallimenti.  Si impara molto, andando a scrutare il senso delle scelte fatte, analizzando la logica dei comportamenti messi in atto dai protagonisti, valutando la natura dei mezzi adoperati e quella dei risultati ottenuti. ”La lettera ad una professoressa” della SCUOLA DI BARBIANA, diretta e ispirata da Don Lorenzo Milani, appartiene a questo genere di letteratura e non casualmente ha affascinato e trascinato la generazione di nuovi docenti che si affacciava sulla scena della scuola italiana alla fine degli anni 60 e negli anni ‘70.

Vedo la pedagogia come sapere autonomo che si avvale di molteplici apporti interdisciplinari; nè ancilla della filosofia quanto ai fini, nè delle varie sezioni della psicologia quanto ai mezzi, nè madre autoritaria di ogni metodo didattico, ma capacità di riflessione sulle pratiche educative sulla base di criteri che non possono non essere che finalità di sviluppo umano e sociale. E se l’ordine dei fini ai quali attinge la pedagogia è collocato fuori dalle scienze, non per questo puo’ essere discreditata, perchè non può fare a meno di servirsene.

La pedagogia come Pratica-teoria o Teoria-pratica dell’azione educativa. Non ha bisogno di dissolversi in psicologia applicata, nè allontanandosi dal fatto educativo trasformarsi in antropologia o in filosofia morale. E in questo rapporto teoria-pratica che scaturiscono le invenzioni, le creazioni, che si rinnova l’insegnamento. Dopo tanti teorici dell’educazione per fare bene a scuola si può ragionevolmente attingere anche al sapere di chi ha fatto lunga esperienza di educazione. . .

La buona educazione scaturisce dall’azione sensata, alla cui origine si trova la fronesis di aristotelica memoria, il discernimento, non la scienza. Il rigore dell’azione educativa non deriva dal rigore del sapere dell’azione e questo dal rigore della scienza. Il come fare trova la sua verità nella coerenza dello stesso fare e non in saperi esterni che si proclamano scientifici. Non serve a molto perdere tempo per stabilire se la pedagogia debba essere una scienza. E se per caso non lo possa essere, perchè mai non dovrebbe essere utile? La pedagogia è una bella ed utile disciplina se i suoi concetti non pretendono di valere per sempre e in ogni situazione, se si convince che ogni sua congettura vale fino a prova contraria e le prove contrarie in educazione purtroppo si presentano anche quando nessuno se le aspetta.  Le buone idee si devono misurare con le ristrettezze della realtà e con i limiti che essa impone.

La buona pedagogia prima o poi si mette di traverso rispetto alle scelte amministrative e dell’organizzazione scolastica, perchè è insita in essa un seme di utopia e di ribellione. Il destino pensato per gli alunni può essere, infatti, molto diverso da quello predisposto dagli assetti economico-sociali e dalle scelte politiche ad essi congruenti. E nella scuola dove non mancano i loro cantori, la buona pedagogia fa la guardia all’autonomia del pensiero, cerca di mettere in salvo l’umanità e i diritti degli alunni, soprattutto se sfavoriti, combatte la sua quotidiana battaglia per difendere la missione liberatrice della conoscenza e per mettere a nudo le mistificazioni di tante celebrate innovazioni.  Senza pedagogia è difficile cambiare ciò che l’educazione conserva e conservare ciò che con tanto impegno si è riusciti a cambiare.

“La pedagogia non è soltanto un’arte, una scienza e una filosofia. E’ una forma di vita, un mezzo di essere felice mediante la gioia di fare crescere i fanciulli, i figli degli altri” (M. Debesse).

 




Far amare agli allievi il sapere che devono possedere


di Raimondo Giunta 

A scuola il dogmatismo metodologico dovrebbe restare fuori dalle sue mura, perché non c’è deduzione tra finalità educative e procedure didattiche; ci sono tentativi e percorsi di avvicinamento.
I principi si possono incarnare in pratiche differenti, adattabili a contesti diversi e a diversi alunni, a diversi contenuti dell’apprendimento.
Questo non significa che si è liberi da qualsiasi vincolo di coerenza ,ma che bisogna con discernimento orientarsi verso quei modelli didattici ritenuti più adeguati alle situazioni date, sapendo in partenza che a-priori non ci sono metodi universalmente buoni e sempre efficaci.

Il problema di sapere quale pratica adottare nell’insegnamento è subordinato a quello di stabilire quali apprendimenti debbano essere conseguiti dagli alunni, resi necessariamente consapevoli della loro importanza e del loro valore. Su questi obiettivi si misura la pertinenza dei mezzi e delle procedure da usare. Si raggiungono i risultati sperati, se l’alunno riesce a sentire come scoperta personale il possesso del sapere e a “rapportarsi ad esso con uno spirito amichevole e curioso”(D.Nicoli).
Per questi obiettivi sarebbe auspicabile fare almeno un tratto dell’itinerario intellettuale dell’apprendimento con il modello della scoperta, che nei luoghi scolastici non può che essere inquadrato, semplificato, didatticizzato; lontano comunque dall’insegnamento ex-cathedra. “Imparare a essere scienziati non è la stessa cosa di imparare le scienze: è imparare una cultura con tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna”(J.Bruner).

Lavorare per enigmi, dibattiti, situazioni-problema, piccoli progetti di ricerca, esperimenti comporta, però, un considerevole cambiamento del modo di insegnare.

E’ fondamentale per una buona formazione tenere sempre sotto osservazione il rapporto che si viene a istituire tra alunno e il sapere, per cercare in tutti i modi che non si frappongano ostacoli, remore di qualsiasi genere che possano determinare un atteggiamento difensivo, diffidente o cinico verso una disciplina, una nozione, un metodo, una posizione intellettuale (Ph.Perrenoud).

Ai metodi e ai modelli didattici si deve richiedere di favorire e di stimolare l’autonomia dello studente, di collocare l’apprendimento in contesti realistici, di agevolare la “costruzione “delle conoscenze entro una esperienza sociale di collaborazione con l’insegnante e con i pari, e di promuovere e incoraggiare l’autoconsapevolezza nel processo di apprendimento.

Le nuove concezioni dell’apprendimento e la cultura pedagogica più attenta alle trasformazioni della società ridisegnano sia il ruolo del docente sia il ruolo dell’alunno.
Il docente diventa il regista del processo di formazione e gli alunni ne diventano gli attori.
Gli alunni responsabilizzati e coinvolti nel loro apprendimento possono diventare in alcune attività aiuto per l’insegnante, risorse di apprendimento per i propri pari. Il docente favorisce la comunicazione interattiva tra gli alunni, valorizza i punti di forza di una prestazione; permette a tutti di esprimersi e ne apprezza i suggerimenti; valorizza la partecipazione e i contributi degli alunni, stimola con le sue domande e riporta a coerenza col modello didattico prescelto le attività che vengono svolte; favorisce l’identità  e la consapevolezza individuale e dei gruppi di lavoro.

Il docente è presenza fondamentale nei momenti preliminari e soprattutto durante l’attività didattica.
E’ un ruolo di guida, ma deve accettare che il centro dell’azione didattica si sposti dalla cattedra all’intera aula, che si instauri una forma di democrazia nelle relazioni pedagogiche.
Non deve considerarsi un dispensatore di saperi, che spezza ogni giorno il pane della verità.
Collocato in una comunità d’apprendimento assume il ruolo di adulto significativo, capace di mobilitare i talenti degli studenti in esperienze importanti, concrete, sfidanti che suscitano interesse curiosità e desiderio di apprendere .

Il buon esito del lavoro di formazione dipende dalla capacità dell’insegnante di testimoniare in modo convincente il proprio amore per il sapere, di costituirsi come modello plausibile di persona appassionata del proprio lavoro di studio e di ricerca. Deve far vedere che ha in sè il fuoco che vuole accendere negli altri: fatto che oltrepassa la competenza didattica e interpella le altre sue dimensioni umane.




L’economia dell’istruzione non ha titolo per parlare dei saperi del curriculum

di Raimondo Giunta

Cos’è l’economia dell’istruzione

Nel DNA di questa disciplina c’è l’impulso a rendere efficiente la spesa pubblica per l’istruzione e spesso c’è anche la preoccupazione a non aumentarla.
Alcuni suoi cultori, tra le tante affermazioni che fanno, sostengono che non è più sostenibile l’idea che non si debba cambiare la composizione della spesa pubblica per l’istruzione e che questa debba solo crescere. Le risorse per l’istruzione che bisogna strappare all’avidità di altri reparti dello Stato devono essere spese bene, senza sprechi, in modo efficace e ogni innovazione, così come il mantenimento dell’esistente, devono essere sottoposti ad una rigorosa analisi dei costi. Ma è davvero facile definire l’impiego ottimale delle risorse in campo educativo?
Ci sono delle difficoltà e “queste sorgono già nell’identificazione di una metrica comune delle variabili influenti sul prodotto scolastico; emergono nella valutazione delle relazioni fra output e input per individuare la combinazione efficiente di fattori e permangono nella determinazione delle soglie dimensionali e dei criteri organizzativi per l’impiego efficiente dei fattori”(Ugo Trivellato).

A queste difficoltà si aggiungono poi problemi operativi nel tradurre acquisizioni concettuali in interventi nella realtà.  Alle stesse conclusioni arriva E.  Somaini nel suo testo “Scuola e mercato”
L’autore tiene a sottolineare “che non tutte le modificazioni nel soggetto sono risultati dei processi formativi, perché sono influenzati in modo significativo da una serie di fattori di origine naturale, ambientale e sociale, che si manifestano gradualmente e lungo un arco esteso di tempo e che malgrado queste difficoltà, logiche e di misurazione l’adozione (con le dovute cautele) di un approccio produttivistico è auspicabile e ……..  anche possibile”.
Appunto auspicabile e possibile. Non credo che lo statuto epistemologico della disciplina abbia superato questi limiti.

Una teoria economica dell’istruzione, che non abbia eccessive ambizioni, aiuta a orientarsi nelle scelte degli investimenti più efficaci per il miglioramento del sistema formativo, anche se non sono esattamente quantificabili i loro effetti produttivi reali e potenziali.
Aiuta, anche, a comprendere che cosa comporta in termini di sviluppo economico un mancato livello d’istruzione della società, ma non può parlare con autorità sui saperi dell’istruzione che si ritengono necessari per la generalità di tutti i giovani che devono andare a scuola. Precauzione, questa, svanita nel corso degli anni, tant’è che molti cultori dell’economia dell’istruzione continuano a lanciare proclami sui “prodotti “scolastici necessari, redditizi e vantaggiosi per tutti.

Efficacia degli investimenti nel sistema formativo

L’efficacia degli investimenti nel sistema scolastico-formativo e quindi la loro sostenibilità politica si deducono dal contributo dato dalla scuola allo sviluppo delle conoscenze, alla diffusione della cultura, alla crescita del potenziale tecnico e professionale delle nuove generazioni e alla loro capacità d’inserimento nel mondo del lavoro e nella società come cittadini consapevoli.
La giustificazione della spesa per l’istruzione, cioè, viene dimostrata dal ruolo che essa ha nella formazione e nello sviluppo del capitale umano, sociale e culturale disponibile in una comunità, la cui importanza è stata messa in evidenza dagli studi di Coleman, Bourdieu e Putnam. Il valore del “prodotto scolastico”, per usare il lessico congeniale a questa disciplina, quindi, deve essere riferito alla sua qualità, cioè alla sua corrispondenza agli scopi sociali e istituzionali che una nazione si dà in un determinato momento della sua storia per le nuove generazioni. In questo caso la spesa sarebbe efficace e produttiva.
Non lo è più quando parte rilevante della popolazione scolastica viene espulsa dal sistema scolastico e dalla formazione senza il possesso di un bagaglio accettabile di competenze civiche e professionali; quando si allarga la distanza tra il sistema formativo e l’organizzazione sociale del lavoro e viene a mancare qualsiasi collegamento tra istruzione e sbocchi professionali.

E’, però, nell’ordine delle cose che ci sia uno scarto tra istruzione e mondo del lavoro e che sia difficile eliminarlo.
Tutto ciò dipende dal fatto che per quanti cambiamenti possano essere fatti nella scuola si resterà sempre un passo indietro rispetto agli alti e continui sviluppi tecnologici nel mondo della produzione e dei servizi, all’esplosione delle conoscenze e alla rivoluzione dei sistemi che le trattano, le accumulano e le diffondono.
Uno scarto che non dovrebbe diventare inconciliabilità tra i due sistemi.  Il sistema dell’istruzione e il mondo del lavoro con opportune misure di adeguamento devono, ad ogni buon conto dialogare e integrarsi.
Questo non significa auspicare una rigida finalizzazione dell’istruzione al sistema produttivo, impossibile nel breve e nel lungo periodo, anche perché non è l’unica ragione di esistere per il sistema scolastico e formativo.

Servizio alla persona o alla società?

Il sistema scolastico e formativo è servizio alla persona ed è contemporaneamente servizio alla società: nessuna delle due vocazioni può essere trascurata e deve pertanto essere sostenuta sia la sua natura di servizio alla persona, sia la sua crescente prospettiva di essere fattore dello sviluppo economico.
Privilegiando uno dei due aspetti si può lacerare un sistema che si trova all’incrocio di diverse richieste ed esigenze, che vanno armonizzate, ma non alternativamente subordinate. Non si può assecondare un generico e vago desiderio collettivo di istruzione e formazione, di crescita culturale senza chiedersi l’uso che se ne farà; non si può ferreamente legare i processi di istruzione e formazione, in cui si giocano scelte fondamentali del destino individuale dei giovani, alle necessità, ai fabbisogni del sistema socio-economico, predeterminando settori e quote dei vari indirizzi di studio.

L’istruzione è un bene pubblico la cui funzione primaria è la crescita e lo sviluppo integrale della persona di ogni bambino, di ogni ragazzo, di ogni giovane che varca la soglia di un istituto scolastico, ma la disciplina economica, invece, la considera solo con l’ottica di un bene di consumo o di un bene di investimento sia individuale, sia collettivo. L’economia dell’istruzione ci porta alla logica dei costi, degli sprechi e dei vantaggi.

Non proprio una dimessa ancilla della pedagogia; anzi finisce per imporre prima il proprio lessico e poi le proprie finalità. Ma sono i costi in sé che vanno ridimensionati a prescindere o le finalità da realizzare che qualcosa sempre costano?
Il criterio di giudizio sulle attività messe in atto dal sistema dell’istruzione è solo economico o può e deve essere invece di natura pedagogica?
L’economia dell’istruzione, purtroppo, è una disciplina che non si mette al servizio di nessun altro sapere di cui deve nutrirsi la scuola e dal proprio punto di vista non potrà che parlare di risultati, di valutazione, di spendibilità del prodotto scolastico. L’economicismo può arrecare danni alla dimensione umana e culturale dell’istruzione e della formazione, se non si sta bene attenti.

Quale rapporto fra istruzione e mondo del lavoro

L’unico problema in cui si arrovella l’economia dell’istruzione è il rapporto tra istruzione e mondo del lavoro.
Gli altri problemi, quelli afferenti ai valori, alle tradizioni, alla conoscenza del mondo e alla cultura dell’integrazione le sono nella migliore delle ipotesi indifferenti. La rude e solida disciplina dell’economia dell’istruzione, infatti, può trascinare verso la diffidenza e la sottovalutazione della pedagogia e farsi portavoce di tutta e di tanta avversione verso ogni idea di scuola, di insegnamento che ci ricorda la complessità in democrazia del compito di crescere e di educare i giovani. Alla scuola da qualche decennio sono state somministrate dosi massicce di questa cultura e non pare che l’abbiano migliorata e che abbia aiutato ad affrontare l’emergenza educativa.
La scuola non può perdere il controllo del proprio programma culturale e non può disperdere la propria identità nell’allargarsi e nell’infittirsi dei suoi intrecci col mondo del lavoro e con la società. La scuola deve essere autonoma, efficace e giusta, sapendo che gli esclusi dalla cultura e dai saperi sono e saranno i vinti e gli umiliati della nostra società.

La scuola sarà migliore, solo se resta e si sviluppa come comunità educativa.